Wikisource:Collaborazioni/SBM/testi/Storia di Milano tomo II Verri

[postilla autografa di Stendhal]

La peur de la Censure gate furieusemen[?] ce livre qui etait d'une hardiesse temeraire à Milan de 1798. Sous la Censure il faut écrire des Sonnets.

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo e Hélène de Jacquelot] STORIA DI MILANO

TOMO SECONDO

IN CUI SI DESCRIVE LO STATO DELLA REPUBBLICA MILANESE, IL DOMINIO DEGLI SFORZA, E DE' SUCCESSIVI SOVRANI SINO AI PRINICPJ DEL PONTIFICATO SI S. CARLO BORROMEO.

IN MILANO. MDCCXCVIII. NELLA STAMPERIA DI GIUSEPPE MARELLI. INDICE DE' CAPI CONTENUTI IN QUESTO VOLUME.

CAPO XVI. Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a Francesco Sforza. pag. I

CAPO XVII. Francesco Primo Sforza Duca di Milano. pag. 39

CAPO XVIII. Del Governo del Quinto Duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del Duca Giovanni Galeazzo Maria, Sesto Duca. pag. 57

CAPO XIX. Di Lodovico il Moro, Settimo Duca di Milano, e della venuta del Re di Francia Lodovico XII. pag. 81

CAPO XX. Breve ritorno del Duca Sforza, fatto prigioniere, e governo del Re di Francia Lodovico XII. fino alla Lega di Cambrai. pag. 106

CAPO XXI. Lodovico XII. Re di Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto Massimiliano Sforza, Ottavo Duca. pag. 129

CAPO XXII. Di Francesco Primo Re di Francia, e suo Governo nel Ducato di Milano. pag. 153

CAPO XXIII. Vicende infelici de' Francesi. Francesco Secondo Sforza riconosciuto Duca di Milano. Venuta in Italia di Francesco Primo Re di Francia, ed assedio di Pavia. pag. 178

CAPO XXIV. Battaglia di Pavia. Il Re Francesco Primo rimane prigioniero. È condotto a Madrid. Sua liberazione. Vicende in questi tempi della Lega di Francesco Secondo Sforza Duca di Milano, e di Girolamo Morone. pag. 209

CAPO XXV.Francesco Secondo Sforza bloccato nel Castello di Milano. Sollevazioni, e stato miserabile de' Milanesi. Campo della Lega a Marignano. Morte del Borbone, e saccheggio di Roma. Disfatta de' Francesi. Pace di Cambrai. pag. 238 CAPO XXVI. Congressi in Bologna per la Pace. Incoronazione di Carlo V. Sua entrata in Milano. Matrimonio del duca Francesco II., e sua morte, per cui cessa la Linea Sforzesca. pag. 266

CAPO XXVII. Tentativi e progetti per la Successione nel Ducato di Milano. Congresso di Nizza. Entrata di Carlo V. in Parigi ed in Milano. Pace di Crespy. Morte del Duca d'Orleans dichiarato da Cesare Duca di Milano, e prima Sessione del Concilio di Trento. pag. 298

CAPO XXVIII. Filippo II. investito del Ducato di Milano. Morte di Francesco I, ed Interim di Carlo V. Guerre tra Cesare ed Arrigo II. Entrata in Milano del nuovo Duca e sue Nozze. Carlo V. rinuncia i Regni, e l'Impero : si ritira in S. Giusto , e dà fine a suoi giorni. pag. 330

CAPO XXIX. Seconda Pace di Cambrai. Ultimazione del Concilio di Trento. Il Cardinale Carlo Borromeo entra in Milano alla Residenza del suo Arcivescovado. Elogio di questo Santo Prelato con cui si dà fine al presente volume. pag. 362 [postilla autografa di Stendhal]

6 mars 1826. 6.h[eures] Porcelaines de M[onsieur] Const.[ant]in


Ah! Mont.[es]quieu est toujours mon hom[me] et plus que jamais. 5 Décembre 1835.


je relis avec contentement et confiance, ce brave homme de Pietro Verri. 4 Dec.[embre] [18]35.

[Ed.: F. Boyer, Les lectures de Stendhal. Paris, Editions du Stendhal-Club, 1926, p. 14; Stendhal, Mélanges intimes et marginalia. Paris, Le Divan, 1936, I, p. 286; Stendhal, Oeuvres intimes. Edition établie par V. Del Litto. Paris, Galllimard, 1982, II, pp. 83, 265] VERRI Storia di Milano Libro 2° 2. H.B. CAPO DECIMOSESTO

Repubblica di Milano, che termina colla dedizione a Francesco Sforza

Prima ch'io narri gli avvenimenti della repubblica di Milano, vuolsi esaminare brevemente in quale stato trovavansi le potenze che avrebbero voluto signoreggiare sopra di noi. (Anno 1447) Colla morte del duca Filippo Maria era terminata la discendenza maschile di Giovanni Galeazzo Visconti, infeudata coll'imperatore Venceslao; e perciò il ducato (considerandolo come un podere) era devoluto all'imperatore. Se il destino delle città dipendesse dal solo diritto di proprietà ereditaria, l'imperatore solo, sulla base della pace di Costanza, avrebbe dovuto decidere di noi, o creando un nuovo duca, o nominando un vicario imperiale, ovvero, sotto quella denominazione che più gli fosse stata in grado, ponendo chi esercitasse la suprema dominazione dell'Impero su questa parte dell'Impero medesimo. Ma lo scettro imperiale era nelle deboli mani di Federico Terzo, principe timido, indolente e minore della sua dignità; il quale nemmeno avrebbe potuto far valere le sue ragioni sull'Italia, oppresso, come egli era, dalle armate del re d'Ungheria. Il lungo regno di questo Cesare lasciò dimenticato nel Milanese il nome dell'Impero per più di quarant'anni dopo morto l'ultimo duca. La casa d'Orleans possedeva la città di Asti, portatale in dote dalla principessa Valentina, figlia del primo duca, conte di Virtù. V'era un piccolo presidio francese in quella città: ma la casa d'Orleans non regnava. Cinquantadue anni dopo ella ascese sul trono di Francia, e colle armi sostenne le sue pretensioni sul ducato di Milano, appunto come discendente dalla Valentina Visconti. Frattanto il re di Francia Carlo VII, occupato nel combattere contro gl'Inglesi, che avevano conquistate alcune province del suo regno, non aveva né mezzi né pensiero di rivolgersi a questa parte d'Italia in favore di suo cugino. Il papa Niccolò V, di carattere sacerdotale, non conosceva l'ambizione; e l'antipapa Felice V e il non affatto disciolto concilio di Basilea occupavano interamente la corte di Roma. Il trono di Napoli era incerto e disputato. I Veneziani e il duca di Savoia avevano formato il progetto di profittare dell'occasione; ed erano e finitimi e potenti e sagaci. La vedova duchessa di Milano, Maria di Savoia, era in Milano, e cercava di guadagnare un partito al duca di Savoia, di lei padre. I Veneziani avevano in Milano i loro fautori, e colle immense ricchezze possedevano i mezzi di sostenerli e secondarli colle armi. Il conte Francesco Sforza pareva che nemmeno dovesse porre in vista le insussistenti pretensioni della moglie e del suo primogenito, esclusi per la investitura imperiale dalla successione nel ducato. La condizione del conte era anche più degradata di quella del duca d'Orleans, attesa la viziata origine della Bianca Maria. Egli possedeva Cremona, recatagli in dote; comandava un possente numero d'armati; aveva il nome più illustre di ogni altro nella milizia di que' tempi. Ma un Romagnuolo, nato in Samminiato da Lucia Trezania, senza parenti illustri, e che non ebbe fra suoi antenati un nome degno di memoria, trattone suo padre (a cui il conte Alberico di Barbiano, sotto del quale militava, diede il sopranome Sforza), non pareva posto in condizione da disputare con alcuno la signoria di Milano, meno poi di prevalere. In questa situazione si trovò la città di Milano, quando, nel 1447, morì l'ultimo duca, ed ella intraprese a governarsi a modo di repubblica. Appena aveva cessato di vivere Filippo Maria, che cominciarono a comparire nuove leggi e regolamenti sotto il nome de' capitani e difensori della libertà di Milano. Il primo proclama col quale annunziarono la loro dignità e il loro titolo, fu del giorno 14 agosto 1447, cioè il primo dopo la morte del duca. In esso questi capitani e difensori della libertà di Milano confermarono per sei mesi prossimi a venire il generoso Manfredo da Rivarolo de' conti di San Martino nella carica di podestà della città e ducato (I). Questi nuovi magistrati però non pretesero d'invadere tutta l'amministrazione della città; anzi lasciarono che i maestri delle entrate dirigessero le finanze e le possessioni che erano state del duca; e lasciarono pure che il tribunale di Provvisione regolasse la panizzazione, le adunanze civiche, l'annona e gli altri oggetti di sua pertinenza. I capitani e difensori, considerandosi investiti dell'autorità sovrana, riserbate al loro arbitrio le cose veramente di Stato, col dare, quand'occorreva, ordini al podestà, al capitano di giustizia, al tribunale di Provvisione ecc. pe' casi straordinari, lasciarono a ciascun magistrato la cura di provvedere, secondo i metodi consueti e regolari, a quanto soleva appartenere

(I) Archivio di città, registro A, foglio 40. appartenere alla di lui giurisdizione (1) .Questi capitani e difensori della libertà non avevano però ragione alcuna per comandare agli altri cittadini. S'erano immaginato un titolo, creata una carica, attribuita una autorità, addossata una rappresentanza tumultuariamente, per usurpazione e sorpresa, non mai per libera scelta della città. Se un virtuoso entusiasmo di gloria e di libertà avesse animati coloro ad ascendere alla pericolosa rappresentanza del sovrano, potevano, annientato ogni privato interesse, primeggiando il solo pubblico bene, andare cospiranti e unanimi,

(I) Nell'archivio di città al registro B. leggonsi: 17 agosto 1447, ordine dei signori vicario e XII di Provvisione per adunare il consiglio dei novecento, onde prestino il giuramento i consiglieri che non avevano giurato. Foglio I, tergo. Altro dei medesimi vicario e XII, perché niuno ardisca di rompere le conche sopra i navigli o lo steccato di Cusago, dei 23 agosto 1447. Registro B, foglio 10, e sotto la data medesima, v'è altro editto de' suddetti sulla macina del grano, che proibisce a' mugnai la compra: pure il 24 agosto, altro simile editto del vicario e XII proibisce ai fornai di vendere a staio il pane di mistura; registro suddetto, foglio 2. Esso registro B. è pieno di editti del tribunale di Provvisione, l'ultimo dei quali è al foglio 408, contenente una proibizione di ascendere sopra il tetto del Broletto, in data 10 febbraio 1450, sedici giorni prima che Francesco Sforza si rendesse padrone di Milano; dal che si conosce che la giurisdizione ordinaria del tribunale di Provvisione in quel tempo di repubblica, o anarchia che ella si fosse, rimase intatta e continuata. Lo stesso io trovo essere accaduto al magistrato Camerale, ossia ai Maestri delle entrate, che conservarono la loro giurisdizione; ed uno dei primi editti di quell'interregno è del 20 agosto 1447, col quale si comanda che ciascuno paghi il tributo sulle merci alle porte della città. Veggasi registro B., foglio 6. Altro del 22 detto per la propalazione dei beni del defunto duca. Veggasi registro B., foglio 8, tergo. Ne è pieno quel registro sino al giorno 7 gennaio 1450, in cui il Magistrato Camerale ordinò che si pagasse il tributo della dovana, come dal citato registro al foglio 402. unanimi, e adoperare così la forza pubblica col maggiore effetto per la pubblica salvezza. Ma come sperare che si accozzasse un collegio di eroi casualmente, in una città oppressa da una serie di sei pessimi sovrani? Mancava a questo corpo resosi sovrano, e la opinione di chi doveva ubbidire, e la coesione delle parti di lui medesimo; né era riserbato nemmeno ai più accorti il prevedere la poca solidità e durata di un tal sistema, manifestatamente vacillante. Già nel capitolo antecedente nominai i fautori principali del governo repubblicano, cioè Innocenzo Cotta, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnano, Antonio Trivulzi e Bartolomeo Morone. Non era probabile che le altre città della Lombardia superassero il ribrezzo di farsi suddite di una città metropoli, governata a caso e senza una costituzione politica. In fatti due sole città, cioè Alessandria e Novara si dichiararono di essere fedeli a Milano; le altre o progettarono di voler governarsi a modo di repubblica indipendente, o posero in deliberazione a qual principe sarebbe stato meglio di offerirsi. In Pavia sola vi erano ben sette partiti; gli uni volevano Carlo re di Francia; altri, Luigi il Delfino; altri, il duca di Savoia; altri, Giovanni marchese di Monferrato; altri, Lionello marchese di Ferrara; altri, i Veneziani; altri, il conte di Cremona Francesco Sforza. Il Corio, che ciò racconta, non fa menzione dell'ottavo partito, che sarebbe stato quello di reggersi da sé e collegarsi in una confederazione di città libere; o meglio ancora unirsi in una sola massa e formare un governo comune. Né ciò pure terminava la serie de' mali del sistema. I banditi ritornavano alle città loro, occupavano i loro antichi beni, già venduti dal fisco ducale, e ne spogliavano gl'innocenti possessori. La rapina era dilatata per modo, che nessuno era più sicuro di possedere qualche cosa di proprio; la vita era in pericolo non meno di quello che lo erano le sostanze; il disordine era generale e uniforme; il che doveva accadere in una numerosa e ricca popolazione, rimasta rimasta priva del sistema politico, mentre con incerte mire tentava di accozzarne un nuovo. Il castello di Milano non poteva torreggiare sopra di una città che voleva essere libera e temeva un invasore; perciò con pubblico proclama si posero in vendita i materiali di quella ròcca (I). Il conte Francesco Sforza, appena ebbe l'annunzio della morte del duca, s'incamminò diligentemente verso Milano, abbandonando la Romagna, ove si trovava. I Veneziani erano nella circostanza la più favorevole per impadronirsi del Milanese. Lodi, Piacenza ed altre città desideravano di vivere sotto la repubblica veneta. Francesco Sforza vedeva che i Veneziani erano i più potenti ad invadere e conquistare questo ducato, ch'egli aveva in mente di far suo; sebbene le circostanze non gli fossero per anco favorevoli a segno di palesarlo. Le forze de' Veneti già si trovavano nel Milanese prima che il duca morisse, il che accennai nel capitolo antecedente. E come pochi mesi prima s'erano essi presentati sotto le mura di Milano, e avevano devastato il monte di Brianza, così v'era ragionevole motivo per cui i Milanesi temessero l'imminente pericolo. Appena venti giorni erano trascorsi dopo la morte di Filippo Maria, che la repubblica milanese dovette eleggere un comandante capace di opporsi alle forze venete e salvarla; e questa scelta cadde nel conte Francesco Sforza, dichiarato capitano delle nostre armate (2). I denari de' Milanesi erano necessari per mantenere un corpo numeroso di soldati, e ai Milanesi era necessario un gran capitano, la cui mente e valore

(I) Registro civico B, foglio 14, tergo, ove leggesi questa grida del 30 agosto 1447 per la demolizione e vendita del castello e delle gioie del duca. (2) Registro civico B, foglio 16, tergo, ove leggesi il proclama dei capitani e difensori della libertà, acciocché ogni persona atta a portare le armi si presenti a servire sotto il comando del signor conte Francesco, capitano generale, in data 3 settembre 1447. valore, opportunamente dirigendo la forza, li preservassero dall'invasione dei Veneti. Questi bisogni vicendevolmente unirono da principio lo Sforza e i repubblicani nascenti, se pure il nome di repubblica poteva convenire a una illegale adunanza, che governava senza autorità e senza principii. Una prova della incertezza di quel governo la leggiamo nel proclama che i capitani e difensori della libertà pubblicarono in data 21 settembre 1447. Per ordine di questi vennero pubblicamente consegnati alle fiamme i catastri che servivano alla distribuzione de' carichi, affine di rallegrare il popolo; (I) e si credette fondo bastante

(I) Capitanei et defensores libertatis et excelsae Comunitatis Mediolani. - Prudentes concives carissimi nostri. Posteaquam omnipotens Deus noster, per transmigrationem de praesenti saeculo illustrissimi bonae memoriae principis ac domini nostri domini Filippi Mariae gratiam libertatis nobis venditando condonavit quod retinere et conservare omnibus modis et firma scientia statuimus, deliberavimus comuni consensu in adurendis libris, extractibus, quaternis, filzis, et scripturis inventariorum, taxarum, talearum, focorum, buccarum, onerisque salis, et aliorum quorumvis onerum signum dare, quo populus et plebs intelligant se post hac futuros immunes et exemptos ab angariis et gravaminibus ejusmodi. Indeque bonam spem de statu ipsius libertatis et hujus nostre reipublicae percipientes, gaudeant gratulenturque et debitas gratias agant proinde ipsi omnipotenti Deo nostro. Nec minus animum firment et disponant velle, quod olim inviti et coacti fatiebant, nunc sponte atque perlibenter fatiere, in exponendis videlizet, videlizet et exhibendis, juxta facultates, pecuniis, tum pro formando et conplendo thexauro gloriosissimi S. Ambrosii, patroni et protectoris nostri, tum pro expeditionibus genzium armigerarum Comunitatis praelibatae, quibus mediantibus non tantum libertatem nostram, ut caepta est, retinere conservareque valeamus, verum etiam rempublicam confirmare, locupletari, augere, et in dies melius ampliare atque dilatare, in confusionem eorum omnium qui satagunt huic inclitae Civitati omni conatu suo, suisque omnibus insidiis aemulari. Volumus igitur quatenus, facta electione statim per le spese pubbliche la spontanea generosità di ciascun cittadino. Appena due settimane dopo si dovette pensare al rimedio; e fu quello che i medesimi capitani e difensori arbitrariamente tassassero i cittadini a un forzoso imprestito (I). Si obbligarono poi i sudditi a notificare quanto possedevano sotto pena della confisca, invitando gli accusatori col premio; e ciò per formare nuovi catastri per ripartire i carichi (2). Cercavano questi incerti capitani e difensori l'opinione favorevole del popolo con mezzi rovinosi, e vi rimediavano poi con ingiusti e odiosi ripieghi. Alcune delle leggi che proclamarono, poiché danno una precisa idea dello spirito di quel governo, e

duorum ex vobis, ordinetis quod ii duo simul, cujus infra nominatis inquirant et sibi exhiberi faciant quoscumque libros extractus, quaternos, filza, et scripturas omnes inventariorum, taxarum, talearum, focorum, oneris salis, et aliorum onerum cujusvis generis, spetiei, ac materiei fuerint. Et his bene ac iterum revolutis visisque ac diligentissime examinatis, retinendo eo sdumtaxat quibus videatur aliqua utilitas camerae prefatae Comunitatis, et territorio et singularium etiam aliquarum personarum, reliquos omnes ex praedictis igni palam et pubblice cremandos dari et committi faciatis, quo veluti spectaculo populus ipse pariter et plebs, voluptatem inde assumentes peringentem, exultare jubilareque possint, laudesque dare sancto memorato. Qui inclitam hanc urbem in felici et fausto statu semper servet atque tueatur. Data Mediolani, die XXI septembris MCCCCXLVII. Johannes de Mantegaxis - Stefanus de Gambaloytis - Cabriolus de Comite - Federicus de Comite - Johannes de Fossato - Francius de Figino - Johannes de Gluxiano - Jacobus de Cambiago Raphael - A tergo. Nobilibus et prudentibus concivibus carissimis nostris duodecim Provisionum excelsae Comunitatis Mediolani. Registro civico A, foglio 47.

(I) Registro civico A, foglio 44, editto del 5 ottobre 1447.
(2) Registro delle gride dal 1447 al 1450, nell'archivio civico, volume B., foglio 142, 212 e altrove, come dalle gride 30 agosto 1448 e 21 gennaro 1449, nella seconda delle quali si ricorre a ripartire i carichi per focolare. della condizione di que' tempi, non sarà discaro al lettore ch'io qui trascriva. Nei primi momenti della inferma Repubblica, incerti della loro autorità, privi di legale sanzione, in una città divisa in partiti, attorniata da città che non eranle amiche, coll'armata veneta che invadeva le sue terre, coi Savoiardi e Francesi, che minacciavano d'occuparlene dalla parte opposta, costretta a confidarsi al pericoloso partito di collocare nelle mani del conte Sforza il poter militare in così importante e seria situazione, pubblicarono un ordine il 18 ottobre 1447, rinnovando irremissibilmente la pena del fuoco ai pederasti (I). Gli uomini nei più pressanti disastri cercano l'aiuto 

(I) Capitanei et defensores libertatis illustris et excelsae communitatis Mediolani. Dilecte noster. Ad solidandum, augendum, ornandum hujus nostrae caeptae libertatis optabilem statum, non magis conveniens quam necessarium arbitramur virtutum coli decentiam, abbominari vitiorum sordes; ita n. et suscepti a Deo muneris grati videbimur, et accumulatiores ab ejus omnipotentia gratiarum sperare poterimus largitiones. Animadvertentes igitur quam foedissimum et detestandum, quam horrendum sit innominabile Sodomiae crimen, existimantesque quod impunitas incentivum parit, deliquendique etiam malos efficere deteriores solet, deliberavimus, et mente nostra decreto stabili firmavimus hoc execrabile exitium nullatenus tollerare. Quamquam igitur ad detrahendos ab hoc scelestissimo crimine qui in eo maculati sunt, ad faciendum ne de caetero in tale crimen incidant posse satis et debere sufficere videntur constituta per sanctissimas leges ac statuta hujus civitatis, quam ita vulgarissimam ignorare quidem non debent, ignis poena, ut tamen eorum infamis turpitudo reddatur prorsus inexcusabilis, volumus et tibi mandamus, quatenus, his receptis, patenter ac pubblice, voce praeconis, divulgari per solita hujus civitatis loca facias, quod amodo quisquis cujusvis status et conditionis existat, sive terrigena, sive forensis, aut stipendiarius vel provisionatus, et generalite, quisquis se ab eo penitus caveat et abstineat crimine, nec illud committere audeat quoquomodo; sciens et ex certo tenens quod si dehinc illud incidisse comperietur, irremissibili profecto, juxta legum sanctiones, punietur ignis poena. Tuque deinde ad investigandum della Divinità colla maggiore istanza, e a tal uopo credonsi di ottenerlo persino col sacrificio d'umane vittime. I Greci cercavano i venti col sangue d'Ifigenia; i Romani placavano il cielo seppellendo uomini vivi; i nostri, bruciando i peccatori. Le pazzie e le atrocità di un secolo si assomigliano alle pazzie e atrocità d'un altro, a meno che la coltura e la ragione, diffondendosi largamente, non indeboliscano i germi del fanatismo inerente all'uomo; e questa coltura, questa filosofia, contro la quale ancora v'è chi declama, formano appunto l'unica superiorità de' tempi presenti, Oggidì un popolo che aspiri a diventar libero e combatta per sottrarsi dall'imminente giogo, non pubblicherà certo una legge per proibire ai barbieri di far la barba ne' giorni festivi. Ha ben altro che fare chi si trova al timone della Repubblica fra la tempesta, che vegliare su di questi meschini e indifferenti oggetti; eppure allora si proclamò un bando cosiffatto (I).

et inquirendum de hujusmodi sceleratis et diligentiam omnem, studium et curam adhibeas, et contra quoscumque quos amodo id crimen perpetrasse comperies, debite procedas, eos, jure justitiaque mediante, puniendo. In qua quidem re, quo magis vigil magisque diligens fueris, eo magis honori debitoque servies, et nostrae menti vehementissime complacebis. Et tu ab ejusmodi delictis malefactores se abstineant, volumus quod accusatoribus, seu denuntiatoribus ipsorum delictorum, cum bonis tamen inditiis, satis fiat pro qualibet vice, et teneantur secreti, de ducatis decem auri, ex et de bonis delinquentis, quam satisfactionem volumus per te et successores tuos fieri debere, omni exceptione et contradictione cessante. Scribimus etiam super hoc d. Bartolomeo Cacciae, capitaneo justitiae hujus civitatis, cumquo volumus habeas intelligentiam in fieri facendis proclamationibus praedictis - Mediolani, die XVIII oct. 1447.

(I) Capitanei et defensores libertatis illustris et excelsae civitatis Mediolani - Visa requisitione barbitonsorum inclitae Urbis hujus pro confirmatione cujusdam eorum statuti et ordinis tenoris infrascripti, videlizet. Magnifici et excelsi domini hujus inclitae civitatis; barbitonsores, tum recta conscientia Anco un'altra legge ho riscontrata in quei tempi, la quale merita d'essere ricordata, perché ci fa conoscere alcuni ripieghi politici, i quali volgarmente si credono d'invenzione di questi ultimi tempi, non erano punto 

conscientia ducti, tum praesertim a religiosis confessoribus et animarum suarum consultoribus admoniti, deliberant ad celebrandum festivos dies et vacandum ab opere temporibus illicitis cum vestrae magnificentiae licentia, et assensu, statutum ordinem et edictum quod est tenoris infrascripti. Reverenter ideo supplicantes ut ad ipsum, quod quidem salutiferum et commendabile videtur, auctoritatem vestram interponentes, dignemini statutum hoc et ordinantionem patentibus literis confermare, validare, servarique et executioni mandari jubere, mandando etiam quibuslibet jusdicenti et offitialibus Mediolani, ad quos inde recursus habeatur, quatenus ad omnem requisitionem abatis Paratici dictorum barbitonsorum circa ipsius statuti observantiam et executionem, praestent omne juvamen, auxilium, et favorem opportunum. Item statuerunt et ordinarunt quod non liceat alicui magistro de dicta arte, habitanti in civitate vel suburgiis Mediolani, laborare, nec laborari facere de arte ipsa nec in apotecha seu domo habitationis suae nec extra, die aliquo festivo per sanctae matris ecclesiae tam Romanae quam Ambrosianae istitutiones celebrari ordinato nec etiam in ipsorum festorum vigiliis ubi vigiliae institutae reperiantur nec diebus sabati post horam vigesimam quartam ipsius vigiliae vel sabati, sub poena librarum duarum nuperiorum qualibet vice qua fuerit contrafactum, eamdemque poenam incidat quilibet famulus seu laborator de dicta arte qui sine licentia et contra voluntatem magistri sui laboraret contrafatiendo praesenti statuto, talisque famulus aut laborator de dicta arte non debeat nec possit de dicta arte aliqualiter laborare in civitate ipsa nec suburgiis nisi prius condempnationem ipsam solverit, et ante solutionem hujusmodi non debeat aliquis magister ipsius artis illi dare aliquod adiutorjum nec aliquem favorem sub eadem poena, si tamen evenerit quod ad horam vigesimam quartam dicti sabati aut vigiliae ut supra quispiam magister aut laborator inter manus aliquem haberet ante horam ipsam jam acceptum; eo casu tali prius accepto possit impune caeptam operam prosequi et finire, nec pro eo poenam incurrat; harumque omnium poenarum medietas applicetur fabricae majoris ecclesiae Mediolani sconosciuti negli stati d'Italia alla metà del secolo decimoquinto; cioè le pubbliche lotterie. Nel capitolo nono accennai come sino dall'anno 1240 s'era posta in uso da noi la circolazione della carta in luogo del denaro, e a tal proposito si facessero leggi assai opportune (I); ora dall'editto del 9 gennaio 1448 verrà assicurato il lettore dell'antichità delle lotterie, ossia tontine, di quei tributi spontanei in somma ai quali si adescano i cittadini

alterius medietatis duae partes dentur Paratico ipsorum barbitonsorum et reliqua tertia pars accusatori qui talem contrafactionem denuntiaret. Possunt quoque abbas dictae artis et sui offitiales qui per tempora erunt, defitientibus in praemissis opportunis probationibus; pro habenda in hiis veritate artare quemlibet magistrum et laboratorem ad juramentum si et prout viderit expedire. Et considerata in hoc devota et laudabili dispositione dictorum barbitonsorum, cum statutum ipsum, quod etiam per spectabiles dominos consiliarios justitiae prefatae comunitatis diligenter examinari fecimus et honestum et ad observantiam orthodoxae fidei nostrae atque mandatorum ecclesiae videatur tendere, ipsorum requisitioni praedictorum benigne volentes annuere, prasentium tenore, etiam ex certa scientia, statutum ipsum, quod in volumine etiam aliorum statutorum et ordinamentorum comunis Mediolani inseri et conscribi mandamus et volumus, gratum habentes, approbamus et confirmamus; mandantes propterea vicario et XII Provixionum ac aliis offitialibus antedictae comunitatis praesentibus et futuris, ad quos spectat et spectare possit et pro dicti statuti observatione recursum fuerit, quatenus ipsum statutum et ejus dispositionem inviolabiliter observare fatiant et ad omnem abatis Paratici ipsorum barbitonsorum requisitionem pro hujus statuti observantia et in contrafatientes debita executione omne prestent juvamen, auxilium et favorem opportunum, et hoc dummodo nichil exinde contra aliorum praefatae comunitatis statutorum et ordinamentorum dispositionem et in eorum detrimentum fiat vel sequatur. In quorum testimonium praesentes fieri registrarique jussimus, sigillique praefatae comunitatis munimine raborari. Dat. Mediolani, die sexto decimo aprilis MCCCCXLVII. Sign. Ambrosius. Il citato registro A, foglio 51, tergo.

(I) Tomo I, p. 254 colla lusinga di arricchirli (I). Colle note potrà il lettore dalla sorgente istessa conoscere da quai principii fosse regolato quel governo, a qual grado fosse la coltura, a quale elevazione si trovasse la politica; né sulla asserzione mera dello storico dovrà persuadersi della infelicità di que' tempi.

(I) 1448 die martis nono Januarii - Notitia sia a ciascuna persona como li illustri capitanei et difensori della illustre ed eccelsa nostra libertà vogliano dare via le borse de la ventura, le quale borse sono septe, della quale la prima harrà dentro ducati trecento contanti, la seconda ducati cento, la terza settantacinque, la quarta cinquanta, la quinta trenta, la sesta venticinque, la settima venti, e vogliono darle via a la ventura in questa forma, cioè: ciascuna persona de qual conditione, stato e grado voglia se sia, tanto forestiero come cittadino e contadino, et tanto clerico come layco, et maschi e femine, possano portare quelli ducati che a loro parirà o uno o due, como loro vorranno al banco de Xphôro figliolo di messere Stefano Taverna banchero, quale è stato lo inventore di questa cossa, el qual banco è per mezzo li ratti fuori del Broletto, lui ne farà nota nel suo libro fatto solo per questo, cioè a dì tale, la tal persona ha portati tanti ducati, uno o duy quelli che sarano, per volere guadagnare per ciascuno ducato una delle sopra scritte borse, secondo che Dio li darà buona ventura, e così farà nota de tutti quelli portaranno infina alla prima domenica di febraro prossimo, quale è il dì deputato a dare via le borse, in quello dì serano domandati tutti quelli haveranno messi li denari per guadagnare le borse, et si serà fatto tanti scritti per ciascuno quanti ducati harrano messo, li quali scritti haranno suxo il nome loro, e questi tal scritti serano messi in una corba suso una baltresca la quale sara posta su la piazza di Sancto Ambrosio onde è usato stare el banco di frate Alberto, acciocché ciascuna persona possa vedere mettere li scritti tutti in la corba, e vederli voltare tutti sotto sopra per lo dicto Xphôro thesaurario, deputato a questo, ovvero per persona fidata electa per li illustri capitanei, poi sarà tolto una altra corba, nella quale corba saranno messi altretanti scritti bianchi senza scrittura alcuna, salvi che in quelli sara sette scritti, che l'uno harrà scritto suxo la borsa de li Ducati trecento, l'altro la Ora conviene ch'io ponga sott'occhio una fedele immagine del nuovo comandante delle armi milanesi Francesco Sforza. Sì tosto che il conte Francesco fu creato capitano generale della repubblica di Milano, e che l'armata di esso conte venne allo stipendio de' Milanesi,

Borsa de li ducati cento, e l'altro de la borsa de' ducati settantacinque, l'altro la borsa de li ducati cinquanta, l'altro la borsa de li ducati trenta, l'altro la borsa de li ducati venticinque, e l'altro la borsa de li ducati venti. Et questi scritti serano voltati molto bene sotto sopra tutti cum quelli non serano scritti. Poi el dicto Xphôro overo li deputati per l'illustri capitanei, stando di sopra la baltresca, vedando ogni persona, domanderà un qualche bono homo, metterà la corba quale haverà dentro li scritti de li huomini che harranno messi li denari de la mane dritta, e l'altra corba ne la quale serano gli altretanti scritti bianchi, et quelli sette de le borse metterà da la mane sinistra. E poi quello bono homo torrà suso alla ventura duy scritti, cioè l'uno fora de una corba con una mane, e uno fora de l'altra corba cum l'altra mane, tutti duy li scritti ad un tratto, e drieto a questo bono homo seranno due altre fidate persone ellecte da li illustri capitanei e non suspecte a persona alcuna l'uno de la mane dritta, l'altro da la mane sinistra, li quali torranno quelli duy scritti quali quello bono homo harà tolto suxo ogniuno da la sua parte e il lezeranno, odando ogni persona quelli tali scritti, verbi grazia l'uno scritto dirà Gioanni da Como, e l'altro nagotta, o vero bianco, quello tale Gioanni da Como per quello scritto serà fora di ventura de havere le borse, et serà infilzato, quello scritto che non avrà suxo nagotta, che sera bianco, sera scarpato; poi quello bono homo ne torra suxo duy altri scritti in quella medesima forma, et quelli duy leveranno verbi gratia l'uno scritto dirà Antonio da Pavia, l'altro serà bianco, similmente sera facto de questi duy, cioè l'uno infilzato, e l'altro scarpato. Et così andara quello bono homo tollendo suxo duy scritti per volta, tanto che torrà suso uno de li scritti de le borse; verbi gratia avrà tolto uno scritto che dirà Petro da Lecco farè, l'altro dirà la borsa di trecento ducati, quello Petro da Lecco avrà guadagnato quella borsa de li ducati trecento, la qual borsa subito in presentia de tutti sarà data per lo dicto Xphóro ei si trovò alla testa di forze valevoli a preservare lo Stato e dai Veneziani, e da ogni altro pretendente. Se egli le avesse rivoltate allora per assoggettare a sé il ducato di Milano, avrebbe dovuto superare ad un tempo medesimo e le forze venete, e le savoiarde, e le francesi, e l'entusiasmo della nascente libertà de' popoli, non per anco staccati dai disordini dell'anarchia. I suoi soldati avrebbero ragionato fors'anco del tradimento che si faceva ai Milanesi, della illegalità delle pretensioni sue alla successione nel ducato; si doveva temere o la defezione o la svogliatezza. Il conte conosceva i tempi, gli uomini e gli affari. Egli era venerato come il più gran generale del suo tempo. Sapeva farsi adorare da' suoi soldati, che

Taverna al dicto Petro da Lecco. Poi quello bono homo anderà tolendo suxo le scritte a duy a duy in fino che saranno tolti fora tutti quelli sette scritti delle borse et a chi toccarà la ventura, si sarà date le borse, come è dicto de la prima. E pertanto anche pare che a chi sia possibile da mettere uno ducato fuosse poco savio a non metterlo, peroche una persona ricca a mettere uno ducato o duy o dece poco li serà sebene no avesse la ventura, avendola tanto migliora una persona mezzana, el simile a una persona povera che in estremo non fusse miserabile seria piuttosto da mettere che li altri, peroché per uno ducato che metta serbandolo in capo dell'anno non se ne accorgerà, a tanto in za come in la li bisogna stentare et lavorare, et se per ventura Dio li presentasse la grazia che avesse una de quelle borse, massime la magiore, non stentereve mai più, si che chi è savio porterà dinari, avisando tutti che li denari che avanzaranno et che se haveranno saranno della comunità nostra, si che quelli che non avranno la ventura delle borse, potranno far rasone averne donati a la comunitate uno ducato, el quale se po appellare averlo donato a se medesimo. Et se fosse alcuna persona che non intenda bene vada al banco del dicto Xphôro Taverna tesaurario a questo, che in breve gliel darà ad intendere a bocca. - Innocentius Cotta Prior - fu pubblicato questo avviso da Antonio di Areno tubatore. - Gride dal 1447 al 1450, volume B., foglio 65 tergo. egli, con una prodigiosa memoria, soleva quasi tutti chiamare col loro nome. Nella azione si esponeva con mirabile indifferenza e intrepidezza, e con voce militare animava nella mischia i combattenti. Padrone assoluto de' propri moti, sapeva celare le cose che gli dispiacevano con mirabile superiorità d'animo. Accortissimo conoscitore dei pensieri altrui, antivedeva le risoluzioni de' nemici, che lo trovavano preparato mentre s'immaginavano di sorprenderlo. La reputazione dello Sforza era tale, che, venendo da' Veneziani attaccato un drappello dei suoi ch'egli aveva postati a Montebarro, vi giunse il conte Francesco nel punto in cui i nemici vincevano pienamente. Al solo avviso della inaspettata sua presenza, si posero in fuga i vincitori; anzi innoltrandosi egli incautamente ad inseguirli, si trovò come attorniato e preso da essi; ma invece di farlo prigioniere, i nemici deposero le armi, e scopertisi il capo, riverentemente lo salutarono, e qualunque poteva, con ogni reverentia li tochava la mano perché lo reputavano patre de la militia ed ornamento di quella; così il Corio. Sin dalla sua gioventù egli inspirava rispetto per la nobile e dignitosa figura, e più per la saviezza, prudenza, costumatezza ed eleganza nel parlare; onde l'istesso Filippo Maria admirabatur enim magis atque magis quotidie tum illius prudentiam, facundiam egregiosque mores, tum formae praestantiam, vultus gestusque dignitatem (I). Un fatto raccontatoci dallo storico Giovanni Simonetta, che viveva in que' tempi, mostra l'indole generosa del conte Francesco, e la singolare di lui prudenza nel fiore degli anni suoi. Sforza suo padre, mentre guerreggiava nell'Abruzzo, aveva affidato a Francesco un corpo. Ivi guerreggiavano i due partiti francese e spagnuolo, ossia gli Angioini contro gli Aragonesi. Si formò una trama segreta fra i soldati sottoposti a Francesco Sforza; e improvvisamente

(I) Simonetta, lib. 2, col. 202, R. I., tom. XXI. improvvisamente una gran parte di essi tradì la fede, e, abbandonando il giovine Francesco, passò al nemico. Francesco co' pochi rimastigli fedeli si ricoverò in luogo munito. Appena ottenuto dal padre nuovo soccorso, si scagliò contro i nemici, e fece prigionieri tutti i traditori. Ne spedì la novella a Sforza di lui padre, chiedendo i suoi comandi sul trattamento da farsi a questi prigionieri. Sforza gli mandò il comando di farli, tutti quanti erano, impiccare. Al ricevere un tal riscontro rimase pensieroso il giovane Francesco, e dopo qualche taciturnità interpellò il messaggero: Dimmi; con quale aspetto parlò mio padre, che t'incaricò di quest'ordine? Il messaggere rispose ch'egli era assai incollerito. Non lo comanda adunque mio padre, disse Francesco; questo è l'impeto di un uomo sdegnato, e mio padre a quest'ora è pentito di aver detto così: indi, fatti condurre alla sua presenza i prigionieri, poiché mio padre, diss'egli, vi perdona, io pure vi perdono. Siete liberi; se volete restare al nostro stipendio, vi accetto come prima, se volete partire, fatelo. La sorpresa di que' soldati, che si aspettavano il supplizio, fu tale che, lacrimando e singhiozzando, giurarono fede alle insegne sforzesche, e in ogni incontro poi se gli mostrarono affezionatissimi e valorosi. Quando Sforza intese il fatto, confessò che Francesco era stato più prudente di se stesso (I). Questo avvenimento ci fa risovvenire delle Forche Caudine: lo Sforza fu assai più avveduto che non si mostrò Ponzio. Francesco amava e venerava suo padre, e con ragione. Mentre appunto nel regno di Napoli Francesco stava alle mani coi nemici, vennegli il crudele annunzio che, poco discosto, Sforza suo padre, volendo soccorrere un suo paggio, erasi miseramente affogato nel fiume, che stavano passando. Questa era la massima prova che

(I) vedi Simonetta, Vita di Francesco Sforza, Rer. Ital., tom. XXI, lib. I, col. 183. potesse dare della padronanza di se medesimo, Francesco, soffocando l'immenso dolore, e dirigendo la battaglia con mente e faccia serena, come fece (I). Questi fatti bastano per darci idea di questo illustre Italiano, che diventò poi nostro principe. Agnese del Maino s'era ricoverata nella ròcca di Pavia, dove ella ebbe influenza bastante per rendere preponderante il partito di coloro che scelsero per loro principe il conte Francesco, genero di lei. Se il conte avesse accettata questa sovranità mentre era allo stipendio de' Milanesi, senza l'assenso loro, avrebbe mancato al dovere. Pavia era, ed è una parte dello Stato di Milano vicina ed importante. Il conte Francesco però fece conoscere che, attesa l'antica avversione, non sarebbe stato mai possibile di ottenere una sincera sommessione di Pavia ai Milanesi, che frattanto ella si offriva al duca di Savoia, ovvero ai Veneziani; e sarebbe stata impresa difficile lo sloggiarli poi da quella città munita, e pericoloso il lasciarveli: che non era possibile sbrattare il Po dalle navi venete, e sgombrarne lo Stato, esposto alle invasioni, se non possedendo Pavia, ove trovavansi gli attrezzi per quella navigazione. In somma persuase che l'interesse di Milano era, dover Pavia cadere piuttosto nelle sue mani che di alcun altro principe. Per tal modo, coll'assenso de' Milanesi, il conte Francesco diventò signore di Pavia; e così due città principali del ducato, Cremona e Pavia, una per dote, l'altra per dedizione, furono del conte Francesco. Non sì tosto ebbe il conte acquistata Pavia, che s'innoltrò colle sue armi sotto Piacenza, occupata da' Veneziani, e se ne impadronì il giorno 16 dicembre 1447.

