IV.


Un’altr’anima in pena.


Arabella da quindici giorni aveva lasciato il letto, ma la cattiva stagione non permetteva ancora di parlar di campagna.

Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di abbattimento e d’inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll’umiltà e colla rassegnazione.

La lettera di don Felice (persona degna d’ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l’orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più.

Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell’ingiustizia, continuando a godere i frutti d’una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto