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Parte seconda - 3 Parte seconda - 5


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IV.


Un’altr’anima in pena.


Arabella da quindici giorni aveva lasciato il letto, ma la cattiva stagione non permetteva ancora di parlar di campagna.

Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di abbattimento e d’inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll’umiltà e colla rassegnazione.

La lettera di don Felice (persona degna d’ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l’orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più.

Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell’ingiustizia, continuando a godere i frutti d’una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto [p. 196 modifica]più caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all’uscio della morte.

Se Dio non l’aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d’obbedire e tacere.

Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sè. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo qualche schiarimento e dei consigli. L’Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore. La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un’eredità carpita colla frode e col tradimento.

E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma.

Questa benedetta donna si era fisso in mente che Arabella avesse i sacchi dell’oro in casa e che il matrimonio era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi. All’avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d’affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi.

[p. 197 modifica]La promessa che aveva fatto il signor Tognino d’interessarlo nell’azienda di S. Donato non aveva ancora portato a nulla, perchè la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto e dovuto far di più.

Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia, che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario?

Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrerne personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un’aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo il cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi.

La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia?

La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste, e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac.

Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d’approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero e di consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d’irritare [p. 198 modifica]il vecchio, di chiudersi la via a comprendere il resto.

Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata, quando l’Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d’un ragazzetto.

Entrò il Pirello delle Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll’accusarla d’ingratitudine e di cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore d’un sequestro?

Le faccie contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera.

Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne’ suoi pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore.

Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella e carezzandola, le disse con una vocina di pitocchetto:

— Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara...

Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che cercano d’intenerire un padrone di buona fede, entrò a dire:

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— Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se non ha i denari sequestra il latte e il formaggio, cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe via anche la camicia, è proprio tribolato.

Naldo vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paia delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla nenia imparata:

— Fallo per il nostro povero papà, Ara.

Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo, se lo strinse subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e signorili del povero ragazzo una sembianza, che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una nebbia di nuovi dolori.

— Darò quel che potrò — disse, alzandosi, e passò nella camera da letto. Essa non aveva denari, perchè suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola dote che aveva portato andando sposa.

Di questo piccolo tesoro che per la sua antichità [p. 200 modifica]e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice, di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua: e poichè l’accusavano d’ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a’ suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso.

Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli consumati; ma non ve lo trovò più.

Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece due o tre anelli d’oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d’argento degli esami, e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma.

— Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro — disse al Pirello. — Domani manderò altre cose, se sarà necessario...

E quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò in aria ogni cosa.

L’Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di rimettere i cassetti a posto.

Arabella non potè nascondere il motivo delle sue lagrime.

Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi [p. 201 modifica]colla sua bontà, c’era per l’Augusta un’altra ragione fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora: ed era l’odio accanito che quel pezzo di friulana portava ai siori omeni. Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d’osservare che gli omini sono malignazi, birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel povero putèlo che scriveva nel mezà, con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con quei riccioloni che facevan vogia a vederli.

L’Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perchè non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se sapesse il pro e il contro, incrociate le braccia sul petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare nei cassetti:

So mi dove che ’l xe sto astucio.

— Parla, dunque.

L’ho visto in te la camera del sior.

Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di reprimere un senso di stupore e d’irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l’Augusta fuori di casa con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo.


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Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio, trasformato in poco tempo in una specie d’antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba.

Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto condito di quell’acredine speciale, che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di forza.

Arabella, superata l’afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che cosa l’aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma sentiva quasi che la spiegazione data dall’Augusta non poteva essere più vera e più naturale.

Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso.

Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a sè stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato [p. 203 modifica]ubbriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale.

Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d’ordine e di un’elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito...

La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull’astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L’astuccio era vuoto.

Vuoto! — Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi.

La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri...

Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l’avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta.

Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia [p. 204 modifica]aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel’aveva carpito, approfittando d’un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C’era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva.

Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei.

C’era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna.

E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale.

Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l’astuccio e il ritratto nell’ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non potè, [p. 205 modifica]come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe.

Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo; le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni.

Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l’acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c’era soltanto del dolore...

Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio!

Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato, che rinforzano la fibra.

Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che, dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe, quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo.

Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perchè dovesse fargli l’onore d’essere gelosa?

E perchè avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava?

Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell’uomo non poteva [p. 206 modifica]venire a lei nessuna umiliazione; che quella donna poteva aver nome anche liberazione.

L’enorme mare di ribrezzo, che l’anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima, vicina ad affogare.

Prese con sè il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno.

Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro.

Qualche cosa di forte e d’individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l’opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perchè, quando l’Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.