(I) Il citato Simonetta, lib. 1, col. 187 dice: Quo nuntio Franciscus gravissime affectus, dolorem immensum per summam constantiam supprimit, seque a lachrymis singultibusque continet. Sed quod maxime expediebat, suos a pugna, rejectis hostibus, revocat. Così, appena trascorsi quattro mesi dalla morte del duca, il conte s'era già reso padrone del corso del Po; padronanza la quale indirettamente lo rendeva arbitro di Milano, che non ha altro sale per i bisogni della vita, se non di mare, che conseguentemente deve navigare il Po. Frattanto i Francesi, che stavano al presidio di Asti, tentarono di occupare Alessandria e Tortona; ma vennero rispinti da Bartolomeo Coleoni, spedito loro incontro dal conte Francesco. Così, al terminare dell'anno in cui era morto Filippo Maria, il conte possedeva già una importante porzione del ducato. I repubblicani, o, per nominarli con maggior proprietà, gli oligarchi milanesi conoscevano la loro situazione e il pericolo imminente di ricadere sotto la dominazione d'un uomo solo, cosa generalmente detestata; per ciò si rivolsero secretamente a fare proposizioni di accomodamento coi Veneziani: anzi si progettò una confederazione fra le due repubbliche per la difesa reciproca della loro libertà e signorie, offerendo a' Veneziani il dominio di Lodi, oltre quei di Bergamo e Brescia, che le armi venete avevano già conquistate sotto il regno dell'ultimo duca. Niente poteva accadere di peggio per attraversare la fortuna del conte. Quindi i partigiani di lui che trovavansi in Milano, mossero la plebe, rappresentando che non v'era più sicurezza se a venti miglia di Milano si collocavano i Veneziani; che quando meno ce lo saremmo aspettato, una sorpresa rendeva Milano suddita di San Marco e città provinciale e squallida; che non v'era più una sola notte tranquilla pe' Milanesi, se una così vergognosa cessione si facesse. La plebaglia, mossa da ciò, andava per le strade urlando: guerra, guerra contro de' Veneziani! e così vennero forzati gli usurpatori del governo, i capitani e difensori a lasciarne ogni pensiero in disparte. Frattanto il conte Francesco, sempre vittorioso, con molti e piccoli fatti d'arme avendo fatto sloggiare i Veneti dalle rive del Po, stava risoluto di movere sotto Brescia, e toglierla ai Veneti, che da ventidue anni la possedevano per conquista fattane dal Carmagnola, siccome vedemmo nel capitolo precedente. Presa una volta Brescia, non potevano più i Veneziani conservare Bergamo né Lodi, né altra parte delle loro conquiste. I nostri repubblicani allora cominciarono più che mai a temere, forse più de' nemici, il loro capitano generale; il quale se riusciva, come era probabile di rendersi padrone di Brescia, l'avrebbe acquistata per se medesimo, siccome aveva fatto di Piacenza; e per tal modo cerchiando Milano, l'avrebbe costretta, non che a rendersi, a impetrare la di lui dominazione. Si spedirono adunque ordini al conte, comandandogli che non altrimenti s'innoltrasse a Brescia, ma si portasse a Caravaggio e facesse sloggiare i Veneti da quel borgo. Il conte ubbidì. Nella sua armata eravi il Piccinino, generale emulo e nemico del conte: le operazioni militari o s'eseguivano lentamente, ovvero venivano attraversate: si lasciava penuriare il campo dello Sforza d'ogni sorta di foraggi e di viveri: l'armata veneziana che stavagli di fronte, era di dodicimila e cinquecento cavalli, oltre i fantaccini. Con tanti disavvantaggi egli venne a una giornata, che rese memorabile il 14 settembre 1448; poiché nei contorni di Mozzanica venne il conte còlto dai Veneziani talmente all'improvviso, che nemmeno ebbe tempo di armarsi compiutamente; onde si pose a comandare e diresse l'azione mancandogli i bracciali. L'insidiosa emulazione fu quella che rese inoperosi i drappelli di osservazione che egli aveva postati verso del nemico, il quale perciò poté cadere con sorpresa sull'armata del conte. V'erano, siccome dissi, il Piccinino ed altri sotto i di lui ordini, generali di cattivo animo. Il conte, mezzo disarmato, espose più volte se stesso al più forte della mischia, riconducendo i fuggitivi all'attacco, animando colla voce e coll'esempio i soldati; in somma tanto gloriosa fu quella giornata pel conte Francesco, che interamente disfece i Veneti, e tanti furono i prigionieri che ei fece, che fu costretto a congedarli per mancanza di vettovaglia. Vennero portate in Milano con una specie di trionfo le insegne di san Marco tolte ai nemici; e Luigi Bosso e Pietro Cotta, che erano al campo dello Sforza commissari, entrarono in Milano colle medesime, conducendo i più illustri prigionieri, fra i quali un Dandolo ed un Rangone. Questa vittoria di Mozzanica dava sempre maggior motivo di temere lo Sforza; e il Piccinino, generale di credito, nemico del conte, cercava di accrescere il popolar timore, fors'anco sulla speranza di acquistare per se medesimo poi quella sovranità che ora faceva comparire esosa ed esecranda (I). Giorgio Lampugnano era, fra i più accreditati Milanesi, quegli che non si stancava di tenere animata la plebe contro del conte, rammentando i mali sofferti sotto i duchi, le gravezze imposte da' principi, le violenze esercitate dai cortigiani e favoriti. Ricordava la demolizione del castello di Milano, come un motivo per cui il conte avrebbe esercitata la vendetta su quanti

(I) Di quei disordini così parla il Decembrio: - Interea Mediolanenses varie inter se fluctuabant. Quidam, victoria elati, Franciscum ad astra praecipuis laudibus ferebant; alii verbis dumtaxat libertatem praedicabant, verum impensè onus curamque detrectabant. Erant quibus servitus libertate potior videretur esse... Quibus autem vivendi cum principe consuetudo inerat, quo in numero vir insignis Petrus Pusterla et alii fuere, Franciscum, veluti Philippi filium et afflictis rebus succurrere potentem, magnopere laudabant. E contra, quibus mercatorum familiaritas et usus aderat, quorum minima pars fuit, Venetos, ut divinos quosdam homines, praeponendos dictitabant. Nihil in medium consulebatur; sed ut vulgo mos est, studia in contraria incerte scindebantur. Sic, confusis civium voluntatibus, plebs omnium ignorans, libertatis dumtaxat nomen sibi adsciverat, et nullo salubri consilio perducta, in optimum quemquam ferebatur, etc. - Rer. Italic. Script., tom. IX, column. 1040, cap. XXXV. Decemb. Vita Franc. Sfortiae. vi ebbero parte; anzi come una cagione di nuovi aggravii, obbligandoci a riedificarlo con dispendio e scorno, ponendoci in bocca il freno, dopo che ci avesse fatti sudare nella fucina a formarlo. Proponeva il conte l'impresa di Brescia, la quale, dopo un tal fatto, era senza difesa, e così ripigliare ai Veneti quella parte del ducato che s'erano presa; ma non lo vollero i capitani e difensori della libertà. Tutte le proposizioni dello Sforza erano contraddette; i soccorsi d'ogni specie ritardati; le militari disposizioni attraversate. Il Piccinino primeggiava. Carlo Gonzaga aveva in Milano un poderoso partito, ed adocchiava il trono. Con Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, primarii fautori della libertà, si univa Vitaliano Borromeo, signore di somma significazione, perché, oltre la grandiosa opulenza del casato, possedeva in dominio quasi tutte le fortezze del lago Maggiore. Questi tre rivali partiti si univano contro l'imminente fortuna del conte; il quale, posto in tale condizione, ascoltò le proposizioni della repubblica veneta, e segretamente stipulò un trattato per cui egli si obbligò a restituire, non solamente quel che aveva invaso nel Bresciano e Bergamasco, ma Crema e il suo contado ai Veneziani; e che i Veneziani, in compenso, a fine di ottenere al conte il dominio di tutte le altre città che aveva possedute Filippo Maria, gli avrebbero stipendiati quattromila cavalli e duemila fanti, sborsandogli tredicimila fiorini d'oro al mese, sin tanto ch'egli non si fosse impadronito di Milano. Poiché il trattato fu concluso, il conte lo pubblicò nel suo esercito. Sì tosto che i Milanesi ebbero notizia di tale accordo, concluso fra il conte Sforza e i Veneziani, spedirono al di lui campo alcuni primarii cittadini, cercando con modi rispettosi di giustificare le cose passate, anzi offrendo ogni soddisfazione, salva sempre la Repubblica. Ma il conte aveva già presa palesemente la sua determinazione; e, senza mistero, espose ad essi le ragioni ch'egli asseriva competere e a Bianca Maria, di lui moglie, e a se medesimo e a' figli suoi, per la successione nel dominio di Filippo Maria, suo suocero: sé essere determinato a farle valere ad ogni costo. Che se i Milanesi, deposta la chimerica pretensione d'erigersi in repubblica, di buon grado riconoscevano lui per sovrano, egli avrebbe avuta cura della salvezza e felicità di ciascuno; che se, all'incontro, si fossero ostinati a sostenere una illusione di libertà, che, in sostanza, era una rovinosa oligarchia, doveano attribuire a loro stessi i mali che avrebbero sofferti, obbligandolo, suo malgrado, ad usare contro di essi la forza. Furono con tal risposta congedati i legati Giacomo Cusano, Giorgio Lampugnano e Pietro Cotta; e, mentre con tristezza s'incamminavano a recare questo poco favorevole riscontro alla loro patria, vennero dileggiati non solo, ma insultati e svaligiati dalla licenza militare di alcuni soldati sforzeschi. Intese ciò con isdegno il conte, e, prontamente rintracciati i malvagi soldati, convinti del delitto, immantinente furono impiccati; la roba al momento venne spedita ai legati, a' quali di più aggiunse il conte altri regali, per riparare quanto poteva il danno sofferto da essi. La nobile generosità del conte Francesco sorprese i legati. I Veneziani spedirono le loro truppe a servire come ausiliarie al conte. La repubblica fiorentina inviogli i suoi legati, promettendogli amicizia. Il conte Francesco, reso per tal modo sicuro dalla parte di Venezia, immediatamente si mosse a circondare sempre più Milano. Da Pavia spinse le forze al castello d'Abbiategrasso, e lo costrinse bentosto alla resa. È memorabile il fatto che, mentre il conte Francesco conteneva i suoi, vietando loro il sacco della terra, a tradimento dalle mura vennegli scoppiata un'archibugiata. Gli Sforzeschi correvano per vendicarsi. Il conte, illeso, placidamente impedì che si facesse male a veruno. Fattosi padrone di Abbiategrasso, prese a sviare l'acqua l'acqua del Naviglio, e per tal modo rese inoperosi i mulini di Milano. S'innoltrò a Novara, e se ne impadronì (I). I Tortonesi spontaneamente si diedero al conte. Vigevano pure spontaneamente lo volle per suo sovrano, discacciando i Savoiardi che l'occupavano; Alessandria fece lo stesso; Parma si assoggettò. Mentre le cose erano a tal segno, i Milanesi scelsero per loro comandante Carlo Gonzaga (2). Allora il Piccinino, che forse aveva adocchiata

(I) Novariam, Parmam, Dertonam, Alexandriam, aliasque urbes ditioni suae subdit. - Decembr. Vita Franc. Sfortiae, Rer. Ital., tom. XX, column. 1041, cap. XXXVI. (Alla sua giurisdizione assoggettò Novara, Parma, Tortona, Alessandria ed altre città). (2) Il proclama è il seguente - (*) 1448 die XVI novembris - Li illustri signori capitanei et diffensori de la libertà de la illustre ed excelsa comunità di Milano. Considerate le summe et excelse virtute, probitate et magnanimitate et firma costantia d'animo, la experimentata et inconcussa fede et la longa experientia de le cose bellice et mestiero de arme, et lo braxado amore et admirabile devozione che porta et ha portato et demonstrato con admirabile opere et experientia infinite a questa illustre et excelsa comunità de Milano lo illustre et magnifico messere Carlo da Gonzaga cavallero et marchese etc. degnamente l'hanno constituto deputato, et electo capitano del popolo de questa illustre città, e de la libertate nostra gloriosa, acciocché possa provvedere et ordinare tutte quelle cose che siano a salute, tutela e conservazione del dicto populo et de la sancta libertà nostra. Il perché si ha facta publica crida per parte de li prefati signori capitani per notitia et mandamento a ciascheduno de quale grado, stato et conditione voglia se sia in la dicta città et borghi in li lochi consueti debia obedire a li commandamenti del prefato messere Carlo in tutte quelle cose che concernano il bene, l'honore, conservazione, tutela et augumento de la dicta comunità de Milano, et libertà, sotto pena pecuniaria et personale (a) usque ad ultimum suplitium inclusive, secondo si contiene ne la lettera del dicto capitaneo ad esso messere Carlo concessa per li prefati signori, (b) et ulterius, sotto pena all'arbitrio de li prefati signori capitanei a chi contrafarà a questa soa crida et intensione - (c) Joannes de Meltio prior - Raphael - Cridata ad scalas palatii et per loca solita adocchiata la signoria di Milano, vedendosi preferito il marchese Gonzaga, anzi che servire sotto di lui, passò ad offrirsi al conte Francesco Sforza. Egli era stato sempre, siccome dissi, emulo non solo, ma nemico e atroce nemico del conte; ciò nondimeno il conte lo accettò per suo generale, e gli accordò un onorevole stipendio. Due uomini volgarmente zelanti, certo Barile e certo Frasco, andavano animando il conte perché lo facesse uccidere, o per lo meno lo imprigionasse come irreconciliabile nemico, che, per necessità, simulava in quel momento, e che poi, al primo lampo di speranza di nuocergli, se gli sarebbe nuovamente avventato contro. Il conte Francesco rispose loro che vorrebbe piuttosto morire, anzi che violare la fede verso chi s'era abbandonato al suo potere. In fatti il Piccinino desertò poi con tremila cavalli e mille fanti; ma il tradimento non produsse altro effetto, che una macchia di più alla di lui fama, e un contraposto sempre più glorioso pel conte Francesco. Giorgio Lampugnano e Teodoro Bosso, grandi fautori dapprincipio per la libertà, s'erano cambiati ed erano diventati fautori del conte Sforza, o fosse ciò accaduto perché l'esperienza gli avesse convinti della impossibilità di adattare stabilmente alla nazione degradata un politico sistema, o fosse che la fortuna militare e le virtù grandi del conte, e le speranze sotto la sovranità di lui avessero mutate le loro opinioni. Carlo Gonzaga, che, sotto nome di capitano della repubblica, era animato dalla probabile ambizione di cingere la corona ducale di Milano, considerava i due primari partigiani dello Sforza come i primi nemici da spegnere. Intercettaronsi delle lettere in cifra, che Lampugnano e Bosso scrivevano al conte Francesco; s'interpretarono; si connobbe la trama di aprirgli le porte

solita civitatis per Bertolium de Forlivio trombettam, die Jovi 14 novembris, sono tubarum et pifferorum praemisso. Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 151 nell'archivio della città. della città, e si destinò di consegnarli come ribelli al supplizio. La difficultà consisteva nel trovare il modo per riuscirvi; poiché i magistrati non avevano forze tali da contenere questi nobili, e si ricorse alla insidia. Si elessero il Lampugnano e il Bosso come oratori di Milano all'imperatore, per implorare il suo aiuto nelle angustie nelle quali la città era posta. Essi cercavano di procrastinare la partenza per essere mal sicure le strade; ma Carlo Gonzaga seppe sì bene fingere, che, apprestata loro una buona scorta d'armati, vennero indotti a portarsi a Como, dove assicurògli che sarebbesi sborsata loro una conveniente somma di danaro per inoltrarsi nella Germania e fare la commissione. Adescati così, caddero nell'insidia. Usciti appena dalla città, furono costretti dai soldati del Gonzaga a passare a Monza, ove Giorgio Lampugnano venne subito decapitato, e la sua testa, portata a Milano, fu esposta al pubblico. Indi, a forza di torture, Teodoro Bosso in Monza fu costretto a nominare i complici, a' quali tutti fu troncata la testa alla piazza de' Mercanti, e furono Giacomo Bosso, Ambrogio Crivello, Giovanni Caimo, Marco Stampa, Giobbe Orombello e Florio da Castelnovato. Vitaliano Borromeo, il di cui nome pure trovavasi fra i proscritti, poté uscire dalla città e salvarsi. Oppressi per tal modo i primari del partito nobile, del quale poco si fidava il Gonzaga, e sollevata la plebe ad ambire il comando della Repubblica, il disordine e lo scompiglio divennero generali nell'interno della città. Artigiani, giornalieri, plebaglia la più sfrenata arrogantemente cominciarono a disporre e della vita e delle fortune altrui a loro piacimento. Giovanni da Ossona e Giovanni da Appiano si segnalarono colle tirannie, usurpandosi una dittatoria facoltà e il dominio della repubblica. Il Corio li chiama uomini iniquissimi e scellerati. Saccheggiare i granai de' proprietari delle terre; sforzare di notte con mano armata l'asilo delle private famiglie, rubando le gioie, gli argenti, e quanto v'era di meglio; costringere colla minaccia dell'oppressione i nobili agiati a manifestare e consegnare i denari che possedevano; quest'era la forma colla quale costoro percepivano il tributo col pretesto di mantenere l'armata a salvamento della Repubblica. Si pubblicò pena di morte a chiunque nominasse Francesco Sforza se non per dispregio, e si andava gridando che, piuttosto che a lui, si darebbero al Turco o al diavolo. I cittadini ragionevoli non ardivano nemmeno d'uscire dalle case loro sotto di un sì atroce governo. Per rimediare al disordine, Guarnerio Castiglione, Pietro Pusterla e Galeotto Toscano formarono un triumvirato, e si posero alla testa della città. Chiusero in carcere l'Ossona e l'Appiano. La plebaglia liberò dal carcere costoro; indi a furore insurgendo contro i triumviri, Galeotto Toscano venne scannato sulla piazza dei palazzo ducale; i due altri si sottrassero colla fuga. Altri furono trucidati, uomini di virtù e di merito. Le case de' migliori cittadini vennero saccheggiate: in somma la misera patria divenne orrendo teatro di sciagure. In mezzo alle vicende e alle angustie della città stavasene in Milano la vedova duchessa, sposa un tempo di Filippo Maria, la quale, cogliendo l'opportunità, sparse la speranza che il duca di Savoia, di lei padre, venisse a dare soccorso ai Milanesi. In fatti il duca Lodovico di Savoia si affacciò a Novara per discacciarne gli Sforzeschi, ma con esito infelice. Il Piccinino, allorché vide comparire questo nuovo nemico al conte Sforza abbandonollo, seco traendo, siccome vedemmo, tremila cavalli e mille fanti, e alcune terre occupò, sorprendendone gli Sforzeschi. Il conte allora spedì un suo inviato a Milano a fine di persuadere i rettori a non avventurare una città bella, grande e ricca alla inevitabile sciagura d'un assalto; ma l'inviato non poté parlare se non a quei capi che non volevano abbandonare la loro chimerica sovranità. Il marchese Gonzaga, vedendo però le forze del conte, la posizione decisiva di lui, che possedeva quasi tutte le città del contorno, l'ascendente del valor suo e della scienza militare, pensò ai casi propri, e a trarre qualche profitto dalla conciliazione, prima che la necessità lo costringesse a perdere la carica di capitano dei milanesi senza verun compenso. Trattò col conte Francesco; e fu convenuto ch'egli passerebbe allo stipendio del conte. I Milanesi, attorniati dallo Sforza, già padrone di Cremona, Parma, Piacenza, Pavia, Novara, Vigevano, e de' borghi e terre ancora più vicine; vedendosi abbandonati dal Gonzaga; non potendosi fidare sul Piccinino; nessuna speranza loro rimanendo nel duca di Savoia; in mezzo ai disordini, al saccheggio, alla licenza popolare; devastati, oppressi da' propri magistrati; non avendo un uomo solo di qualche merito nelle cariche, usurpate da' più violenti, e da chi meno conosceva l'arte di reggere una città, e meno forse degli altri si curava della felicità della patria; in tale misero stato si pensò da alcuni a conciliare la repubblica veneta colla nascente repubblica di Milano; il che, sebbene recentemente si foss'ella collegata col conte, non mancò del suo effetto. Stava domiciliato in Venezia Arrigo Panigarola, milanese, avendovi casa di negozio: costui venne incaricato d'invocare il senato veneto, amatore della libertà, in favore della patria. Fu ammesso il Panigarola a trattare. Egli con eloquenza mosse gli animi, descrivendo lo stato a cui erano ridotti i Milanesi, non per altro, se non perché ricusavano essi un giogo ingiusto e illegale, e volevano reggersi da sé con una libera costituzione. Turpe cosa, diss'egli, che i Veneziani, illustri difensori della libertà, si colleghino con un usurpatore, per porre i ceppi agl'Italiani, loro confratelli. Assicurò che se la Repubblica cessava di far loro guerra, se stendeva una mano adiutrice a questa nascente repubblica, dopo un tal beneficio, i Milanesi avrebbero amato e venerato i Veneziani come loro padri e Dei tutelari; che da una generazione all'altra ne sarebbe passata ai secoli la divozione e la gratitudine. Il discorso del Panigarola commosse gli animi; ma più ancora erano commosse le menti del senato dalle lettere che andava scrivendo il nobil uomo Marcello, il quale, per commissione della Repubblica, stava al fianco del conte. Testimonio della prudenza e del grand'animo del conte Sforza, ammiratore della imperturbabile fermezza di lui negli avvenimenti prosperi e avversi; vedendo la benevolenza somma che avevano per lui i soldati, non meno che i suoi sudditi, colpito continuamente dalla superiorità de' talenti suoi nel mestiere dell'armi, andava esso Marcello colle sue lettere intimorendo il senato, parendogli facil cosa che, poiché lo Sforza avesse acquistato Milano, pensasse poi a riunire le membra del ducato, e ricuperando Brescia, Vicenza e fors'anche Padova, ritornasse ad occupare quanto settantadue anni prima era soggetto al conte di Virtù, primo duca. Queste circostanze produssero l'effetto che: primieramente, i Veneziani trascurarono di spedire i convenuti soccorsi al conte; e gli stipendiari loro, che servivano nell'armata di lui, cambiando costume, più non volevano concorrere od esporsi; indi, senz'altro, abbandonarono il campo. Non faceva mestieri di tanto, perché il conte s'avvedesse del cambiamento de' Veneziani; i quali, per mezzo di Pasquale Malipiero, fecergli noto avere la loro repubblica fatta la pace coi Milanesi. Le condizioni erano, che tutto lo spazio compreso fra l'Adda, il Ticino e il Po rimanesse della repubblica di Milano, trattane Pavia, che si sarebbe lasciata al conte; e il rimanente dello Stato posseduto dal duca Filippo Maria passasse al conte Francesco Sforza. I Veneziani poi, oltre Brescia, Bergamo e Crema, rimanevano padroni di Triviglio, Caravaggio, Rivolta e altre terre del ducato. Un tal partito non poteva convenire al conte, giacché la maggior parte del ducato e la capitale medesima venivagli sottratta, e se gli assegnava una sovranità di tante membra quasi staccate, estesa per lungo spazio, difficile a custodire. Si rivolse egli adunque ad accomodarsi col duca di Savoia, e colla cessione di alcune terre sull'Alessandrino e sul Novarese, si assicurò da quella parte. Indi, rivolgendosi ai Milanesi e Veneti, si pose a disputare con essi il ducato di Milano. Io non entrerò a descrivere i fatti d'arme; inutile materia per uno storico, a cui preme di conoscere lo spirito dei tempi, l'indole degli uomini, lo stato della società, e non di stendere i materiali per una tattica di poco profitto, atteso il cambiamento accaduto nella maniera di guerreggiate: basta dire che il conte Sforza in ogni parte si presentò abilissimo generale nel postare il suo campo, nel prevenire il nemico, nelle marce giudiziosamente condotte, nel cogliere il momento per attaccare, nel dirigere la battaglia, nel provvedere di tutto l'armata propria e impedire la sussistenza al nemico, nel conservare la militar disciplina, risparmiare quanto era possibile la miseria dei popoli, e nel tempo stesso conservarsi l'amore de' soldati, che giungeva sino all'entusiasmo. (1449) Con tai superiori talenti, con virtù tale ei circondò sì bene la città di Milano, che in breve tempo si manifestò lo squallore della carestia. Egli non volle spargere il sangue de' cittadini, né diroccare con macchine Milano; ma costringerla per la fame a darsi a lui. In somma egli concepì quel progetto medesimo sopra Milano, che il grande Enrico IV fece poi con Parigi; e molta somiglianza troverebbesi fra l'uno e l'altro di questi grandi uomini, se venissero al paragone. Le traversie che l'uno e l'altro dovettero soffrire ne' primi anni; i pericoli della vita che corsero per le insidie delle corti, nelle quali dovevano regnare poi; l'umanità, la popolarità, il valore, la perizia militare dell'uno e dell'altro sono degne di confronto. A Francesco Sforza mancò un più grande teatro sul quale mostrarsi, e spettatori più illuminati. Enrico ebbe per campo il regno di Francia, e per testimonio un secolo più colto (I). La carestia fece nascere un generale disordine. Non v'era più chi volesse ubbidire. Quei che si erano arrogate le magistrature e il comando della città, erano considerati come buffoni del popolo. Il consiglio generale era stato composto da essi, scegliendo maliziosamente ad arte uomini

(I) In Milano le cose erano in cattivo stato. Non si può meglio conoscerle, che dalle carte autentiche di quei tempi; e tale è la lettera di Giovanni Teruffino ai signori Rafaele e Barnaba Adorni, genovesi, che ritrovasi nell'archivio di città - Codice C, fogl. 69. - Essa così dice: - (a) Magnifici Majores honorandissim.i, - Quamvis altro di nuovo non me occorra, tamen acciò non vi maravigliate che niente scriva, scrivarò poco da poi le altre lettere a voi scritte. Io non sono andato dalla excellentia del conte, tum peroché essa se lungo da qui, tum per la novitate de Francesco Piccinino occorse, ma avuto Maragnano, che spero con la gratia de Dio sera infra pochi dì, delibero di andare a la excellentia sua, tam per lo compromesso de Zenovesi ad Galeotto, quam per altro, e sono certo che la disposizione sua sia eadem. Io desidero che si manda ad executione lo facto de Bosco, secundo che altra volta ne dicesti. Li facti di Milano breviter hanno questa conditione. Frumento ghe pochissimo et hanno vetato quelli signori che pane di frumento non se venda, perciocché quello poco frumento lo quale gli è restato voleno per li soldati, ma non gli può bastare per dexe; di segale e miglio hanno per tutto il mese che viene. Dapoi sette dì che Francesco Piccinino e lo fratello andero a Milano non gli hanno dato dinari, eccetto che due mila ducati de molti promissi. Appropinquandosi apresso Milano la excellentia del conte come se bene, havuto Marliano, verosimile è che Milano non se tegnerà quindici dì per mancamento e de victuaglie, et de dinari, et de strame, e per infinita gente malcontenta. Dio governa la cosa in modo che questa nostra provincia habbia quiete. Bene valete - (b) Dat. Papiae, die XXVIII aprilis 1449. - Vester famulus Teruffinus - a tergo: Magnificis Majoribus honorandis Dominis Raphaeli et Barnabae Adornis et Petro Spinulae etc. inetti o del partito. Per dare apparenza al popolo che si vegliava al bene della città, i rettori fecero radunare il consiglio generale nella demolita chiesa di Santa Maria della Scala. Pietro Cotta e Cristoforo Pagani erano sulla strada in quel contorno: cominciarono questi a mormorare cogli astanti sulla spensierata condotta de' rettori e sulla dappocaggine de' consiglieri. A misura che passavano i cittadini, si trattenevano; e cominciò a formarsi un'unione di popolari malcontenti. Ben tosto corse il grido per i quartieri della città, come vicino alla Scala vi fosse unione di malcontenti, e da ogni parte concorsero nuovi popolari, in modo che i rettori e consiglieri si trovavano assai inquieti. Laonde spedirono Lampugnino da Birago, loro collega, per aringare il popolo, e, colle buone, pacificarlo, promettendo ogni bene. Ma Lampugnino ebbe pena a salvarsi. Comparve il capitano di Giustizia Domenico da Pesare, scortato da buon numero di cavalleria, e facendo mostrare al popolo i capestri; ma il popolo li pose tutti in fuga. La moltitudine de' malcontenti si creò due capi: Gaspare da Vimercato e il sopranominato Pietro Cotta. Altri signori spalleggiarono i malcontenti, come Giovanni Stampa, Francesco da Triulzio, Cristoforo Pagano suddetto, Marchionne da Marliano. Vi fu del sangue sparso; vennero espulsi i magistrati, occupato il palazzo, e distrutta l'organizzazione civile; se ne formò una tumultuariamente. I primarii cittadini, il giorno seguente, si radunarono nella stessa chiesa della Scala per deliberare qual partito si dovesse prendere. Alcuni volevano rimaner liberi e non ubbidire a verun principe. Altri, conoscendo l'impossibilità di formare una repubblica in mezzo a tanti e sì appassionati partiti, in una città nella quale le voci di patria e di ben pubblico non bastavano ad ammorzate le private mire, volevano un principe. Tutti però concordemente ricusavano i Veneziani. Si proponeva dagli uni il papa; da altri il re Alfonso; altri suggeriva il duca di Savoia; Gasparo da Vimercato propose Casa de' Signori Conti Marliani d'Architettura del tempo di Lodovico il Moro, venne distrutta nel 1782 per adattarvi il Monte Camerale di S. Teresa. il conte Francesco Sforza. Egli nel suo discorso fece vedere che la fame minacciava a giorni la morte; che né il papa né il re Alfonso né il duca di Savoia avevano mezzi per salvarci al momento, come chiedeva l'urgente necessità; che non rimaneva altro partito da scegliere che o i Veneziani o il conte. Sudditi de' Veneziani, non potevamo aspettarci se non che il destino d'una città secondaria e provinciale, sotto una dominazione che avrebbe temuta la nostra prosperità. Sotto del conte, valoroso, umano, benefico, nostro concittadino per la moglie, non dovevamo aspettarci un signore, ma un padre saggio, provvido, amoroso, da cui si sarebbe posto rimedio a' nostri mali. (1450) Il partito per il conte prevalse per acclamazione, e si spedì tosto ad avvisarlo (I). Due mesi prima che la città si rendesse allo Sforza, si pubblicò in Milano un proclama, col premio di diecimila zecchini a chi avesse ammazzato il conte Sforza, o mortalmente ferito (2): Così gl'imbecilli nostri legislatori si mostravano

(I) Sei giorni prima che Milano accogliesse Francesco Sforza, Gaspare Vimercato uscissene dalla città con apparenza di volersi abboccare con Pandolfo Malatesta, comandante delle truppe di Venezia, e probabilmente concertò in vece la dedizione al conte. Il passaporto che gli si consegnò trovasi nel codice C, foglio 135 tergo, nell'archivio di città, e dice: - Per illustres dominos Capitaneos et defensores libertatis Illustris et Excelsae Comunitatis Mediolani concessa est licentia strenuo Gaspari de Vimercato exeundi hanc Civitatem cum famulis suis ad numerum usque octo, suisque valixiis, bulgis, rebus et bonis, et hoc tute, libere et impune, omnique reali et personali impedimento prorsus amoto, dummodo se non conferat ad partes hostiles, et vadat ad illustrem dominum Sigismundum Pandulphum de Malatestis Ariminensem ac illustrissimi dominii Venetorum etc. Capitaneum Generalem. Ambrosius Prior - Antonius, MCCCCL, dei XX februarii. (2) 1449, die 27 mensis decembris. (1449, il dì 27 del mese di dicembre.) Al nome del Omnipotente et Eterno Dio et del gloriosissimo nostro patrone sancto insensibili alla virtù, ignoranti della ragion delle genti, indegni per ogni modo di comandare agli uomini. Il conte Francesco Sforza teneva in tanta disciplina le sue truppe, che vietò loro di non offendere per niun modo le terre o le persone de' Milanesi, come si scorge dagli archivi dì città (I). Ma i nostri capitani e difensori, l'istesse armi che avean rivolte contro dello Sforza, le adoperavano ancora verso altri. Leggesi ne' registri di città la taglia di duemila

Ambrosio deliberando li illustri signori capitanei et difensori della libertate che ciascuno quale metta la persona sua a pericolo per fare uno relevato servitio a tutta questa nostra patria, la quale è indegnamente afflicta da li nostri inimici, ne abbia merito e premio qual sia certo grande et honorevole, fanno noto a ciascuna persona di qualunque stato, grado et conditione se sia, che chi ammazzarà il perfido conte Francesco Sforza, overo ferirà mortalmente, guadagnarà ducati dece millia d'oro, e dece millia in possessione, quali instantemente gli serano numerati contanti, et dati; et se quella persona sera rebelle o bandezata sarà cavata de ribellione et de bando, et restituiti i soy beni, et havera li dicti premii, et se quella persona sera squadrero o conductero de gente d'arme o di majore conditione, ultra li dicti premii, gli sera dupplicata la conducta. Et sel serà soldato di menore conditione, ultra li dicti premii, gli sera dupplicata la conducta ut supra. Et appresso a questo se la cadesse alcuno mandare ad executione alcuni de li sopradicti partiti et per quello venisse ad esser morto, serano dati li dicti premii a suoi filioli o a suoi heredi indubitatamente, li quali seranno sempre ben veduti et ben tractati da questa prefata comunitate. Et sel fosse persona alcuna quale dubitasse de conseguire li dicti premii, o venga, o manda uno suo fidato secretamente da li prefati signori capitanei, gli sera facta tal chiarezza et segurezza chel sera ben certo e securo de conseguire li dicti premii, rimossa ogni minima dubitazione. - Petrus Prior - Cridata ad scalas palatii et super platea arenghi per Antonium de Arezio Tubetam, die sabbati 27 suprascripti mensis decembris, sono tubarum praemisso. (Pietro Priore. - Promulgata alle scale dei palazzo, e sopra la piazza dell'arringa da Antonio di Arezzo trombetta, il giorno di sabbato 27 del soprascritto mese di dicembre, premesso il suono delle trombe.) Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 121 archivio civico.

(I) Vol. C, gride dal 1447 al 1450, foglio 107. duemila ducati d'oro a chi condurrà a Milano Antonio e Ugolino fratelli Crivelli, i quali avevano ceduta la fortezza di Pizzighettone al conte Sforza (I). Leggesi la taglia di mille ducati a chi consegnerà Francesco Borro, che aveva ceduta allo Sforza la fortezza di Lodi.

Era circondata la città di Milano dai soldati dello Sforza, e custodita con tanta esattezza, che egli era impossibile di ricevere alimento veruno. Un moggio di grano si vendeva a venti zecchini S'eran vendute pubblicamente e mangiate le carni dei cavalli, degli asini, de' cani, de' gatti e persino de' sorci. Morivano sulle pubbliche strade alcuni cittadini di fame. In queste estremità, cioè tre giorni prima che Francesco Sforza diventasse padrone di Milano, i capitani e difensori della libertà pubblicarono un editto per la pudicizia e morigeratezza pubblica (2).

(I) Codice C, foglio 115. (2) 1450, die 23 februarii - (1450, il dì 23 febbraio.) Se in ogni tempo debbe cadauno voglia essere chiamato fidele e devoto cristiano guardarse da fare contro li comandamenti del nostro Signore Dio, molto più è necessario emendare la vita nel tempo della tribulazione et afflictione per impetrare gratia et misericordia da la divina bontà. Intendando aduncha li illustri signori capitanei et deffensori de la libertà nostra prohibire quanto sia possibile, etiam mediante le pene et punitione temporale, la disonestà et detestabile vita de quelli tengano femine e soa posta, et etiandio alcuni quali non temendo il juditio divino, presumano biastemare Dio e la sua gloriosa Madre et li suoi sancti e sancte, li quali duy gravissimi peccati grandemente et pubblicamente si commettono in questa città et in li borghi soi, non senza evidentissimo pericolo de provocare majore ira de Dio contra de noi tutti, denno fare crida et bando che niuno de qualuncha stato, grado, o conditione voglia se sia dal majore al più minimo ardisca ne presuma in questa città borghi et jurisdictione soa tenire in casa sua ne fora de casa femine o sia concubina a soa posta per qualuncha modo se sia, imo cadauno l'havesse o tenesse fra tri dì proximi li debbia avere cazate da se, et esse femine et concubine debiano levarsi et aut spazare la Oltre il Corio, che minutamente descrive la desolazione di que' tempi, e la miseria di quel governo, anche il Decembrio ce ne dà un'idea colle parole seguenti: - Mediolanensium res in deterius labi caepere. Nam duce destituti,

città, aut redurse in loco honesto et tale se intenda che facciano bona et correcta vita, sotto pena irremissibile de fiorini venticinque a cadun uomo quale sera trovato contrafare, tante volte da essere pagati, quante volte contrafarà, et a cadauna femina contrafaciente da essere scovata pubblicamente per tutta la città, e poi reducta al publico loco, o cazata fora de la città. Et similmente niuno, come è dicto, ardisca o presuma biastemare Dio, ne la sua gloriosissima Madre, ni etiandio sancto Ambrosio, nostro protectore et patrone, ni alcuno sancto o sancta sotto pena irremissibile, ultra le altre imposte altre volte, de fiorini vinti per cadauna volta a chi contrafarà, et a chi non potrà pagare o non pagarà la dicta pena infra tre dì sotto pena di sguasi tri di corda, vollero ancora et chiarisseno li prefati signori capitanei che cadauno non solo possa, ma etiandio debba accusare qualunque contrafarà li predicti duy casi; accusando, guadagni il quarto della dicta pena pecuniaria, l'altro quarto sia delli poveri de Cristo et la mità sia della comunità, ma chi non accuserà, et sappia chi abbia contrafacto in tenire femine et biastemare come è dicto, cada in pena per cadauna volta de fiorini cinque et cadauno possa questi altri accusare et della pena si faccia come è dicto, di sopra. Ancora perché li prefati signori hanno ordinato et comandato che niuno debba zugare a zugo de dadi, tavole et cartexelle, ne lassare zugare in casa sua sotto la pena che contengono le cride fatte sopra di ciò; Adesso chiariscono et volleno che cadauno non solo possa, ma sia obbligato ad accusare qualunca contrafarà, ed accusando guadagni il quarto della dicta pena pecuniaria et de li altri tri quarti se dispona et faccia come è dicto di sopra; ma non accusando et sappiando chi vi abbia contrafacto, cada in pena caduna volta del quarto quale devria guadagnare, et cadauno possa questi altri accusare et della pena se faccia ut supra - Ambrosius Prior - Marcolinus - Cridata ad scalas palatii et per loca solita civitatis per Matteum de Arezio tubetam, die lunae XXIII febbruarii suprascripti - (Ambrogio Priore - Marcolino - Promulgata alle scale del palazzo, e per i luoghi soliti della città da Matteo di Arezzo trombetta, il giorno di lunedì XXIII di febbraio soprascritto.) Gride dal 1447 al 1450, vol. C, foglio 136 archivio civico. dissidentibus inter se civibus, deteriora prioribus in dies pullulabant. Non pubblica numera a populo rite gubernari; non divites onera conferre; non jussa quisquam exsequi poterat; sed veluti tempestate disjecta classis, inundante pelago, hinc inde ferebatur. Si qua in residuis militibus spes affulserat, Caroli Gonzagae ambitione turbabatur, qui ad populi dominatum improbe aspirans, longa suspicione cuncta detinebat. Qua ex causa desperatione et pavore squallebant omnia. Conjurationes ad haec a quibusdam perpetratae majorem adhuc sollicitudinem singulis injecerant. Capti siquidem plerique nobilissimi Cives, et supplicio affecti sunt: Sed nec ullorum caede mali atrocitas leniri poterat... Boni praeterea, officiis exuti, nec sibi aut aliis prodesse utiles, silentio languebant; plebs vero, inter spem metumque conjecta, onus tolerabat, dominatus dumtaxat nomine exsultans (I). Questo veramente è uno de' tratti più compassionevoli e umilianti della nostra storia: vorrei poterla nobilitare esponendola; ma lo storico consecrato all'augusta verità, benché contro sua voglia, la scrive. Qual differenza mai fra Milano assediata dall'imperator Federico, e Milano bloccata da Francesco Sforza! Contro l'imperatore e contro tutt'i principi della Germania Milano si difende. Escono con valore i Milanesi dalle loro mura; si cimentano; piegano alfine traditi, soverchiati; e terminano con gloria, assicurando lo Stato della loro limitata libertà. Contro lo Sforza non v'è un tratto solo di vigore, non un lampo di civile prudenza. Uno spirito, ora cenobitico, ora insidiosamente timido e atroce, detta le leggi, dirige le azioni. Erano i nostri, tre secoli prima, agresti, rozzi, ma generosi, guerrieri e affezionati alla patria. I loro discendenti, degradati nella servitù di cattivi principi, sembrano un'altra nazione; e perciò il Secretario Fiorentino ebbe a dire: - Pertanto dico che nessuno accidente (benché grave e violento) potrebbe

(I). Vita Franc. Sfortiae, cap. XXXVII, Rer. Ital., tom. XX, col. 1041. ridurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti, che volendosi ridurre Milano alla libertà non potette e non seppe mantenerla(I). La città, colla mediazione di Gaspare da Vimercato, si rese a Francesco Sforza dopo trenta mesi e mezzo di anarchia, ossia d'un atroce disordine chiamato Repubblica. Le monete d'oro e d'argento battute in Milano in que' tempi hanno da una parte sant'Ambrogio, e dall'altra la Croce e la lettera M., colla leggenda Comunitas Mediolani, e lo stemma della città. Francesco Sforza entrò in Milano il giorno 26 di febbraio del 1450 (2). Coloro che si lagnano de' tempi presenti, ed esaltano la felicità de' maggiori, torno a dirlo e lo ridirò pure altra volta, non sanno la storia.

(I) Macchiavelli, sulla prima Deca di Tit. Liv., libr. I, cap. XVII, p. 87. (2) Nel fabbricar la casa de' signori Delfinoni vicino alla colonna di porta Nuova scavossi nel 1774 un sasso, su cui leggesi: Franciscus Sfortia Vicecomes, dux, et animo invictus et corpore, anno MCCCCL ad IIII Calend. Martias hora XX dominio urbis Mediolani potitus. CAPO DECIMOSETTIMO.

Francesco Primo Sforza Duca di Milano

Appena il conte ebbe notizia che per quasi unanime voto degli affamati cittadini milanesi egli veniva proclamato signor loro e duca, volle cogliere il momento e senza dimora alcuna entrare nella città; giacché l'indugio non poteva essere di utilità se non ai Veneziani, ai quali fors'anco, per l'instabilità della moltitudine, avrebbero potuto ricorrere, qualora avesse egli tardato a soccorrerli di vittovaglia nella estremità della fame a cui erano ridotti. Postò egli adunque di contro alle schiere venete un corpo di armati valevole a contenerle, e immediatamente egli da Vimercato incamminossi a Milano alla testa d'un altro corpo di fedeli soldati, i quali, oltre le solite armi, vennero caricati sulle spalle e nelle tasche di quanto pane ciascuno poteva portare, con ordine di lasciarsi saccheggiare allegramente dalle affamate turbe milanesi. La strada da Vimercato a Milano era popolata da infinita turba, dice il Corio, singolarmente nelle dieci miglia vicine alla città. Fu uno spettacolo degno di un cuore sensibile quella pompa, nella quale non già primeggiava il fasto o l'alterigia d'un irritato vincitore, ma bensì l'affabile umanità di Francesco Sforza, che amichevolmente accoglieva le grida di allegrezza del popolo, nominava e salutava le conoscenze che aveva fatte sino da' suoi primi anni in questa quasi sua patria, ordinava ai valorosi soldati soldati suoi di abbandonare ogni contegno militare e imponente, e fatti concittadini, di lasciarsi svaligiare dall'affamata moltitudine, che avidamente si satollava col loro pane; e fra le consolanti risa che faceva nascere l'inusitata mischia, fra le grida gioiose de' popoli che andavano esclamando: haec est dies quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea , andò accostandosi alla città e vi entrò per Porta Nuova. Malgrado lo sterminato numero de' cittadini uscitogli incontro, dice il Corio, benché grande era stata la moltitudine che di fuori l'haveva salutato, molto maggiore era quella di dentro l'aspectava. Ognuno procurava di giungere a toccar la mano al conte nuovo duca; e tanta e tanto strettamente la moltitudine lo circondava, che il cavallo di lui parve portato sulle spalle de' cittadini. Andossene egli direttamente al Duomo per rendere alla Divinità il primo omaggio d'un avvenimento sì fausto per lui; ma non fu possibile ch'egli scendesse dal cavallo, e dovette così entrarvi e così orare: tanta era la immensità della turba e tanto era l'entusiasmo de' nuovi suoi sudditi! Dispose poscia il nuovo duca che da Pavia, da Cremona e da altri luoghi venisse portato quanto occorreva al vitto e ai comodi, e in tre giorni l'abbondanza comparve nella città. Tutto venne ordinato dal duca con paterna previdenza: pose al governo della città uomini probi e illuminati; intimò la pace, la sicurezza, il gaudio a ciascun Milanese; distribuì ai poveri larghi soccorsi di frumento; poi tornò al campo contro i Veneziani, i quali si ritirarono a quartiere, e così fece egli pure de' suoi. Ricevette l'omaggio di Bellinzona, Como e Monza, suddite de' Milanesi. Spedì i suoi ministri alle corti estere per dar loro avviso della nuova sua condizione. L'imperatore Federico III e Carlo re di Francia ricusarono di trattarlo qual duca, perché il primo non doveva riconoscere rivestito di quella dignità se non un discendente maschio legittimo de' Visconti investiti; e l'altro pretendeva dovuto il ducato ai discendenti della principessa Valentina. Gli altri principi lo riconobbero. Gli uomini più turbolenti e sediziosi, quei che avevano tiranneggiato il popolo nel tempo dell'interregno, vennero con umanità relegati nelle città vicine. Non voleva il nuovo duca sgomentare i sudditi dominando sopra di essi con un potere illimitato, né che essi lo considerassero come un dispotico conquistatore. Sarebbe stato troppo repentino il passaggio dalla licenza alla servitù, e questo violento cambiamento avrebbe potuto facilmente cagionar poi de' pentimenti e de' moti nel popolo; nel qual caso un principe vi perde sempre, quand'anche giunga colla forza a reprimere ed a punire. Ciò conosceva ottimamente il saggio duca; e perciò volle che alla nuova dominazione di lui servisse di base un contratto, e che i sudditi lo considerassero sovrano e non despota. Questa prudente politica diresse il solenne contratto di dedizione, celebrato il giorno 3 di marzo 1450, nella villa del conte Giovanni Corio in Vimercato, essendone rogato il notaio Damiano Marliano; in vigore del qual atto venne concordato che le gabelle sarebbero state moderate, riducendosi la macina a soldi 12, il dazio del vino a soldi 4, e stabilendosi che non s'imporrebbero in avvenire nuove gabelle, anzi si abolirebbe quella del fieno; che il nuovo duca avrebbe fatto residenza in Milano, almeno per due terze parti dell'anno; che i tribunali avrebbero sempre in Milano la loro sede; che il prezzo del sale sarebbe stato lire 3 per ogni staio; che non si sarebbe imposto verun carico straordinario, eccetto quello di somministrar carri e guastatori per gli usi militari; che il solo podestà di Milano sarebbe stato forestiere, ma tutti gli altri uffici sarebbero confidati a' Milanesi; e alla vacanza di ogni carica la città avrebbe presentata la nomina di sei, fra i quali il duca avrebbe fatto la scelta, salvo però l'arbitrio a lui, in casi speciali, di scegliere anche altrimenti; che il duca avrebbe mantenuta la fede ai creditori di Filippo Maria; che si osserverebbero gli statuti civili e criminali e que' de' mercanti; che non si sarebbero impetrati privilegi dal papa né dall'imperatore senza il beneplacito del duca; che i soldati a piedi, a cavallo, saccomanni, uomini d'armi sarebbero partiti dalla città, dovendo essa restare immune dall'alloggiamento militare, eccettuati i contestabili alle porte; il duca però in casi speciali potrà deviare da questa regola. Questi sono i più importanti articoli del solenne contratto (I): indi il nuovo duca fece il pubblico ingresso dalla porta Ticinese, il giorno 25 marzo 1450 (2). Il nuovo duca era colla sua sposa Bianca Maria e col primogenito Galeazzo Maria. Un numero grande di matrone andarongli incontro pomposamente. Gli oratori delle città suddite, i nobili milanesi tutti sfoggiarono per rendere magnifico quell'ingresso. Erasi preparato un maestoso carro e un baldacchino; ma un tal fasto non piacque a Francesco Sforza, che amava la gloria e non le apparenze teatrali; e, ricusandolo, disse: ch'egli in quell'ingresso s'incamminava al tempio per rendere omaggio al padrone dell'universo, avanti del quale gli uomini sono tutti eguali. Cavalcò egli adunque. La folla immensa del popolo, i ricchi arredi de' nobili, la magnifica parata degli uomini d'armi che precedevano, tutti coperti d'usberghi lucidissimi, il lusso de' loro illustri condottieri, tutto ciò formò uno spettacolo sorprendente. La cerimonia si fece al Duomo,

(I) All'archivio pubblico può esaminarsene da chi lo voglia, l'originale. (2) Osservando come tutti i solenni ingressi e dei duchi e dei governatori e degli arcivescovi si fecero sempre dalla porta Ticinese, mi sembra probabile che quest'usanza discenda sino dai tempi de' Longobardi, quando Pavia fu la capitale e la città regia; e forse l'arcivescovo, dopo d'essere stato riconosciuto dal sovrano o suo luogotenente in Pavia, di là spiccavasi per la pubblica cerimonia. Quando s'assoggettò la chiesa milanese a Roma, e l'elezione e consacrazione si trasferirono in Roma, tutto cambiossi, fuori che questa avvertenza non s'ebbe di farlo entrare per la porta Romana. Duomo, ove smontato, il duca si pose una candida sopraveste: indi colle solennità de' sacri riti la duchessa e il duca vennero ornati col manto ducale fra gli applausi e i viva del popolo. Poi dagli eletti di ciascun quartiere ricevette il giuramento di fedeltà. Essi a lui consegnarono lo scettro, la spada, il vessillo, il sigillo ducale e le chiavi della città. Fatto ciò, il duca fece proclamare conte di Pavia il primogenito Galeazzo. Terminossi per tal modo la funzione in Duomo, seguendosi il rito de' duchi antecessori. Indi per cinque giorni volle il duca che la città vivesse in mezzo alle feste e alle allegrie. Danze, giostre, tornei di varie sorta, musica, spettacoli teatrali, lautissimi pranzi, tutto venne così giudiziosamente distribuito e con tal previdenza ed ordine eseguito, che si mostrò il duca la delizia della buona società e l'anima dei divertimenti. Egli creò molti cavalieri, scegliendo quei che più meritavano quest'onore, e tutti li regalò nobilmente. In somma Francesco Sforza, invincibile alla testa di un'armata, si mostrò il più giudizioso direttore delle feste, come si fece conoscere il principe più umano, giusto e benefico, reggendo in pace lo Stato. Il papa Niccolò V, i Fiorentini, i Genovesi, i Lucchesi, gli Anconitani, i Sanesi, e varii altri Stati e principi d'Italia spedirono tosto i loro ministri per una onorevole ricognizione al nuovo duca. Il primo pensiero di questo principe fu di rialzare il castello di porta Giovia, demolito due anni prima, siccome dissi. Questa fortezza, fabbricata da Galeazzo II, era necessaria per la sicurezza del duca, il quale in una città piena di partiti, recentemente riscaldata dal nome di libertà, rendeva sempre pericolosa la residenza del nuovo principe, sprovveduto in fatti di legali fondamenti per succedere nel ducato. Ma nemmeno conveniva alla prudente accortezza del nuovo signore di palesare la inquietudine sua, né di lasciar conoscere al popolo apertamente una tale diffidenza; essendo cosa naturale alla moltitudine il non accorgersi delle forze proprie, se non pel timore altrui. Propose egli adunque alla città, come ostinandosi tuttavia i Veneziani nella guerra contro di lui e contro lo Stato, trovandosi Milano allora mal difesa dalle mura della circonvallazione, non convenendo di acquartierare l'armata nella città, resa esente dall'alloggio militare, non eravi modo alcuno di preservare la metropoli dai pericoli d'un assalto, se non ricoverando in luogo munito e forte un corpo di armati, in guisa da allontanare il nemico da simili tentativi. Propose quindi alla deliberazione della città medesima il determinare, se dovesse per tutela di lei riedificarsi il castello, assicurando nel tempo medesimo la città che vi sarebbe stato collocato per castellano non mai altri che un nobile milanese per tutti i tempi a venire. Questa moderazione di cercare l'assenso per una cosa ch'egli avrebbe potuto da se medesimo fare immediatamente; le maniere umanissime e nobilissime del duca; tante virtù militari e civili riunite in questo grand'uomo impegnarono i primari cittadini ad ottenergli la pubblica acclamazione per rialzare la demolita fortezza. Si fecero le adunanze del popolo in ciascuna parrocchia per deliberare su tale richiesta. La storia ci ha conservato un discorso tenuto in tale occasione da Giorgio Piatto, allora celebre giureconsulto. Egli era nell'adunanza della parrocchia di San Giorgio al Palazzo (I). Questi parlò così: «Se il virtuosissimo principe Francesco Sforza fosse immortale, come immortale ne sarà la sua gloria, io il primo fra i cittadini milanesi vorrei caricare sulle mie spalle le pietre e portarle al sito ove si propone d'innalzare il castello. Una fortezza sotto il felice governo d'un così provvido sovrano serve a ornamento della città, a tutela e sicurezza di ciascuno di noi. Ma, cittadini miei, verrà

(I) In quei contorni trovasi una via che oggidì pure conserva il nome de' Piatti. quel giorno in cui il nobilissimo duca Francesco piegherà sotto la universal condizione. I sovrani sono soggetti al destino dell'umanità; muoiono, e dopo un principe umano, benefico, provvido, siamo noi certi che vi succeda un altro principe erede di sue virtù? Una ròcca inespugnabile, che, torreggiando sulle case nostre, può incendiarle e distruggerle, in potere di un malvagio principe, lo rende arbitro assoluto di noi, di tutto il nostro. Appiattato in quel forte qual limite aver potranno le violenze, le estorsioni, la tirannia? Se innalziamo quella fortezza, noi imponiamo al collo de' nostri discendenti, come a tanti buoi, il giogo della servitù. I nostri figli malediranno un giorno noi, la nostra spensieratezza, la cecità nostra. Noi decretiamo la sciagura della patria, e rendiamo i nomi nostri esecrandi a' nostri discendenti. Che bisogno ha mai Francesco Sforza di una fortezza? I nostri cuori, i nostri petti gli offrono una più grande, più solida munizione di qualunque altra. Egli non ha bisogno di castelli per difendere la signoria. Infin che un solo di noi sarà in vita, combatterà contro chi tentasse di frastornarla. Cittadini miei, badatemi, parlo per me, parlo per ciascuno di voi, uniformatevi al mio suggerimento, e siate certi che per tal modo avremo sempre una delle due buone, o un principe retto o la libertà. I nostri nipoti ci benediranno, e vivranno lieti e felici, siccome lo siamo ora noi sotto il governo del clementissimo duca». Così parlò Giorgio Piatto, e non persuase veruno. Egli era uno de' pochi cittadini che avrebbero potuto reggere lo Stato nel tempo della repubblica, e che giacquero oscuri e inoperosi. L'unanime consenso della città concluse di pregare il duca di voler riedificare il castello, quale internamente scorgesi anco oggidì, cioè un vasto edificio quadrato con quattro poderose torri, ossia torrioni agli angoli; (I)

(I) I due soli però imminenti alla città furono perfezionati. fortissimi ripari che, sostenendo grossi pezzi di artiglieria, possono far volare le palle al disopra della città. Questo rialzamento della fortezza costò più di un milione di ducati, ossia di zecchini. Il regno di Francesco Sforza fu breve, poiché durò sedici anni e non più. Egli non visse mai in pace, né poté pienamente rivolger l'animo alla parte del legislatore ed alla politica della nazione. Sarebbe troppo noioso il racconto delle minute azioni di queste guerre. Sopra tutto i Veneziani continuarono a muover le armi contro del nuovo duca. (1451) Pretendeva egli Bergamo e Brescia, possedute dai Visconti, e per solo diritto di conquista usurpate durante il dominio di Filippo Maria. Pretendeva Verona e Vicenza, come il retaggio della casa Scaligera, terminata nell'ava di sua moglie, cioè nella duchessa Catterina. Per lo contrario i Veneziani pretendevano di portare il loro confine all'Adda. Sedicimila cavalieri stavano in campo per la repubblica di Venezia, e diciottomila ne presentava all'opposto il duca Francesco. (1452) I Fiorentini erano collegati col duca, i Savoiardi colla repubblica veneta. Le ostilità non cessarono ancora per quattro anni da quella parte. (1453) Finalmente, innoltrandosi i Turchi, padroni di Costantinopoli, verso la Grecia e verso la Dalmazia, i Veneziani ricorsero alla mediazione di papa Niccolò V, affine di ottenere la pace col duca, onde poter rivolgere tutte le forze in loro difesa contro del Turco; (1454) il duca piegossi ai paterni uffici del sommo sacerdote, e, coll'opera del nobil uomo Paolo Balbo, ai 9 d'aprile del 1454, fu sottoscritta la pace di Lodi, celebre per noi, poiché oltre le ragioni della casa della Scala, alle quali rinunziò il duca, cedette pure i suoi diritti sopra Brescia e sopra Bergamo, anzi abdicò dal ducato la città di Crema e suo territorio, trasferendone il dominio nella repubblica veneta, che la possedette dappoi. Alle guerre in seguito che il duca ebbe co' Savoiardi, si pose termine con una pace che fissò il fiume Sesia per limite ai due Stati. Le città che formarono lo Stato sotto il dominio del conte Francesco primo duca Sforza, e quarto duca di Milano, furono quindici, cioè Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Novara, Alessandria, Tortona, Valenza, Bobbio, Piacenza, Parma, Vigevano, Genova e Savona. Queste due ultime città le acquistò lo Sforza nel 1464 per la cessione che gliene fece Luigi re di Francia; il che non bastando, colle armi sottomise Genova al suo potere. Come poi il re di Francia, Luigi XI avesse fatta questa cessione, dopo che il di lui padre Carlo VII aveva ricusato di riconoscerlo per duca, e come a questo segno pregiasse egli l'aiuto e l'amicizia dello Sforza, ce lo insegnano più autori. La Francia era immersa nella guerra civile; il re aveva collegati contro di lui il duca di Calabria, il duca di Borbone, il duca di Bretagna, il duca di Bari, il duca di Namur, i conti di Charolois, Dunois, Armagnac, Dammartin; e questa lega formata contro del re cristianissimo si qualificava la Lega del ben pubblico. Il re Luigi sommamente onorava Francesco Sforza, a tale che interamente si reggeva a norma de' consigli di lui. Il signor Gaillard, uno de' più accreditati scrittori francesi, dice a tal proposito - Les talens politiques de Sforce égaloient ses vertus guerrières. Louis XI, qui se connoissoit en hommes habiles, le consultoit comme un sage. Ce fut François Sforce qui lui traça le plan qu'il suivit pour dissiper la ligue du bien public: aussi Louis XI ne souffrit-il jamais que la maison d'Orleans, qu'il haïssoit, troublât Sforce dans la possession du Milanez (I). Il Corio dice che il re pregò Francesco Sforza, duca di Milano, che gli sporgesse adiuto

(I) Histoire de François I, roi de France, dit le grand roi et le père des lettres. Par M. Gaillard de l'Accadémie des Inscriptions et Belles Lettres. - A Paris, chez Saillant et Nyon, tome I, page 105. per lo che il duca preparò un valido esercito, e lo spedì nella Francia sotto il comando di Galeazzo Maria, conte di Pavia, di lui primogenito. In quell'esercito servivano da generali Gaspare Vimercato, Giovanni Pallavicino, Pier Francesco Visconti e Donato da Milano. Il duca di Savoia accordò il passaggio a quest'armata; la quale dal Delfinato passò nel Lionese, s'impadronì di Pierancisa, vi pose comandante Vercellino Visconti, indi, passato il Rodano, postossi sul Borbonese e servì il re con tanta fermezza e valore, che Sforzeschi più che huomini erano extimati, dice il Corio, e vennero costretti i collegati a sottomettersi al re; per lo che quel monarca, l'anno 1466, mandò al duca una solenne ambasciata per ringraziarlo di tanto beneficio: sono parole del Corio. Per tai motivi il re di Francia cedette al duca tutti i diritti suoi sopra Genova e Savona. Ma Genova, siccome dissi, fu di mestieri sottometterla colle armi comandate dallo stesso Gaspare Vimercato che introdusse lo Sforza in Milano e fu nella spedizione di Francia. I Genovesi, assoggettati, spedirono a Milano ventiquattro oratori, accompagnati da più di dugento loro cittadini, e il duca accolse onorevolmente l'omaggio, spesandoli e alloggiandoli signorilmente (I). Né soltanto co' Veneti, co' Savoiardi, colla Lega e co' Genovesi fu costretto a guerreggiare per mezzo de' suoi generali il nuovo duca; ma ben anco nel regno di Napoli, come ausiliario di Renato d'Angiò, mantenne le sue schiere. Renato pretendeva quel regno come figlio adottivo della regina Giovanna II, ed aveva seduto sul trono di Napoli come re, sintanto che il più fortunato di lui, Alfonso d'Aragona, ne lo scacciò, e si pose in suo luogo. Venne a Milano il re Renato, e lo accolsero il duca

(I) Alloggiarono nel palazzo altre volte del conte Carmagnola, ora detto il Broletto in e la duchessa Bianca Maria colla dovuta magnificenza. Egli condusse una squadra di Francesi, i quali si unirono cogli Sforzeschi. Il Padre della duchessa, diciotto anni prima, aveva pure in Milano alloggiato il re Alfonso d'Aragona, rivale di lui; ma Alfonso vi dimorò come prigioniero, Renato come amico ed alleato. (1455). Le avventure poi del regno di Napoli terminarono facendo lo Sforza la pace col re Alfonso; e questa pace fu convalidata con due nodi di parentela. Alfonso duca di Calabria, nipote del re Alfonso e figlio di Ferdinando, sposò la principessa Ippolita, figlia del duca Francesco; e la principessa Leonora, figlia pure di Ferdinando, fu data in moglie a Sforza Maria, terzogenito del duca. Frammezzo a' pensieri militari per difendere lo Stato e rivendicarne le usurpate membra, il duca Francesco non dimenticò mai le cure d'un padre benefico de' suoi popoli. Abbellì, ristorò e rese più vasto il palazzo ducale, fabbricato da Matteo I, ornato poscia da Azzone, rifabbricato da Galeazzo II, e cadente e quasi abbandonato allorché il duca Francesco divenne signore di Milano; poiché Filippo Maria, come vedemmo, non mai vi alloggiò. Riedificò maestosamente il castello di Porta Giovia, che tuttora è in piedi; sebbene cinto al di fuori di fortificazioni fattevi durante il governo della Spagna. (1456) Intraprese e condusse a fine la fabbrica dell'Ospedal Maggiore, aperto indistintamente a sollievo dell'egra umanità, senza risguardo a patria né a religione. Il Turco, l'ebreo, il cattolico, l'acattolico, purché siano ammalati e poveri; ivi trovano ricetto e assistenza. Intraprese in fine e condusse pure al suo termine la grand'opera del canale, ossia Navilio, che da Trezzo conduce a Milano le acque dell'Adda. Il Decembrio così ci assicura: - Conversus deinde ad excolendam urbem, vicis arenâ latereque constratis, Arcem Portae Jovis, populi tumultu antea disjectam, e fundamentis erigi magnificentissime curavit. Curiam etiam priscorum Ducum, vetustate fatiscentem, non solum restituit, sed ampliavit, ornavitque. ornavitque. Acquaeductum quoque ex Abdua, defosso solo, per viginti milliaria deduci jussit, quo agri finitimi irrigarentur, populoque necessariae copiae suppeterent (I). (1457) Questo canale, che chiamasi tra noi Naviglio della Martesana (2) fu progettato l'anno 1457. Bertola da Novate fu l'ingegnere cui Francesco Sforza trascelse per quest'opera: egli era nostro cittadino milanese. Fu condotto a termine l'anno 1460 (3). Le principali difficoltà del progetto erano di derivare un ramo perenne d'acqua dall'Adda in un luogo di corso assai rapido, di continuare per alcune miglia il nuovo cavo in una costa sassosa, e di attraversare con esso il torrente Molgora e il fiume Lambro (4). Questo canale è sostenuto dapprincipio da un argine grandioso di pietra sino all'altezza

(I) Decembrius, Vita Franc. Sfortiae, cap. XL, Rer. Ital., tom. XX, col. 1046. (2) Dalla provincia della Martesana, per cui passa, detta forse anco dal Dio Marte. (3) Veggasi il Benaglio, Relazione istorica del magistrato, che riferisce il decreto del duca Francesco, che è il seguente: - (a) Franciscus Sfortia Vicecomes, dux Mediolani etc. Papiae Angleriaeque comes ac Cremonae dominus. Cum pro beneplacitis nostris et subditorum nostrorum comoditate fieri debere ordinaverimus Navigium discensarum ex Abdua ad hanc inclitam Civitatem nostram Mediolani, deputaverimusque nobilem virum Ruffinum de Prioris, aulicum nostrum praeclarissimum Commissarium, qui cum avisamentis ac partecipatione Bertolae de Novate, dilecti nostri Mediolani, habeat omnia expedire ed expediri facere quod ad dicti Navigii perfectionem attineat, eligendum duximus. Indi destina un tesoriere separato per quest'opera, a cui dalla ducal Camera debbasi sborsare illimitatamente qualunque somma, (b) Dat. Mediolani, die primo juli 1457. Veggasi pure il Settala, Relazione sul navilio della Martesana, ediz. del 1603, p. 59. (4) Così Paolo Frisi, nel secondo tomo delle sue opere stampato in Milano dal Galeazzi 1783, p. 465. L'immatura perdita che abbiamo fatto di quest'illustre nostro concittadino, mentre era nel pieno vigore della sua mente, ha privato noi e i posteri di maggiori ammaestramenti ch'egli ci avrebbe lasciati. Cessò di vivere il giorno 22 novembre 1784 per una cancrena procuratagli da un taglio, al quale all'altezza di 40 braccia sopra il fondo dell'Adda. La lunghezza del canale e è circa di 24 miglia. Il torrente Molgora vi passa sotto un ponte di tre archi di pietra. Il Lambro vi sbocca dentro ad angolo retto, ed a foce aperta con tutte le piene, si scarica dalla parte opposta. Il canale, quale fu fatto dal duca Francesco, era più ristretto di quello che ora noi lo veggiamo, e venne adattato a questa più comoda guisa l'anno 1573. Il Naviglio sfogavasi per l'alveo del torrente Seveso, né entrava allora nella fossa della città, siccome per opera di Lionardo da Vinci si eseguì con somma maestria l'anno 1497, introducendovi sei sostegni ossia conche, invenzione allora novissima, e per mezzo di cui le barche ebbero il passaggio dal nuovo canale all'antico (I). Nondimeno, porzione dell'acqua cavata dall'Adda e condotta nel nuovo canale, entrava in Milano ad altri usi, come si prova da memorie conservate ne' registri della Città (2). Così nello spazio

sconsigliatamente venne sottoposto. Morì colla tranquillità d'un'anima virtuosa, e presentò all'avversa fortuna, come in vita così in morte, una virile costanza. L'uomo e l'autore in lui furono allo stesso livello. Il chiarissimo autore fece erigere a sua spese all'illustre matematico e filosofo Frisi, suo amico, un elegante monumento in marmo carrarese con iscrizione latina, nella chiesa di Sant'Alessandro de' cherici Reg. di San Paolo di questa nostra città; valendosi a questo effetto dell'opera del celebre scultore Franchi. (Nota di A. F. Frisi).

(I) Tutto ciò più esattamente può leggersi nell'opera del citato Frisi, libro terzo, capo terzo de' canali navigabili.
(2) Nei registri civici delle lettere ducali del secolo XV, foglio 223, leggesi la concessione fatta dal ducal magistrato il 10 decembre 1471 di una bocca d'acqua del naviglio della Martesana da estraersi vicino al Redefosso, in beneficio dell'Ospedal grande e dei consorti Ghiringhelli, Bossi e Rebecchi, essendo commissario del naviglio l'ingegnere Pietro da Faino del Malpaga. Altre concessioni poi si trovano nei libri dell'ufficio Panigarola, Registro F., foglio 265. Vedesi accordata di più l'acqua al convento de' frati di Santa Maria degli Angioli, l'anno 1468, per ducal concessione. Il che mostra come sin d'allora entrasse l'acqua del Naviglio in Milano. di sedici anni, in mezzo a guerre continue, malgrado la devastatrice pestilenza, la quale cominciò appunto colla di lui signoria l'anno 1450, e in Milano estinse trentamila abitatori, Francesco Sforza ci lasciò un canale navigabile, un grandioso e ricco spedale, due magnifiche fabbriche, il castello e la corte ducale, e le vie della città riattate.

Questi sono i pubblici monumenti che ci rimangono del nostro buon duca Francesco Sforza; ma la storia ci ha conservato de' tratti di lui, che più intimamente ancora ci palesano la di lui anima. Il Corio ce lo rappresenta così: Fu questo principe liberalissimo, pieno de humanitate, e mai veruno di mala voglia se partiva da lui; e singolarmente honorava li homini virtuosi e docti: contra gli homini semplici non exercitava alcuna inimicizia. Ma haveva in summo hodio li versuti e maliciosi. In nissuno fu maggiore observantia di fede: amò sempre la justizia e fu amatore de la religione: Ebbe eloquenza naturale, e nulla extimava gli astrologhi. La figura del duca era sommamente dignitosa. Negli atteggiamenti era elegante e nobile senza studio alcuno. La statura era più grande della comune degli uomini; e guardandolo alla fisionomia sola del volto, ognuno ravvisava in lui un uomo nato per comandare. Non vi fu chi lo superasse mentre fu giovine nella robustezza, ovvero nella agilità. Fu pazientissimo d'ogni disagio, caldo, freddo, fame, sete: tutto sopportava con volto sereno. In faccia al nemico non palesò mai, non che timore, ma nemmeno inquietudine; né mai si mostrò dolente per le ferite che riportò. Abitualmente visse sobrio in ogni cosa, moderato alla mensa, sempre semplice e frugale. Amava di pranzare in compagnia; ed oltre ai commensali, lasciava a moltissimi la libertà di visitarlo mentre

Nell'ufficio degli statuti Panigarola trovasi pure il decreto di Bianca Maria, vedova duchessa e tutrice del duca Gio. Galeazzo, fatto li 11 settembre 1467, che invita ad acquistare dalla ducal camera l'acqua del naviglio della Martesana. era a mensa, ed ascoltava quanto ciascuno voleva esporgli con pazienza e bontà. Poco dormiva, ma quel poco non mai lo perdé, né per animo turbato, né per rumore alcuno: dormiva in mezzo a qualunque strepito. Egli era dotato di un ingegno penetrante e di una esimia prudenza, per modo che niente intraprendeva se prima diligentemente non l'avesse esaminato; ma poich'era deciso, con mirabile magnanimità e celerità incredibile l'eseguiva. Malgrado la scostumatezza di quei tempi egli fu sempre alieno dal disordine, né si lasciò sedurre alla lascivia. La virtù signoreggiollo per modo, che negli avversi casi non s'avvilì giammai; e quanto più gli venne prospera la fortuna, tanto più modesto mostrossi ed incapace di usar contumelia a' nemici; anzi nel corso intero di sua vita non si vendicò mai (I). Testimonio ne fu il conte Onofrio Anguissola, piacentino, il quale, capo della sedizione di Piacenza, colle armi del duca fu preso. Il duca lo fece custodire bensì, come era necessario, ma la custodia fu il solo male ch'ei dovette soffrire. Il Simonetta diffusamente c'informa del suo militare talento e della mirabile

(I) Simonetta, nella vita di Francesco Sforza, lib. XXXI. Rer. Ital. tom. XXI, col. 778 così dice: Ea autem utebatur ingenii acrimonia, ac gravitate, prudentia, atque consilio, ut nihil neque in bellicis neque in urbanis rebus iniret umquam quod minus fuisset diligentissime antea metitus, omnemque prospexisset eventum, et quod decreverat innata quadam animi magnitudine et incredibili celeritate conficiebat. Mirum dictu est quam abstineret illecebris, humanisque voluptatibus, atque cupiditatibus: et quod rarissimum in aliis invenies, cum neque in rebus adversis, si qua iniquitate fortunae acciderant, deprimebatur animo, ita ne in secundis quidem efferebatur. Quin potius, sicuti in adversis non frangebatur, ita etiam in prospera fortuna modestissimus semper fuit; et alios ab omni contumelia injuriaque continebat. Et ne id quidem mirum, cum omnibus de se praestaret exemplum, qui cum maxime vinceret, ultione non utebatur. mirabile provvisione di lui anche nei dubbi eventi della guerra, e de' ritrovati impensati e opportuni che venivangli in mente per superare le difficultà, e della liberalità e beneficenza sua abituale e quasi organica e di temperamento. Umano e clemente fu sempre questo grand'uomo: pronto alla collera, tosto si conteneva, siccome è l'indole dei generosi; e colui al quale avesse fatto danno o con parole o altrimenti, non occorreva che chiedesse cosa alcuna; che il buon principe co' beneficii lo risarciva spontaneamente. Non amava i lodatori, e conosceva che questa è la maschera seducente colla quale il vizio insidiosamente si accosta al soglio. Non vi era cosa più sicura che la fede e la parola di Francesco. Così ce lo descrive il citato Simonetta, che termina con queste parole: sed illud certe ausim affirmare, post Cajum Julium Caesarem neminem fere habuisse Italiam reperies, quem jure possis cum uno Francisco Sfortia conferre. Qui quidem, cum vicisset semper, et victus fuisset numquam, ita diem obiit ut omnibus de se non minus desiderium, quam fletum relinqueret (I). Già da due anni era stato idropico il duca, e sebbene ei nell'aspetto sembrasse ristabilito, soffriva nelle gambe, le quali anche talora si gonfiavano. Egli tentò qualche rimedio per ridurle alla loro figura di prima; e v'è chi attribuisce a tal cagione la quasi improvvisa di lui morte, accaduta con due soli giorni di malattia. (1466) Il giorno 8 di marzo dell'anno 1466, all'età di sessantacinque anni, dopo sedici anni di signoria, morì il duca Francesco Sforza. Tutta la città rimase squallida e desolata a tale inaspettata disgrazia: stimando ogniuno, dice il Corio, non solo havere perduto uno duca, ma uno colendissimo patre. La duchessa Bianca Maria, sebben colpita da questo impensato fulmine, s'era addottrinata coll'esempio del marito ad affrontare e sostenere l'avversa fortuna. Il figlio

(I) Rer, Italic. Script., tom. XXI, col. 779. (689) Corio. primogenito, Galeazzo Maria, in quel punto era nella Francia. Se la duchessa si abbandonava al femminil dolore, la casa Sforza perdeva la sovranità, alla quale mancava la sanzione imperiale. Ella si mostrò degna di essere stata moglie amatissima di Francesco Sforza: compresse il dolore; pensò a salvare i figli. Con animo virile, la notte medesima, appena spirato il duca, convocò un consiglio dei primari signori milanesi. Con poche, ma gravi e accomodate parole raccomandò loro l'ordine pubblico, la fede verso il sangue del duca. Scrisse immediatamente a tutti i principi d'Italia la perdita fatta, e richiese il favore di ciascun d'essi a pro del conte di Pavia, Galeazzo, suo primogenito. Poiché ebbe così adempiuti con magnanimità i doveri di sovrana e di madre, si pose ad eseguire quei di moglie, secondo l'usanza di que' tempi. Il cadavere del duca nel palazzo ducale si espose; e la vedova mai non si dipartì dal suo fianco, dando segni, come dice il Corio, d'incredibile amore. Il terzo giorno poi, ornato con tutte le insegne ducali, e cinto di quella spada la quale fortissimamente in tutte le victorie aveva usato (I), venne con magnifica pompa tumulato in Duomo. Mentre l'imperatore Federico III venne di qua dall'Alpi, e si fece incoronare in Roma dal papa, egli non toccò nemmeno le terre soggette allo Sforza; non volendo pregiudicare alle ragioni dell'Impero col riconoscere per legittimo sovrano e duca l'usurpatore d'un feudo imperiale, ch'ei non aveva forze per difendere. Era questo un oggetto importante assai per la dominazione della casa sforzesca, di cui era mancato il sostegno e lo splendore. Galeazzo Maria, in marzo del 1466, allorché morì suo padre, era, siccome già dissi, nella Francia, comandando nel Delfinato l'armata che il duca aveva allestita in soccorso del re contro la Lega. Appena ricevé l'avviso che spedìgli la madre Bianca Maria, del

(I) Corio. cambiamento accaduto nella famiglia, confidò tosto il comando a Giovanni Scipione; e, travestitosi come un famigliare di Antonio da Piacenza mercatante, s'incamminò per la Savoia alla vòlta di Milano. Il giovane Galeazzo aveva ventidue anni; temeva le insidie del duca di Savoia, il quale sulla dominazione della casa Sforza pensava di ampliare il suo Stato. Se riusciva di acquistare Galeazzo Maria per ostaggio, potevasegli far comperare la libertà e il ducato con qualche notabile sacrificio. Malgrado il cambiamento del vestito e della condizione, convien credere che egli venisse riconosciuto, poiché, attorniato da una turba di persone, appena ei poté ricoverarsi nell'asilo di una chiesa; ed ivi dovette starsene tre giorni interi; e la seguente notte poi, mercé la cura di un fedele suo domestico, poté sottrasi colla fuga, e proseguendo il suo cammino per dirupi e balze non frequentate poté finalmente ridursi in salvo. Pare impossibile che, malgrado il ritardo de' tre giorni dell'asilo, Galeazzo Maria fosse in Milano dodici giorni dopo la morte del duca: ma io credo che sino d'allora vi fossero stazioni regolate pel cambio de' cavalli; tanto più che non si sarebbero potuti altrimenti trasmettere sollecitamente gli avvisi dall'armata ch'era nel Delfinato. Il nuovo duca Galeazzo Maria fece la solenne entrata per Porta Ticinese il giorno venti di marzo del 1466. Tutto lo Stato di Francesco Sforza, composto di quindici città nominate disopra, passò al nuovo duca Galeazzo Maria Sforza. (1467) I sovrani lo riconobbero. Il duca di Savoia, poiché vide il duca Galeazzo assicurato sul trono, pensò a stringere non solamente amicizia, ma parentela con esso lui. (1469). Si conchiusero le nozze; e il duca Galeazzo Maria sposò la principessa Bona di Savoia, il giorno 6 di luglio dell'anno 1468. Una sorella della duchessa Bona era sul trono di Francia; e per tal guisa Galeazzo Maria Sforza, nato in Fermo nella Romagna, il di cui avo cinquant'anni prima era un avventuriere, divenne cognato del re di Francia. CAPO DECIMOTTAVO.

Del Governo del Quinto Duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del Duca Giovanni Galeazzo Maria, Sesto Duca.

Quando uno Stato, anche vasto, sia accozzato insieme con male arti, con sorprese, con insidie, con tradimento, al morire del sovrano cessa il timore ne' sudditi e ne' vicini; e per poco che il successore sia debole o mancante d'artificio, si scompone, siccome avvenne della signoria che radunò il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per lo contrario la dominazione s'acquisti col valore personale, e si innalzi colla generosità delle virtù del sovrano, e siavi stato tempo bastante per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l'amore che l'eroismo fa nascere, ancora dopo spento l'eroe, l'ammirazione e l'affezione de' popoli aiutano il figlio, come parte viva di lui, e malgrado i difetti e la poca somiglianza che egli abbia col padre, lo coprono colla di lui gloria. Così accadde al nuovo duca Galeazzo Maria, il quale poco imitò il magnanimo suo padre. Uno de' primi fatti di Galeazzo lo svela. La duchessa Bianca Maria, di lui madre, si era sempre dimostrata ottima moglie, ottima madre, donna di senno, di cuore e di mente non comune. Il duca Francesco perciò l'aveva onorata ed amata sommamente. Galeazzo doveva doppiamente il ducato di Milano a lei, e per nascita, e per l'accorgimento col quale aveva dirette le cose alla morte del duca Francesco; giacché, qualora non vi fosse stata alla testa della signoria una donna del merito di lei, difficilmente Galeazzo Sforza, assente, avrebbe trovata aperta la via del trono, dove poté placidamente collocarsi. La Bianca Maria co' saggi consigli e colla autorità regolava lo Stato unitamente al duca, quasi come correggente (I). L'ambizione, la seduzione di consiglieri malvagi fecero nascere la gelosia del comando; indi la visibile freddezza; finalmente la discordia palese tra il figlio ed una madre tanto benemerita. La vedova duchessa preferì la pace e il riposo ad ogni altra cosa, e divisò di portarsi a Cremona, città sua, perché recata da lei in dote, siccome vedemmo; ed ivi, lontana dalle contese, passare il rimanente de' giorni suoi, non avendo ella allora che quarantadue anni. Abbandonò la corte burrascosa di Milano; ma a Marignano con breve malattia terminò di vivere il giorno 23 ottobre 1468; e il Corio a tal passo soggiugne: se disse più de veneno che de naturale egritudine. Temeva il duca che, collocatasi a Cremona, ella potesse collegarsi co' Veneziani a danno di lui. Simili orrori non sogliono avere molti testimonii, e lo scrittore contemporaneo non può trasmettere ai posteri se non la pubblica opinione. Talvolta una maligna voglia di penetrare ne' misteri della politica segreta forma imputazioni calunniose alla fama altrui. Egli è però certo che tali nere vociferazioni non si spargono se non sopra di un principe di carattere non buono. Assolvasi Galeazzo dal parricidio, egli è sempre un ingrato verso di sua

(I) Nella mia raccolta ho alcune monete di Milano che portano il nome d'entrambi. madre. Appena un anno dopo cessò di vivere Agnese del Maino, di lei madre ed ava del duca (I). (1469-470) Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal fine comandò che si lastricassero le vie di Milano: il che non fu puocha graveza, ma quasi intollerabile danno, dice il Corio (2). Francesco di lui padre le fece riattare. Sarà stata una saggia provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tai riforme di lusso si fanno giudiziosamente e per gradi. (1471) La pompa del duca si palesò singolarmente nel maestoso viaggio ch'ei fece colla duchessa a Firenze l'anno 1471. Condusse egli un tal corredo, che oggidì nessuno de' monarchi d'Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Corio ce la descrive minutamente; ed io la racconterò, perché simili oggetti danno idea del modo di pensare di que' tempi. I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d'oro e d'argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta, ornata d'argento. Cinquanta corsieri con selle di drappo d'oro e staffe dorate: cento uomini di armi, ciascuno con tale magnificenza, come se fosse capitano: cinquecento soldati a piedi, scelti: cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti: dodici carri coperti di superbi drappi d'oro e d'argento: duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio de' cortigiani. Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed acciocché non rimanesse nulla da

(I) Francisci Cicerei Epistolar., vol. II, p. 174, Mediol. 1782, stampa dell'Imp. Monast. di Sant'Ambrogio. (2) All'anno 1469. bramare, v'erano persino cinquecento paia di cani da caccia, v'erano sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel memorando viaggio, che doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore ed agli ospiti. Questa superba comitiva nell'accostarsi a Firenze venne accolta con somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della città si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie fogge uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani pulcelle, cantando versi in laude de lo excellentissimo principe, dice il Corio. Indi, accostandosi alla città, ricevettero gli ossequi de' magistrati; finalmente gli accolse il senato, che presentò al duca le chiavi della città. Entrò il duca con una sorta di trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio di Cosimo. Non accadde altra cosa degna d'essere raccontata; basti osservare che non poteva verun altro monarca essere onorato di più di quello che furono Galeazzo e la Bona in Firenze. Da Firenze passarono questi principi a Lucca; ove vennero accolti con somma pompa: anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta nelle mura della loro città, onde trasmettere ai tempi a venire memoria di questo magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a Milano. Oggidì, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo della milizia stabilmente stipendiata, non si curano più di abbagliare i popoli. (1472) Poiché ritornò dal viaggio, il duca pensò a dare una moglie al di lui figlio primogenito Giovanni Galeazzo, bambino ancora di quattro anni. Questa fu Isabella d'Aragona, figlia del duca di Calabria Alfonso e d'Ippolita Sforza, conseguentemente germana cugina dello sposo. Queste nozze si pubblicarono l'anno 1472. Il duca era strettamente collegato col cardinale di San Sisto, nipote ed assoluto padrone di papa Sisto IV: l'oggetto della reciproca unione era la loro fortuna. Il duca doveva doveva adoperarsi per fare papa il cardinale colla rinunzia dello zio. Il cardinale, asceso al sommo pontificato, doveva innalzare lo Sforza incoronandolo re d'Italia, ed aiutandolo a ricuperare tutte le città già possedute dal primo duca. I Veneziani non potevano essere contenti di un tal progetto che loro toglieva tutta la terra ferma. Malgrado lo studio di celare questa trama politica, convien credere ch'essi ne avessero qualche contezza. Il cardinale, ch'era stato magnificamente accolto in Milano, bramò di vedere Venezia; e quantunque cercasse di dissuadernelo il duca, egli volle insistere e passarvi. (1473) A tale proposito dice il Corio: da quello senato fu grandemente honorato, e per la intrinseca amicizia quale enteseno Veneziani havere lui con Galeazzo Sforza fu affirmato havergli dato il veneno; impero che in termine de puochi giorni, pervenuto a Roma, abandonò la vita (I). Io non sono mallevadore de' sospetti di que' tempi: bastano però per far conoscere qual fede e quanta umanità regnassero, se così si giudicava dei governi. (1474) In mezzo ai sospetti di veleno, in mezzo alle asiatiche pompe, in mezzo ai gemiti de' popoli, oppressi dalla mole di tributi corrispondenti a quelle, l'anno 1474, il 15 marzo, venne a Milano il re d'Ungheria e di Boemia Mattia I. Egli s'era reso padrone dell'Ungheria, scacciandone Casimiro, figlio del re di Polonia, e s'era impadronito della Boemia, scacciandone Giorgio Podiebrad. Egli era stato in pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia, e passava di ritorno a Milano. Galeazzo, che stipendiava cento cortigiani e cento camerieri, e pomposamente vestivagli, alloggiò l'ospite nel palazzo ducale colla magnificenza e profusione degna di lui. Mostrò a quel re il suo tesoro, valutato due milioni d'oro, oltre le gioie, le quali valevano circa un altro milione. Il re Mattia chiese un prestito dal duca: ed egli gli fe' consegnare diecimila ducati, ossia zecchini.

(I) All'anno 1473. Dopo lautissimo ed onorevolissimo trattamento prese commiato il re; e poich'egli fu nell'Ungheria, si lusingò il duca ch'egli avrebbegli concesso di comprarvi dei cavalli. (1475) A tal fine spedì nell'Ungheria Bernardino Missaglia, suo famigliare, con molta somma di denaro. Il re fece imprigionare il Missaglia, e tolsegli i denari confidatigli dal duca; a stento finalmente gli permise di ritornarsene a Milano: così narra il Corio (I). (1476) La fama della casa Sforza era giunta a segno che persino il soldano d'Egitto spedì al duca ambasciatori; e questi vennero a Milano nell'ottobre del 1476, accolti, alloggiati, regalati splendidamente dal duca. Il duca Carlo di Borgogna tentava d'impadronirsi della Savoia. Né alla Francia piaceva questo, né al duca Galeazzo; una bellicosa e potente nazione vicina non conveniva; e Galeazzo aveva di più per moglie Bona, principessa di Savoia. Il duca Galeazzo si collegò col re di Francia, indi spinse l'armata contro de' Borghignoni; e felicemente gli Sforzeschi fecero ritirare i nemici fino alle Alpi. Il rigido inverno non permise di portare più oltre l'impresa; onde il duca Galeazzo ridusse a quartiere i soldati, aspettando la primavera per ripigliare la guerra e discacciare affatto dall'usurpato paese i Borghignoni, e ritornarsene a Milano, ove di lì a poco morì. Le circostanze della morte del duca Galeazzo Maria Sforza ci sono minutamente trasmesse dagli scrittori di quel tempo; e siccome sono feconde nelle loro conseguenze, io non le ometterò. Gli storici di quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri sinistri pe' quali credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il duca Galeazzo

(I) Gli scrittori oltramontani conservano una memoria favorevole del re Mattia I. È da essi risguardato come un principe generoso, guerriero, politico, religioso, amico delle belle arti, uomo colto; ed a lui si attribuisce la biblioteca di Buda, corredata de' migliori libri greci e latini. Il Corio però narra avvenimenti accaduti ai suoi tempi e pubblici. Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e questo è il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano il fuoco prese nella stanza in cui egli soleva abitare. Ciò inteso, Galeazzo quasi più non voleva riveder Milano; pure vi s'incamminò, e mentre da Abbiategrasso cavalcava verso la città, tre corvi lentamente passarongli sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto ribrezzo, che, poste le mani sull'arcione, rimase fermo; poi volle superarsi, e proseguendo venne a Milano. Così allora si pensava; e tali pusillanimità cadevano anche in uomini di coraggio militare, come era il duca. Conciossiaché l'uomo ardisce di affrontare un pericolo conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro potenze invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi della superiorità nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile sorgente d'inquietudini; per lei finalmente sappiamo che la nebbia impenetrabile entro cui sta celato il nostro avvenire, è un benefizio della Divinità; e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa ai decreti della provvidenza è il più saggio ed utile sentimento dell'uomo. La vigilia di Natale, verso sera, il duca, secondo l'usanza, scese nella gran sala inferiore del castello, dove stava d'alloggio; ed a suono di trombe e con istupendissimo apparato vi scese colla duchessa Bona e co' suoi figli. I due fratelli del duca, Filippo ed Ottaviano, portarono il così detto zocco, e lo collocarono sul fuoco. Gli altri tre fratelli del duca erano assenti. Ascanio, in Roma; e Lodovico e Sforza, duca di Bari, erano rilegati da Galeazzo nella Francia. Così si soleva in que' tempi radunare la famiglia al Natale. Il giorno vegnente poi nuovamente radunossi con varii cortigiani, e il duca in circolo parlò della casa Sforza; e noverando i fratelli suoi, i cugini, i figli in numero di dieciotto, tutti di età fresca, osservò che per secoli non sarebbe finita. Pranzò in pubblico. Il giorno poi di santo Stefano dal castello s'incamminò a cavallo con tutto il corteggio per ascoltare la messa nella chiesa collegiata di detto santo, ove giunto, da tre nobili giovani venne con più pugnalate ucciso al momento. I congiurati furono Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. I due primi erano cortigiani del duca. Giovanni Andrea finse di voler far largo al duca; ed avventandosegli pel primo, lo ferì nel ventre, e gl'immerse nuovamente il coltello nella gola. Frattanto Girolamo lo trafisse alla mammella sinistra, poi nella gola, indi nelle tempie. Carlo, nel tempo stesso, nella schiena, e nella spalla lo colpì con due ferite, pure mortali. Il duca appena poté esclamare: oh nostra donna! e cadde all'istante là nella chiesa. Così terminò la sua vita di duca Giovanni Galeazzo, il giorno 26 dicembre del 1476, dopo dieci anni di sovranità, all'età di trentadue anni. La serie di questa congiura è nota, e si è anche più conosciuta col dramma: la Congiura contro di Galeazzo Sforza; tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena di lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta la tirannia co' suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quando anche nasca da nobili principi; che interessa e sviluppa un'azione che è la sola della nostra storia posta sul teatro, e la presenta col costume de' tempi; tragedia che sgomenta le anime gracili, e scuote deliziosamente le energiche. La storia è adunque, che in Milano eravi un uomo d'ingegno, erudito, eloquente e di sentimenti arditi, che aveva nome Cola Montano: si dice ch'ei fosse Bolognese (I).


(I) Di questo Cola Montano si trova nell'archivio pubblico un contratto ch'ei fece l'anno 1473 il 6 d'agosto, rogato dal notaro Antonio Zunico. Il contratto è con uno stampatore tedesco di Ratisbona chiamato Cristoforo, ed ha per oggetto una società per istampare. Si vede che Cola Montano era figlio di Giacomo, ed abitava sotto la parrocchia di San Rafaello; ma non si dice che fosse Bolognese. Egli viveva col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla scuola di cui varii giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno, assai versato negli aneddoti, mi asserì che questo Cola Montano fosse stato dileggiato dal duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia c'insegna che Montano ne' suoi precetti sempre instillava nel cuore de' suoi nobili alunni l'odio contro la tirannia, la gloria delle azioni ardite, la immortalità che ottiene chi rompe i ferri alla patria, e la renda libera e felice. Egli animava gli alunni suoi a mostrare una virile fermezza, ad amare la vigorosa virtù, a cercar fama con fatti preclari. Poiché co' discorsi e cogli esempi della virtù romana ebbe trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari, egli coglieva l'occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti la scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un Tarquinio nel duca, ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne' suoi magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici nemici. Confrontavali co' Cartaginesi, co' Greci, co' Metelli, co' Scipioni romani. Giunti al grado del fervore al quale cercò di ridurli, collocò alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coleoni, acciocché imparassero a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a ravvisare le proprie loro forze (I). Condotta la trama al suo termine, finalmente furono trascelti quei che egli giudicò più adattati; e furono appunto Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. Si pensò con un colpo ardito di liberare la patria, mostrando quando sarebbe facile l'impresa, purché i cittadini si ricordassero soltanto d'essere uomini. Avanti la statua di sant'Ambrogio venne congiurata la morte del tiranno Galeazzo Maria, usurpatore del trono, oppressore della libertà che pur godevasi ventisei anni prima, nimico della patria,

(I) La duchessa Bianca Maria prudentemente gli richiamò. impoverita colle enormi gabelle ed insultata col lusso di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano, appena fatto il colpo, cadde poco lontano dal duca, ucciso da un domestico ducale. Girolamo Olgiato, che aveva ventitre anni, si sottrasse col favore della confusione, e ricoveratosi presso di un buon prete, aspettava di ascoltar per le vie della città gli applausi per l'ottenuta libertà, ed impaziente attendeva il momento per mostrarsi come liberatore della patria. Ma udendo invece gli urli e lo schiamazzo della plebe, che ignominiosamente strascinava per le strade il cadavere del Lampugnano, s'avvide troppo tardi dell'error suo, perdé ogni lusinga, e venne imprigionato. Dal processo che se gli fece, si seppe la trama. Non mi è noto qual fosse il fine di Cola Montano. L'Olgiato morì nelle mani del carnefice con sommo coraggio. Il ferro che colui adoperava, era poco tagliente; ma egli animò il carnefice, e lo s'intese pronunziare queste parole: stabit vetus memoria facti . Bruto, Cromwel, Olgiato hanno fatto a un dipresso la stessa azione. Il primo viene spacciato per un modello di virtù gentilesca: il secondo ha la celebrità di un atroce ambizioso: il terzo non ha nome nella storia. Le circostanze decidono della fama, singolarmente nelle azioni violente, le quali si biasimano, ovvero si lodano a misura del male, o del bene che produssero poi. Il Corio, che ci lasciò descritto il fatto, era testimonio di veduta; e come cameriere ducale, era nel seguito del suo sovrano, quando venne ucciso. Ei ci racconta i vizi del duca, anzi i suoi delitti. Galeazzo interpellò un povero prete che faceva l'astrologo, per sapere quanto tempo avrebbe regnato. Il prete diegli in riscontro ch'ei non sarebbe giunto all'anno undecimo. Galeazzo lo condannò a morir di fame. Egli per gelosia fece tagliar le mani a Pietro da Castello, calunniandolo come falsificatore di lettere. Egli fece inchiodare vivo entro di una cassa Pietro Drego, che così venne seppellito. Egli scherzava con un giovine veronese, suo favorito, e lo scherzo giunse a tale di farlo mutilare. Un contadino che aveva ucciso un lepre contro il divieto della caccia, venne costretto ad inghiottirlo crudo colla pelle, onde miseramente morì. Travaglino, barbiere del duca, soffrì quattro tratti di corda per di lui comando, e dopo continuò quel principe a farsi radere dal medesimo. Egli avea un orrendo piacere rimirando ne' sepolcri i cadaveri. Univa a tutte queste atrocità una sfrenata libidine, anzi una professione palese di scostumatezza, costringendo a prostituirsi anche a' suoi favoriti quelle che cedevano alle brame di lui. Avidissimo di smungere danaro ai sudditi, gli opprimeva colle gabelle, non mai bastanti alle profusioni del di lui fasto. Oltre la splendidissima corte, teneva il duca Galeazzo Maria duemila lance e quattromila fanti stabilmente al di lui soldo. Il Corio dice ch'egli amasse gli uomini probi e colti, e fosse sensibile alle belle arti: io non trovo che tali inclinazioni sieno combinabili colle antecedenti, e sicuramente nessun vestigio ne è rimasto del suo regno. Egli fu ben diverso dal buon Francesco di lui padre! I fratelli Baggi, Pusterla e del Maino avevano ucciso Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, in San Gottardo, e vennero applauditi. Il destino del Lampugnano e dell'Olgiato fu opposto. Credo che la gloria del duca Francesco, la prudenza della duchessa Bianca Maria, l'eccesso del fasto di Galeazzo, e la memoria delle miserie sofferte nell'interregno della repubblica sieno state le cagioni della diversità. Sì l'uno che l'altro attentato furono commessi nella chiesa; come nella chiesa, anzi nel più sacro momento del rito, un anno dopo a Firenze Giuliano de' Medici ebbe il medesimo destino. Il merito principale nell'aver conservata la città tranquilla in mezzo a tale scossa improvvisa, l'ebbe Francesco Simonetta, che si chiamava Cicho Simonetta. Egli era stato il primo ministro e l'amico del duca Francesco; uomo di Stato e di molta virtù, e tale che, allorchè allorché Gaspare Vimercato, a cui Francesco in parte doveva e Milano e Genova, ardì parlargliene svantaggiosamente, il duca freddamente risposegli: essere tanto necessario a lui ed allo Stato Cicho, che s'ei morisse, ne avrebbe fatto fabbricare uno di cera. La vedova duchessa Bona lasciò che Cicho disponesse ogni cosa. Egli si servì del conte Giovanni Borromeo per tenere in calma la città. Il Borromeo possedeva la fiducia di ognuno, e il Corio dice che questo perhumanissimo conte era tanto abituato alla buona fede, che il pretendere da lui cosa alcuna contro la ragione, o contro la virtù, sarebbe stato lo stesso che volere strappare dalle mani d'Ercole la clava, suo malgrado. Fu tumulato Galeazzo Maria coll'ordinaria pompa ducale. La vedova lo fe' vestire col manto d'oro; e fece chiudere nel sarcofago tre preziose gemme. Il figlio primogenito Giovanni Galeazzo venne proclamato duca, sebbene in età di sei anni. Simonetta abolì tutte le gabelle imposte recentemente. Confermò gli stipendiati. Fece compra di grano, e ne fece largizioni alla plebe, che penuriava; e ciò sotto nome della duchessa Bona, dichiarata tutrice del nuovo duca. Simonetta reggeva tutto come segretario di Stato. V'erano due supremi consigli. Quello di Stato si radunava nel castello avanti il sovrano o la tutrice; quello di giustizia si radunava nella corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli del defunto duca, immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il fratello Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, come zii del duca, di prendere le redini del comando. Simonetta li destinò con onore a presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi così delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per ufficio alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e restò concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento ducati a ciascuno degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno un palazzo in Milano, e così uscissero dal castello. I fratelli del duca Galeazzo, zii del vivente, erano cinque, cioè Sforza, Filippo, Lodovico, Ascanio e Ottaviano. (1477). Genova si ribellò. Dodicimila uomini vennero spediti per sottometterla. Se ne confidò il comando a Lodovico ed Ottaviano, fors'anco per allontanarli. L'impresa riuscì bene, poiché, malgrado la vigorosa resistenza de' Genovesi, gli Sforzeschi se ne impadronirono; e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente omaggio al duca (I). Ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza di tale vittoria. Simonetta teneva l'occhio sopra di essi. Venne imprigionato un confidente di questi due principi, da cui seppe le trame che ordivano contro lo Stato. I due fratelli pretesero che il loro confidente venisse liberato; e ciò non ottenendo, posero mano alle armi, e sollevarono più di seimila persone in Milano. La duchessa e Simonetta stavasene nel castello; e in esso, dalla parte esterna, fecero entrare tutte le genti d'armi vicino a Milano, il che bastò per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso perdono, e se ne fuggì; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, temendo di essere arrestato, si avventurò a passar l'Adda, e vi si affogò cadendo da cavallo, il che avvenne l'anno 1477. Egli aveva 18 anni; il di lui cadavere si ritrovò poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta fece formare un processo della sedizione, e risultò che gli zii del duca avevano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati, Sforza, duca di Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa, ed Ascanio a Perugia. Sforza, trovandosi nel regno di Napoli, mosse il re Ferdinando in favor suo e de' fratelli; e naturalmente la principessa Ippolita, sorella de' relegati, vi avrà contribuito. Il re Ferdinando di Napoli animò i Genovesi a sottrarsi

(I) L'anno seguente si ribellarono di nuovo; poi un'altra volta nel 1488 si assoggettarono. sottrarsi e prendere il partito degli esuli fratelli; animò gli Svizzeri a fare delle incursioni nel Milanese; Sforza duca di Bari, malgrado la relegazione, da Napoli passò nel Genovesato, ed ivi morì. (1479) Il ducato di Bari dal re di Napoli venne infeudato a Lodovico Sforza, detto il Moro, il quale con ottomila combattenti da Genova s'innoltrò nel Milanese, ed occuponne tutta la porzione sino al Po. Ciò accadde l'anno 1479. Lodovico però faceva dovunque gridare: viva il duca Giovanni Galeazzo, e protestava di aver mosse le armi in soccorso del nipote per liberarlo dalla tirannia del Simonetta e da' cattivi consiglieri. Il duca era fanciullo di dieci anni. La duchessa Bona era una bella principessa, e non per anco avea passata l'età della debolezza, ed era più donna che sovrana. Eravi alla corte certo Antonio Trassino, ferrarese, uomo di bassi natali, e stipendiato come scalco; giovane però di ornata ed elegante figura, al quale la duchessa senza riserva confidava tutto ciò che si faceva dal Simonetta e nel consiglio. Il Simonetta, sendosene avveduto, trascurava quell'indegno favorito; ma non osava di più. Trassino, che si vedeva rispettato da ognuno e dal solo Simonetta disprezzato, lo abborriva. Questo Trassino fu il mezzo per cui Lodovico segretamente si riconciliò colla duchessa. Improvvisamente Lodovico staccossi dal suo esercito, e comparve nel castello di Milano il giorno 7 di settembre 1479; il che sorprese il Simonetta. La duchessa e il duca lo accolsero come un cognato ed uno zio amico, e venne alloggiato nel castello. Cicho Simonetta venne accolto da Lodovico con apparente amicizia e stima, come un vecchio ministro benemerito; ma egli non si lasciò ingannare, e nel momento in cui poté abboccarsi colla duchessa, le disse: Signora, io perderò la testa, e voi lo Stato. (1480) E in fatti, il giorno 30 di ottobre del 1480, a Pavia, gli venne troncata la testa all'età di settant'anni; al quale destino, sebbene ingiusto, si piegò colla costanza e magnanimità che doveva coronare la virtuosa di lui vita. vita. Cicho era fratello di Giovanni Simonetta, autore della storia sforzesca. E in vita e in morte Cicho si mostrò degno di essere stato l'amico di Francesco Sforza. Si fecero allora i quattro versi seguenti:

Dum fidus servare volo patriamque ducemque, Multorum insidiis proditus, interii. Ille sed immensa celebrari laude meretur, Qui mavult vita, quam caruisse fide .

Come poi venisse abbandonato a così indegno destino un ministro tanto illibato ed illustre, ce lo dice il Corio; cioè per la fazione de' nemici, i quali giunsero a prendere le armi contra lo stesso Lodovico, avendo alla testa Federico marchese di Mantova, Guglielmo marchese di Monferrato, Giovanni Bentivoglio ed altri illustri personaggi, i quali obbligarono Lodovico a far imprigionare il Simonetta, che, malgrado la protezione e gli uffici di altri principi, venne abbandonato alla vendetta de' nemici che gli avea conciliati la passata fortuna, e fors'anco la stessa sua virtù. Poco tardò a verificarsi il rimanente del vaticinio del Simonetta. (1481) Il favorito della duchessa Trassino, accecato, siccome avviene alle anime basse, dalla prospera fortuna, mancando ai riguardi ch'egli doveva verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e portò seco a Venezia un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si avvilì talmente, che rinunziò a Lodovico la tutela con un atto solenne (I), sperando con ciò di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il favorito: ma il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu d'impedirle l'uscita dallo Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata. Così Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui la casa Sforza poi perdette lo Stato, i Francesi occuparono il ducato, gl'Imperiali gli scacciarono; e si formò un nuovo ordine di cose per tutta l'Italia, come in appresso vedremo.

(I) Rogato dai notai Francesco Bolla e Candido Porro. vedremo. Le debolezze di una donna, e la bella figura di uno scalco fecero maggior rivoluzione nel destino d'Italia, di quello che non avrebbe fatto un gran monarca od un conquistatore. (1482) L'Italia si pose in armi l'anno 1482, e per due anni ne sopportò i mali. Il re di Napoli Ferdinando e i Fiorentini erano collegati cogli Spagnuoli. I Veneziani, il papa e i Genovesi erano riuniti nel contrario partito. Il papa abbandonò poscia i Veneziani e si unì agli Sforzeschi. Non nuoce punto l'ignoranza di questi minuti avvenimenti guerreschi; anzi la scienza di essi è atta soltanto a caricare confusamente la memoria, a scapito degli avvenimenti degni della nostra attenzione. V'era in Milano un partito contrario a Lodovico il Moro; alcuni per compassione della duchessa Bona, altri per avversione al carattere ambizioso di Lodovico, altri per vendicare le ceneri del virtuoso Simonetta, altri in fine per la naturale lusinga di viver meglio. (1485) Venne cospirato di togliere dal mondo Lodovico Sforza; e fu concertato che il giorno 7 di dicembre l'anno 1485, venendo egli, secondo il costume, alla chiesa di Sant'Ambrogio, quivi fosse trucidato. Il colpo andò a vuoto; atteso ch'egli vi fu bensì, ma entrovvi per una porta alla quale non eranvi le insidie. Se ciò non accadeva, egli spirava trafitto come il fratello, come il duca Giovanni Maria, come Giuliano, fratello di Lorenzo de' Medici. Non credo che i Gentili abusassero a tal segno de' sacri templi. (1489) Il duca di Bari Lodovico il Moro, poiché Giovanni Galeazzo, suo nipote, duca di Milano, giunse all'età di venti anni nel 1489, pensò di accompagnarlo colla principessa Isabella di Aragona, a cui era già stato promesso dal defunto duca. Ermes Sforza e il conte Gian Francesco Sanseverino furono destinati ambasciatori alla corte di Napoli per tal solenne inchiesta. Il Calco ce ne rappresenta la pompa. Erano questi accompagnati da trentasei giovani nobili milanesi. Fra essi vi fu una gara meravigliosa nel cambiare vestiti magnifici; chi dieci, chi dodici e chi sedici domestici conduceva seco, nobilmente vestiti di seta, con gemme e perle all'armilla del braccio sinistro. L'usanza di queste armille, ossia braccialetti gemmati, costava assai; poiché i padroni ne avevano al loro braccio del valore di settemila fiorini d'oro, ossia zecchini. Il Calco dice che veramente sembravano tanti sovrani, e portavano collane pesantissime d'oro della grossezza di un pollice. Questa comitiva giunse a Napoli, ed era composta di circa quattrocento persone. Tutto ciò che mostra il costume dei rispettivi tempi, debbe aver luogo nella storia (I). Perciò riferirò il magnifico pranzo che si presentò in Tortona alla sposa, a guisa di un'accademia poetica. Ogni piatto era presentato da una persona vestita poeticamente, e l'abito era relativo alla cosa che presentava. Giasone compariva portando il vello d'oro rapito in Colco. Febo offeriva il vitello rapito dalla mandra di Admeto. Diana poneva sulla mensa Atteone trasformato in cervo; e come la Dea avea cambiato un uomo in un animale, augurava che questi si trasformasse in uomo nel seno d'Isabella. Orfeo presentò diversi uccelli, ch'ei diceva essergli volati intorno per l'armonia della sua cetra or ora, mentre sull'Appennino cantava le divine sue nozze. Atalanta portava il cinghiale caledonio, da tanti secoli custodito, offrendo volentieri a sì illustre principessa quel trionfo, riportato in faccia di tutta la gioventù della Grecia. Iride venne poi offrendo un pavone tolto dal carro di Giunone, e rammentò il destino di Argo. Ebe, figlia di Giove e ministra di nettare ed ambrosia tolta dalla cena de' Numi, porse i vini più pregiati. Apicio dagli Elisii portò i raffinamenti del gusto, formati di zucchero. I pastori d'Arcadia presentarono varie cose

(I) Cfr. Apostolo Zeno, Dissertazioni Vossiane, vol. II, art. Bernardino Corio. (Nota di A. F. Frisi). di latte, giuncate, ricotte, caci, ecc. Vertunno e Pomona posero sulla mensa frutti rarissimi, perché era inverno. Poi le Najadi, Dee dei fonti, portarono pesci. Glauco portò frutti e pesci marini. Il Po, l'Adda, Silvano offerirono i pesci de' fiumi e laghi maggiori. Terminata la mensa, proseguì uno spettacolo composto degli attori medesimi, allusivo alle nozze. I costumi erano allora, come si scorge, ingentiliti e quasi troppo ricercati e rimoti dalla natura. Però si conosce che generalmente doveva essere colta la nobiltà del paese, e sapere la favola e gustare la poesia. La maggior parte di questi personaggi presentò le vivande cantando versi appropriati. Ciò hassi dal Calco. La sposa da Vigevano venne al castello di Abbiategrasso; d'onde sul canale detto Naviglio grande passò a Milano il giorno primo di febbraio del 1489, accompagnata dalla duchessa Bona, dal duca di Bari Lodovico, da don Fernando d'Este e da molti altri signori e matrone della più illustre nascita, e dagli oratori di quasi tutt'i principi d'Italia. Il giorno 2 febbraio uscirono gli sposi dal castello in abito bianco; ed alle staffe eranvi il conte Giovanni Borromeo e Gianfrancesco Pallavicino, primari vassalli. Lodovico il Moro cavalcava in seguito alla testa dei principali ministri. Le vie erano tutte coperte dal castello al Duomo di parati magnifici. Così celebraronsi le nozze del sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza. Queste nozze ci fanno dubitare che allora forse Lodovico non avesse in mente il progetto di usurparsi il ducato di Milano. Lodovico reggeva lo Stato come governatore a nome del duca, e nelle monete eravi da una parte l'immagine del duca: Johannes Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani Sextus, e dall'altra l'immagine di Lodovico colla leggenda: Ludovico Patruo gubernante. Ma questo governatore sotto varii pretesti rimosse dalle fortezze i castellani affezionati del duca, e sostituì uomini interamente dipendenti da esso Lodovico. (1491) Poi pensò ad ammogliarsi, ammogliarsi; e l'anno 1491, al 31 gennaio, condusse a Milano la sua sposa la principessa Beatrice d'Este. Ella aveva diecisette anni, Lodovico contava il quarantesimo (I). Si fecero pompe grandissime per queste nozze, e il Calco le descrive. Allora l'abito de' dottori collegiati era più allegro di quello che ora lo sia; purpureis vel coccineis togis fulgentes comparvero in quelle feste; e gli abiti delle matrone erano falcatis infra ubera pectoribus, ac pallio, ritu gabino, dextro ab humero lævum in latus subducto . Avevano le matrone un lungo strascico, ed era pomposo, elegante e grave il loro vestito, in guisa che ballavano con graziosa lentezza: modice et venuste , dice il Calco. Per questi sponsali si fecero pure magnifiche giostre; et il pretio de sì illustrata giostra per egregia virtute hebbe Galeazo Sanseverino e Giberto Borromeo. Poste a convivere insieme le due principesse, cioè la duchessa Isabella e la principessa Beatrice duchessa di Bari, nacquero de' dissapori. Isabella, come moglie del duca regnante, pretendeva d'essere sola sovrana; e che Beatrice fosse considerata suddita. Isabella era figlia di un re. Beatrice, moglie del tutore del duca, considerava la duchessa come la pupilla. L'avo d'Isabella era Ferdinando, nato da illegittima unione. Le meschine vicende della casa di Aragona nel regno di Napoli erano argomenti di cronologia contraposti all'illustre sangue estense (2). (1492) Il fatto di tai domestici partiti fu che Lodovico


(I) Queste nozze erano già state concertate undici anni prima, cioè nel 1480, mentre la sposa, figlia d'Ercole d'Este, aveva sei anni. (2) Il Corio dice: Lodovico Sforza, già inducto da Hercule Estense e da la mugliere, in tutto cominciò aspirare alo intero governo dil Stato; all'anno 1489. Rispetto poi alle rivalità dice, all'anno 1491, Quivi tra Isabella mogliere dil duca e Beatrice, per volere ciascuna de loro prevalere ad altra tanto di loco et ornamento quanto in altra cosa una tanta emulazione e sdegno cominciò tra ambe due, che finalmente, come sarà demostrato nella parte seguente, sono state causa de la totale eversione dil suo imperio. Lodovico il Moro si rese padrone dell'erario, e passò a disporre il tutto da sé. Promuoveva alle cariche, faceva le grazie, appena lasciava al nipote il nome di duca. Il duca Giovanni Galeazzo e la duchessa Isabella scarsamente erano alimentati e penuriavano di ogni cosa, sebbene fosse già stata feconda la duchessa d'un bambino, nato in febbraio 1491. Posta in tale angustia la Isabella, trovò modo di renderne informato Alfonso, di lei padre. Il re di Napoli spedì a Lodovico il Moro i suoi oratori, i quali, con somme lodi innalzando quanto come tutore aveva fatto, conclusero chiedendogli che abbandonasse il governo dello Stato al duca Giovanni Galeazzo, che già contava il vigesimoterzo anno dell'età sua. Lodovico trattò con onorificenza gli oratori del re Ferdinando, avo della duchessa: ma sul proposito di rinunziare al governo non die' risposta alcuna. (1493) Dopo di ciò Lodovico il Moro attentamente osservava i movimenti del re di Napoli. Seppe che si allestiva un'armata contro di lui, e si preparava una flotta a cui doveva comandare Alfonso, padre della duchessa, principe valoroso e prudente. A un tal nembo avrebbe potuto resistere Lodovico colle forze proprie, se avesse potuto fidarsi de' sudditi che governava. In ogni governo vi è sempre un buon numero di malcontenti, essendo le voglie de' popoli sempre maggiori del potere sovrano; e questi malcontenti avrebbero abbracciato il partito del loro sovrano, l'oppresso duca Giovanni Galeazzo, di cui la condizione moveva a pietà, sì tosto che si fosse avvicinata un'armata a sostenerlo. Conveniva suscitare un potente nemico all'Aragonese re di Napoli, e distoglierlo così dal pensiero degli Stati altrui, per difendere il proprio. Carlo VIII, re cristianissimo, era nel bollore dell'età; aveva ventiquattro anni; amava le imprese grandi; era capace di riscaldarsi l'animo. Lodovico, che avea vissuto alcuni anni nella Francia e conosceva la nazione, formò il progetto di far prendere le armi al Re Carlo, per ricuperare il regno di Napoli. Spedigli come ambasciatore Carlo Barbiano, conte di Belgioioso, il quale lo animò a scacciare da Napoli gli usurpatori aragonesi, e rivendicando le ragioni della casa di Angiò, unire quel regno alla corona di Francia. Il re aveva già in mente di frenare i Turchi, che minacciavano la cristianità: e nessun paese era a ciò più vantaggioso, quanto il napoletano. Oltre a ciò si rappresentò al re Carlo, che il denaro di Lodovico, le sue milizie erano agli ordini suoi; i desiderii de' Napoletani erano per lui; i principi d'Italia, il papa, i Fiorentini, i Veneziani, tutti avrebbero favorita l'impresa. Così offerivasi a Carlo VIII di rinnovare nell'Italia la memoria di Carlo Magno. Già i Turchi minacciavano la Dalmazia e l'Ungheria. La gloria di salvare i regni cristiani era riserbata al primogenito fra i cristiani, il re di Francia. In tal guisa il conte di Belgioioso destramente persuase il re. Vinse colle maniere accorte e col denaro di Lodovico alcuni primari favoriti. L'impresa venne decisa, e il re, convocati gli Stati a Tours, pubblicò la guerra pel regno di Napoli; ed ivi anticipatamente distribuì i feudi di quel regno, e si appropriò il titolo di re di Gerusalemme e di Sicilia, oltre quello di re di Francia. Alcuni ministri francesi, per comandare più liberamente colla lontananza del re, applaudirono. Vi era chi conosceva non essere facile l'impresa; essere il re Ferdinando avveduto; essere valoroso Alfonso di lui figlio; aver essi il fiore della milizia al loro stipendio; essere tuttora dubbioso qual partito prenderebbero il papa, i Fiorentini e i Veneziani; doversi temere l'imperatore Massimiliano e il re di Spagna Ferdinando, pronti forse ad invadere la Francia, se ella rimaneva sprovveduta. Lodovico si adoperò per togliere le dissensioni fra Massimiliano imperatore e Carlo VIII. Senza di ciò poteva il re cristianissimo venir costretto a retrocedere per difendere la Francia. Massimiliano era animato contro contro il re Carlo, che gli aveva ripudiata la figlia, e tolta la sposa ed una provincia. Lodovico cominciò a dar timore a Massimiliano, che Carlo VIII in Roma non si facesse incoronar dal papa imperatore; giacché quell'augusto non per anco avea fatta cotesta cerimonia. Indusse il re Carlo ad usare tutti gli ossequi all'imperatore. Finalmente Lodovico coll'imperator Massimiliano concluse di dargli in moglie la principessa Bianca Maria di lui nipote, figlia del duca Galeazzo. Concertò coll'imperatore di essere egli dichiarato duca di Milano; e quattrocentomila fiorini d'oro, ossia zecchini, vennero pagati all'imperatore. Le nozze della Bianca Maria seguirono nel Duomo di Milano il giorno l° dicembre 1493, avendo qua spediti i suoi procuratori Massimiliano. Così Lodovico liberò il re Carlo dal timore di una sorpresa de' Cesarei. Colla Spagna pure seguì l'accordo; per cui si cedettero a Ferdinando ed Isabella Perpignano e Roncilione. Assicuratosi per tal modo Carlo VIII la quiete interna, si dispose a passar le Alpi. Lodovico il Moro era un usurpatore, ma lo era grandiosamente. Egli si era sottratto alla morale, ed erasi scelta per giudice quella funesta ragion di Stato, che suol preferire i misfatti illustri alla oscura virtù. Arbitro fra l'imperatore e il re di Francia, dà una nipote per moglie al primo; fa passare il re nell'Italia. La scena ch'ei rappresentò sul teatro di Europa, è da monarca assai superiore alla condizione di un semplice duca di Milano. Poiché il re Ferdinando di Napoli vide il fulmine che stavagli imminente, spedì a Lodovico il Moro Camillo Pandone, pregandolo acciocché volesse allontanare il re Carlo dalla impresa, e promettendogli di essere pronto dal canto suo a guarentire a Lodovico tutto quello che più gli fosse piaciuto pel Milanese. Il conte Carlo di Belgioioso da Parigi volò in cinque soli giorni nella Lombardia (I); ed a nome del re di

(I) Il Corio lo attesta all'anno 1493; il che conferma quanto antecedentemente accennai sulla venuta di Galeazzo Maria dalla Francia venne a proporre a Lodovico una perpetua confederazione, offerendogli anche il principato di Tàranto. Ma il saggio conte, da ministro fedele, cercò di sconsigliare Lodovico, mostrandogli l'incertezza della impresa e il pericolo dell'Italia e suo, qualora mai riuscisse. Lodovico, accettando i consigli del conte e le offerte del re Ferdinando, avrebbe potuto gloriosamente usurpare il dominio; egli volle nondimeno persistere nel primo impegno. Perché poi ricusasse quell'ottimo partito e preferisse una guerra pericolosa al godimento tranquillo dello Stato, non lo dice la storia. Forse egli non si fidò del re Ferdinando, né delle forzate offerte di lui; sicché, passato il timore, non dovesse nuovamente vederselo nemico. Forse egli ascoltò le personali passioni più che non si conviene ad un sovrano; e l'odio contro la casa di Aragona, o la benevolenza verso gli amabili Francesi, presso i quali era vissuto, prevalsero ai sentimenti che doveva adottare come uomo di Stato. Il vero motivo non si sa: unicamente ci è noto che Lodovico promise al re Carlo di Francia cinquecento uomini d'arme, quattro navi, dodici galere, il suo erario e la sua persona. (1494) Inutilmente il papa Alessandro VI spedì emissari nella Francia per frastornare la venuta del re. Lodovico se ne avvide: ed animò il re Carlo a non differire, acciocché i Napoletani, il papa e i Fiorentini non avessero tempo di radunare un'armata e disputargli i difficili passi degli Appennini. Il re Carlo VIII si ritrovò in Asti il giorno 11 di settembre 1494. Poi, il giorno 14 ottobre, nel castello di Pavia venne magnificamente accolto da Lodovico il Moro. Ivi il re visitò il duca Giovanni Galeazzo, ammalato di consunzione, e non senza qualche suspecto, dice il Corio; l'infermo raccomandò alla pietà del re Francesco suo figlio e la duchessa sua moglie; e fra pochi

Francia a Milano, cioè che vi fossero stazioni regolate pel cambiamento de' cavalli. giorni terminò la sua vita al 22 ottobre nella età di venticinque anni (I). Il di lui figlio Francesco poi visse nella Francia e fu abbate di Marmoutiers. Lodovico somministrò al re non poca somma di denaro. Corio dice della morte del duca, che parve ad ognuno crudele cosa che, non attingendo anche il vigesimoquinto anno di sua etate, come immaculato agnello, senza veruna causa fusse spinto dal numero de' viventi. Il re di Francia si mostrò sensibile a tal morte. Volle in Piacenza, ove lo seppe, onorare il defunto con funerali, e vestì gran numero di poveri col danaro suo; il che fu forse cagione onde fosse da Lodovico fatto trasportare in Milano e tumulare in Duomo colle cerimonie consuete l'infelice nipote, che fu il sesto duca di Milano; non perché abbiavi comandato giammai, ma perché ne portò il titolo; e le monete coniate ed i diplomi spediti furono in di lui nome e colla di lui effigie.

(I) Antonio Grumello, nella cronaca MS, che ritrovasi presso il signor principe Alberigo di Belgioioso d'Este al foglio II, disse: Ritrovandosi il gallico re in la città de Pavia el intexo Jo. Galeaz Sfortia, ducha di Milano, esser gravemente infermo di una febbre tossichata, vuolse sua maestà vederlo: el prelibato ducha humanamente salutando sua maestà, et re gallico confortandolo a la salute, et che sua maestà mai hera per mancharli. Vedendo Jo. Gz. Sfortia esser al fine di sua vita, ricomandato el suo unigenito figliuolo Francesco Sfortia, conte di Pavia, al gallico re, pregando sua maestà lo voglia aceptare per suo figliolo et con humanissime parole fu acceptato da esso re gallico, et non dubitasse che mai hera per mancarli e mantenerlo in stato felicissimo. CAPO DECIMONONO.

Di Lodovico il Moro, Settimo Duca di Milano, e della venuta del Re di Francia Lodovico XII.

Lodovico aveva il diploma imperiale che lo dichiarava duca di Milano; ma lo teneva nascosto. Già vedemmo che l'imperator Federigo non concesse mai il ducato di Milano né a Francesco Sforza né a Galeazzo Maria. Giunto alla suprema dignità dell'impero Massimiliano I, ei ne conferì il ducato, non già al primogenito dell'ucciso Galeazzo, ma al tutore di esso, Lodovico il Moro. Il diploma venne spedito in Anversa il giorno 5 settembre 1494. In esso diploma dichiara quell'angusto che preferiva Lodovico, perché esso fu generato da Francesco Sforza mentre possedeva il ducato; il che non poteva dirsi di Galeazzo. Pare che avrebbe dovuto l'estensore del diploma omettere questa cavillazione, superflua presso l'imperatore, che non riconosceva altri duchi di Milano, se non i nominati ne' cesarei diplomi. Con altro diploma 8 ottobre 1494, dato pure in Anversa, l'imperatore dichiara che Lodovico gli facesse istanza per ottenere l'investitura del ducato in favore di Giovanni Galeazzo; ma che l'imperatore Federigo, suo padre, ed egli lo aveano ricusato, perché praefatus Joannes Galeaz ipsum ducatum et comitatum a populo Mediolanensi recognovit, quod quidem fuit in maximum Imperii praejudicium; et quia est de consuetudine Sacri Romani Imperii neminem unquam investire de aliquo statu sibi subjecto, si eum de facto sibi usurpavit, vel ab alio recognoverit (I). Lodovico, mentre in segreto possedeva questi diplomi imperiali, convocò nel castello i primari dello Stato; e notificando la morte seguìta del duca Giovanni Galeazzo, propose loro d'acclamare per duca Francesco, bambino primogenito del defunto. Il presidente della camera Antonio Landriano vi si oppose, attesa l'età del fanciullo: e ricordando le inquietudini della minorità passata; lo stato d'Italia col re Carlo alla testa d'un armata; i pericoli imminenti, propose che Lodovico medesimo fosse da riconoscersi duca, come quel solo che nelle procelle attuali poteva difendere lo Stato. Nessuno ardì di uniformarsi alla proposta di Lodovico; e il voto del Landriano venne secondato da tutti. Ben tosto, uscendo dal consiglio, lo proclamarono duca nel mentre appunto che nel Duomo, allo spettacolo dell'estinto Giovanni Galeazzo, esposto colla pompa funebre allo sguardo di ognuno, si versavano lagrime di compassione sul misero di lui fato. La vedova duchessa Isabella, coi poveri bambini suoi, stavasene in Pavia, rinchiusa entro una stanza, ricusando la luce del giorno, giacendo per tristezza sulla nuda terra, in mezzo a lugubri abbigliamenti. Ivi intese una tale proclamazione, che toglieva la sovranità anche ai meschini avanzi del giovine suo sposo, e poneva il colmo al trionfo della rivale duchessa Beatrice. (1495) Quando il popolo invidia la condizione de' signori grandi, ha egli sempre ragione? Due ministri imperiali vennero a Milano per conferire la dignità ducale a Lodovico; ed era appunto allora che si compieva il secolo in cui la stessa cerimonia erasi fatta per il primo duca. Il giorno 26.

(I) Il Corio gli dà per extensum all'anno 1494. maggio del 1495, alla porta del Duomo, con stupende cerimonie, dice il Corio, ornarono Lodovico del manto, berretta e scettro ducale, sopra un eminente trono. Giasone del Maino, celebre legista, pronunziò l'orazione; poscia si andò a Sant'Ambrogio; d'unde in castello, dove furono celebrati li stupendi triumphi quanto a nostro secolo fussino d'altri; così il Corio. Stacchiamo lo sguardo, almen per poco, dai tristi avvenimenti della politica, rimiriamo oggetti più ameni, cioè i progressi che la coltura fece presso di noi sotto il governo di Lodovico il Moro. Lodovico dapprincipio fabbricò il vastissimo claustro del Lazzaretto secondo l'uso di que' tempi; ma in appresso egli pose all'architettura per maestro il Bramante da Urbino, alla pittura, Leonardo da Vinci. Questi grandi uomini erano cari a Lodovico. Sotto la scuola di quest'ultimo si formarono Polidoro da Caravaggio, Cesare da Sesto, Bernardo Luino, Paolo Lomazzi, Antonio Boltrasio ed altri, dai quali ebbe vita ed onore la scuola milanese. L'architettura era ne' primi anni sotto Lodovico resa elegante bensì, ma conservava capricciosi ornamenti, siccome scorgevasi nella facciata della casa de' signori conti Marliani (I). Poi s'innalzò il magnifico tempio della madonna di San Celso; si eresse la facciata del palazzo arcivescovile; si fabbricò il chiostro, veramente nobile e grandioso, dell'imperial monastero di Sant'Ambrogio (2); e così si esposero allo sguardo pubblico

(I) Cambiata, l'anno 1783 per servire al monte di Santa Teresa, recentemente collocatovi. E qui vuolsi notare che gli scudi in bianco marmo rappresentanti i duchi di Milano, che servivano di ornato alla facciata di questa casa, furono preservati dal nostro storico, e collocati in ordine nel primo cortile della sua casa paterna, ivi dicontro. (Il Continuatore). (2) La chiesa della madonna di San Celso è veramente il primo monumento e il più antico di esatta architettura. La facciata dell'arcivescovado e il palazzo modelli di bella architettura. Lodovico grandiosamente stipendiava gli abili artisti e gli uomini d'ingegno; accordava loro piena immunità da ogni carico; animava i progressi della coltura. Demetrio Calcondila, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Giulio Emilio erano fra noi gl'illustri letterati protetti e beneficati dal Moro. Bartolomeo Calco, segretario di Stato ed uomo colto, per secondare il genio del suo principe, instituì le scuole pubbliche, le quali sino a' giorni nostri ne portano il nome. Tommaso Grossi eresse e dotò altre pubbliche scuole per gratuita istituzione della gioventù; e queste pure conservano il nome del loro fondatore. Tommaso Piatti, che sommamente era in favore presso Lodovico, instituì pubbliche cattedre di astronomia, geometria, logica, lingua greca ed aritmetica. Con tali beneficenze pubbliche si otteneva l'amicizia di Lodovico; il che certamente fa sommo onore alla memoria di lui. Non è dunque da meravigliarsi se di que' tempi le belle lettere venissero in fiore, e se da quella scuola uscissero poi Girolamo Morone, di cui accaderà in breve ch'io parli, Andrea Alciato e Girolamo Cardano. Scrivevano allora la storia patria Tristano Calco, memorabile per l'elegante stile latino, e per la molta accuratezza; Bernardino Corio, inelegante scrittore bensì, e credulo compilatore delle antiche favole, ma accurato e fedele espositore delle cose de' tempi più vicini. Allora la poesia, la musica, tutte le belle arti ebbero vita e onore. Il cavaliere Gaspare Visconti in quella età scriveva rime degne di leggersi (I).

palazzo dell'arcivescovo si formarono dall'arcivescovo Guido Guido Antonio Arcimboldi. Il claustro di Sant'Ambrogio si fabricò dal cardinale Ascanio Sforza. Veggasi il Lattuada, Descrizione di Milano, tom. IV, p. 308. Due altre chiese si fabbricarono in que' tempi, cioè la Rosa e la Passione, meritevoli di essere osservate. Anche la cupola delle Grazie è di quei tempi, e si assomiglia alla prima maniera della casa Marliani.

(I) Raccolta Milanese stampata presso Antonio Anelli Ecco quasi per saggio tre sonetti di lui fra i molti che ho esaminati. Il primo, singolarmente nei due quaderni, mi pare assai robusto e poetico.

Rotta è l'aspra catena e il fiero nodo Che l'alma iniquamente già mi avvinse; Rotto è il gruppo crudel che il cor mi strinse, Onde mia sorte ne ringrazio e lodo. Fuor del pensiero ho l'amoroso chiodo, Che poco meno a morir mi sospinse; E il volto che nel petto amor mi pinse, Lì dentro è casso, e senza affanni or godo. Ringrazio il cielo, il qual m'ha liberato Dalla cieca prigion, piena d'orrore, Dove gran tempo vissi disperato. E quando a sé pur mi rivogli amore, Me leghi a un cuor che sia fedele e grato, Ch'io servirò per fino all'ultim'ore.

L'altro sonetto seguente parmi assai leggiadro, e ci fa vedere che l'allegria e la sociabilità erano conosciute da que' nostri antenati. Anco un'altra osservazione sul costume ci si presenta; ed è che, usando allora le gentildonne abiti pesantissimi di broccato, non potevano altrimenti ballare e vivacemente, come ora si costuma; ma unicamente potevano moversi con graziosa lentezza, modice et venuste, siccome nel capitolo precedente vedemmo (I):

1756, 2 vol. in 4° Nel primo volume, dal foglio 2 fino al 22, trovansi parecchi sonetti di messer Gaspare Visconti, con alcune notizie intorno all'autore. (Nota di A. F. Frisi).

(I) Di questi broccati pesantissimi se ne veggono tuttora in un vecchio paramento che conservasi presso i Domenicani delle Grazie. La statua di Beatrice d'Este, che è nella Certosa di Pavia, ci mostra la ricchezza e il peso di quei vestiti di allora. L'immagine di Beatrice vedesi pure in un quadro della scuola di Lionardo a Sant'Ambrogio ad Nemus. Ella vi è in ginocchio coi due suoi figli Massimiliano e Francesco, e collo sposo Lodovico il Moro. perciò Gaspare Visconti, nel seguente sonetto, fra i pregi delle ballerine, annovera il mover lenti lenti i piedi. Ecco il sonetto:

Io vidi belle, adorne e gentil dame Al suon di soavissimi concenti Co' loro amanti mover lenti lenti I piedi snelli, accese in dolci brame. E vidi mormorar sotto velame Alcun degli amorosi suoi tormenti, Dividersi, e tornare al suono intenti, E cibar d'occhi l'avida sua fame; Vidi stinger le mani, e lasciar l'orme Dolcemente stampate in lor non poco, E trovarsi in due cor desio conforme. Né mirar posso così lieto giuoco, Ch'a pensier lieto alcun possa disporme Senza colei che notte e giorno invoco.

D'un altro genere, men elevato sì, ma pregevole per la facilità, è il sonetto seguente ch'ei scrisse a messer Antoniotto Fregoso, da cui veniva avvisato che una indiscreta vecchia non cessava d'infamarlo. Così rispose:

Omai, Fregoso, io son come il cavallo Che porta il tuon delle pannonie schiere, O come quel qual usa il schioppettere, Che al bombo del schioppetto ho fatto il callo Riprenda pur la plebe ogni mio fallo, Che tanto fa il suo dir quanto il tacere, Qual son l'opere mie, quale il volere, Chi il vero intende, apertamente sallo. Che diavol sarà poi con questa femmina, La qual non altra cosa che zizania Nel steril orto del rio volgo semina! Sola sé stessa infin, non altri lania; E quanto più suo pazzo error s'ingemina, Tanto a chi sa, dimostra più sua insania.

Dal fine d'un sonetto ch'egli scrisse alla Beatrice d'Este si conosce qual ascendente quella principessa avesse sull'animo di Lodovico:

Donna Beata, e spirito pudico, Deh, fa benigna a questa mia richiesta La voglia del tuo sposo Lodovico. Io so ben quel che dico: Tanta è la tua virtù, che ciò che vuoi Dello invitto suo cor disponer puoi (I).

Di questo magnifico e generoso cavaliere aurato, Gaspare Visconti, consigliere ducale, evvi pure un poema stampato per magistro Philippo Mantegatio, dicto el Cassano, in la excellentissima cittade de Milano, nell'anno MCCCCLXXXXV, a dì primo de aprile. Questo poema ha per titolo: Paulo e Daria amanti. Non v'è traccia che meriti di seguirne la lettura. Vi sono però alcune ottave passabili, come:

Messer Luchino in segno di letizia Fece ordinar un bel torneamento, E de' compagni della sua milizia Ne scelse appunto al numero ducento; Ciascun de' quali ha forza e gran divizia; Milanese ciascun, pien d'ardimento; Che allor Milano al marzial negozio Molto era intento e non marciava in ozio Giunto era il giorno al tornear proposto Da Luchin di Milan, signor e padre, Qual credo fosse a' quindici d'agosto. Quando vennero in campo ambe le squadre Ognun quanto più può, fa del disposto,

(I) Queste poesie furono da me copiate da un antico codice manoscritto originale dell'autore medesimo, il quale si custodisce fra molti altri manoscritti nella pregevolissima collezione del signor principe Alberico di Belgioioso d'Este. In esso leggonsi più centinaia di sonetti ad imitazione del Petrarca. Leggesi pure una commedia in ottava rima dello stesso Visconti; poesie, a dir vero, di poco valore. Con sopraveste e fogge alte e leggiadre, All'uso pur di quel buon tempo prisco, Ch'ogni ornamento suo pagava el fisco. La compagnia d'Èstor tutta ross'era; L'altra di Dario candida si vede, Che de' Visconti la divisa vera Bianca e rossa è, se al ver si presta fede, ecc.

Canto II (I).


Il Corio ci descrive l'urbanità, l'opulenza, il raffinamento e il lusso della corte di Lodovico, prima che sventuratamente promuovesse l'invasione dei Francesi. Spettacoli, giostre, tornei occupavano l'ozio felice di que' tempi, ne' quali quel signore compariva il più rispettato principe d'Italia. L'ambasciator veneto Ermolao Barbaro, spettatore di quei' tornei, compose i seguenti versi conservatici dal Corio:

Cum modo constratos armato milite campos Cerneret, expavit pax, Ludovice, tua. Et mihi: surge inquit; circum sonat undique ferrum, Me meus ejectâ Conditor arma parat. Te rogo per Veneti sanctissima jura Senatûs, Occurre ingenti, si potes, exitio. Tunc ego: pone metum, Dea; te Lodovicus adorat, Numine plus gaudet, quam Jovis, ille tuo. Nec tu bella time, simulacra et ludrica sunt haec; Misceri hoc tantum convenit arma loco. I nunc, et coelo terras cole, Diva, relicto; Sin minus, hic pro te sufficit, alta pete, Sforciadasque tuos terrâ defende marique, Et belli et pacis artibus egregios .

Frutto di questa universale coltura promossa dal duca e dalla giudiziosa scelta ch'egli sapeva fare degli

(I) L'autore Gaspare Visconti mori all'età d'anni 38, il giorno 8 di marzo l'anno 1499. Vedi Argelati Biblioth. Scriptor. Mediolan., tom. II, parte prima, col. 1604. uomini di merito, fu la riunione del canale della Martesana con l'altro antico, cavato del Tesino. Lionardo da Vinci, siccome ho accennato al capitolo decimosettimo, con sei sostegni superò la differenza del livello di circa tredici braccia, e rese la navigazione comunicante dal Tesino all'Adda. L'invenzione dei sostegni a gradino era appunto di quel tempo; e i primi modelli in questo genere si sono veduti nei navigli di Bologna e di Milano. Così dice il sullodato Paolo Frisi (I). Il sistema del governo allora era questo. Lodovico aveva quattro segretari. Bartolomeo Calco era alla testa degli affari di Stato; egli apriva le lettere dei principi esteri; disponeva le risposte; dirigeva il carteggio co' ministri alle corti estere; trattava coi ministri forestieri residenti in Milano. Aveva sotto di sé varii cancellieri, uno per Francia, uno per Germania, uno per Venezia, e così dicendo. Il reverendo Jacopo Antiquario era segretario per le cose ecclesiastiche, per le spedizioni de' benefizi e cause dipendenti. Giovanni da Bellinzona era segretario per gli affari di giustizia e singolarmente criminali. Giovanni Jacopo Terufio aveva gli affari della camera, e fissava la lista delle spese de' salariati ed altre costanti, spedendole ai Magistri delle entrate, ossia a quel corpo che oggidì chiamasi Magistrato, accioché ne facesse seguire alle scadenze i pagamenti. Questi quattro segretari avevano i loro dipartimenti nel castello, ordinaria residenza del duca (2). Le entrate del duca ascendevano,

(I) Tomo II, delle Opere, Milano, presso Galeazzi 1783, p. 468. (2) Tutte queste notizie sono tratte dal vol. I, num. 17 della collezione illustre del signor principe Belgioioso d'Este. Quell'antico MS. contemporaneo dice di quest'ultimo segretario camerale: se faceva per esso secretario uno quaterneto de tutti li salariati, quale se faceva sottoscrivere da l'excelentia del duca, insieme con un rotulo, che se domandava la lista grande de li salariati, in la quale per ascendevano, tutto compreso, a seicentomila annui zecchini (I). Delle gioie da monarca che Lodovico il Moro possedeva, le quali diede in pegno per averne danari, quattro pezzi sol bastano per darcene idea. Da un manoscritto antico conservato nella grandiosa collezione del signor principe di Belgioioso d'Este (2), ciò ho rilevato. La carta si intitola: Zoye impegnate che erino dell'illustrissimo signor Lodovico Sforza - El balasso chiamato el Spino, estimato ducati venticinquemille. El rubino grosso con la insegna del Caduceo, de carati 22. Con una perla de carati 29, estimati ducati venticinquemille. La punta grossa di diamante, estimata ducati venticinquemille. La perla grossa pesa con l'oro den. 6, gra. 9, vale ducati diecimille. Il Corio ci descrive Lodovico Sforza come uomo di molto ingegno, d'aspetto veramente maestoso, di contegno nobile e singolarmente pacato mai sempre, anche nelle occasioni nelle quali è più difficile il conservarsi tale. Le


via de summario, era descripto tutta la spesa del Stato, la quale se mandava inclusa in una lettera ducale expedita per el dicto secretario alli magistri de le entrate ordinarie et thesaurero, commettendoli che facesseno fare la expeditione de li pagamenti secundo era annotato in esso quaterneto et lista alli tempi debiti et secundo l'ordine de la corte; e così si faceva.

(I) 2 Il Prato asserisce che le entrate ducali ascendessero nel 1399, a ducati ossia zecchini settecento ottantamila. Il Corio all'anno 1492, dice seicentomila. Da un MS. gentilmente mostratomi dal chiarissimo signor presidente conte Carli, le ducali entrate allora erano zecchini 424,472; io mi sono attenuto al Corio, supponendo che il minor calcolo comprenda le sole entrate ordinarie. Paragonata poi l'estensione dello Stato d'allora, le opere grandiose che si intraprendevano, con seicentomila ducati, se ne dedurrà una nuova conferma di quello che in più luoghi ho indicato, cioè sul valore de' metalli nobili maggiore assai in que' tempi che non lo è ai giorni nostri. Un uomo con cent'once d'oro oggidì è meno ricco di quello che lo fosse allora uno che ne possedesse cinquanta.
(2) Vol. I, Miscellanea, num. 14. immagini che ci rimangono di lui, ci rappresentano appunto una fisionomia corrispondente, ed anche nel conio delle monete di allora si conosce la eleganza e maestrìa d'ogni bell'arte.

Ripigliamo il filo della storia. I Francesi, entrati nell'Italia sotto il loro re Carlo VIII, la trascorsero come un fulmine dalle Alpi sino al regno di Napoli, di cui quasi senza contrasto s'impadronirono. Nessun riguardo usarono sulle terre del duca; anzi a Pontremoli uccisero varii del paese, ed alcuni degli stipendiati del duca. Cominciò allora, ma tardi, ad accorgersi Lodovico del vortice pericoloso in cui si era voluto immergere. Il duca d'Orleans in Asti non dissimulava punto d'essere quella l'occasione opportuna per far valere le ragioni della principessa Valentina, di lui ava, sul ducato di Milano. Il re Carlo si presenta a Firenze, e senza ostacolo se gli aprono le porte. Passa a Roma; indi, in tredici giorni, scaccia da Napoli e dal regno gli Aragonesi, ai quali appena erano rimaste alcune città marittime. Questo fatto veramente memorando e romanzesco, benché verissimo, sbigottì tutti gli Stati d'Italia. Ma il tempo lasciò loro ripigliar animo. L'armata francese insolentita per tanta fortuna, disprezzava troppo gli abitatori del paese. Non avevano limite alcuno le violenze di ogni genere. La rapina era senza nemmeno un velo di pudore. La virtù e la bellezza si credevano un prezzo giusto della conquista. Nessun asilo era sicuro contro della scostumatezza del vincitore. Il nome francese in pochi giorni divenne odioso a tutto il regno; ed il re Carlo trovossi mal sicuro e incerto di avere la comunicazione libera colla Francia. Il duca di Orleans mosse le sue genti dalla città di Asti verso Novara, e inaspettatamente la occupò; spiegandosi senza mistero di prendere egli per sé il Milanese, come discendente dalla Valentina. Lodovico Sforza, costernato per tal rovescio, mal sicuro dei sudditi (presso i quali la morte dell'innocente duca Giovanni Galeazzo, la depressione della misera duchessa Isabella, il supplizio del Simonetta, l'usurpato dominio e la comperata investitura erano argomenti di avversione, malgrado le altre molte sue eccellenti qualità), Lodovico Sforza adunque in tal condizione si abbandonò d'animo a segno, che divisò di ricoverarsi in Aragona, ed ivi privatamente finire i giorni suoi, di che tenne discorso col ministro di Spagna residente in Milano. Ma Beatrice d'Este lo rianimò, s'intromise e lo costrinse a pensar da sovrano. Si formò una nuova lega fra il papa, i Veneziani e il duca di Milano. Sollecitamente riunirono le loro milizie per la comune salvezza dell'Italia. Le forze si postarono verso gli Appennini, attraverso dei quali dovevano passare i Francesi. Il re immediatamente partì da Napoli, lasciando in quel regno varii presidii nelle fortezze, e conducendo seco circa quindicimila uomini. Il papa si ricoverò in Ancona. Passò il re dalla Romagna e dalla Toscana, e giunto fra le angustie de' monti a Val di Taro, ivi ritrovò circa dodicimila soldati della nuova lega. Per un araldo il re fece significare ai collegati di maravigliarsi, trovando impedito il passaggio, non cercando egli se non di ritornarsene in Francia, pagando col suo denaro i viveri. Risposero i collegati che non lo avrebbero permesso, se prima non si restituiva Novara, indebitamente sorpresa. Ritornò l'araldo dicendo, che il re intendeva di passare senza condizione veruna; e che in caso di rifiuto ei si sarebbe fatta la strada sopra i cadaveri degl'Italiani. Questi risposero al re Carlo, che non si sarebbe egli spianata la via così facilmente, come gli era accaduto a Napoli, che lo aspettavano alla prova. Seguì poscia un'azione sanguinosa da ambe le parti, in cui però nessuna ebbe compiuta vittoria. Il re non si aprì l'uscita, né rimase oppresso. Conobbe però il re Carlo che l'impresa non era sì facile, quanto se l'era immaginato. Spedì un araldo chiedendo tregua per tre giorni, onde seppellire i cadaveri, e i collegati l'accordarono l'accordarono per un giorno e mezzo. In sì fatto labirinto trovavasi il re cristianissimo, donde ne uscì il giorno 8 di luglio 1495, fingendo di attaccare l'armata della lega, e frattanto ponendosi in marcia per uno stretto mal custodito dalla parte della Trebbia, e così ritornossene nel suo regno con poca gloria: poiché il re aragonese di Napoli, il quale erasi ricoverato nell'isola d'Ischia, ben tosto ricomparve nella sua capitale, dove fu con applauso e festa ricevuto; ed i presidii francesi, mancando di soccorso, attorniati da un popolo nemico, dovettero un dopo l'altro abbassare le armi e rendersi. Lo storico Voltaire si è lasciato sedurre dall'amor nazionale a segno di essere ingiusto cogl'Italiani in raccontando questa spedizione del suo re; quasi che effeminati, molli, degradati, non vi fosse più fra di noi né coraggio né valor militare. Gli storici contemporanei d'Italia sono una manifesta prova dei traviamenti dell'autore francese nella decantata sua opera sulla storia generale; traviamenti che io appunto ho notati, perché in moltissimi altri luoghi, riscontrandolo, hollo trovato tanto vero ed esatto, quanto elegante pensatore. (1496) Il duca Lodovico, quantunque liberato dall'imminente pericolo, non avea peranco riacquistato quel robusto vigor d'animo, senza di cui non si preserva lo Stato negli eventi contrari. Fortunatamente la duchessa Beatrice poté far le sue veci. Si raccolsero i confederati a scacciare il duca d'Orleans da Novara. Ivi Beatrice d'Este vedeva schierarsi gli armati al suo conspecto, dice il Corio. Novara ritornò al duca. I Francesi abbandonarono il paese. La pace venne sottoscritta. Così in un anno cominciò e finì la rapidissima spedizione di Carlo VIII, senza verun frutto pei Francesi, anzi con loro danno e con danno dell'Italia. Cessato appena il pericolo dei Francesi, nacquero le solite rivalità fra gli Stati d'Italia. I Fiorentini volevano assoggettar Pisa. I Pisani si offersero al duca Lodovico, il quale, per non offendere i Fiorentini, non volle accettarli. I Pisani si esibirono ai Veneziani; e questi, sebbene formalmente non gli accettassero, destramente posero in Pisa un presidio. Lodovico, signore di Genova e dell'isola di Corsica, da Genova dipendente, non mirò con indifferenza tal fatto, per cui le forze marittime venete potevano acquistare nuovi appoggi nel mar Tirreno. Pisa era considerata città imperiale. Il duca spedì all'imperatore Massimiliano Marchesino Stanga, animandolo a passare nell'Italia e soccorrere Pisa. Poi, nell'anno medesimo 1496, egli e la duchessa Beatrice sua moglie per Bormio si portarono incontro a quell'augusto a Malsio, e seco lungamente concertarono la spedizione. Per lo che l'imperatore per la Valtellina sen venne a Como; indi a Meda venne accolto dal duca e dalla duchessa Beatrice con pompa conveniente. Ivi concorsero gli oratori di quasi tutt'i principi d'Italia. Perché l'imperatore non volesse veder Milano non lo so. Egli per Abbiategrasso, Vigevano e Tortona passò a Genova, d'onde per mare passò a Pisa, e festosamente vi fu accolto. Nessun altro frutto nacque da tale comparsa. L'imperatore ritornossene in Germania. Così il duca Lodovico fece comparire inutilmente nell'Italia il re di Francia prima, poi l'imperatore. (1497) Al cominciar dell'anno 1497 accadde al duca Lodovico Sforza la maggiore disgrazia; e fu che il 2 di gennaio la duchessa Beatrice d'Este morì di parto, lasciandogli due figli, Massimiliano di cinque anni, e Francesco di quattro. La duchessa morì nell'età di ventitré anni. Donna di animo virile; l'ascendente di cui reggeva la volontà del marito. Lodovico, dopo un caso sì funesto, non visse che in mezzo alle disgrazie, siccome vedremo, e non ne dimenticò mai la memoria. Vennero celebrate le solenni pompe funebri alla duchessa nella chiesa delle Grazie, dove fu tumulata: et quivi fine al septimo giorno con la nocte, senza interposizione pur de uno quarto d'hora, si celebrarono messe e divini officii, il che veramente fu cosa di non puocha admiratione, dice il Corio. Il mausoleo di marmo colla statua di lei costò più di quindicimila ducati d'oro. Quella statua giacente scorgesi oggidì nella chiesa della Certosa presso Pavia, a canto ad una simile del di lei marito Lodovico, come si è accennato più sopra. L'anno del lutto fu tristissimo per l'infelice vedovo duca, privato della cara amica, unica confidente e reggitrice de' suoi pensieri. L'uso sin d'allora era di stendere i parati neri su tutti gli addobbi di corte. Terminato appena l'anno, l'inaspettata morte del re di Francia Carlo VIII, che non lasciava figli maschi, fe' passar la corona sul capo del duca d'Orleans Lodovico XII, primo principe del sangue, discendente dal re Carlo V. L'ava di Lodovico XII fu appunto la Valentina Visconti, figlia del primo duca di Milano Giovanni Galeazzo. Il re nuovo di Francia pretendeva que' diritti che non poteva allegare Carlo VIII, che da lei non discendeva; ed il nuovo re aveva chiaramente già palesata co' fatti la volontà di farli valere. Il re aveva trentasei anni; e come duca d'Orleans assumeva il titolo di duca di Milano. I Veneziani, il papa Alessandro VI e il nuovo re di Francia Lodovico XII si collegarono. I Veneziani pretendevano il Cremonese e la Gera d'Adda; per modo che i confini loro si stabilissero quaranta braccia lontani dalla sponda sinistra dell'Adda, rimanendo il fiume colle due sponde al ducato di Milano. Il papa pretendeva Imola, Forlì, Pesaro e Faenza, per formarne uno Stato al duca di Valentinois Cesare Borgia, suo figlio. Il re di Francia pretendeva il regno di Napoli e il Milanese. (1498) Si collegarono promettendosi vicendevole assistenza; ed il trattato si sottoscrisse in Blois il giorno 25 di marzo dell'anno 1498 (I). Il re di Francia aveva ottenuto

(I) Oltre il Corio, veggasi Gaillard, Histoire de François Premier. - Edizione seconda di Parigi, presso Saillant et Nyon 1769, tom. I, p. 137. ottenuto dal papa Alessandro VI di ripudiare Giovanna, duchessa di Berrì, figlia di Luigi XI, re di Francia, che da ventitre anni eragli moglie; e così poté sposare la vedova di Carlo VIII, Anna di Bretagna, che gli recava la Bretagna in dote. Per tal benemerenza Cesare Borgia fu creato duca di Valentinois, e furongli promesse la città della Romagna, che possedevansi dai signori della Rovere. Soprastava un tal nembo sul capo del già abbattuto duca Lodovico, quando, per parte del re di Francia, gli venne fatta proposizione di lasciargli godere il ducato sin ch'ei fosse vissuto, e per due anni ancora lo godessero dopo sua morte i di lui figli, a condizione che frattanto egli sborsasse ducentomila ducati d'oro al re di Francia. V'era di più la condizione che qualora Lodovico XII non avesse figli, non si turbasse il dominio dei successori dello Sforza. L'affare venne proposto nel consiglio del duca. Il tesoriere ducale Landriano (I) altamente opinò, che mai non si dovesse accettare un tale progetto, poiché con ducentomila ducati ve n'era abbastanza, a parer suo, per far la guerra per ducent'anni al re di Francia. La bravata era senza fondamento; pure il duca vi si uniformò. Quando poscia ne venne in seguito la eversione totale dello Stato, un gentiluomo milanese, che nominavasi Simone Rigoni, affrontò l'adulatore Landriano, per cui lo Stato e la patria erano in rovina, e lo uccise (2). (1451) I Francesi avevano un punto di appoggio di qua dalle Alpi nella città di Asti; ed ivi il re Lodovico XII fece passare un grosso esercito, e ne diede il comando a Gian Giacomo Trivulzio, valoroso soldato, illustre Milanese, nemico

(I) Il Tesoriere era allora il presidente della camera, e cotesto Landriano che adulò il duca, fu il medesimo che nel Consiglio ducale lo fece acclamare, ad esclusione del legittimo successore. (2) Veggasi la Cronaca di Antonio Grumello pavese. MS. del signor principe di Belgioioso d'Este, foglio 19, tergo, e foglio 20. nemico personale del duca Lodovico Sforza, da cui gli erano stati confiscati i beni. Questo comandante aveva la cognizione del paese, un partito, una passione sua propria per abbattere il duca; avea servito già nella spedizione di Carlo VIII; era in somma il più opportuno generale che il re di Francia potesse scegliere a questa impresa. Il duca non poteva fidarsi né delle forze proprie, né della volontà dei sudditi, per le ragioni già accennate. I soccorsi da Napoli o da Firenze erano incerti e rimoti. L'imperatore Massimiliano, nipote del duca, era di buona fede impegnato per lui; ma il pericolo sovrastava a giorni. Il duca scelse il partito di abbandonare lo Stato e seco condurre nel Tirolo i figli, ricorrendo a quell'augusto. I Veneziani s'avanzavano dalla parte d'Oriente; dall'opposta s'innoltravano i Francesi sotto del Trivulzio: non v'era tempo a consigli. In quel punto venne presentata al duca una lista di quindici primari signori del paese che tramavano contro di lui, e tenevano segreta corrispondenza col nemico. I fatti erano avverati. Il duca non volle far male alcuno a coloro che avea beneficati ed amava. Prima di abbandonar Milano egli portossi dalla duchessa Isabella, le cedette il ducato di Bari, le chiese il di lei figlio Francesco per salvarlo e condurlo seco nella Germania; ma la duchessa nol consentì. Pensò Lodovico il Moro di confidare il castello di Milano ad un uomo di provata fede, giacché dalla difesa di esso dipendeva la sovranità. Nel castello era riposto l'archivio ducale, vi erano tutte le preziose suppellettili della duchessa Beatrice e degli antecessori, valutate centocinquantamila ducati. V'era un presidio di duemila ottocento fanti, milleottocento pezzi d'artiglieria, e abbondantissime vittovaglie e munizioni di guerra. Lodovico divisò di affidarne il comando a Bernardino da Corte. Il cardinale Ascanio Sforza, fratello, e il Sanseverino l'avvertirono di non fidarsi di colui. (1499) Ma il duca non badò loro, e fattolo a sé chiamare, lo dichiarò castellano; castellano; indi, umanissimamente abbracciandolo, gli disse: io vi confido la più preziosa fortezza del mio Stato, difendetela per soli tre mesi, e se dentro questo spazio non vi manderò soccorso, disponetene come giudicherete a proposito; il che accadde nel giorno memorabile 2 settembre 1499. Ciò fatto, il duca verso sera uscissene dal castello, e diè congedo a' molti signori ch'erano disposti ad accompagnarlo. Altra cura aveva nell'animo, suggerita dall'intimo del cuore, la quale non poteva essere che frastornata dai vani omaggi de' sudditi. Non poteva allontanarsi da Milano senza sentire che si allontanava dall'amata spoglia della Beatrice, a cui destinò l'ultima visita. Cavalcò alle Grazie; volle rivedere la tomba e l'effigie della perduta sposa. I sentimenti di natura si rinvigoriscono a proporzione che dileguansi le larve della fortuna. Non poteva staccarsene e costretto pure a partirsene, più volte si rivolse a mirare il monumento della sua tenerezza e del dolor suo. Immediatamente di là s'incamminò a Como; d'onde pel lago passò nella Valtellina. Indi per Morbegno, Sondrio, Tirano, Bormio, Bolzano e Brixen passò ad Inspruck, residenza dell'imperatore Massimiliano. Prima però d'imbarcarsi sul lago di Como, il duca, da una loggia in Como, si presentò al popolo, e fece da quel luogo pubblicamente noti i sentimenti suoi, dicendo: «Che la fortuna avversa l'aveva ridotto a quel duro passo di abbandonare lo Stato, senza ch'egli avesse luogo a rimproverarsi imprudenza o spensieratezza alcuna. Che l'unico motivo di tale ingrato destino egli doveva riconoscerlo dalla perfidia di coloro ne' quali sventuratamente aveva riposta la più sincera fidanza. Egli confessava di essersi ingannato nella scelta, e di essersi con troppo buona fede lasciato sedurre da que' visi mascherati i quali attorniano i sovrani. Il male era fatto. In quel punto egli andava co' suoi figli a ricoverarsi presso dell'augusto Massimiliano; giacché s'egli avesse preteso in quel punto di opporsi alla prepotente armata de' Francesi Francesi invasori, avrebbe fatto versare il sangue umano senza probabilità veruna di preservare lo Stato dalla inevitabile occupazione. Ch'egli dall'imperatore si prometteva ogni soccorso, e pei stretti vincoli di sangue che lo univano a quel monarca, e per la giustizia della sua causa, che interessava l'Impero in favore di sé, come feudatario del medesimo. Che gli onori già concessigli dalla cesarea maestà erano una caparra del buon successo; sicché sperava fra poco di rivedere la patria con una armata bastante a liberarla dall'usurpazione del re di Francia. Raccomandò ai sudditi di accomodarsi ai tempi, di non eccitare con intempestivo zelo la vendetta de' Francesi, onde al suo ritorno potessero accoglierlo come loro padre, giacché egli li considerava tutti come suoi figli». La presenza di spirito di parlare in pubblico, e di parlarvi in tanto angustiosa occasione, e sì acconciamente, fanno conoscere che l'amore di Lodovico per le lettere e le belle arti non era una principesca vanità, ma sentimento di un uomo colto e d'ingegno. Mentre ancora stava il duca parlando dalla loggia ai Comaschi, erano già penetrati i Francesi ne' sobborghi di Como, con animo di farlo prigioniero; ma per buona sorte avvisato, appena ebbe tempo di balzare in una barca e recarsi a Bellagio. Gian Giacomo Trivulzi, che da alcuni anni era esule dalla patria, entrò in Milano come generalissimo dell'armata francese il giorno 6 di settembre, quattro giorni dopo che il duca l'aveva abbandonata. Egli si portò solennemente al Duomo a ringraziare l'Arbitro delle cose, di un avvenimento gloriosissimo per esso lui. Tre giorni dopo l'armata francese venne in Milano; e furono collocate le truppe a San Francesco, a Sant'Ambrogio, all'Incoronata. La licenza militare de' giovani soldati francesi era somma in ogni genere; e il Trivulzio pensò di contenerla con fermo rigore nella disciplina. Il Corio ci racconta che per un pane violentemente rapito, due soldati guasconi vennero tosto appiccati a due piante fuori della porta Ticinese; che un altro Francese, per aver rubata una gallina, venne immediatamente appeso; che al Pontevetro sul momento venne appeso un Francese che aveva rubato un mantello; e che ivi pure, senza riguardo né indugio, fu fatto appiccare un cavalier francese, monsieur di Valgis, che aveva poste le mani violentemente sopra di una zitella. Ciò serviva ad impedire quei disordini che avevan reso odioso il nome francese nel regno di Napoli quattr'anni prima; e serviva pure a conciliare la benevolenza de' nazionali verso del comandante. Ma il posseder Milano, mentre una fortezza, quale era il castello, era presidiata validamente dagli Sforzeschi, era un pericolo anzi che un vantaggio. Una vigorosa uscita degli Sforzeschi poteva essere funesta ai Francesi sparsi ne' conventi. Pensò dunque il Trivulzio di corrompere Bernardino da Corte castellano, giacché la strada di un formale assedio doveva esser lunga, di evento dubbioso, di molto dispendio e diminuzione delle forze francesi. Il vilissimo Bernardino da Corte, senza nemmeno aspettare un apparente assedio cominciato, pattuì il prezzo del suo tradimento, e si divisero le ricchezze depositate nel castello fra il Trivulzio, il Corte e varii altri complici. Il Corio ci racconta che tal novella arrivasse all'orecchio dell'infelice duca mentre egli cavalcava fra i Grigioni prima di giungere nel Tirolo; ma siccome il tradimento si eseguì e manifestò il giorno diecisette di settembre del 1499, cioè quattordici giorni dopo che Lodovico era già partito da Como, mi pare più verosimile la cronaca del Grumello, che dice: et ritrovandosi epso Ludovico in la cita di Insprucho in sua camera, assentato sopra il suo lecto, parlando co' suoi gentilhomini di riacquistar el stato suo di Milano, hebe nuova del perduto castello suo di porta Giobia. Leggendo le lettere recepute, intendendo nuova pessima, stando sopra di sé, non parlando come fusse muto, alciando gli occhi al cielo, disse queste poche parole; da Juda in qua non fu mai il maggior traditore di Bernardino Curzio; et per quello giorno non mosse altre parole (I). Resasi per tal modo l'armata francese padrona in un baleno del ducato di Milano, il re Lodovico XII immediatamente scese dalle Alpi; il 21 settembre fu a Vercelli, il 23 a Novara, il 26 a Vigevano, che egli eresse in marchesato e lo conferì al Trivulzio, che assunse il titolo di marchese di Vigevano e vi batté monete. Questo marchesato gli fu dal re dato in compenso dell'artiglieria del castello di Milano, che doveva essere per metà del Trivulzio. Lodovico XII entrò solennemente in Pavia il giorno 2 di ottobre, e il giorno 6 dello stesso mese fece il suo pomposo ingresso in Milano, per Porta Ticinese. Gli ambasciatori dei Veneziani, Fiorentini, Bolognesi, di Siena, di Pisa e di Genova conducevano seco loro un seguito di seicento cavalli, e andarono incontro al re. Il re aveva seco il duca di Savoia, il marchese di Monferrato, il cardinale di San Pietro in Vincola. Tutto il clero in abiti pontificali precedeva. Poi venivano i carriaggi, riccamente coperti, trenta del duca di Savoia, quarantadue del cardinale anzidetto, sessantaquattro del re. Moltissimi altri carriaggi, coperti d'oro e di seta, di altri distinti personaggi. Poi cento suonatori di trombe con altri musici. Quindi venivano i paggi, otto di Savoia, quattro del duca di Valentinois, dodici del re, magnificamente corredati, con arnesi d'argento anche sotto i piedi de' cavalli. Poi quattrocento fanti reali, in uniforme giallo e rosso, armati di picche. Poscia il capitano della guardia a cavallo, alla testa di mille e venti cavalieri, che avevano tutti uniforme verde e rosso, e sul petto ricamato l'Istrice, divisa che Lodovico aveva assunta. Questi mille e venti uomini a cavallo erano tutti di statura stragrande. Appresso venivano ducento gentiluomini

(I) MS. di Antonio Grumello, pavese, presso il signor principe di Belgioioso, foglio 22 tergo. gentiluomini a cavallo, armati e vestiti superbissimamente. Da ultimo veniva il re sopra di un bellissimo destriero. Il re era vestito di bianco, coi contorni di pelliccia, e portava in capo la berretta ducale di Milano. Egli marciava sotto di un baldacchino di broccato d'oro e bianco, preceduto dal generale Gian Giacomo Trivulzio col bastone dorato in mano. Il baldacchino era portato da otto dottori e fisici di collegio, vestiti di scarlatto, col bavero di pelli di vaio. Giunto il re al ponte vicino alle colonne di San Lorenzo, dove era in allora la porta della città, ricevette le chiavi che gli presentò il contestabile di quella porta. Il contestabile s'inginocchiò; ed il re, toccandolo sopra le spalle collo scettro che avea nella destra, lo creò cavaliere. Il contestabile baciò lo scettro, e continuò il re il suo cammino processionalmente sino al Duomo. Seguivano il re i cardinali di Burges, San Pietro in Vincula e di Rohan, e gli ambasciatori di Napoli, Savoia, Estensi, Mantovani, e i disopra nominati. Il giorno seguente, cioè il 7 di ottobre, il re volle assistere ad una solenne messa dello Spirito Santo in Sant'Ambrogio; indi si pose a conversare co' nobili milanesi più da gentile signor forestiere, che da monarca. Lodovico XII allora viveva come farebbe un buon sovrano ai tempi nostri. Egli fu a godere di balli e pranzi presso molti de' nostri. Il giorno 15 ottobre fu ad una magnifica festa di ballo e cena da messer Francesco Bernardino Visconte in Porta Romana. Il giorno 18, messer Francesco Trivulzio, commendatore di Sant'Antonio, gli diede un pranzo (I). Il giorno 20, a nome della città di Milano, fugli imbandito un pranzo nella corte vicina al Duomo. Le pareti della gran sala erano coperte di drappo celeste, ricamato a gigli d'oro; vi si trovarono convitate quaranta damigelle (2); v'intervennero

(I) Dove oggidì stanno i Teatini. (2) Quaranta damiselle milanesi non già dell'inferiore: così il Prato. v'intervennero motti ambasciatori, illustri personaggi e principi, fra i quali il duca di Valentinois e il duca di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, il cardinale Orsini. Una festa di ballo terminò quella giornata. Il re, sempre cortese e affabile, accettò di levare al sacro fonte un bambino del conte Lodovico Borromeo; andò a visitare la contessa Bona Borromeo, partoriente, al di lei giardino fuori di porta Tosa; volle darle in dono una collana d'oro del prezzo di cinquecento ducati, e volle cenare da lei. Lodovico XII alloggiò nel castello, e si trattenne per tal modo in Milano ventisette giorni, essendone partito il 3 di novembre del 1499 (I). Giunto a Vigevano, il re Lodovico, prima di ripassar le Alpi e rivedere il suo regno, volle piantare un nuovo sistema politico nel Milanese. Quindi, in data del giorno 11 novembre 1499, in Vigevano, volle pubblicare un editto perpetuo (2). Primieramente stabilisce che nella città di Milano risieda un governatore suo luogotenente, nobile, cospicuo e militare, da cui dipenda tutto ciò che concerne la guerra, e che abbia la plenaria podestà sulle città, borghi e terre, per la loro conservazione, come se fosse il re. Secondariamente stabilì che vi fosse un gran cancelliere forastiero e custode del sigillo, e nel tempo stesso presidente del senato. In terzo luogo che non vi fossero più due consigli, uno di Stato, l'altro di giustizia; ma un solo supremo consiglio col nome di Senato, sotto la presidenza dell'anzidetto gran cancelliere. Volle che i senatori fossero di professioni diverse, cioè due prelati, quattro militari, e il rimanente

(I) Giovanni Andrea da Prato è l'autore che io scelgo per guida, or che il Corio cessa di raccontare. Da esso Prato, che conservo manoscritto, ho tratti i minuti avvenimenti che ho creduto di non omettere, poiché mostrano il carattere di quel buon principe. (2) Perpetuo edicto et inviolabili decreto... statuimus, ordinamus, et lege perpetuo valitura stabilimus. dottori, de' quali alcuni volle che fossero forastieri. Queste cariche furono dichiarate perpetue e indipendenti dal governatore; anzi stabilì il re che il solo senato dovesse giudicare de' casi ne' quali un senatore avesse meritato il congedo. Concesse al senato la facoltà di confermare o infirmare i decreti del re, di accordare ogni dispensa; e che tutte le grazie, donativi, privilegi o editti di giustizia o di polizia emanati dal trono, fossero di nessun valore, se non venivano interinati dal senato. Comandò che qualunque sentenza del senato si eseguisse, e che gli atti fossero in nome del re (I). Al senato medesimo affidò la scelta de' professori dell'università di Pavia. Finalmente creò due nuove cariche, un avvocato fiscale e un procurator fiscale. Nominò poi governatore e suo luogotenente Gian Giacomo Trivulzio, marchese di Vigevano e maresciallo di Francia; gran cancelliere il vescovo di Luçon, Pietro di Saverges; senatori, Antonio Trivulzio, vescovo di Como, Girolamo Pallavicino, vescovo di Novara; i militi Pietro Gallarate, Francesco Bernardino Visconte, conte Gilberto Borromeo ed Erasmo Trivulzio; i dottori Claudio Leistel, consigliere del parlamento di Tolosa, Gian Francesco Marliano, Michele Riccio, Gian Francesco Corte, Gioffredo Caroli, consigliere del parlamento del Delfinato, Giovanni Stefano Castiglione, Girolamo Cusano, Antonio Caccia. L'avvocato fiscale fu Girolamo Morone, uomo di cui più volte avrò in seguito a far menzione; ed il procurator fiscale fu Giovanni Birago. Ciò fatto, il re ripassò le Alpi conducendo seco il conte Francesco Sforza, figlio dell'estinto duca,

(I) Damus et concedimus per praesentes potestatem seu auctoritatem decreta nostra ducalia confirmandi, et infirmandi, dandi omnes quascumque dispensationes, Statutorum et ordinatorum confirmationes etc. E rispetto alle concessioni del Re medesimo dice: nisi prius fuerint in dicto senatu nostro praesentatae, interinatae, et verificatae, nullius firmitatis, effectus vel momenti esse poterunt; easque, tam concessas quam concedendas, decerminus per praesentes et irritas inanes. fanciullo di otto anni, il quale dappoi sempre visse in Francia tranquillamente ed agiatamente come un ricco gentiluomo, godendo l'abbazia di Marmoutiers. La duchessa Isabella si staccò in tal guisa per sempre dal figlio; ed ella pure partissene da Milano, e visse a Bari nel regno di Napoli, seco conducendo le due figlie Bona ed Ippolita; la prima delle quali fu sposata da Sigismondo re di Polonia, l'anno 1518. Così terminò la discendenza dell'infelice sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza. La condotta del re Lodovico XII non poteva essere più giudiziosa per rendersi affezionati i nuovi sudditi. Egli affidò la suprema autorità alle mani di un nazionale. Visse colla maggiore affabilità, quasi da privato conversando. Stabilì un senato colle facoltà da me ricordate. Con tal sistema la forza militare rimase unicamente in potere del luogotenente, e così sciolta e pronta senza alcuna formalità alla difesa dello Stato. La vita e la libertà e le sostanze dei sudditi rimasero all'ombra di una moderata monarchia, dipendenti da quel senato, composto di molti senatori, di stato differente; per modo che non era da temersi che la violenza entrasse a prendere giammai il nome della giustizia. La pietà degli ecclesiastici, l'onore de' militari, l'accurata ponderatezza dei dottori, vicendevolmente doveano contenere i privati affetti. Il gran cancelliere, senza il sigillo del quale non valeva alcun decreto, poteva riferire nel senato, indipendentemente dal governatore, que' tentativi che per avventura il governatore proponesse a danno della civile libertà di alcuno, e così eluderli. Il governatore, non potendo da sé punire i senatori, dovea però vegliare sopra di essi, e col diretto carteggio alla corte dovea prevenire l'abuso che mai o il senato o gli individui di esso facessero della autorità. Per una provincia rimota, alla testa di cui si voglia porre un suddito, non pare possibile l'architettare un sistema più ragionevole di questo, e convien dire che tale ei fosse, se malgrado le variazioni che vi si fecero guastandolo, pure, anche sotto diverse dominazioni, si sostenne poi per secoli. CAPO VIGESIMO.

Breve ritorno del Duca Sforza, fatto prigioniere, e governo del Re di Francia Lodovico Duodecimo fino alla Lega di Cambrai.

(1500) Poiché il re Lodovico XII ebbe abbandonato Milano per ritornarsene nel suo regno, una porzione dell'armata francese s'incamminò verso della Romagna per togliere Imola e le altre città promesse al duca di Valentinois, dalle mani del conte Girolamo della Rovere. Il duca di Valentinois era figlio di Alessandro VI, il conte Girolamo era figlio di Sisto IV. È facile l'immaginarsi quai dovessero essere i costumi di que' tempi, se tali esempi diedero anche i poscia graduati al sommo sacerdozio. Doveva quindi quel corpo di Francesi innoltrarsi ad occupare il regno di Napoli. Divenne così meno imponente nella Lombardia la nuova forza conquistatrice. Il governatore maresciallo Trivulzio stabilì la sua residenza nella corte vicino al Duomo, avendovi una guardia di trecento Tedeschi. Malgrado la severità della disciplina usata dal Trivulzio, siccome accennai, non era possibile il prevenire ogni disordine. Un Francese pose violentemente le mani sopra di una contadina che portava il pane a cuocere al pubblico pubblico forno in Lardirago, terra lontana da Pavia cinque miglia. La contadina si difese robustamente. Il Francese non volea desistere. Accorse il di lei padre con un bastone. Il Francese lo stese morto. Varii contadini si scagliarono sull'uccisore, che dovette soccombere. Un corpo di Francesi postato nel contorno sopravenne; saccheggiò la terra, bruciò le case, impiccò varii. In Milano pure si cominciarono a vedere delle tumultuarie adunanze di malcontenti. La plebe in Porta Ticinese si attruppò e gettò a terra i banchi ai quali si riscuotevano le gabelle. Il governatore Trivulzio vi si recò; e dopo di avere inutilmente procurato che badassero alle di lui parole, diè mano alla spada, e, secondato da' suoi domestici, uccise alcuni e molti altri rimasero assai mal conci. L'affare non terminava così, se messer Francesco Bernardino Visconte, signore sommamente autorevole, non vi accorreva. Si abolirono alcune gabelle, venne sedato quel disordine; ma non perciò rimase quieta la città. Frate Girolamo Landriano, generale degli Umiliati, messer Leonardo Visconte, e messer Alessandro Crivello, proposto di San Pietro all'Olmo, animavano la plebe contro del nuovo governatore Trivulzio. Lodovico il Moro accostatosi a Como, col favore dei cittadini v'era rientrato, ed eransi espulsi i Francesi. Ivi s'andavano radunando Tedeschi e Svizzeri allo stipendio sforzesco. Il giorno 27 di gennaio 1500 si cominciò a conoscere nella città una inquietudine che minacciava la sedizione. Il Trivulzio pose dell'artiglieria sulla torre che allora sosteneva le campane del Duomo, e si premunì in corte; ma trovandosi ivi mal collocato, e nel centro di una città mal contenta, pensò di ricoverarsi nel castello. Il popolo violentemente se gli oppose; giacché temevasi che, giuntovi, non adoperasse quell'artiglieria sulla città. Il Trivulzio parlò al popolo, lagnandosi di non essere profeta nella sua patria. Mostrò essere pazzia l'ostinarsi a voler essere piuttosto sudditi di un picciolo principe, ramingo, bisognoso, e che smunga i popoli colle gabelle, anzi che ubbidire ad un monarca generoso, potente, ricco... Le grida insultanti del popolo non gli permisero di continuare il discorso, e non senza pericolo; sicché appena gli riuscì di ricoverarsi nuovamente in corte. Poco dopo, il popolo pose le barricate alle imboccature delle strade, e tutte le finestre ebbero provvisione di sassi ed altre materie, per offendere i Francesi. Fra le lettere di Girolamo Morone una ve n'è del 4 marzo 1500, in cui, descrivendo a Girolamo Varadeo quest'incontro, dice del Trivulzio: che in tantam prorupit iracundiam, ut prudentiam omnem abjecisse videretur... seroque cognovit humanitatem et mansuetudinem, saeviente populo, magis quam vim et arrogantiam proficere . Vi fu chi rimproverogli di aver tre facce, come ne portava lo stemma (I); fugli rinfacciato di essere egli ribelle al suo sovrano (2), subdolo, traditor della patria, e dovette soffrire tutto ciò da una moltitudine di seimila persone armate, il che si scorge nella citata lettera. A tale stato si ridussero gli affari de' Francesi poco dopo partito il re. Frattanto Lodovico il Moro (che in Inspruck era stato accolto umanamente e con sensibilità dall'imperator Massimiliano) non aveva omessa cosa alcuna affine di accelerare il suo ritorno nella patria. Vero è che nell'avversa fortuna quel principe non seppe mostrare quel vigor d'animo e quella serenità di mente, che solo possono farci reggere fra le sventure e superarle. Egli da Inspruck spedì Ambrogio Bugiardo per Bari, e Martino Casale per Pesaro, colle istruzioni a ciascuno di portarsi a Costantinopoli. Questa commissione fu data a due, e per vie separate, acciocché uno almeno potesse eseguirla. Voleva

(I) Tres vultus Trivultio. (2) Egli era al servigio degli Aragonesi in Napoli, mentre essi minacciavano Lodovico Sforza: quando poi Carlo VIII conquistò quel regno, il Trivulzio si pose allo stipendio della Francia, e molta parte ebbe nell'aprire il varco al re nei passi di Fornuovo alla Val di Taro. che a di lui nome animassero il Turco a passare nell'Italia ed aiutarlo a ricuperare Genova, promettendo di unirglisi per far la guerra ai Veneziani. Parrebbe incredibile questo partito, se il Corio non ci avesse stampate le istruzioni dalle quali furono accompagnati que' due ministri (I). Ma la protezione dell'imperatore procurò allo Sforza soccorsi più reali e solleciti; essendosi per ordine suo radunato un valente corpo di Svizzeri e di Tedeschi. Questi l'aspettavano ne' confini; e trovandosi, siccome accennai, diminuite le forze dei Francesi, pel corpo di milizia spedito all'impresa d'Imola sotto il comando dell'Allegre, riuscì facil cosa al duca di nuovamente presentarsi; e le inquietudini del popolo ne furono opportuna occasione. Messer Sanseverino comandava quattromila fanti svizzeri. All'accostarsi di questi, il Trivulzio abbandonò Milano. Il giorno 4 di febbraio 1500 il duca Lodovico rientrò in Milano per Porta Nuova, cinque mesi e due giorni dopo che l'ebbe abbandonata. Tutti i corpi politici gli andarono incontro. Mentre il duca Lodovico passava verso la Scala, dove oggidì è il teatro, venne avvisato che i Francesi, padroni del castello, facevano una sortita; il che alquanto lo sconcertò. Nulladimeno vi si pose ordine, ed egli proseguì l'intrapreso cammino al Duomo, d'onde passò ad alloggiare nella corte, su cui l'artiglieria del castello, sebbene operasse, non poté far danno, per esserne premuniti i tetti. Un giorno solo rimase Lodovico in Milano: egli passò a Pavia, lasciando al governo di Milano il cardinale Ascanio suo fratello. Gli Sforzeschi saccheggiarono le case del castellano traditore Bernardino Corte e de' Trivulzi (2). Messer Erasmo Trivulzio si avventurò di presentarsi al duca,

(I) Corio, all'anno 1499. (2) Del Corte così scrive il Guicciardini al lib. IV, raccontando il prezzo ch'egli ottenne; ma con tanta infamia, e con tanto odio, eziandio appresso ai Francesi, che, rifiutato da ognuno come di fiera pestifera, e abbominevole chiedendogli perdono. Il duca, innasprito dalle vicende, lo condannò ad esser chiuso nel forno di Monza, cioè nel carcere orrendo fabbricato e sofferto da Galeazzo Primo (I). Ma il cardinale Ascanio, più saggio, persuase al duca di non usare la vendetta. Il tempo era quello più che mai di acquistarsi gli animi colla benignità e col perdono. Dee cagionar maraviglia il vedere come senza spargersi quasi sangue umano, ritornassero gli Sforzeschi ad impadronirsi di Milano, e ne scacciassero i Francesi. Vero è, com'è notato più sopra, che l'armata francese erasi indebolita per la spedizione dell'Allegre; vero pure è che sedicimila Svizzeri e mille corazzieri tedeschi s'erano uniti allo stipendio del duca Lodovico; che non mancava il duca né d'artiglieria né di corrispondenti munizioni: ma pure potevasi disporre colle truppe francesi un campo e disputare almeno l'ingresso nel Milanese allo Sforza. Ciò non si fece per le rivalità consuete fra i primi generali e ministri. Gian Giacomo Trivulzio era, come si è detto, luogotenente del re e governatore. Ma i primari Francesi, mal sofferendolo, attraversavanlo in ogni cosa. Il conte di Lignì, uomo di somma autorità nella guerra, disponeva le cose per modo, che appena lasciava al Trivulzio il titolo di governatore. Il vescovo di Luçon, gran cancelliere e presidente del senato, bramava non meno dell'altro la rovina del Trivulzio. Si voleva che gli affari andassero male a segno, che il re fosse costretto di togliere al Trivulzio la dignità. Di ciò scrive minutamente Girolamo Morone a Girolamo Varadeo, in data del 31 dicembre 1499 (2). Questo illustre nostro cittadino


abbominevole il suo commercio, e schernito per tutto dove arrivava con obbrobriose parole, tormentato dalla vergogna e dalla coscienza, potentissimo e certissimo flagello di chi fa male, passò non molto poi per dolore all'altra vita.

(I) Tom. I, p. 321.
(2) Quod ad Rempublicam attinet, jam licet omnibus intueri quod in magno omnia ancipiti, Morone in seguito ebbe molta parte negli avvenimenti pubblici del Milanese e dell'Italia, come vedremo. Fu veramente uomo grande, di un giudizio esatto, di penetrante 


seu potius praecipiti pendent. Sfortianos constat sexdecim milium peditum delectum ex Elvetiis fecisse, mille cataphractos ex Germania Burgundiaque contraxisse, tormenta aenea, machinas, pilas, pulveresque coemisse, atque comunis opinio est quod medio januario superatis Alpibus Gallos invadent, atque eos pellere aut profligare conabuntur. E contra comes Lignyaci, cujus in re bellica auctoritas suprema est (licet proregis nomen Jo. Jacobo Trivultio datum sit) omnes cataphractos apud Comun cogit.... E continua a spiegate le disposizioni per la difesa, che facevansi dai Francesi; cujus exitum utinam Mediolanenses (quae foret insolita eorum prudentia) expectarent! At plurimi sunt, maxime ex Gibellina factione, qui, more impatientes, jamjam civitatem scindere, amicos, affinesque unire, armaque capere non dubitant, quod dicant memoratum Trivultium statuisse capita ipsius Gibellinae factionis perdere, alios obsides in Galliam mittendo, alios proscribendo, alios in custodiis habendo; dicentes propterea se, armatos, vim vi repellere velle, hujusmodique armis non in regis perniciem aut damnum, sed tuitionem et salutem, si expediat, se usuros jactantes. Huic quasi seditioni fomentum non exiguum praestant memoratus Lignyaci comes et Lucionensis episcopus, Senatus Cancellarius et justitiae, ut ajunt, caput; qui ambo, ut sunt Trivultii aemuli, aegre ferunt quod apud eum remaneat illud nudum proregis nomen; sperantque hac ratione Regem coactum iri ut Trivultium deponat, cum intelliget, eo etiam solam sceptri imaginem retinente, seditionem extingui minime posse: iique ambo, quasi fatentes eam esse pravam et subdolam Trivultii mentem in Gibellinos, quam ipsi verentur, nec affirmantes longè alienam esse regis voluntatem, qui nullo discrimine omnes Gibellinos Guelfosque habet, non reprehendunt, sed quadam taciturnitate probant, Gibellinosque armari ac stipari, seditionem in dies magis et magis augeri; quum et Trivultius et omnes fere Guelfi partes ejus secuti, non minus quam Gibellini, se muniant clientibus et armis, et vim nedum repellere, sed etiam inferre parent. Prosiegue antivedendo i mali, che ne nacquero in fatti, e conclude la lettera così: tunc, inquam, cognosceremus quanto subjectis populis salubrius sit contendentibus de imperio principibus, spectatores, quam auxiliatores esse. penetrante ingegno, e tale che in ogni secolo, e presso qualunque nazione avrebbe potuto primeggiare; il che non si può dire di molti. Lodovico XII nel nuovo piano politico aveva creato un avvocato fiscale, il quale per ufficio avesse cura e tutela delle ragioni del principe, sì per gl'interessi camerali, che per la giurisdizione rispetto a' feudi, alla corte di Roma e ad ogni altra competenza. Questo avvocato del principe aveva la facoltà d'intervenire a qualunque adunanza, in cui potesse avere interesse la giurisdizione sovrana; né potevasi dai tribunali determinare, se prima su tai punti non avesse esposte le sue ragioni l'avvocato del re. A questa carica volle Lodovico XII promovere un nobile milanese, che ne avesse il talento; e scelse il giovane Girolamo Morone, mosso dalla buona fama che correva di lui, senza ch'ei lo sognasse nemmeno. Tant'egli era alieno dal pensarlo, che vennegli l'annunzio per parte del re, mentre egli, ritirato in una villa, stavasene lontano dalla tumultuosa rivoluzione che cagionava nella città la venuta de' Francesi. Morone nelle sue lettere descrive il fatto. Egli eseguì assai bene il proprio ufficio finché dominarono i Francesi. Partiti questi, egli rimase in Milano senza inquietudine, perché senza colpa. Il duca Lodovico lo chiamò, e lo accolse con somma cortesia. Gli propose di volerlo spedire a Roma ed a Napoli per ricercare soccorsi contro de' Francesi; e lo avvisò di prepararsi ad eseguire questa commissione. Il Morone ringraziò il duca dell'onore che voleva fargli; ma considerandosi ancora assai giovine ed imperito per affari di Stato, supplicò per essere dispensato da una commissione che difficilmente sarebbe riuscita con buon servizio del duca e con onore di lui. Il duca Lodovico graziosamente replicò che il senno del Morone era virile se l'età era fresca, e che sperava sarebbe ottimamente riuscito. Il Morone soggiunse al duca che né il papa né il re di Napoli si sarebbero fidati di lui, attesoché dai Francesi era stato beneficato, e che questo solo bastava a renderlo un negoziatore infelice. Nemmeno a ciò s'arrese il duca, replicando che la confidenza ch'egli mostrava di avere in esso lui, avrebbe convinti e il papa e il re per modo che avrebbero liberamente trattato seco. Vedendo il Morone deluso ogni sotterfugio, con sommessione dichiarò ch'egli avrebbe data la vita pel servizio del suo natural principe; ma che egli sentiva una ripugnanza invincibile a far cosa alcuna in danno de' Francesi, dai quali era stato favorito. Lodovico lodò la virtù del Morone, lo congedò, ma si conobbe che non ne rimase contento: profecto rationis efficacia victus, manum dedit; attamen, dum me dimisit, eum mihi subiratum dignovi, quoniam, ut scis, principes quod volunt, nimium velle solent, et ut plurimum quod juvat magis, quam quod decet, cogitant (I). Le lettere del nostro Morone si trovano nella biblioteca del fu conte di Firmian, e meriterebbero di veder la luce, poiché sono l'opera di un uomo di Stato, che ebbe fra le mani i principali affari d'Italia de' tempi suoi; e conseguentemente servono di molto aiuto per la storia. Lodovico il Moro stette per due settimane a Pavia per ivi radunare le sue soldatesche, le quali s'andavano ogni dì aumentando, mercé gli Svizzeri e Tedeschi che scendevano dalle Alpi e si ponevano allo stipendio di lui. Milano frattanto era inquietata dalle scorrerie che tentavano i Francesi acquartierati nel castello, malgrado la custodia del cardinale Ascanio; volavano di tempo in tempo le palle sulla città: avvenimento che cinquant'anni prima avea preveduto il buon Giorgio Piatto. Il duca, avendo più di sedicimila Svizzeri, mille corazzieri tedeschi e molta cavalleria italiana, forz'era che tentasse qualche azione. Egli mancava di denaro, né poteva lungamente mantenere al suo stipendio quest'armata. I Francesi dell'Allegre da Imola ritornarono per unirsi ai compagni.

(I) Così nella lettera 28 febbraio 1500, a Giovannangelo Selvatico. compagni. Dalla Francia era spedito nuovo rinforzo sotto il comando del duca della Tremouille; non v'era speranza pel Moro, se non nella rapidità di approfittare dell'occasione favorevole. Dispose adunque d'impadronirsi di Vigevano, e da Pavia partitosi ai 20 di febbraio 1500, il giorno 25 se ne rese padrone. Per animare i suoi egli aveva loro promesso il saccheggio di quella città, e gli Svizzeri avevano raddoppiati con tal mercede i loro sforzi. Ma il duca amava quel luogo, e non ebbe cuore di vedere eseguita la rovina di que' cittadini. Fece distribuire a ciascun soldato un ducato d'oro, di che rimasero tutti assai malcontenti. Poi Lodovico Sforza co' suoi si inoltrò verso Mortara, otto miglia distante da Vigevano, e collocò le tende in faccia del Trivulzio. I Francesi erano alquanto sbigottiti dai prosperi eventi dello Sforza; gli Sforzeschi per questi medesimi erano animosi. Francesco Sanseverino, uomo che avea un nome nella milizia, animava il duca a cogliere l'occasione e venire tosto a giornata, prima che un nuovo corpo di Svizzeri e il duca de la Tremouille rendessero formidabile il nemico; ma il duca, sempre incerto e mancante di energia, rispondeva esser meglio il vincere temporeggiando, che tentare l'incerta fortuna di una battaglia; la qual massima non poteva essere più fuori di luogo che in bocca d'un principe gli Stati di cui sieno occupati da un nemico potente, e che non avea per liberarsene altro mezzo che una momentanea armata, senza un erario con cui tenerla quanto occorresse allo stipendio; giacché il cardinale Ascanio, per raccogliere danaro, era ridotto a far coniare moneta cogli argenti delle chiese di Chiaravalle, del Duomo, di Sant'Eustorgio, di San Francesco e di San Marco. Ma il duca Lodovico non aveva ereditati i talenti militari del duca Francesco suo padre. Egli era un principe colto bensì, ma non un eroe; principe di vaste idee anzi che di grandi e solide, snervato dall'avversa fortuna, privato della duchessa, abbandonato a consigli vacillanti. Avrebbe dovuto dovuto cimentarsi coll'armata francese; ma invece levò le tende e trasportò il suo campo sotto Novara, che era in poter de' Francesi sotto il comando del conte di Musocco, figlio del maresciallo Trivulzio. Il duca promise il sacco di Novara; il che era in quei' tempi un diritto militare, allorché per assalto e senza capitolazione veniva presa una città. Alcuni cittadini novaresi segretamente intrapresero a concertare col Moro per introdurlo nella città. Novara era assai ben munita, né facil cosa era l'impadronirsene. La prima condizione che i cittadini vollero, fu quella di aver salve le cose loro. Il duca, contentissimo per sì inaspettato mezzo, che spianava ogni ostacolo, a tal condizione aderì, e così entrarono gli Sforzeschi in Novara; sicché a stento poté appena per la porta opposta correre a salvamento quel presidio. Ciò accadde il giorno 20 di marzo 1500. I soldati si posero a saccheggiare a norma della parola datane loro dal duca; ma egli nuovamente lo proibì; il che sempre più alienò da lui l'animo di quell'armata, composta di soldati che non aveano legame veruno col duca; gente collettizia, radunata allora allora per la speranza di far bottino, e che vedevasi delusa e quasi schernita dal duca, malgrado la sua parola, e malgrado anche i loro diritti militari. Mentre Lodovico Sforza stavasene co' suoi entro Novara, il di cui castello tuttavia era in mano dei Francesi, il ministro del re di Francia alla dieta del corpo elvetico, Antonio Brissey, maneggiava il colpo decisivo, per cui il suo re, senza contrasto, rimanesse duca di Milano. Gli scrittori sinora hanno rappresentata la prigionia del Moro come un tradimento degli Svizzeri; ed hanno offeso con ciò, non solamente il carattere de' fedeli ed onorati Elvezii, ma la verità e il buon senso, che non permetterebbe mai di credere che sedicimila uomini si unissero per tradire chi li paga (I). Le lettere del Morone ci svelano

(I) Fra questi deve esser pure compreso l'illustre Guicciardini, lib. IV. svelano come seguisse il fatto (I). Poiché fu Lodovico in Novara, i Francesi s'accrebbero; e molta gente venne dalla Svizzera sotto le loro bandiere. S'avvide allora il duca del male che avea fatto non ascoltando i consigli del Sanseverino; e, come dice il Morone: se ipsum arguere, propriamque vecordiam accusare non cessabat, nec quid consilii caperet satis intelligebat . Galeazzo Visconti era il ministro del duca alla dieta elvetica, ed ivi non cessava di animare quella sovranità a cogliere l'onorevole occasione di dar la pace alla Lombardia. Solo che la dieta lo volesse, doveano cessare al momento le ostilità; giacché le forze principali dei due eserciti consistevano negli Svizzeri, che avevano bensì la libertà di vendere i loro militari servigi alla potenza che più era in grado a ciascuno; ma conservavano sempre il carattere di sudditi della dieta, alla quale non avrebbero potuto mancare, se non sacrificando l'onore, la patria, i parenti e i loro poderi. Bastava un ordine supremo agli Svizzeri dei due eserciti, per cui si vietasse loro di combattere, che la sospensione d'armi era al momento fatta. Bastava spedire abili negoziatori che, a nome della sovranità elvetica frapponendosi, conciliassero la pace; e per necessità doveano l'una e l'altra parte piegarsi e ricevere in certo modo la legge. Il progetto era nobile, umano e grande. Fu aggradito. Si spedirono gli ordini sovrani per due corrieri alle due armate. Si trascelsero dodici deputati, i quali venissero a dar la pace. Assicurato di ciò il duca, si collocò in Novara. Ma il destrissimo Antonio Brissey corruppe il corriere che portava il decreto all'armata francese, per modo ch'ei s'appiattò in un villaggio per più giorni, mentre l'altro corriere spedito al Moro diligentemente accelerava il suo cammino. Così doveva accadere che gli Svizzeri sforzeschi ricevessero il comando di non

(I) Veggasi lettera 30 aprile 1500 a Girolamo Varadeo. combattere, ed i Francesi non lo ricevessero. Di ciò venne sollecitamente avvisato il Trivulzio. Qualche notizia ne ebbe anche il Moro, leggendosi nella cronaca del Grumello: Essendo una sera Ludovico Sforcia in camera sua, in Novara, poco prima di essere preso, giocando a scacho con Franchasso Sanseverino; et essendo in epsa camera Almodoro, suo favorito astrologo, et Jo. Stephano Grimello co' suoi fratelli, gionse una spia a lui, quale li parlò in le orecchie uno poco di tempo, che niuno intendere poteva. Giochando epso Ludovico Sforcia alzando gli occhi a lo Almodoro astrologo, disse queste parole: - Almodoro, Johane Jacobo Trivulcio ha dicto che, avanti passino giorni quindici, sero prigione del Gallico Re; che dicesi da voi? Dette risposta Almodoro che il Trivulcio non diceva vero, perche non si ritrovava alcuno pianeto per il qual si potesse coniecturar tal cosa che sua Signoria havesse ad esser prigione, anzi victoriosissimo. Giunse agli Svizzeri sforzeschi il divieto sovrano che proibiva loro di battersi. L'armata francese, il giorno 4 di aprile, si pose in marcia e si collocò un miglio distante da Novara, in modo da impedire al duca ogni soccorso di viveri. I Francesi gli presentarono la battaglia; e il duca non sapeva comprendere come ciò fosse, poiché, dal decreto recato agli Svizzeri suoi, vedevasi che un consimile ordine contemporaneamente si spediva agli Svizzeri nemici. Tentò varie strade per far notificare agli Svizzeri della Francia l'ordine dei loro sovrani, ma la vigilanza de' Francesi lo impedì. Non aveva provvisione di viveri in Novara; e forz'era sloggiare i Francesi, per non perirvi di fame. Invano il duca chiese agli Svizzeri il loro aiuto, che nol potevano prestare senza fellonia. Essi soltanto si offersero a schierarsi bensì in ordine di battaglia, acciocch'egli co' Tedeschi e cogl'Italiani che aveva staccato, si potesse, volendo, aprirsi vigorosamente una strada e ricoverarsi in Milano, dove il cardinale Ascanio teneva cinto il castello con diecimila uomini, ed erano vicini nuovi soccorsi dell'imperatore. I Tedeschi e gl'Italiani, che il Moro seco aveva in Novara, erano ottomila uomini, picciolo corpo bensì a fronte dell'armata francese, ma bastante per una impetuosa incursione che lo ponesse in salvamento. Così venne stabilito. Ma usciti appena gli Svizzeri da Novara e trovatisi a fronte dei nemici, nemmeno sostennero quell'apparenza; ed improvvisamente piegando le loro bandiere e riponendole nel sacco, abbandonarono il posto; il che pose in tal disordine gli ottomila Tedeschi e Italiani, che, sorpresi, volsero le spalle, e, disordinatamente fuggendo, si ricovrarono di bel nuovo entro le mura di Novara, dove fu costretto di ricoverarsi frettolosamente il duca. Mancavano i viveri pel giorno seguente. La notte si trattò fra il Ligny e il duca, e si concertò una capitolazione. Il giorno vegnente, cioè il memorando giorno 10 aprile 1500, il Trivulzio la disdisse e dichiarò nulla, pretendendo che mancasse nel generale francese la facoltà di concertarla. Un onorato capitano albanese, che trovavasi nell'armata del duca, lo consigliò di montare sul di lui cavallo barbero, di prodigiosa fortezza e velocità, sul quale sicuramente si sarebbe portato a Milano; ma il duca, timido, avvilito, non seppe risolversi. Si rivolse invece a pregar gli Svizzeri che lo vestissero come uno de' loro fantaccini, acciocché sconosciuto, potesse evitare la prigionia. Capitolarono gli Svizzeri sforzeschi co' nemici, ed ottennero di liberamente tornarsene al loro paese. Mentre uscivano da Novara gli Svizzeri, e con essi il duca travestito, un araldo a nome del duca uscì da Novara, e si portò dal generale Ligny per confermare la capitolazione. Sperava il Moro con tale astuzia di occupare frattanto i generali francesi e distorgli dal sospettare la fuga di lui. Lodovico, attorniato da sedicimila Svizzeri, era già fuori della città, e consolavasi credendosi in salvo, senza avere con veruna capitolazione abdicate le sue ragioni. Il cardinale di Rohan comandò all'armata francese di porsi in ordine di battaglia, acciocché gli Svizzeri dovessero dovessero sfilate due a due attraverso. V'è chi crede che lo stesso comandante svizzero sforzesco avesse tradito il duca, avvisandone il cardinale. La faccia dei sovrani è nota, e corre sulle loro monete. Il Moro venne scoperto, tanto più facilmente, quanto che egli per la statura eccedeva la comune, e pel fosco colore del volto ebbe per sopranome il Moro. Nella lettera il Morone dice: infelix Ludovicus, qui non oris, non majestatis quam in vultu semper habuit, non proceritatis habitum mutare potuerat, licet vestes commutasset, agnitus apprehensusque fuit . Quel drappello di cavalleria sforzesca che trovavasi in Novara, còlto il momento in cui i Francesi ebbero preso il duca, facta statim eruptione si salvò, attraversando l'armata francese; il che mostra qual fosse il partito che avrebbe dovuto prendere il duca. Appena fu il duca nelle mani de' Francesi, che, in quel medesimo umiliante arnese da fantaccino svizzero, fu condotto alla presenza del comandante Gian Giacomo Trivulzio. Pareva che la presenza di quel principe, già suo sovrano, ora suo prigioniero, dovesse eccitare nell'animo del Trivulzio, non già la collera, ma la compassione. La perduta sovranità, e l'abbiezione presente, la prigionia dovevano eccitare in un cuor generoso la brama di alleggerire i mali del suo avverso destino, non di aggravarli. Convien dire che non fosse mosso da questi principii l'animo del maresciallo Trivulzio, poiché duramente allora gli rinfacciò il bando che gli aveva dato. Passò il duca in custodia del duca de la Tremouille, il quale, rispettando la sventura di lui, lo providde di abiti e di quanto conveniva alla di lui condizione (I). Il giorno

(I) Gli presentò sei vestiti, due di stoffa d'oro, due d'argento, due di seta con altretanti giubboni, e paia sei calze di scarlatto, e dodici camisce di renso, con scarpe e berrette similmente d'oro. Queste minuzie, riferite dal Prato, danno idea del vestire di quei tempi, e fors'anco della cura maggiore che si aveva 17 d'aprile, che fu venerdì santo, partì da Novara per la Francia, abbandonando per sempre l'Italia. Il duca de la Tremouille con trecento cavalli lo scortava. Passando per Asti, lo sventurato Lodovico dovette ascoltare mille ingiurie dal popolaccio affollato, che gli avrebbe fatto insulti anche maggiori, se la nobile generosità francese non l'avesse impedito. Arrossiva il disgraziato principe, cadevangli amare ed inutili lagrime, scoppiavagli il cuore, onde a Susa cadde in tal languore, che convenne sospendere per qualche giorno il cammino, che poi ripigliossi. Onde, passate le Alpi e condotto in Francia, fu dapprima collocato nella torre dei Gigli di San Giorgio nel Berry. Ivi poté corrompere poi i custodi, e, nascosto sotto il fieno d'un carro, uscì dalla ròcca: ma, al suo solito, mancando pure di ardimento in quella occasione, si smarrì ne' boschi vicini, e fu nuovamente raggiunto. Quindi, in più stretta custodia collocato nel castello di Loches, finì i suoi giorni nel 1508, ai 27 di maggio, nell'anno cinquantesimosettimo di sua vita. Principe a cui furono rimproverate le morti del duca Giovanni Galeazzo, e dell'onorato e venerando Cicho Simonetta; ma che nel rimanente fu un sovrano sincero, generoso, liberale, amico del merito, conoscitore dei talenti, promotore della coltura in ogni genere, tenero marito, padre affettuoso, principe capace di amicizia e di benevolenza, e tale insomma che probabilmente venne spinto dal predominio altrui a macchiarsi contro sua voglia. Come politico poi, o come militare, convien confessare ch'ei mancava intieramente di talento, e che non mostrò nemmeno di avere condotta alcuna. Fluttuante, incerto, pare che i soli casi momentanei determinassero le sue azioni, senza avere un costante principio; il che


per l'apparenza, che per la mondezza, non frequentemente allora cambiandosi le vesti che immediatamente ci toccano. rese gli ultimi fatti suoi meschini agli occhi di ognuno. Così terminò lo splendore della casa Sforza, che durò cinquant'anni e non più; giacché, come vedremo, assai breve e povera comparsa fecero dappoi i due figli di Lodovico, Massimiliano e Francesco, ch'ei lasciò ricoverati nella Germania presso dell'imperatore. Il cardinale Ascanio fu preso e condotto parimenti nella Francia. Gli stipendiati sforzeschi che rimanevano in Milano, si sbandarono. Sulla prigionia del duca Lodovico si coniò la medaglia in cui, al rovescio della testa del maresciallo Trivulzi, leggesi: Expugnata Alexandria, delecto exercitu, Ludovicum Sfortiam ducem expellit, reversum apud Novariam sternit, capit (I). Il maresciallo Trivulzio aveva, siccome vedemmo, molti nemici. Il tumulto accaduto in Milano

(I) Avendo io fatte molte ricerche, anni sono, sulle regalie alienate dai sovrani di questo Stato, o donate ai sudditi, ho osservato che al tempo del duca Filippo Maria si cominciò a staccarle, ed ho trovate cinque vendite e quattordici donazioni. Quel principe, non avendo eredi, cominciò a largheggiare. Poi, sotto Francesco I, fu il più gran colpo di distacco, contandosi sedici vendite, e ben quarantaquattro donazioni di regalie. Anche sotto Francesco Sforza s'introdusse il patto di abdicare in alcune vendite di regalie, la ragione fiscale di ricuperarle al prezzo medesimo. Le donazioni non furono mai tante poi, quanto sotto Francesco, che doveva rendere accetta la signoria, che mancava in lui di legitima ragione; ma sotto Lodovico il Moro in vece grandiose furono le vendite, delle quali ne ho contate settantaquattro. Tutto il secolo XVI fu più moderato. Non è da maravigliarsi che il duca Filippo Maria, ultimo di sua casa, donasse largamente le regalie annesse alla sovranità e destinate a sostenerla. Oltre quelle che, pel terminare delle famiglie, nel corso di tre secoli saranno rientrate nel ducale patrimonio, ne rimanevano tuttora in mano di privati quattordici, dieci anni sono. Né vi è pure da maravigliarsi, se dieci anni fa rimanessero ben quarantaquattro donazioni di regalie fatte da Francesco Sforza, che voleva appoggiare la sua donazione alla benevolenza ed al consenso de' popoli. sotto il governo di lui doveva condurre il re Lodovico XII a confidare in altra mano la suprema dignità, siccome fece, dichiarando suo luogotenente e governatore il cardinale di Rohan, che si chiamava il cardinale d'Amboise. Nemmeno per tre mesi il Trivulzio durò governatore. Per pochi mesi pure tenne questa carica il cardinale, a cui fu successore, nell'anno medesimo 1500, il signore du Benin. Entrò in Milano il Trivulzio il giorno 15 aprile, e andossene ad alloggiare in sua casa (I), non più in corte. Il cardinale, il giorno 17 di aprile, entrò come governatore. È facile l'immaginarsi quale fosse l'inquietudine de' Milanesi in tale rivoluzione, disperando di più rivedere il loro natural principe, e temendo la vendetta de' Francesi, offesi nell'ultima rivoluzione. In fatti, il cardinale pretendeva dalla città ottocentomila scudi, ossia dodicimila marche d'oro, in rifacimento delle spese fattesi per ricuperare lo Stato. La pena fu poi ridotta a soli trecentomila scudi, e nemmeno di quest'ultima somma se ne portò tutto il carico, poiché, trattine centosettantamila scudi effettivamente pagati, mercé di un regalo di gioie del valore di ottomila scudi d'oro fatto alla regina Anna di Brettagna, moglie del re Lodovico XII, ella impetrò dal sovrano suo sposo il dono del rimanente. Dalla presa del duca Lodovico sino al 1507, poco o nulla accadde nel Milanese che meriti luogo nella storia, fuori che gli Svizzeri si resero padroni di Bellinzona, ed il re di Francia accondiscese a lasciarne loro il dominio. Negli anni 1502 e 1503 la pestilenza venne a Milano da Roma e fece strage. Quest'era la undecima volta, dal nono secolo in poi, in cui Milano fu esposta a tal miseria; avendo io osservate memorie di pestilenza negli anni 883, 964, 1005, 1244, 1259, 1361, 1373,

(I) In Porta Romana nella contrada della Ruga Bella. 1400, 1406 e 1485. Nel secolo XVI, del quale ora scrivo, più volte vi penetrò, come vedremo. (1507) L'anno 1507, il giorno 24 di maggio, Lodovico XII, per la seconda volta, venne in Milano. Egli si era impadronito di Genova e fece il solenne ingresso, andandogli incontro, oltre il clero e i corpi pubblici, ducento giovani vestiti di drappo di seta celeste, ricamato a gigli d'oro. Il re entrò per Porta Ticinese sotto diversi archi trionfali, essendo le vie tutte coperte di tela, magnificamente parate. Così erano le vie sino al castello, dove terminò l'entrata. Eranvi in seguito de' carri dorati, a foggia de' trionfi dei Romani antichi. Il re stava sotto a baldacchino di drappo d'oro, con corteggio immenso di principi, marchesi, conti, sei cardinali, e quattro altri ne vennero il giorno seguente, in tutto dieci cardinali. Il re visse in Milano coll'affabilità istessa dell'altra volta; andava ai pranzi, e fu da Galeazzo Visconti, da messer Antonio Maria Pallavicino; e sopra ogni altro si ricorda il festino veramente magnifico che diede Gian Giacomo Trivulzio al re ed alla corte, in cui sedettero più di duecento gentiluomini, cinque cardinali e centoventi damigelle milanesi. Inoltre vi furono tavole imbandite per quattrocento arcieri reali, ed altretanti domestici e cortigiani; onde più di mille convitati sedettero alle mense del Trivulzio: e ciò, essendo la stagione favorevole, seguì il 27 di maggio, sotto sale posticcie, piantate lungo il corso di Porta Romana. Indi vi si ballò e s'ebbe il divertimento delle maschere. Al re singolarmente piacque una bellissima giovine, Catterina di San Celso, che cantava, suonava e ballava sorprendentemente, ed aveva somma grazia, ingegno e vanità di conquiste. Fra i varii spettacoli che in quella occasione si videro, uno ve n'ebbe il quale minacciò di cagionare degli inconvenienti. Il giorno 14 giugno 1507 fu destinato ad una rappresentazione militare. Il giorno precedente cadeva la solennità del Corpus Domini, ed il re, con sette cardinali, col duca di Savoia, e i marchesi di Monferrato e Mantova, e una schiera di ministri esteri, aveva decorata la solita processione. La comparsa militare consisteva nel mostrare l'attacco di una fortezza. Erasi accomodato, a foggia di una ròcca, a quest'oggetto, il palazzo dove soleva dimorare il governatore, ch'era Carlo, gran maestro d'Amboise, succeduto al cardinale di Rohan (I). A difendere il forte, stavano esso governatore, il marchese di Mantova e il maresciallo Trivulzio, con cento uomini d'armi. L'attacco si faceva con forti bastoni, e tanto fu l'ardore, che alcuni vi rimasero morti, molti feriti; e la cosa era talmente impegnata, non volendo alcuna delle due parti cedere, che, per evitare una funesta scena, dovette il re in persona porsi di mezzo. Un mese e mezzo dimorò il re Lodovico questa seconda volta in Milano, d'onde partissene il giorno 11 luglio alla vòlta di Savona, per abboccarsi col re di Spagna, e concertar il matrimonio della sorella del duca di Nemours con quel re. I Veneziani, vedendo che il re Lodovico XII si era con facilità impadronito di Genova, cominciarono a temere questo potentissimo vicino, che aveano incautamente invitato ed assistito. Mossero delle pratiche per animare l'imperator Massimiliano, il quale aveva alla sua corte i due esuli principi Massimiliano e Francesco, figli del duca prigioniero. Non poteva il capo dell'Impero considerare mai come legittima l'invasione fatta dal re di Francia nel Milanese. Il feudo non passava nelle femmine, e quindi era viziato il titolo su cui fondavasi il re. Veramente ancora più viziato era quello che poteva mostrare Francesco Sforza; poiché la Bianca Maria, nella sua origine, aveva una macchia, della quale era immune la Valentina. Ma appunto per questo, quell'augusto

(I) Questo palazzo era dove ora trovasi la casa del marchese Litta in Porta Vercellina. quell'augusto avea, con nuova investitura, costituito duca Lodovico secondogenito, acciocché l'investitura mostrasse l'arbitrio cesareo nella scelta. Oltre poi l'augusta maestà dell'Impero, nel cuore di Massimiliano parlavano i moti del sangue in favore dei due giovani principi oppressi. (1508) Lusingato adunque Massimiliano del favore de' Veneziani, si presentò ai difficili passi dell'Adige per discendere dal Tirolo nella Lombardia; e, col pretesto di passar poi a Roma per farsi incoronare, scacciar prima i Francesi dal ducato di Milano. Ma trovò opposizione tale de' Veneziani, che dovette tornarsene. Egli mosse le armi contro i Veneti, ed essi occuparono le terre imperiali di Gorizia e Trieste. Questi furono gli ultimi motivi che determinarono la famosa lega di Cambrai l'anno 1509; lega in cui il papa, l'imperatore, il re di Francia, il re di Spagna, e vari altri minori principi Gonzaghi, Estensi, ecc., si unirono a danno della prepotente repubblica veneta; lega per cui Venezia fu nel punto di perire, e per cui ricevette un colpo siffatto, che più non le fu possibile riascendere alla primiera grandezza. Era egli meglio per Venezia l'avere per confinante un principe di forze moderate, come lo Sforza, ovvero un re di Francia? Sulla casa Sforza essa acquistò Brescia, Bergamo e Crema. Il tempo cambia i principi, e le repubbliche immortali seguitano sempre la stessa politica. Un successore debole sul trono di Milano accresceva nuove spoglie ai Veneti; Cremona, la Gera d'Adda terminarono in mano de' Veneti... Quantunque, era forse un bene per Venezia l'accrescere tanto lo Stato suo? E se, invece di farsi delle città suddite, ella ne avesse fatte altretante alleate e partecipi della veneta libertà, dando la cittadinanza veneta ai vinti, come i Romani... forse rinasceva Roma nel seno dell'Adriatico. Mi si perdoni questa digressione. Facil cosa è giudicare dagli effetti, siccome fa lo storico; ma gli uomini di Stato, costretti ad antivedere, sono dalle apparenze sedotti facilmente. L'oggetto di questa unione si era che il papa togliesse alla Repubblica le città marittime della Romagna; l'imperatore acquistasse Verona, Vicenza e Padova; il re di Francia riunisse al Milanese Crema, Bergamo e Brescia. Gli altri principi tutti avevano concertata la porzione che lor doveva appartenere dello spoglio de' Veneziani. I Veneziani radunarono un esercito di sessantamila uomini; e ne confidarono il comando al conte Bartolomeo d'Alviano. Si presentarono i Veneti all'Adda. Di contro comparve il governatore di Milano gran maestro Carlo d'Amboise, con una men forte armata. I Veneziani posero il fuoco a Treviglio; il loro comandante voleva prendere Lodi e Milano, od almeno tentarlo prima che giugnesse il re di Francia, il quale con nuovi armati passava le Alpi; ma i provveditori veneti non lo permisero. (1509) Comparve Lodovico XII in Milano il giorno l° di maggio del 1509, e fu questa la terza volta. Vi dimorò otto giorni; indi co' suoi s'incamminò alla vòlta di Cassano. Egli avea al suo seguito da cento de' primi gentiluomini milanesi, che seco conducevano più di mille cavalli corredati con maravigliosa magnificenza; e questi combattevano a proprie spese senza stipendio; su di che il Prato: al vedere quelle cavalcanti compagnie sì di Francesi come di Milanesi, con i sajoni quasi tutti di broccato d'oro sopra le fulgenti armi, avendo il re, vestito di bianco, nel mezzo, era veramente uno obstupescere l'occhio del riguardante. Giunse il re a Cassano; si pose di fronte ai Marcheschi. I Veneziani erano vantaggiosamente accampati alla sinistra riva dell'Adda, che scorreva avanti al loro campo. Voleva il re arditamente passare il fiume ed attaccarli, ma Giovan Giacomo Trivulzio lo sconsigliò da questo temerario partito a fronte di una numerosa armata, provveduta di molta artiglieria. Il re fece de' ponti, e su di essi passarono i Francesi; ciò accadde il 10 maggio 1509. V'erano il Trivulzio, La Palisse, il duca di Bourbon. Il conte Bartolomeo d'Alviano voleva attaccare i Francesi al momento in cui stavano passando il fiume; e si lagnò de' provveditori veneti, che gli strappavano dalle mani la vittoria e lo esponevano poi alla rovina. Non permisero i provveditori che scendesse dal suo campo trincerato. Il re pose il suo accampamento col fiume alle spalle e fece rompere i ponti, acciocché i soldati sapessero che non rimaneva scampo alcuno colla fuga. I Veneziani si ritirarono verso Caravaggio. Il 14 maggio 1509 si posero in marcia i Francesi. I Veneziani avevano circa ventimila fanti e mille uomini d'armi. Fra i primi nell'attaccare furono i nostri Milanesi. Il fatto seguì fra Agnadello e Mirabello. Rimasero sul campo sedicimila persone. Alcuni dissero persino ventimila. L'Alviano fu ferito. Ventitre pezzi di grossa artiglieria vennero in potere de' Francesi. Molti Veneziani rimasero prigionieri. Il poco che rimase dell'armata marchesca fuggì verso Brescia. Dopo questa insigne sconfitta d'Agnadello, del 14 maggio, i Francesi presero Caravaggio il 16; il giorno 18 maggio Bergamo si sottomise al re; e il giorno 23 maggio Brescia pure conobbe il re di Francia per suo signore. Crema nel mese istesso si sottomise. Tale fu l'impressione che fece la vittoria di Agnadello, che Verona, Vicenza e Padova portarono al re le chiavi, e il re le fece consegnare agli ambasciatori del re de' Romani, come città a lui appartenenti. Dopo un così rapido corso di vittorie il re Lodovico XII, il giorno 1° di luglio, entrò in Milano con una sorta di trionfo. Girò da San Dionigi dietro la fossa per entrare solennemente da Porta Romana, che allora era al ponte; e da Porta Romana al castello erano le case coperte di panni di razza, con li padiglioni sopra; come dice il Prato, che descrive la pompa essere stata tale, che ardiva paragonarla ai trionfi de' Romani antichi. Vi erano quattro archi trionfali, e l'ultimo sulla piazza del castello, il quale, fra gli altri belli, era bellissimo, d'altezza di più di cinquanta braccia, disopra avendo di rilievo la imagine del re, sopra un cavallo tutto messo a oro, di maravigliosa grandezza, con due giganti a canto, e tutte le commesse battaglie intagliate e dipinte, che era una bellezza a vedere, e più superba cosa saria stato, se la subita venuta del re non avesse il mezzo dell'opera intercisa; così il Prato. Il re era preceduto da carri dorati, che rappresentavano le città sottomesse, alla foggia de trionfi romani. S'era preparato un magnifico carro trionfale, tutto dorato e condotto da quattro cavalli bianchi, coperti superbamente di ricamo, e scortato da ventiquattro pomposi custodi; ma il re non volle ascendervi e rimase a cavallo, corteggiato da gran numero di principi, conti e marchesi, ducento gentiluomini francesi, e molti gentiluomini milanesi sì superbamente vestiti, che il più domestico abito era semplice broccato; così il Prato. Il re poco dopo tornò in Francia (I). Mentre i Francesi riunivano al ducato di Milano Brescia, Bergamo e Como, l'imperatore possedeva Verona, Vicenza e Padova; e il papa s'era reso padrone di Ravenna, Cervia, Imola, Faenza, Forlì, Rimini e Cesena. Ma, come accade sempre alle forze collegate, che i separati interessi de' soci le scompongono ben tosto, così riuscì ai Veneziani di riprendere Padova. Poco dopo, segretamente il papa fece pace co' Veneziani, ed ottenne la signoria delle città che avea conquistate nella Romagna, con di più il patto che la Repubblica non mai occupasse Ferrara. Così, mancando il papa di fede alla Lega, questa cessò, e ciascuno si rivolse a provvedere a' casi suoi.

(I) Nella cinta del muro intorno alla chiesa di San Dionigi vi si pose una lapida con queste parole: Lodovicus, Galliarum rex et Mediolani dux, parta de Venetis victoria, hic equum ascendit, ut in urbe triumpharet. CAPO VIGESIMOPRIMO.

Lodovico XII. Re di Francia, perde il Milanese, ove è riconosciuto Massimiliano Sforza, Ottavo Duca.

Dopo la vittoria di Agnadello, il re di Francia Lodovico XII aveva ottenuta dall'imperatore Massimiliano l'investitura del ducato di Milano collo sborso di centocinquantacinquemila scudi d'oro (I). Così quell'augusto parve che sagrificasse i due suoi cugini germani, Massimiliano e Francesco Sforza, spogliandoli di quel diritto ch'ei medesimo aveva dato ad essi nell'investitura di Lodovico il Moro, loro padre. Ma se le circostanze momentanee consigliarono un tal partito, in forza della lega di Cambrai, considerata per un mostro politico; cambiate queste, ben tosto gl'interessi di ciascun potentato ripigliarono il loro vigore; e nello Sforza preferì Cesare un principe stretto parente e protetto da lui, ad un rivale formidabile, quale era il re di Francia. (1510) Il papa Giulio II, staccatosi dalla lega, unitosi co' Veneziani, teneva

(I) Muratori, Annali d'Italia, (1509) - Du-Mont Corp. Diplomatique. segrete pratiche cogli Svizzeri, a fine di scacciare dal Milanese i Francesi, o d'inquietarli per lo meno. Quella nazione bellicosa e confinante, cinta da montagne altissime, poteva con improvvise incursioni sorprendere, e, rispinta, ancora ricoverarsi fra le rupi native fuori da ogni pericolo di offesa. Dopo di avere gli Svizzeri occupata Bellinzona nella rivoluzione in cui Lodovico il Moro fu preso, resi padroni di quella ròcca, in addietro posseduta dai duchi di Milano, non solamente si videro àrbitri di invadere la sottoposta pianura del Milanese, ma formarono disegno di occuparne una porzione. Il papa, che aveva già l'animo rivolto a Parma e Piacenza, città state sempre unite al ducato di Milano, a fine di staccarle ed appropriarsele come città comprese anticamente nell'esarcato di Ravenna, e nella donazione che la contessa Matilde aveva fatta alla Santa Sede, adescò gli Svizzeri a staccare altresì dal ducato medesimo Lugano, Locarno e Mendrisio, tre distretti i più vicini alle Alpi. Animò i Grigioni ad acquistar Bormio e la Valtellina. Il principal motore presso gli Svizzeri fu Matteo Scheiner, uomo di nascita plebea, dapprincipio maestro di scuola, indi curato, poi canonico di Sion, piccola città del Vallese, uomo di una impetuosa eloquenza e di un carattere violento, ostinato ed appassionatamente nemico dei Francesi, fatto per le armate più che pel sacerdozio, il quale, per testimonianza di Varilas, sforzò col ferro alla mano il suo capitolo a nominarlo coadiutore; e fatto indi vescovo di Sion, rese celebre il suo nome per le imprese militari e per la somma influenza che ebbe presso gli Svizzeri, e conseguentemente negli affari di que' tempi, ne' quali gli Svizzeri avevano moltissima parte; uomo perfine, che dal papa, per sempre più rendersi amici gli Svizzeri, fu creato cardinale, e dagli scrittori chiamasi il cardinale di Sion. Nel mese di settembre del 1510 gli Svizzeri fecero una incursione dal ponte della Tresa a Varese. I Francesi erano sparsi nei presidii di Brescia, Peschiera e altre fortezze, che ora sono dello Stato veneto. Cinquecento lance stavano a fronte dell'esercito veneziano. Altre cento lance francesi erano passate ausiliarie del duca di Ferrara, minacciato dal papa, il quale aveva accordato co' Veneziani, ch'essi non gl'impedirebbero di impadronirsi di quella città, togliendola agli Estensi. Il qual progetto non riuscì allora a Giulio II; ma ottantasette anni dopo, cioè nel 1597, Clemente VIII Aldobrandino lo ridusse a compimento. I Francesi non avevano quindi forze bastanti per impedire simili scorrerie degli Svizzeri; i quali, dopo di avere saccheggiate le terre, si ricoverarono prima dell'inverno sulle loro Alpi. (1511) Ma l'anno seguente, cioè 1511, sedicimila, secondo il Guicciardini, o venticinquemila Svizzeri, secondo il Prato, scesero dalle loro montagne, occuparono di bel nuovo Varese, s'innoltrarono a Gallarate, a Rho, e si presentarono fin sotto le mura di Milano il giorno 14 dicembre 1511. Ma non avendo costoro artiglieria, non passarono più oltre; anzi, incamminatisi verso la loro patria, lasciarono devastate od arse le terre di Bresso, Affori, Niguarda, Cinisello, Desio, Barlassina, Meda ed altre. Queste incursioni rendevano sempre più deboli le intraprese de' Francesi e contro i Veneziani e contro del papa, che già consideravasi come aperto nemico del re di Francia. Quai fossero i pensieri di papa Giulio II in quest'affare, si vede nel Guicciardini (I). Avea il pontefice, dice egli, propostosi nell'animo, e in questo fermati ostinatamente tutti i pensieri suoi, non solo di reintegrare la Chiesa di molti Stati i quali pretendeva appartenersegli, ma oltre a questo, di cacciare il re di Francia di tutto quello possedeva in Italia, movendolo la occulta ed antica inimicizia che avesse contro lui, o perché il sospetto avuto tanti anni si fosse convertito in odio potentissimo, o la cupidità della gloria

(I) Lib. IX. gloria di essere stato, come diceva poi, liberatore d'Italia dai barbari. I Francesi non avevano nell'Italia se non mille e trecento lance e ducento gentiluomini (I), parte a Brescia, parte a Bologna, parte a Faenza. Il governatore di Milano e comandante delle armate francesi nell'Italia era il gran maestro Carlo d'Amboise di Chaumont, il quale, nel 1505, era succeduto al signore du Benin; e questi aveva avuti due altri prima di lui, il maresciallo Trivulzio e il cardinale di Rohan. Questo quarto governatore morì di malattia in Coreggio, il 10 marzo 1511, e venne trasportato solennemente in Milano il 31 di esso mese. Il Prato ci descrive quel corredo funebre. Due cavalli coperti di velluto nero, ricamato d'oro, portavano il sarcofago, similmente coperto, con sopra la collana d'oro di San Michele. Precedevano cinque cavalli coperti sino a terra di velluto nero. Sul primo eravi un paggio con in mano la lancia: sul secondo, altro paggio portando un bastone dorato; sul terzo, un simile con mazza dorata; sul quarto il paggio aveva sul capo l'elmo dorato, e nella mano lo stocco; il quinto cavallo era a sella vuota, collo stocco pendente dall'arcione, ed era condotto a mano. Veniva poi la cassa di piombo, portata e coperta come ho scritto; seguitavanla i soldati e cortigiani, tutti in lutto, con abiti sino a terra, e con certi cappucci in capo, con cui quasi elefanti mi sembravano, dice il Prato. Indi seguivano quattrocento poveri, vestiti di nuovo, con torce nere in mano; poi quanti preti e frati v'erano in Milano, venivangli dietro con torce in mano. Il Duomo, ove la pompa finì, era tutto coperto di panni funebri, ed ornato di torce in sì gran numero, che una non era più di due braccia discosta dalle altre. Stavano alle porte alcuni che gettavano denaro ai poveri. La funzione fu magnifica. Il cadavere poi privatamente fu trasportato

(I) Guicciard., lib. X. in Francia. Tali singolarità meritano luogo nella storia, perché ci rappresentano i costumi ed il lusso dei tempi. L'onorare le ceneri de' trapassati sembra cosa quasi naturale all'uomo, poiché sino da' più remoti secoli se ne scorgono le tracce; e le nazioni selvagge eziandio ne hanno dato esempio. L'estinguere questo pietoso sentimento sarebbe difficilissimo e forse un cattivo progetto. Il limitare la profusione di tai pompe sembra conforme ad una saggia legislazione. Se questo affetto poi di preservare la spoglia e perpetuar la memoria delle persone che ci furono care, si rivolga in favor delle belle arti, animando la scultura, merita incoraggiamento e lode. Nel secolo XVI cominciò tra noi una severa e poco avveduta vigilanza contro siffatti monumenti, e se ciò non fosse stato, avremmo assai più ornati i nostri sacri templi di riconoscenti memorie de' cittadini, e del progresso delle belle arti, che non abbiamo. Poiché Giulio II ebbe mancato di fede al re di Francia, staccandosi dalla lega ed unendosi coi Veneziani, movendo gli Svizzeri, ed accostandosi agli Spagnuoli, alcuni cardinali, o partitanti della Francia, o malcontenti per la vita assai più militare che ecclesiastica del sommo pontefice, si radunarono in Pisa, ove si andava formando un concilio per deporlo, e dichiarar vacante la Santa Sede. In Pisa non si credendo eglino bastevolmente sicuri, passarono alcuni cardinali a Milano colla idea di quivi congregare il concilio. Come fossero accolti, lo scrive il Guicciardini : Ma a Milano i cardinali, seguitando per tutto il dispregio e l'odio dei popoli, avrebbero avute le medesime o maggiori difficoltà; perché il clero milanese, come se in quella città fossero entrati, non cardinali della chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne

(I) Lib. X. subitamente da se stesso dal celebrare gli uffizi divini, e la moltitudine, quando apparivano in pubblico, gli malediceva, gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce, riputato autore di questa cosa. Il cardinale di Santa Croce, spagnuolo, era uno dei primi autori di tale scisma. I nostri ecclesiastici, immediatamente dopo la loro venuta, cessarono di celebrare le sacre funzioni, considerando come soggetta all'interdetto la terra ove abitavano questi prelati. Il governo comandò loro di continuare nel solito ministero; ed il Prato ci avvisa che i monaci Benedettini, Cisterciensi e Lateranesi per non aver voluto ubbidire, ebbero i militari posti ad alloggiare sulle loro terre. (1512) Il giorno 4 gennaio 1512 si radunò nel Duomo questo concilio. Il cardinale di Santa Croce cantò la messa pontificale: il cardinale Sanseverino ed un altro cardinal francese servivano da diacono e suddiacono; v'erano altri due cardinali assistenti, e ventisette colle mitre bianche in testa, altri vescovi, ed altri abbati. Trattossi di portare giudizio su papa Giulio; ed eravi per notaio, che scriveva gli atti del concilio, un messer Ambrogio Boltraffo. Tenne varie sessioni questo concilio, ed in una del giorno 21 d'aprile venne dichiarato il sommo pontefice sospeso dalla sua dignità papale. Di tutto ciò fa menzione il Prato. Né già i pericoli che stavano d'intorno a Giulio II limitavansi a questa scarsa e dispregiata congregazione, già dal papa scomunicata e resa obbrobriosa o ridicola ai popoli. Il pericolo assai maggiore stava riposto nel valor militare del duca di Nemours, Gastone di Foix, nipote per parte di madre del re Luigi XII, fatto governatore e capitano generale dopo la morte del gran maestro di Amboise. Questo giovine eroe, all'età di soli ventidue anni, mostrò i talenti di un gran generale. Dal Milanese vola a soccorrere Bologna, assediata da don Pietro di Navarra, e lo sorprende prima ch'egli abbia nemmeno notizia ch'ei marciasse a quella vòlta; lo pone in fuga, batte la retroguardia di lui; rende libera Bologna. Coglie il momento di questa impresa il conte Luigi Avogadro, e, profittando della assenza de' Francesi, apre le porte di Brescia a' Veneziani, i quali occupano Brescia e s'innoltrano sino al Mincio. Al momento parte Gastone dal Bolognese, si affronta al Mincio coi nemici, che gliene disputano il passo, e li disperde; si presenta a Bergamo e la prende; si presenta a Brescia, e se ne rende padrone; e tutta questa maravigliosa serie di fatti si eseguisce in pochi giorni. Il 29 di febbraio prese Bergamo, il l° di marzo prese Brescia; al quale proposito il Guicciardini scrive (I): Fu celebrato per queste cose per tutta la Cristianità con somma gloria il nome di Fois, che con la ferocia e celerità sua avesse in tempo di quindici dì costretto l'esercito ecclesiastico e spagnuolo a partirsi dalle mura di Bologna, rotto alla campagna Giampagolo Baglione con parte delle genti dei Veneziani, ricuperata Brescia con tanta strage de' soldati e del popolo, di maniera che, per universale giudizio, si confermava non avere già parecchi secoli veduta Italia nelle opere militari una cosa somigliante. Questa presa di Brescia servì di argomento al signor di Belloy per la tragedia che intitolò: Gaston et Bayard, nella quale l'Avogadro apparisce come un ribelle del suo legittimo sovrano, e traditore della patria, e gl'Italiani vi figurano miseramente il personaggio di gente senza virtù alcuna. I Bresciani da ottantatre anni vivevano sudditi della repubblica veneta; quando, nel 1509, furono assoggettati alla forza dell'armi francesi. Il conte Avogadro tentò di liberare se stesso e la patria da un giogo straniero, e riconsegnarsi al nativo suo principe. Il governo poi che i Francesi facevano della di lui patria, suggeriva di liberarla da quella infelicità (2). Il grado di longitudine

(I) Lib. X. (2) Leggasi l'Apologia che ne ha fatta l'abate Francesco Marucchi nella tragedia intitolata: L'Avogadro. longitudine sotto cui siamo nati su questa sferoide, non dovrebbe cagionate diversità di partiti: l'uomo virtuoso e dabbene è patriota de' suoi simili sparsi per ogni clima, ed è forestiere al suo vicino malvagio e vizioso. L'infelice conte Avogadro terminò miseramente i suoi giorni sul patibolo, ed i suoi figli, tradotti a Milano, per mano del carnefice finirono pure la vita. V'è chi incolpa Gastone di Foix di avere voluto contemplare la morte di questi infelici, che avrebbero un nome glorioso, qualora avessero avuta la fortuna delle armi, e sarebbero stati coronati da quella gloria medesima che ottennero di que' tempi alcuni Francesi scacciando gl'Inglesi, che avevano occupate le province della Francia. Il saccheggio di Brescia recò poi a Milano la pestilenza, che per due anni vi restò. Dopo ch'ebbe di volo sottomesse le città di Bergamo e Brescia, il duca di Nemours Gastone di Foix passò per Milano; indi rapidamente marciò a Ravenna. È celebre la battaglia che vi si diè il giorno 11 d'aprile, che in quell'anno fu il giorno di Pasqua, cioè quaranta giorni dopo la presa di Brescia; ed è notissima non meno la morte che vi trovò Gastone, dopo di avere riportata una compiuta vittoria; né appartiene alla storia ch'io mi sono limitato a scrivere, la precisa narrazione di tai fatti. Marc'Antonio Colonna comandava nella città di Ravenna; il viceré di Napoli Pietro di Navarra aveva il comando degli Spagnuoli; sotto di lui serviva Fabrizio Colonna. I collegati pontificii erano millesettecento uomini di armi e quattordicimila fanti. Usarono allora i pontificii de' carri falcati (I). I Francesi avevano, sotto il comando del duca di Nemours, il marchese di Ferrara e il cardinale Sanseverino. Oltre il duca di Foix, che

(I) Lettera del Cavaliere Bayard a Lorenzo Aleman, suo zio, stampata in fine della tragedia del signor Belloy citata. vi fu ucciso, rimasero sul campo il signor d'Allegre con suo figlio, il signor Molard, sei capitani tedeschi, il capitano Maugiron, il barone di Grammont, e più di duecento gentiluomini di nascita distinta. Se tale sciagura non veniva a rovesciare tutt'i disegni de' Francesi, il papa Giulio II correva rischio grande di perdere lo Stato, e di ubbidire al sinodo tenutosi in Milano. Ma una giornata cambiò totalmente l'aspetto degli affari, e il languente comando de' Francesi passò nelle mani del signor de la Palisse, che può essere collocato nella serie de' governatori di Milano, ed è il sesto. La spoglia del duca di Nemours venne trasportata a Milano e sospesa entro di un sarcofago di piombo fra una colonna e l'altra del Duomo, siccome eranlo i duchi di Milano. La cassa venne coperta come lo erano le altre pure, con uno strato magnifico di broccato soprarizzo, dice il Prato: eranvi ricamati i gigli d'oro; pendeva la spada pontificia col fodero d'oro, acquistata a Ravenna; v'erano collocati all'intorno il vessillo del papa e quindici altre bandiere, prese in quella battaglia. Ma lo spirito feroce di partito e la superstizione non lasciarono tranquille le ceneri di questo giovine eroe; gli Svizzeri, i quali, come or ora vedremo, s'impadronirono in breve di Milano, entrati nel Duomo, sormontandosi l'un l'altro, scomposero, rovesciarono quel monumento, e le spoglie vennero disperse. Cambiatasi poi nuovamente la fortuna, e ritornati i Francesi, fu innalzato un mausoleo magnifico di marmo alla memoria di questo principe, e collocato nella chiesa delle monache di santa Marta. Di questo mausoleo or non ne rimane che la statua, sotto della quale si legge l'iscrizione seguente: SIMVLACRVM GASTONIS FOXII GALLICARVM COPIARVM DVCTORI QVI IN RAVENNATE PRAELIO CECIDIT ANNO MDXII CVM IN AEDE MARTAE RESTITVENDA EIVS TVMVLVS DIRVTVS SIT HVIVSCE COENOBII VIRGINES AD TANTI DVCIS IMMORTALITATEM HOC IN LOCO COLLOCANDVM CVRAVERE ANNO MDLXXIV

I bassi rilievi che adornavano la tomba, vennero, non saprei per qual destino, rotti e divisi; alcuni se ne veggono nella deliziosa villa di Castellazzo, altri sono presso alcuni privati. Sempre più si conosce che un buon libro è il solo monumento durevole, col quale un uomo sia sicuro di tramandare ai secoli venturi la memoria di se medesimo: i marmi, gli edifizi, le pubbliche fondazioni, tutto si scompone e disperde; ma Orazio aveva ragione di scrivere, ch'egli s'innalzava un monumento co' versi suoi più durevole de' bronzi (I).

(I) Mathieu Skeiner, cardinal de Sion, le boute-feu de la Sainte Ligue, lui qui joua dans toutes ces guerres le véritable rôle de l'Alecto de Virgile; ce Prêtre sanguinaire eut la lâcheté de faire exhumer le Héros de la France, sous prétexte de l'absurde excommunication lancée contre le ennemis du pape. Les François et beaucoup d'Italiens, souhaitoient alors à Jules II et au cardinal Skeiner, autant de droiture, de justice, d'honneur et de bonté, qu'en avoit eu le Prince, dont ils osoient ainsi damner l'âme et outrager les cendres. Belloy. Dopo la battaglia di Ravenna, in cui si disse che rimasero morti sul campo ottomila fanti e mille cavalieri pontificii, e prigionieri il viceré di Napoli don Pietro di Navarra, il cardinale dei Medici, il marchese di Pescara, Fabrizio Colonna, il marchese di Padule, il figlio del principe di Melfi, don Giovanni Cardona ed altri; l'armata francese, sebbene vincitrice, si trovò talmente rovinata, che il cavaliere Bayard, nella lettera citata, assicura (I) che in cento anni di tempo la Francia non poteva risarcire la perdita che aveva fatta. Dopo questa tal battaglia, il papa Giulio II sempre più si strinse co' Veneziani per discacciare i Francesi, i quali a nome del concilio avevano cercato di occupar la Romagna. L'interesse dei Veneziani consigliavali a dar mano alla rovina dei Francesi per ricuperare Brescia e il restante della terra-ferma, e collocar sul trono di Milano un principe da cui non dovessero temere invasione. Innoltrò il papa i suoi maneggi coll'imperatore Massimiliano per restituire il ducato di Milano a Massimiliano Sforza, cugino dell'imperatore medesimo. L'imperatore, con un proclama, richiamò alla patria tutti i Tedeschi che militavano nell'armata francese; e questi abbandonarono i loro stipendi, resi poco sicuri; e sempre più s'indebolirono le forze comandate dal signor de la Palisse. Dall'attività di papa Giulio II gli Svizzeri incessantemente animati, scesero questi nuovamente in Italia; e profittando della confusione e debolezza de' Francesi, occuparono i tre baliaggi di Lugano, Locarno e Mendrisio, i quali continuarono a possedere gli Svizzeri dappoi, come al presente. I Grigioni s'impadronirono di Chiavenna, Bormio e della Valtellina, attualmente possedute da essi. Il papa occupò Parma e Piacenza (2). In questo stato di cose

(I) Et vous assure que de cent ans le royaume de France ne recouvrera la perte qu'il a faite. (2) Veggasi Guicciardini, lib. 4. - Muratori, Annali, all'anno 1512. - Istoria del dominio temporale il signor de la Palisse si ricoverò a Pavia, città forte, e, abbandonò Milano. Il consiglio generale de' novecento si radunò per dare le ordinarie provvidenze alla città, e porre qualche riparo alla pestilenza che l'affliggeva. Gli Svizzeri, sotto il comando del cardinale di Sion, invadono lo Stato in nome della Santa Lega: occupano Cremona, indi Lodi: si unisce al cardinale svizzero il vescovo di Lodi Ottaviano Sforza, cugino di Massimiliano. Milano riconosce la Santa Lega il giorno 16 giugno: il giorno 20 giugno entra il vescovo di Lodi in Milano come luogotenente del duca Massimiliano. Il papa libera la città di Milano dall'interdetto, in cui la considerava incorsa per esservisi ricoverati i cardinali suoi nemici. L'assoluzione venne il giorno 6 di luglio, e quella fu l'ottava volta in cui Milano si trovò in siffatta circostanza (I). I Francesi, non essendo numerosi a segno di custodire Pavia, l'abbandonarono, e per la fine del 1512 non ve ne rimasero se non ne' castelli di Milano e di Cremona. Massimiliano Sforza dall'età di nove anni sino al vigesimoprimo era stato esule dalla patria e ricoverato sotto la protezione dell'imperator Massimiliano, suo cugino. Egli, scortato dal cardinale di Sion e dagli Svizzeri, entrò solennemente in Milano il giorno 29 dicembre 1512. L'ingresso si fece al solito da Porta Ticinese con più di cento gentiluomini che lo precedevano, usciti ad incontrarlo con un abito uniforme, composto dei colori medesimi che il duca aveva scelti per sue livree, cioè pavonazzo, giallo e bianco. I gentiluomini però, oltre l'essere vestiti di seta, erano altresì ricamati d'oro; per lo che non si potevano confondere co' domestici del duca.

della Chiesa sopra Parma e Piacenza, ediz. roman., p. 122. - Du Mont, Code Diplomat., T. IV, P. I., pp. 137 e 173. - Angeli, Ist. di Parma, lib. V. - Alberti, Descriz. d'Ital., p. 369.

(I) Siccome può vedersi nel tomo I, pag. 379. duca. Il duca cavalcava vestito di raso bianco trinato d'oro; portavangli il baldacchino i dottori di collegio. Cesare Sforza, fratello naturale del duca, portava immediatamente avanti di esso la spada ducale sguainata. Lo seguitavano il vescovo Valese cardinale di Sion, e i legati del re de' Romani, del re di Spagna e di altri sovrani. Non mancarono a tal funzione i soliti archi trionfali. Egli finalmente andò a risiedere nella corte ducale; giacché il castello, nel quale solevano alloggiare i duchi, era in potere de' Francesi. Il potere ducale Massimiliano lo ricevette dagli Svizzeri; e, come dice Guicciardini (I): Il cardinale (Sedunense lo chiama il Guicciardini, ed è il vescovo di Sion), in nome pubblico degli Svizzeri gli pose in mano le chiavi, ed esercitò quel dì, che fu degli ultimi di dicembre, tutti gli atti che dimostravano Massimiliano ricevere la possessione da loro; il quale fu ricevuto con incredibile allegrezza di tutti i popoli per il desiderio ardentissimo di avere un principe proprio, e perché speravano avesse a essere simile all'avolo o al padre, la memoria dell'uno de' quali per sue eccellentissime virtù era chiarissima in quello Stato, nell'altro il tedio degl'imperi forestieri aveva convertito l'odio in benevolenza.

(1513) Giulio II, il primo motore degli avvenimenti de' tempi suoi, quel papa che, coll'usbergo sul petto e l'elmo in capo, diresse l'assedio della Mirandola, e vi entrò per la breccia, terminò la sua vita la notte dal 20 al 21 di febbraio del 1513. Questo colpo cambiò nuovamente le combinazioni politiche in Europa. I Veneziani, che tre anni prima, per ricuperare la terra ferma occupata da' Francesi uniti coll'imperatore, avevano cedute al papa le città marittime della Romagna, ascoltarono le proposizioni che fece loro la Francia, la quale prometteva ad essi la terraferma, Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo e Crema, e con tali condizioni si collegarono

(I) Lib. XI. collegarono con Lodovico XII nel trattato di Blois 13 marzo (I). Con tale nuova confederazione si obbligavano i Veneziani ad assistere il re per ricuperare il Milanese; ed il re obbligavasi ad aiutare la Repubblica per riacquistare le terre della Romagna perdute colla lega di Cambray (2). Contro del papa si mossero parimenti gli Spagnuoli; ed il viceré di Napoli s'impadronì di Parma e di Piacenza, sebbene per poco, costretto a restituirle al papa (3). Mentre si andava disponendo nella Francia una nuova invasione nel Milanese, a respingere la quale forz'era rivolgere le spalle a' Veneziani collegati colla Francia, il duca Massimiliano Sforza si abbandonava alla molle lascivia, che appena si perdona ai principi sicuri nel loro Stato. Per festeggiare il soggiorno che la marchesa di Mantova faceva in corte col nostro duca, ad altro non pensava egli che a giuochi ed a pompe, quasi ch'ei fosse nel seno della pace. Fece fare, fra le altre cose, un torneamento; il che accadde il giorno 13 di febbraio 1513, dimenticandosi che nel castello stavano i Francesi. Il duca vide, per le palle di cannone ch'essi gli fecero piovere sulla corte, che aveva inopportunamente scelto il tempo ed il luogo (4). Questo principe non sembra che avesse alcuna energia né elevazione d'animo; egli spensieratamente portava il titolo di duca, e in mezzo all'umiliazione propria ed alla miseria de' sudditi pensava a passar giocondamente il suo tempo. Donava feudi, donava regalie, regalava denaro, roba, a tutti i suoi favoriti con profusione, in guisa che aveva sempre l'erario esausto. Donò a Girolamo Morone la contea di Lecco: la città di Vigevano al cardinale di Sion; Rivolta e la Ghiara d'Adda ad Oldrado Lampugnano. Coteste sue profusioni facevansi da esso lui come se nulla fossero,

(I) Gaillard, Vie de François Premier, roi de France, tomo I, p. 140. (2) Guicciard., lib. XI. (3) Ivi. (4) Prato. dice il Prato, il quale si esprime a tal proposito così: ma poco delle dicte cose curandosi il duca nostro, facea, como dice il proverbio, manco roba, manco affanni; et solo attendeva a piaceri; unde essendo venuto a Milano la moglie del marchese di Mantova con alquante sue zitelle, o per meglio dire ministre di Venere, tanto piacere de conviti e de balli e de altri che io non scrivo, se prendea assieme con lo effeminato viceré di Spagna, che era una cosa a ogni sano judicio biasimevole, et non so se mi dica una parola, tuttavia, essendo dicta da Salomone nella Cantica, la posso dir anch'io: Veh tibi terra cuius rex est puer ! Così il Prato. Ma chi è fanciullo a ventun'anni, non è giunto mai a diventar uomo. Questa scioperatezza dovea ricadere a danno de' sudditi, ai quali forza era d'imporre maggiori aggravii; e non osandolo fare da sé il duca Massimiliano, prima di accrescere la gabella del sale di trenta soldi ogni staio, ne impetrò dal papa il permesso; della qual supplica ho letta io stesso una copia, scritta di quei tempi e conservata nella signorile raccolta de' manoscritti nell'insigne archivio Belgioioso d'Este, e dice così: Beatissime Pater: - Manifesta est et satis nota apud S. V. immoderata nimium longe lateque dominandi ambitio, et aliena indebite usurpandi cupiditas Gallorum regis, adeo ut non modo principatum Mediolanensem, verum et universae Italiae subjugandae omnibus votis aspirare videatur: e conclude alla fine: quare ad B. V. confugere cogor pro re quae (sic) in evidentem totius Italie commodum cedet et mihi et tam immensae publicae necessitati consulet; etiam supplicando quatenus, in praemissis opportune providendo, B. V. auctoritate Apostolica qua fungitur, motu proprio, ex certa scientia et de plenitudine potestatis etiam absolutae, licentiam potestatem et auctoritatem indulgere dignetur in universa ditione ducatus Mediolani imponendi praedictas additiones solidorum triginta pro stario salis etc (I). Né ciò bastando, delegò il duca Bernardino ed Enea Crivelli

(I) Miscellanea MS., vol. I, n. 9. Crivelli per esigere dai feudatari uno straordinario tributo (I). Vendé persino i due canali navigabili, il Naviglio grande e quello della Martesana alla città di Milano (2). In un sol mese vendette tante regalie, che ne incassò dugentomila ducati; alienazioni tutte fatte in ragione del sette per cento (3). Impose nuovi aggravii sopra di ogni ruota di mulino, accrebbe i tributi sopra le terre irrigate (4). I sudditi, al paragone del governo francese conobbero quanto avessero peggiorato sotto di questo sventato principe naturale. Lodovico XII, re di Francia ne' tredici anni ne' quali signoreggiò nel Milanese, non impose alcuna taglia né tributo straordinario. Fu un buon principe, moderato nelle spese, popolare, amante dell'ordine e della giustizia. Egli piantò nel Milanese quel sistema di governo che durò sino a' tempi nostri. Questo monarca prima di regnare era dominato dall'amore; la gioventù, la grazia, la bellezza lo seducevano: poiché salì sul trono, seppe frenarsi, e nobilmente signoreggiare sopra di se medesimo. Ei meritò dai posteri il glorioso nome di Padre del popolo. Il paragone colla spensierata condotta del duca Massimiliano era svantaggioso pel successore. Non sarà discaro a' miei lettori, s'io sottopongo a loro sguardo lo specchio delle spese fisse che si facevano sotto il duca Massimiliano dall'erario ducale. Questo prezioso aneddoto, siccome molt'altri, fu da me tratto dall'insigne collezione pocanzi ricordata (5).


(I) V. miscellanea già citata Vol. I, Num. 3. (2) Il contratto di questa vendita, fatta il giorno 11 luglio 1515, trovasi nell'Archivio Civico, e si scorge che il reddito del Naviglio grande si considerò di non più che annue lire 1200. (3) Vedi Prato. (4) Ibid. (5) Miscellan., vol. I, n. 12. Spese dello stato di Milano sotto il duca Massimiliano Sforza


Pensioni agli Svizzeri ducati 100,000 Alle guardie de' castelli di Milano, Cremona, Novara, guardia della corte, e capitano di giustizia » 72,000 Alla gente d'armi » 74,600 Alla compagnia del Bregheto, computata la provvisione sua » 3,000 Al signor Manfredo da Coreggio, per esso e cavalli cento » 6,800 Alla casa ducale, computata la stalla » 26,000 Spese delli cavallari » 8,000 Agli oratori e famigli cavallanti » 12,000 Alla munizione e lavoreri ducali » 12,000 Alle guardie delle fortezze, oltre le dette disopra » 6,000 Spese straordinarie » 25,000 Officiali salariati » 25,000 Vestiario del duca » 30,000 Spese di Sanità » 4,000 Elemosine ducali » 2,000 Staffieri del duca » 660 Trombetti » 540 Interessi passivi di debiti » 10,000 Ristauri per guerra e peste » 6,000 Lettere e bollettini di esenzione » 2,000 Beneplacito del duca » 5,000 A conto del signor duca di Bari » 3,350 Legna e altro per la cancelleria ducale e camera » 2,000 Al signor Giovanni e a Maddalena Lucrezia per suo vivere » 1,700 Annuali ed obblazioni » 500 ________ ducati 438,150 Le rendite poi del duca a quel tempo veggonsi nel codice medesimo (I) ascendenti a scudi d'oro del sole 499,660, soldi 64, denari 8. Ora computati gli scudi del sole com'erano, una mezza doppia, e i ducati in valore di un gigliato, apparisce che il duca aveva ogni anno una spesa eccedente di più di ventiquattromila ducati, quand'anche nelle spese di capriccio ei non avesse ecceduto. I Francesi adunque, nel numero di dugento uomini d'armi e ventimila fanti, sotto il comando di Luigi de la Tremouille e del maresciallo Trivulzio, superate le Alpi, scesero verso lo Stato di Milano. A tal nuova i Veneziani si accostarono e si resero padroni di Pizzighettone, di Martinengo e di Cremona. Molti fra i sudditi del duca, malcontenti del governo di un tal principe, bramavano di ritornare sotto il dominio del re Lodovico XII. Un tumulto popolare si eccitò in Pavia, un simile contemporaneamente comparve in Alessandria. Già queste due città non avevano aspettato l'arrivo de' Francesi per considerarsi suddite della Francia. Messer Sacramoro Visconti, che aveva il comando degli Sforzeschi posti a bloccare il castello di Milano, lasciava segretamente che entrassero di notte le vittovaglie ai Francesi del presidio; il che scoperto, egli si ricoverò nella Francia, ed ebbe dal re la collana, pregevolissima allora, dell'ordine di San Michele. In somma le cose andavano come forz'era pure che andassero sotto di un principe sfornito di mente e di cuore che lo innalzassero sugli uomini volgari, e lo mostrassero degno di comandare agli altri uomini. Gli Svizzeri però vollero sostenere questo duca, e con ciò conservarsi non solamente i baliaggi che avevano occupati, ma il dominio del Milanese, che realmente esercitavano già sotto il nome del duca Massimiliano. Si radunarono ne' contorni di Novara nel numero di diecimila,

(I) MS. Miscellanea, tom. I, n. 12 quanto scrive il Guicciardini (I), o settemila, come scrive il Prato; e il giorno 6 di giugno del 1513 assalirono l'armata francese con tanto impeto e sì impensatamente, che, quasi per sorpresa impadronitisi dell'artiglieria de' nemici, la rivoltarono contro de' Francesi medesimi; e questo arditissimo impeto sgomentò talmente i Francesi (i quali s'immaginarono essere sopraggiunta una nuova armata di patriotti svizzeri), che senza consiglio si abbandonarono alla fuga; e da un drappello di fantaccini, senza cavalleria, senza artiglieria venne siffattamente distrutto un corpo di armata, che si contarono rimasti sul campo ben diecimila de' Francesi, ed il rimanente con somma sollecitudine ripassò le Alpi. Così gli Svizzeri in quel luogo medesimo ove tredici anni prima erano stati accusati di aver tradito il padre, avendo a fronte lo stesso Trivulzi, in quello stesso luogo, e contro del generale medesimo, col loro valore mantennero lo Stato al figlio Massimiliano Sforza, e ripararono l'onore delle loro armi e della fedeltà loro. Il Prato attribuisce quella sciagura de' Francesi al disprezzo che imprudentemente essi fecero de' loro nemici; non supponendo possibile ch'essi ardissero di provocar l'armata francese. Attribuisce però singolarmente allo sbigottimento che ebbe colla sorpresa il comandante supremo la Tremouille, il poco onore che in quella giornata si fecero le armi francesi; ed il Trivulzio, costretto a fuggire cogli altri, andava ripetendo, a quanto il Prato scrive, noi fuggiamo et la victoria è nostra. Nella Francia la Tremouille vide, non senza carico di vituperio, cassato il suo nome dalla lista dei stipendiati, la qual cosa non avvenne al Trivulzio; ma sia come si voglia, la fuga fu vituperosa (2). Gli Svizzeri raccolsero in quella giornata un prezioso bottino, avendo perduti i Francesi tutti i loro attrezzi. Dopo un tal fatto i Veneziani sgombrarono il paese; ritornarono le cose come se nulla fosse accaduto;

(I) Lib. I. (2) Prato. e il duca, acceso d'una passione degna del suo animo, si recò a stanziare nei contorni di Pavia per vagheggiare una mugnaia che vi stava domiciliata (I). La gloria delle armi francesi non poteva essere riparata nell'Italia con nuovo esercito, poiché gl'Inglesi avendo allora appunto mossa la guerra a Lodovico XII, ei doveva adoperare le sue forze per impedire i progressi di trentamila Inglesi e ventitremila Tedeschi, i quali erano spediti nella Francia da Enrico VIII e Massimiliano Cesare collegati. Quindi i pochi Francesi che stavano al presidio de' castelli di Milano e di Cremona, esausti di munizioni e di viveri, oppressi da miserie, disperando soccorso, cedettero le fortezze ed uscirono, salve le persone e robe loro. Il castello di Milano per tal modo venne in potere dello Sforza il giorno 19 novembre 1513, e da quel giorno non rimase più dominazione alcuna nell'Italia al re Lodovico XII. (1514) Ma lo Sforza altro di duca non conservò che il titolo; vivendo egli meschinamente come un ostaggio sotto la tutela degli Svizzeri, e sopra tutto del terribile cardinale di Sion, il quale col nome del duca adoperava ogni mezzo per cavar denaro dai popoli, abbandonati ad un'anarchia militare; e così senza alcun memorabile avvenimento passò l'anno 1514. (1515) L'anno seguente 1515 incominciò colla morte del re Lodovico XII senza figli, e colla incoronazione di Francesco I, l'avo paterno del quale era zio paterno del defunto, anche egli discendente dalla principessa Valentina Visconti. Il nuovo re era nel ventesimoprimo anno dell'età sua. Trovò la Francia in pace pel trattato seguito poco prima della morte di Lodovico XII. Il suo primo pensiero fu di ricuperare il Milanese; ed a fine di radunare nell'erario quanto bastasse alla spedizione, pose, con esempio infausto, in vendita le cariche della giudicatura della Francia. Si collegò nuovamente co' Veneziani.

(I) Prato. Veneziani. Dichiarò reggente del governo la duchessa d'Angoulême sua madre; e si dispose a venire egli stesso alla testa della sua armata nel Milanese. Il duca prese al suo stipendio, in qualità di capitano delle genti d'armi, Prospero Colonna. E come tutto ciò che dà idea de' costumi di quei tempi deve aver luogo nella mia storia, così io non ometterò un magnifico convito che il Colonnese imbandì in quella occasione, e di cui ci lasciò memoria il Prato. Ciò seguì il giorno 20 di febbraio 1515. Il duca e i cortigiani furono invitati, ed inoltre trentasei damiselle milanesi, dice il Prato. Fabbricò apposta un superbo salone di legno, riccamente dorato e dipinto, e dagli architetti fu stimato cosa notandissima, come dice il nostro scrittore. Quattro ore durò la mensa. Si continuava il costume di servire in piatti separati ciascuno degli invitati. Ognuno avea una pernice, un fagiano, un pavone, un pesce, ecc.; contemporaneamente dinanzi a ciascuno si riponeva una finta pernice, un fagiano, un pavone, un pesce finti, o di marzapane, o d'altra materia, dorati, inargentati, ecc., e vi furono abbondanti e deliziose pastiglie ed acque odorose. In fine della cena comparve un finto gioielliere che recava collane, braccialetti ed altri vezzi di gemme e d'oro; presentò le sue preziose merci alle damigelle, come se cercasse venderle; ed allora il Colonnese s'intromise quasi volesse rendersi mediatore dei contratti, e con generosa urbanità regalò ciascuna delle convitate senza far mostra di regalarle. Ciò veramente fu materia di non picciolo valore, e dice il Prato che venisse fatto al solo fine per potere la sua amata senza biasimo d'infamia con le proprie mani presentare. Il che dimostra quanto venissero rispettate le damigelle e il costume. Cose siffatte sembrano romanzesche; ma contemplate saggiamente dimostrano una nazione ingentilita e generosa. La mattina vegnente ciascuna delle invitate ricevette un canestro inargentato con entro la colazione. Al duca fece egli recare venticinque carichi di selvaggiume. Poco giovava alla difesa dello Stato la scelta di un magnifico e galante generale; conveniva avere un'armata, e gli Svizzeri s'impegnarono a difenderlo colla paga di trecentomila ducati. Comparvero in Milano dodici commissari per ricevere anticipatamente la promessa paga. Il duca pubblicò una imposizione per riscuotere dai sudditi questa eccessiva tassa. Sotto il regno di Lodovico XII non s'era mai pagato, se non i tributi costituzionali. Un'arbitraria tassazione, per tal modo dispoticamente comandata, commosse gli animi de' cittadini. L'editto si pubblicò il giorno 8 di giugno del 1515. Sembrò questa una vera oppressione. La città fece presentare le sue preghiere al cardinal di Sion, precipuo motore di simili risoluzioni; ma l'inflessibile prelato non diè orecchio a verun moderato partito. La città si pose in tumulto; alcuni Svizzeri furono uccisi; alcuni Milanesi pure rimasero morti in una zuffa alla sala della piazza dei Mercanti. E come si avvicinavano i Francesi, ed il partito de' malcontenti con tale notizia si rianimava, così il duca fu costretto con nuovo proclama a disdire l'imposta taglia. Si entrò a trattare. La città di Milano comprò dal duca il Vicariato di provvisione, la giudicatura delle strade e quella delle vettovaglie collo sborso di cinquantamila ducati, di che stesero pubblico documento, il giorno 11 di luglio 1515, i notai Stefano da Cremona e Paolo da Balsamo. Da quel contratto ebbe origine poi la nomina che la città di Milano presentava al principe od al suo luogotenente, di alcuni cittadini, dai quali esso trasceglieva chi gli era in grado alle accennate cariche, che cominciarono allora ad essere privativamente appoggiate ai così detti patrizi milanesi. Con questi cinquantamila ducati, cioè colla sesta parte soltanto della somma loro promessa, ritornarono i commissari svizzeri al loro paese. Nella dieta nazionale si pose in deliberazione, se meglio convenisse l'accettare le pensioni che offeriva con molta istanza il re Francesco, ovvero proseguire all'impegno di mantenere mantenere Massimiliano Sforza duca di Milano; ed il secondo prevalse, avendo gli Svizzeri profittato più de' Francesi nemici colla recente sconfitta data loro presso Novara, di quanto ne avrebbero ottenuto se fossero stati loro alleati. A ciò s'aggiunse poi la considerazione, che, fin tanto che Massimiliano Sforza rappresentava il personaggio di duca di Milano, non sarebbe mancata occasione e mezzo di costringere la città allo sborso della promessa paga, e di maggiori ancora. In pochi giorni quarantamila Svizzeri scesero dai loro monti, e si radunarono verso Novara. Il cardinale di Sion tanto dispoticamente e con tanta atrocità comandava in Milano, che, sospettando egli di Ottaviano Sforza, cugino del duca e vescovo di Lodi, che avesse delle pratiche co' nemici, nulla rispettando il carattere di consanguinità col sovrano, né la persona del vescovo, crudelmente per mero sospetto lo fece torturare con quattordici tratti di corda; il che narrato viene dal Prato, e dalla cronaca manoscritta di Antonio Grumello Pavese (I). Il Prato nota persino il giorno in cui ciò avvenne, che fu il 21 di maggio 1515, e racconta che il vescovo spontaneamente veniva al castello per corteggiare il duca, quando quivi fu arrestato, rinchiuso nella ròcca, ed aspramente torturato a fine di chiarirsi s'egli mai avesse tramato contro lo Stato. Dopo due settimane, non risultando dai processi altro

(I) Havuto nova Maximiliano Sforza ducha di Milano, et il cardinale elveticho del preparato exercito gallico et del preparato exercito veneto (dopo morto Lodovico XII) per la imprexa de lo imperio Mediolanense; facto suo consulto de resistere a tanto impeto unito contra esso imperio, il cardinale, per levar ogni suspecto qual haveva a lo epischopo laudense Sforzescho, qual gubernava lo imperio Mediolanense, fece prendere esso epischopo et condurlo prigione nel castello di Porta Giobia, dove subito posto alla tortura li fu dato squassi quattordici di corda, et altro non poteno havere da esso epischopo, MS. Belgioioso, fogl. 79, tergo, e 80. che la innocenza del vescovo cugino del duca, fu il vescovo tradotto nella Germania, d'onde l'infelice prelato passò a Roma. Tali erano i costumi e le opinioni d'allora; tali i pensieri di un cardinale, di un vescovo di Sion, verso d'un figlio d'un sovrano, di un vescovo, di un innocente. Gli uomini presso a poco son sempre stati gli stessi; ma questo presso a poco è il vantaggio della generazione vivente. Invidii chi non sa la storia i tempi antichi. Benediciamo Dio, di vivere in un secolo in cui le passioni e i vizi degli uomini sono (almeno in apparenza) meno atroci, e meno sfacciatamente insultano la virtù. Racconta il Prato che il duca Massimiliano, vedendo il duca di Bari Francesco (questi era fratello minore del duca, che regnò dopo lui; ed il titolo di duca di Bari nella casa Sforza era proprio del secondogenito) starsene pensieroso, appoggiato ad una finestra, improvvisamente se gli avventò dicendogli: Monsignore, io so che voi mirate a farvi duca di Milano; ma cavatevelo dalla fantasia, che io vi prometto da leale signore che io vi farò morire. A tale minaccia, senza dubbio non meritata, rispose il fratello colla riverenza ch'ei doveva al suo signore; ma il duca, sospettoso, ingiusto, depresso, timido, violento, non meritava certo di essere sovrano. CAPO VIGESIMOSECONDO.

Di Francesco Primo Re di Francia, e suo Governo nel Ducato di Milano.

Il buon re di Francia Francesco I radunò un'armata formidabile, e si preparò a discendere egli stesso nell'Italia. Accrebbe sino a millecinquecento il corpo delle sue lance, numero per que' tempi esorbitante; allestì un imponente corredo d'artiglieria; prese al suo stipendio diecimila Lanschinetti, seimila fanti della Gheldria; radunò diecimila Guasconi (I); in somma, formò una terribile armata con quindicimila uomini d'armi, quarantamila fantaccini, tremila pionieri ossia guastatori (2); e nell'esercito si contarono più di ottantamila persone (I). Il contestabile di Bourbon aveva il comando della vanguardia. Il re s'era riserbato il comando del corpo di battaglia; al duca d'Alençon aveva affidata la retroguardia; Lautrec, Navarra, Gian Giacomo Trivulzi, la Palisse, Chabanne, d'Aubigny, Bayard, d'Imbercourt, Montmorency, i più illustri che militavano sotto le insegne di Francia, tutti gareggiavano per combattere sotto del giovane e coraggioso

(I) Gaillard, Vie de François Premier, tom. I, p. 214. (2) Ibidem, p. 224. (3) Prato. loro re. Reso istrutto il duca di tai preparativi, e di forze di gran lunga superiori alle sue, le quali senza dimora s'andavano innoltrando, mentre egli aveva alle spalle i Veneziani, combinati a di lui danno, affidò a Prospero Colonna dugento uomini d'armi e quarantamila Svizzeri. Non conveniva aspettare nella pianura della Lombardia un esercito fortissimo, animato dalla presenza del re; ed era sperabile l'arrestarlo colle forze affidate al Colonna. Quindi, da saggio comandante, ei s'innoltrò nelle difficili strette delle Alpi, nei contorni di Susa, ed ivi, impadronitosi de' luoghi eminenti, si dispose a disputare con molto vantaggio il passo all'armata nemica. Egli era acquartierato a Villafranca, vivendo sicuro che i Francesi dovessero presentarsi a Susa. In fatti, due strade sole erano conosciute allora onde passare dal Delfinato nell'Italia; una pel monte di Ginevra, l'altra pel monte Cenis; e tutte due si univano a Susa. L'esercito francese, avvisato come in quelle angustie de' monti l'aspettassero i nemici, disperando di superarli, era in procinto di abbandonare l'impresa: ma il maresciallo Gian Giacomo Trivulzi, che già una volta aveva conquistato alla Francia il Milanese, ebbe il merito di farglielo acquistare anco in quella seconda occasione. Egli divisò una nuova strada affatto impensata; e, coll'aiuto di alcuni cacciatori nazionali, trovò il modo d'evitare il passo di Susa, e di guidare l'armata per Saluzzo. Così entrò in Italia l'armata francese: e Prospero Colonna, mal servito dagli esploratori, venne sorpreso e fatto prigioniere da que' Francesi ch'egli supponeva di là dai monti. Così, scesa nella pianura senza contrasto, si avvicinò l'armata francese quasi alla vista di Milano. Il duca si ricoverò nel castello. La città spedì i suoi deputati al re Francesco I, che gli accolse umanamente. La città di Milano però non era disposta a ricevere presidio; ed il maresciallo Trivulzio, avendo procurato impensatamente d'introdurvene da Porta Ticinese, la plebe si pose in armi. Il duca, consigliato consigliato da Girolamo Morone a giovarsi di quel movimento popolare, uscì con parte del presidio per sostenere il popolo; per lo che, conoscendo il Trivulzio che l'impresa non era tanto facile quanto l'aveva sperata, con qualche uccisione de' suoi, si ritirò all'armata, ch'era accampata a Boffalora. Il duca, per sempre più animar la plebe, fece proclamare ch'egli voleva affidar le chiavi della città al suo popolo; che in avvenire voleva rendere immuni i cittadini da ogni aggravio, e che i pesi dello Stato dovevano portarli i ricchi e i nobili. Contemporaneamente vennero cacciati i nobili dalle magistrature municipali, e collocate persone le più accette alla plebe. L'odio ereditario contro de' nobili si manifestò con eccessi d'ogni sorte. La plebe, sensibile alle prepotenze ed al fasto orgoglioso de' magnati, non ebbe limite, dappoi che venne sciolta ad agire, anzi animata. La roba, la vita de' nobili non rimase più sicura; e il duca, arbitrariamente, esigeva esorbitanti sussidi dai facoltosi, usando ridire spesse fiate: essere meglio rovinare ch'essere rovinato. Così procurò egli d'impegnare in sua difesa il numero maggiore e i più determinati sudditi, come quelli che poco hanno da perdere. Se dall'una parte questa imponente e vigorosa comparsa del re in Italia cagionava molta inquietudine al partito dello Sforza, non lasciava dall'altra di valutarsi il numero e la risolutezza degli Svizzeri, pronti a discendere, e l'animo de' popolani del paese, che già s'era manifestato. Quindi in Gallarate s'erano introdotti da ambe le parti discorsi d'accomodamento (I); anzi erasi al punto di stabilire la pace, collo sborso di grosse pensioni del re di Francia agli Svizzeri; e gli articoli principali, che già sembravano accordati, erano: che il Milanese fosse del re di Francia; che gli Svizzeri e i Grigioni

(I) Prato. restituissero al ducato le valli che avevano occupate, cioè Lugano, Mendrisio, Locarno, Valtellina, ecc.; che il re assegnasse a Massimiliano Sforza il ducato di Nemours, ed un'annua pensione di dodicimila franchi: che gli concedesse una principessa del sangue reale in moglie, e gli desse la condotta di cinquanta lance al servigio della Francia (I). Ma il cardinale di Sion troncò i discorsi di accomodamento. Egli condusse in Milano, il giorno 10 di settembre del 1515, un corpo di Svizzeri numeroso. Cotesto cardinale compariva militarmente in habito de bruno seculare,come dice il Prato; e gli Svizzeri vennero eccitati a combattere colla grandiosa promessa di ottocentomila ducati d'oro, se vincevano. Della qual somma il ministro del re di Spagna, residente a Milano, ne promise dugentomila a nome del suo monarca, ed a nome del papa Leone X dugento altri mila ne furono promessi; cosicché al duca rimaneva il peso di quattrocento mila ducati. Gli Svizzeri, gloriosi per la sconfitta data, due anni prima, a Novara ai Francesi sotto il comando de la Tremouille, si consideravano il terrore de' monarchi, e tenevansi la vittoria sicura. Il re, vedendo inevitabile il tentar la fortuna delle armi, avendo consumati i viveri de' contorni di Magenta, Corbetta e Boffalora, marciò coll'armata, prima a Binasco, indi passò a Pavia; finalmente pose, in settembre, il suo campo a Marignano. Le scorrerie de' Francesi venivano sotto le mura della città, e, non solamente da quella parte che risguardava la loro armata, ma persino sulla strada di Monza, per lo che non eravi sicurezza nell'uscire da Milano. Il giorno 14 di settembre 1515 divenne famoso nella storia per la battaglia di Marignano, da alcuni anche detta di San Donato. Il Prato ci racconta, come

(I) Guicciard. Lib. XII. venuta la chiarezza del dì, cominciarono essi (Svizzeri) ad uscire per Porta Romana; et durò il loro passaggio sino alle ventidue ore, il che prova il loro numero, con animo tale, che non pareva già che a guerra, ma più presto a certi segni di vittoria andassero, et con essi era il cardinale. Il re di Francia aveva seco lui sei ambasciatori svizzeri, i quali stavano trattando della pace; per lo che l'attacco fu una vera sorpresa pei Francesi, e potrebbe chiamarsi anche un'insidia oltraggiosa al gius delle genti, se il corpo elvetico non fosse un aggregato di più distinte sovranità. I cantoni di Uri, Swit e Undervald, i quali privatamente possedevano Bellinzona e le province acquistate sul ducato di Milano, dovevano preferire il rischio della battaglia, anzi che cedere le loro conquiste: gli altri cantoni, dai quali non si cercava nella pace sagrifizio alcuno, non avendo che l'utilità delle pensioni dalla Francia promesse, dovevano preferire la pace ai pericoli di una giornata. In fatti, gli Svizzeri di Berna, Soletta e Basilea ricusarono di marciare contro de' Francesi; ma destramente ingannati coll'avviso che la vittoria era già decisa pe' loro compatriotti, essi, per non ritornare alle case loro colla vergogna di non aver partecipato alla gloria degli altri, e per non perdere la porzion loro del bottino, che già si tenevano sicuro, sull'esempio di quanto era loro toccato a Novara col la Tremouille, si unirono e marciarono a San Donato. Il progetto era di vincere con impeto la prima resistenza de' Francesi: impadronirsi, come era seguìto a Novara, dell'artiglieria, e adoperarla contro del re. Guicciardini, Gaillard, Prato vanno concordi nella descrizione di quanto v'è di essenziale in questo fatto, che decise totalmente in favore del re, e che fu una delle più ostinate e sanguinose battaglie che si sieno date. Cominciò la mischia il giorno 14 settembre, due ore prima del tramontar del sole (I). Durò ferocemente

(I) Guicciard. Lib. XII. ferocemente sino alle quattro ore della notte, non volendo né cedere i Francesi, né ritirarsi gli Svizzeri. Le tenebre si accrebbero al segno, che fu indispensabile il cessare, pioché non si distinguevano più gli amici dai nemici. Il re profittò di quell'intervallo, spedì ordine all'Alviano, comandante de' Veneti, acciocché si presentasse tra Milano e San Donato. Passò il re il rimanente della notte, animando e disponendo i suoi, e giacque in riposo sopra un cannone. Al comparire dell'aurora, più accaniti che mai, ritornarono al loro impeto gli Svizzeri, ed i Francesi con fermezza lo sostennero e rispinsero. Si sparse voce fra gli Svizzeri che l'Alviano marciava per coglierli alle spalle. Laonde, spossati dalla enorme fatica, disperando di superare i Francesi comandati dal loro re, vedendosi in pericolo di ritrovarsi fra due fuochi, piegarono alla vòlta di Milano. Affermava il consentimento comune, dice il Guicciardini (I), di tutti gli uomini, non essere stata per moltissimi anni in Italia battaglia più feroce... Il re medesimo, stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più dalla virtù propria e dal caso, che dall'aiuto de' suoi... in maniera che il Triulzio, capitano che aveva vedute tante cose, affermava questa essere stata battaglia, non di uomini, ma di giganti; e che diciotto battaglie alle quali era intervenuto, erano state, a comparazione di questa, battaglie fanciullesche. Vi si contarono morti sul campo più di quindicimila Svizzeri e seimila Francesi. Il Trivulzi vi corse pericolo: ei s'era impegnato fra le alabarde e le aste nemiche per salvare un suo alfiere, già circondato dagli Svizzeri; ebbe ferito il cavallo, il suo elmo privato de' pennacchi; era ridotto al punto di essere oppresso dal numero, se non veniva un drappello de' suoi, che lo trasse a salvamento. Il re ebbe il cavallo ferito, e nella persona ricevé molte contusioni, e vi combatté come

(I) Lib. XII. ogni altro soldato: vi si distinsero il contestabile di Bourbon, il conte di San Pol. Il conte di Guise ricevette molte ferite; rimase sul campo Francesco di Bourbon, fratello del contestabile, che aveva il titolo di duca di Castelleraud; vi rimasero morti parimenti Bertrando di Bourbon Carenci, un fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, il principe di Talmont, i conti di Sancerre, di Bussi, d'Amboise, di Roye ed altri (I). Il cavaliere Bayard, quegli che aveva e meritava il titolo di Cavaliere senza tema e senza macchia, in quella memorabile azione fece prodigi di valore, per modo che il re di Francia medesimo, Francesco I, dopo ottenuta la vittoria, volle ivi sul campo essere creato cavaliere per mano del valoroso Bayard. Gli Svizzeri mal conci sopravissuti a quella carneficina ritornarono a Milano, ed io li rappresenterò colle volgari, ma ingenue parole adoperate da un merciaio che allora aveva bottega aperta in Milano, e si chiamava Gian Marco Burigozzo: tanto che fu la rotta a questi poveri Sviceri, et se comenzorono a voltare, et vennero a Milano quelli pochi che erano avanzati, et tutti avevano bagnate le gambe, et questo era perché il signor Giovan Jacopo, come astuto capitano, venendo li Sviceri in campo su un certo prato, et lui li dette l'acqua, per modo che la fu una gran ruina a quelli poveri Sviceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati et homeni maltrattati, in modo che pareva che costoro fusseno stati in campo dieci anni, tutti polverenti dal mezzo in suxo, et dal mezzo in giuxo bagnati, tanto che li homeni de Milano, vedendo tanta desgrazia, tutti si miseno sulle porte ovver botteghe, chi con pane, et chi con vino, a letificar li cori di questi poveri homini, et questo facevano a honor di Dio, et per tutto questo dì non cesorno de venire poveri Sviceri, tutti

(I) Veggasi Gaollard Tom. I. alle pag. 270. 274. malsani, et il più sano durava fatica a star su in piedi (I). Dopo la battaglia di Marignano il duca si ricoverò nel castello di Milano con bastante presidio. Il cardinale di Sion prese seco il duca di Bari Francesco, e lo condusse alla corte imperiale, dove era stato educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che Massimiliano rimanesse in potere de' Francesi, che il cardinale odiava irreconciliabilmente. Gli avanzi di Marignano si ricoverarono nelle loro montagne svizzere, e così il Milanese rimase sgombrato ed aperto al dominio del re, tranne i castelli di Milano e di Cremona. Si vociferava non per tanto della disposizione di cinquanta altri mila Svizzeri a venire in soccorso del duca. Era recente la memoria di quanto aveva saputo fare Giulio II; e non era da fidarsi di Leone X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio. Un regolare assedio al castello di Milano, ben provveduto di viveri e di munizioni, portava molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica potevano annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti nella recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato che il re offerisse a Massimiliano Sforza i compensi che egli avesse saputo chiedere, purché cedesse il castello di Milano, rinunziasse alle pretensioni sul ducato,

Lib. I, f. 6. L'ingenuità di questa Cronaca appare dalla semplicità e barbarie medesima colla quale è scritta. L'autore era un merciaio, che, avendo bottega in Milano, si compiaceva di registrare gli avvenimenti del suo tempo. Corre manoscritta questa Cronaca di Gian Marco Burigozzo, e comprende gli avvenimenti dal 1500 al 1544. È curiosa la maniera colla quale termina: come vedrete nella Cronica de mio figliolo, imperciocché per la morte che mi è sopragiunta non posso più scrivere. Queste parole verosimilmente vennero aggiunte dal figlio, il quale o non compose poscia la continuazione della Cronaca, ovvero se la compose ella non è giunta a mia notizia; di questa Cronaca mi accadrà più volte in seguito di servirmene. ducato, e riconoscesse il re Francesco per duca di Milano. Girolamo Morone, che stavasene nel castello col duca, fu mediatore di quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunciò al re di Francia il ducato di Milano, gli consegnò il castello, passò a terminar da privato i suoi giorni nella Francia con trentaseimila scudi di pensione, che assegnogli il re, il quale oltre a ciò s'obbligò di pagargli i debiti. Al Morone il re promise di farlo senatore e regio auditore. Il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto il castello ai Francesi; e non erano ancora compiuti i due anni da che n'erano usciti. E così terminò la sovranità di Massimiliano Sforza, il quale per poco più di tre anni rappresentò la figura dell'ottavo duca di Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard nella vita di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: à juger de lui par sa conduite, il paroit que c'étoit un prince foible, fait pour être gouvernè. Ni politique, ni belliqueux, on ne l'avoit vu ni préparer sa defense par les intrigues du cabinet, ni commander ler armées qui combattoient pour lui. Il sembloit que la querelle du Milanès lui fût étrangère. Mais il eut du moins le mérite d'avoir renoncé de lui même à un rang au quel il n'étoit point propre, et de ne l'avoir jamais regretté dans la suite. Egli passò nella Francia, dove sette anni prima era morto Lodovico suo padre; vi campò quindici anni, essendo poi morto a Parigi il giorno 10 di giugno del 1530. Il re Francesco I volle mantener la promessa data per Girolamo Morone, il quale forse s'aspettava d'essere fatto senatore del senato di Milano: ma il re temeva il talento di quest'uomo, e non doveva dimenticare che Francesco Sforza era salvo: perciò lo destinò a risedere nel parlamento della provincia di Bresse, la quale forma una porzione del regno di Francia fra la Borgogna, la Franca Contea, la Savoia e il Viennese: alla quale onorevole destinazione mostrò di ubbidire il Moroni, e fingendo d'incamminarsi al nuovo suo destino, strada facendo, sviò e ricoverossi nel Modanese (I). Nel tempo stesso in cui si assicurò il re di Massimiliano Sforza, e s'impadronì delle fortezze del Milanese, mosse colla maggiore sollecitudine i suoi maneggi per concertarsi col papa Leone X, detto prima il cardinal Giovanni de' Medici, che combatté a Ravenna contro dei Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice l'assicurare alla sua casa in Firenze quella sovranità che effettivamente godeva, sebbene sotto apparenza di repubblica, e sempre per se medesima precaria. Il re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema in cui si trovava. La città di Bologna, e per la sua grandezza e per la situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai più di quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi avevano mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella città, anche cogli ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati i pontificii, i quali l'assediavano. Il re si mostrò disposto ad abbandonare i Bentivogli, e guarentire Bologna alla Santa Sede. In compenso il papa doveva riconoscere il re come sovrano del ducato di Milano, e restituirgli Parma e Piacenza, come due città dipendenti dal ducato. Così venne concertato, ed il trattato venne sottoscritto in Viterbo il giorno 13 di ottobre 1515.

(I) Hyeronimo Morono dette zanze al gallico re d'andar in la citate de Brixio senatore, secondo la mente dil re, et stato alquanti giorni in la città Mediolanense, fu significato ad esso Morono dovesse pigliar il cammino de la Gallia transalpina ed andar al suo offitio, dove esso Morono, charichato sei cariaggi de le sue tutte bone robe, pigliò il camino di lo Apenino. Gionto appresso allo Apenino pigliò il camino de le montagne de Genovese et poi di Modena, et in quella fece dimora per alquanti anni, et il gallico re fu piantato dal Morono. Cronaca di Antonio Crumello, pavese. MS. Belgioioso, fogl. 83, tergo. Quantunque i Francesi possedessero Milano sino dal giorno 17 settembre, il re, sin che non ebbe la dedizione del castello, volle risedere a Pavia, ed in Milano dimorava il contestabile di Bourbon, luogotenente e governatore a nome del re. Resosi poi padrone del castello, il re fece la sua solenne entrata in Milano il giorno 11 d'ottobre 1515. Lo corteggiavano il duca di Savoia, il duca di Lorena, il marchese di Monferrato, il marchese di Saluzzo, e varii altri signori, tutti partecipi della battaglia di San Donato. Alla porta Ticinese gli si presentarono i delegati della città, i quali gli offersero lo scettro ducale, la spada e le chiavi della città. Il re era a cavallo, vestito di ferro, con un manto di velluto celeste a gigli ricamati d'oro. Avanti se gli portava una spada sguainata; dodici gentiluomini milanesi lo fiancheggiavano. Dugento gentiluomini francesi, coperti di ferro e con ricchissimi manti, venivangli in seguito. Poi mille fantaccini tedeschi armati, condotti dai loro capitani riccamente ornati, venivangli in seguito. Chiudeva la marcia un corpo di cavalleria. Giunti alla notizia dell'imperator Massimiliano questi avvenimenti, egli spedì a Milano un suo ambasciatore al re di Francia per interpellarlo con qual titolo egli occupasse il ducato di Milano. Il re indicogli la sua spada; giacché non essendo egli discendente dell'ultimo investito, cioè Lodovico XII, non aveva alcun altro titolo da addurre fuori che l'essere discendente ei pure dalla Valentina, madre del di lui avo Giovanni conte d'Angoulême; il quale titolo non era adattato ai principii dell'Impero, né alle leggi del feudo instituito da Venceslao, siccome transitorio ne' soli discendenti maschi. Se l'interpellazione fatta da Cesare aveva l'apparenza di un feciale spedito a intimare la guerra, la risposta del re aveva il significato della disposizione sua per difendersi. Il re, per rassodare sempre più la buona corrispondenza col pontefice, concertò d'abboccarsi con esso a Bologna; partì da Milano, dopo di esservi dimorato cinquantatre giorni, il 3 del mese di dicembre, e il giorno 14 dello stesso mese e dello stesso anno 1515, in Bologna, col papa Leone X si stabilì il concordato famoso, per cui, abolita nella Francia la prammatica sanzione, venne spogliato il corpo della chiesa Gallicana de' suoi immemorabili possessi, e si regalarono il re e il papa vicendevolmente la roba altrui. Non mai per addietro gli ecclesiastici francesi avevano pagate a Roma le annate, ed il re donò al papa il dritto di farsele pagare. Le nomine ed elezioni de' vescovadi erano di competenza dei rispettivi capitoli delle cattedrali per diritto stabilito dai canoni conciliari; ed il papa invece donò al re di Francia queste nomine. Inutilmente i parlamentari del regno fecero le loro rimostranze; inutilmente le fece il clero gallicano in corpo: poiché si volle ad ogni modo che il concordato fosse posto in esecuzione. (1516) Dopo ciò, ne' primi giorni di gennaio il re partì dall'Italia, ove lasciava per la forza delle sue armi, per la fama della sua vittoria, e per i negoziati col papa e co' Veneziani una dominazione apparentemente sicura e tranquilla. Lasciò il duca di Bourbon suo governatore e luogotenente in Milano. Frattanto però l'ostinatissimo cardinal di Sion moveva ogni mezzo alla corte imperiale per determinare Cesare a scendere nell'Italia. Varii Milanesi, avversi alla dominazione francese, dimoravano negli Svizzeri, e procuravano di promovere gl'interessi della casa Sforza, tuttora intatti nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non aveva abdicata, come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione sua alla successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal re alla intimazione imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto a prendere il partito suggerito dal cardinale. Così appunto seguì, e nel 1516 l'imperatore Massimiliano scese in persona dal Trentino alla testa di sedicimila Lanschinetti, quattordicimila Svizzeri, e un nerbo poderoso di cavalleria. Il maresciallo di Lautrec abbandonò Brescia, ch'ei teneva bloccata. I Francesi, vedendo l'imperatore che si accostava per impadronirsi di Milano, né potendo difendere i borghi, presero il partito terribile di porvi il fuoco. Furono inceneriti i sobborghi di Porta Romana, Porta Tosa e Porta Orientale. L'imperatore, il giorno 3 di aprile 1516, minacciò un assalto a Milano, ne intimò la resa, vantossi di voler rinnovare la memoria di Federico Barbarossa; ma il contestabile di Bourbon prese sì bene le sue misure temporeggiando, che l'imperatore, mancando di denaro, gli Svizzeri minacciarono di abbandonarlo. Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, informato di ciò e della inquietudine che ne provava l'imperatore, scrisse al colonnello Staffer, comandante degli Svizzeri imperiali, una lettera da cui risultava un concerto di tradire Massimiliano Cesare, e consegnarlo al contestabile; e questa carta venne confidata ad uno il quale appostamente si lasciò prendere. Poiché ebbe letto un tal foglio, l'imperatore talmente gli prestò fede, che, sotto apparenza di andare a prender denaro a Trento, se ne partì; e la sua armata, mancando di comandante, e, ciò che per essa era ancora peggio, di danaro, si sbandò a saccheggiare Lodi e Sant'Angelo, e da' Francesi venne poi discacciata. Così terminò con poca gloria una impresa incominciata in guisa di doversene aspettare tutt'altro fine. Brescia fu da' Francesi tolta agl'Imperiali. I Francesi operavano come ausiliari de' Veneziani; ma non ci fu modo di prendere Verona, difesa valorosamente da Marc'Antonio Colonna, degno nipote di Prospero. Lautrec la assediava. I Veneziani, collo sborso di centomila scudi, ottennero dall'imperatore, che abbandonasse Verona; e fra l'imperatore, i Veneziani e i Francesi venne segnata la pace. Così i Veneziani riacquistarono la terra-ferma (I). Si fece la pace fra il re e gli Svizzeri. Si accordò un perdono

(I) Giovio, lib. VI, Storia. - Gaillard, Storia di Francesco I re di Francia, tom. I, cap. III. - Prato. perdono generale, acciocché tutt'i Milanesi che avevano preso partito contro della Francia, ed erano esuli e confiscati, ritornassero pacificamente ne' loro diritti nella patria. Si impose una tassa straordinaria per pagare le somme promesse agli Svizzeri; ed il maresciallo Trivulzio obbligava i cittadini ricchi ad imprestar denaro al regio erario, carcerandoli se ricusavano. Tali conseguenze portava la mancanza di un catastro, sul quale ripartire i carichi delle terre. I nostri vecchi credevano che quella oscurità fosse un bene; quasi che meglio fosse un tributo arbitrariamente estorto colla forza militare, esercitata odiosamente sopra alcuni cittadini più accreditati, anzi che un proporzionato riparto sulle facoltà di ciascuno; e, quasi che la influenza che la difficoltà di riscuoterlo può avere onde evitarlo, sia paragonabile col disordine di tal forma di riscossione, inevitabile quando le urgenze pubbliche lo esigono. Il principio del regno di Francesco I, poi che fu in pace, promise un ridente avvenire ai Milanesi; e il duca di Bourbon, generoso e magnanimo principe, governatore e luogotenente del re, procurò di rendersi affezionati gli animi di questi nuovi sudditi, e far loro dimenticare con un felice governo e i suoi naturali principi, e i mali sofferti. Il senato di Milano, che tanto a dire quanto esso re (dice il Prato), ordinò che venissero stimati i danni sofferti da' cittadini per le case incenerite ne' borghi, e sulla relazione degl'ingegneri commise ai tesorieri del re di risarcirli. Ma le angustie dell'erario non permisero che interamente fossero indennizzati. In oltre il contestabile di Bourbon donò alla città il dazio della macina, che si valutava allora diecinovemila ducati di annua entrata; e donò pure il dazio del vino minuto, d'annua rendita di settemila ducati. Nacque disparere fra i ventiquattro rettori della città. Alcuni proposero di abolire questi due aggravii, perché venisse sollevato il popolo, e non si accumulasse denaro nella cassa pubblica, pubblica, d'onde sovente, col titolo di prestito, i rettori medesimi lo sviavano per non più restituirlo, abolendo così il nome di un molesto aggravio. Tal proposizione era di pochi; i più si opponevano; la disputa era impegnata, ostentando l'uno e l'altro partito il nome di patria e di pubblico bene, siccome è l'uso. Né accadde allora ciò che pure succede, cioè che, mentre due partiti cozzano e guerreggiano, entri una più scaltra, o più potente persona di mezzo ad usurparsi la cosa disputata. Venne ordine in nome del re alla città di non disporre di tai regalie, intendendo il sovrano di conservare intiera la corona ducale. In vece però di que' due tributi il re assegnò diecimila ducati annui alla città, da convertirsi in opere di pubblico beneficio. L'ordine del re è in data del 7 luglio 1516, e contiene: Christianissimus rex, animo revolvens fidelitatem et integritatem quam cives Mediolanenses erga Suam Majestatem habuerunt, et damna intolerabilia, quae passi fuerent, libere praedictae civitati donat atque concedit summam ducatorum decem milium annui et perpetui redditus, per manus receptoris civium recipiendos a mercaturae datiariis, quae quidem summa in commodum et utilitatem praedictae civitatis tantummodo et non aliter convertatur . Poi passa a stabilire che la metà di questa somma s'impieghi ogni anno per formare un canale sotto la direzione del vicario e dei Dodici di Provvisione; ducento annui ducati si lasciano da distribuire all'arbitrio del vicario e Dodici suddetti; e quattromila e ottocento si distribuiranno chiamando col vicario e Dodici anche quattro dottori di collegio de' fisici, quattro negozianti e quattro nobili deputati dello spedale. Ogni anno il ricettore renderà i suoi conti al magistrato camerale, chiamandovi il vicario e i fiscali (I). Era vicario di provvisione Bernardo Crivelli (2). Gli architetti idraulici che

(I) Così nel libro di Carlo Pagano, stampato in Milano da Agostino Vimercato l'anno 1520, p. 6. (2) Pagano, suddetto. s'impiegarono, furono Bartolomeo della Valle e Benedetto Missaglia. Si cercò di fare un canale che ci rendesse comoda la navigazione col lago di Como. Primieramente si esaminò la valle di Malgrate, e risultò impossibile, perché conveniva scavare un canale profondo trenta braccia per più d'un miglio, e ciò sotto il fondo del lago di Civate; e protraendo il canale sino al lago di Pusiano per imboccare il Lambro, che ne esce, conveniva sprofondare il Lambro cento braccia e dieci once. Perciò abbandonarono quella idea, e si rivolsero ad esaminare se meglio convenisse cominciare il canale sotto Airuno, e trovando che ivi dovevasi sprofondare centosessantadue braccia per attraversare quella costa, ne lasciarono pure anche tale idea. (1517) Poi, l'anno seguente, esso Missaglia con altri ingegneri, Giovanni Simone della Porta e Giovanni Balestrieri si posero ad osservare la Valle del Seveso, che comincia a Cavallasca, e passa per Lentate, e viene a Milano. Trovarono che per essa non era sperabile di condurre un canale per l'angustia e le alte rive che in più luoghi s'incontrano; e ciò quando anche vi fosse stato modo d'introdurvi le acque del lago di Como, cosa assai difficile e pel livello, e per le montagne frapposte; ed anche questo pensiero per tai motivi fu giudicato inutile. Visitarono una valle presso Chiasso, e non trovarono modo di aprirvi un emissario che ricevesse le acque del lago di Como. A Como presso a Sant'Agostino si argomentarono di potervi aprire un emissario, imboccando la valle del Fiume Aperto e dell'Acqua Negra, ma calcolate le molte emergenti difficoltà, senza fare alcuna livellazione, riconobbero ineseguibile anche questo progetto. Tentarono poscia se da Porlezza a Menaggio si potessero unire i laghi di Lugano e di Como; la distanza è di sei miglia, ma conveniva discendere dal primo cento braccia per entrare nel lago di Como, e lo trovarono impossibile. La Tresa, emissario del lago di Lugano, che sfogasi nel lago Maggiore, fu trovata povera di acque e di caduta impetuosa, e giudicata perciò indomabile. Esaminarono a Porto ed a Cò di Lago se potessero estraersi le acque ed incanalarle per la Lura verso Seregno, d'indi poi a Milano; e ciò pure non trovarono espediente. Ritornarono a tentare di fare un emissario nell'Adda, visitarono se mai per Oggionno e Valmadrera si potesse incanalare l'acqua verso Rovagnate, ovvero nel Lambro; ma senza profitto, né speranza, rinunciarono a quel partito. Ripigliarono l'esame sotto Airuno, e passata la costa, alta, come dissi, braccia centosessantadue, videro che si sarebbe potuto condurre un canale per Cernusco Lombardone, indi Usmate, poi ad Arcore: ma tutto con sommo dispendio. Questo fu il progresso per cui si determinarono il Missaglia e il della Valle a progettare per rendere navigabile l'Adda da Brivio a Trezzo. La città supplicò, perché s'impiegassero i cinquemila zecchini nel rendere navigabile l'Adda, invece di scavare di nuovo un emissario, e da ciò si prometteva abbondanza di calce, legna e carbone. Era riserbata quest'opera ai nostri giorni, mercé la protezione ed attività del passato governo. Queste beneficenze del re animarono la città di Milano a spedire a Parigi alcuni deputati con una supplica al re in cui proposero alcuni stabilimenti. Essa distesamente vien riferita nel manoscritto del Prato. Io ne esporrò quanto vi è di più importante. Si chiedeva dalla città di Milano che il governatore e luogotenente non avesse né direttamente né indirettamente ingerenza alcuna nelle cose di giustizia tanto civile quanto criminale; che nessuna autorità egli avesse negli affari delle regalie, e nemmeno facoltà di proclamare editti; ciò che il re non volle accordare. Accordò egli bensì che nessun comandante militare potesse nelle città di presidio o nei castelli esercitare giurisdizione sopra i cittadini. Si conosce da quanto trovasi in quella supplica, che di que' giorni i questori, i quali dovevano giudicare delle questioni fra gl'impresari e il popolo, non erano di rado soci secreti degl'impresari medesimi; onde essendo costoro ad un tempo giudici e parte, non vi era più modo agli oppressi di trovare giustizia; su di che la città implorò la sovrana provvidenza. Essi poi, come ministri camerali, all'occasione di confische (le quali in quella età di frequente cambiamento di dominazione, col pretesto di fellonia non erano rare) occupavano indistintamente tutto il patrimonio e del reo e de' consanguinei che vivessero indivisi con lui, e quindi gl'innocenti si trovavano costretti a dispendiosissime liti, dalle quali erano prima rovinati che ottenessero la loro porzione devastata. Fa poi ribrezzo maggiore il conoscere da quella supplica quanto ingiusta e crudele fosse la procedura criminale esercitata in quell'epoca da coloro che avevano una carica di capitano di giustizia. Questo supremo giudice, assistito dal suo vicario e da quattro fiscali, procedeva servato et non servato jure comuni . Vi fosse o non vi fosse il corpo del delitto, questo non arrestava la procedura. Il primo atto del processo era citare formalmente il tal cittadino, acciocché si presentasse all'esame. In questo esame non di rado veniva il cittadino posto ai tormenti, e quindi cum terrori sit omnibus officium illud (dice il Prato), molti chiamati all'esame, per sottrarsi fuggivano, e poi si condannavano come contumaci anche gl'innocenti. Da questi aggravi chiesero i deputati che venisse liberata in avvenire la città; ed il re comandò al senato di proporre i rimedii. Se colle livellazioni fatte sulla pianura del ducato, alcuni uomini di quel secolo acquistarono diritto alla stima e riconoscenza de' loro nipoti e successori, i togati di quei tempi cominciarono a farci conoscere che quella loro arte cui definiscono: ars boni et aequi, justi atque injusti scientia , è un'arte affatto staccata dal senso morale. Da quella carta istessa impariamo che allora più non si univa il consiglio dei novecento, ma era di centocinquanta il consiglio generale della città di Milano; e que' centocinquanta nobili rappresentavano veramente la loro patria, poiché da quella erano eletti a parlare e ad agire per essa. Il metodo della elezione era questo. Ogni parrocchia si radunava e nominava due sindaci. Tutti i sindaci poi di ogni porta si radunavano ed eleggevano quattro. Questi quattro eletti da ciascuna delle sei porte, ossia de' sei rioni o quartieri della città, si univano e formavano i ventiquattro elettori. Da questi poi nominavansi venticinque nobili per ciascuna porta, i quali formavano il consiglio della città, a cui era concessa la nomina del vicario di provvisione, scelto dal collegio de' giureconsulti, la nomina de' due assessori, scelti pure dal collegio medesimo, e quella degli altri nobili per le giudicature della città e pel tribunale di provvisione. Essi tuttavia formavano la terna, e la scelta facevasi dal luogotenente e governatore dello Stato. Ma quella forma di elezione terminò due anni dopo; e per un fatto dispotico del governatore Lautrec, vennero da esso lui nominati sessanta nobili, ai quali commise di rappresentare il consiglio generale della città (I); e così continuarono dappoi i successori nel governo a nominare, senza opera della città, a misura che vacavano; ed il ceto dei sessanta decurioni (l'adunanza de' quali dicevasi la Cameretta), durò fino all'epoca della repubblica Cisalpina. La plebe era superstiziosa e violenta oltre modo; e ne fecero la prova i monaci di San Simpliciano, i quali nell'anno 1517, avendo scoperte alcune urne, ed esposti i corpi creduti di San Simpliciano, di San Martino, di San Siro ed altri santi; ed essendo per disgrazia caduta in que' dì una grandine dalla quale vennero flagellate e devastate le nostre campagne; col modo di ragionar volgare attribuendosi il fenomeno fisico allo sdegno dei

(I) Questo accadde per disposizione data il giorno primo di luglio del 1518, come scorgesi alla p. 30 della relazione MS. che l'erudito ed esatto abate Lualdi, prefetto dell'Archivio della città, ha presentata l'anno 1784 al Consiglio Generale. santi, i quali bramassero riposo ed oscurità, anzi che luce e movimento; e traducendosi i Benedettini siccome rei di sacrilegio e di pubblica sciagura; non furono essi più sicuri non solamente nelle piazze e per le vie della città, ma nemmeno nel loro monastero; e dice il Prato ch'essi furono sì sconciamente battuti, che tal fu di loro, che vi lasciò non solamente la cappa, ma et la forma di quella. Né la supposta empietà di cavare dalla tomba i santi bastava a spiegare allora cagion della grandine. La inquisizione non volle starsene oziosa; volle trovar delle streghe colpevoli di quel turbine, e volendolo efficacemente, se ne trovano sempre. Alcune infelici donnicciuole avevano dei segni, quai fossero non lo sappiamo; bastarono però a farle splendidamente gettar nel fuoco. Si ascolti il Prato: anche da li segni le quali, judicate dalla inquisizione per strie, furono in quelli medesimi dì a Ornago et a Lampugnano sul monte di Brianza a gran splendore arse. Convien dire che anche nel ceto ecclesiastico allora l'ignoranza fosse grande; e merita d'essere riferito a tal proposito un fatto singolare che ci vien raccontato e dal Prato e dal Burigozzo. Un uomo sen venne a Milano grande, sottilissimo per l'estrema magrezza, che, andando scalzo, vestito di rozzo panno, a capo scoperto, non portando camicia, vivea con pane di miglio, erbaggi ed acqua, e dormiva sulla nuda terra. Costui, presentatosi alla curia arcivescovile, chiese il permesso di predicare; ma siccome egli era laico e non fregiato di alcun ordine ecclesiastico, gli venne ciò negato. Malgrado ciò egli cominciò nel Duomo a parlare al popolo, e continuò per un mese a farlo ogni giorno con tanta grazia di lingua, che tutto Milano vi concorreva (I). Egli prese un tal ascendente col favor del popolo, che nessuno poteva fargli contrasto; e nella chiesa del Duomo disponeva come se

(I) Prato. - Burigozzo, lib. I, fogl. 9 e 10. ne avesse titolo. Le costui prediche versavano singolarmente nel rimproverare la corruttela degli ecclesiastici; i quali, indifferenti per la religione, col di lei manto altro non bramavano se non ricchezza, autorità e comodi; non mai sazi di onori, di latifondi, di voluttà, nimici delle sante regole de' loro istitutori, alieni dalla carità, dallo studio de' libri sacri, dalla cura del bene altrui, dalla pazienza, dalla umiltà, dai travagli; cose tutte che pure sono di obbligo dello stato a cui sono sublimati; e quindi in vece di animare i laici alla virtù col loro esempio, sono la cagione della corruttela universale de' costumi. Così con veemente eloquenza questo uomo laico cercava di scuotere gli ecclesiastici. I preti non si mossero; ma i frati non furono tanto pazienti; e que' di Sant'Angelo l'accusarono come sedizioso, fautore segreto de' nimici del re. Egli, interrogato dal maresciallo Trivulzi e dal presidente del senato, fu trovato un uomo semplice, pio, ed affatto diverso da quello che era stato rappresentato. Insensibilmente poi questo amor popolare, prodotto dalla eloquenza e dalla austerità, sempre imponente, della vita, svanì; ed il romito dopo sei mesi, senza alcun romore, se ne partì. Era costui dell'età di trent'anni, Toscano; aveva nome Girolamo; dotto assai nelle sacre pagine. Tutto ciò il Prato. Di costui il Burigozzo dice che era di Siena, di bella persona, e nobile: era vestito de panno tanè, haveva le brazza discoperte et le gambe nude senza niente in testa, con la barba lunga, ed haveva dissopra un certo mantelletto a modo de sancto Giovanni Battista. Se mi si permette una conghiettura, parmi che questa straordinaria missione fosse un avviso salutare degl'imminenti torbidi luttuosi che nacquero pochi mesi dopo nella Germania contro degli ecclesiastici; e che riuscirono, come ognun sa, all'infausto dissidio dei protestanti e dei pretesi riformati. Il contestabile duca di Bourbon, governatore e luogotenente del re, venne richiamato per uno di quegl'intrighi, i quali non son rari nelle corti, quando il monarca monarca non giudichi co' suoi principii, ma si lasci indurre ad abbracciare i partiti che destramente gl'insinuano le persone che se gli accostano più da vicino. La duchessa di Angoulême aveva molto ascendente sull'animo del re suo figlio. Non minor potere aveva nel cuore di quel giovine e vivace sovrano la contessa di Chateau-Briant, che era nel fiore dell'età, il fiore della bellezza e della grazia; ed era amata dal re (I). La duchessa favoriva il duca di Bourbon, senza ch'egli se ne avvedesse, per inclinazione naturale; la contessa bramava che si desse a Lautrec, di lei fratello germano, il comando nell'Italia delle armi francesi. Perciò nel 1517 egli venne a Milano governatore, e fu il settimo. Odetto di Foix, signore di Lautrec, maresciallo di Francia, era cugino e compagno d'armi del celebre Gastone di Foix. Alla battaglia di Ravenna egli fu de' pochi che non l'abbandonò, quando, per uno sconsigliato ardimento, si scagliò incontro alla sua morte. Si batté, lo difese quanto un uomo solo lo poteva contro di una folla di armati. Lautrec gridava agli Spagnuoli, mentre combatteva, avvisandoli che Gastone era il fratello della regina loro. Ferito egli pure in più guise, giacque creduto morto a canto a Gastone. Riconosciuto poi, ed assistito, ripigliò Lautrec il suo vigore, e sotto del contestabile continuò a dar saggi del suo valor militare. Le ferite che Lautrec aveva ricevute sul viso nella battaglia di Ravenna, l'avevano reso di aspetto truce e deforme; né il di lui carattere contrastava colla fisionomia (2). (1518) Lautrec, governatore di Milano, mal sofferiva il maresciallo Trivulzio, il quale viveva con una magnificenza reale, ed era più considerato nella città, che non lo fosse Lautrec. Trivulzio era maresciallo, era stato governatore, aveva

(I) Une très-belle et honeste dame que le roy aimoit, et faisoit son mary cocu, di lei dice Brantome nel discorso sopra il maresciallo di Lautrec. (2) Gaillard, tom. I, p. 352. acquistato alla Francia il Milanese, viveva indipendente. Il perché venne accusato e indicato per sospetto, per essere egli il capo della potente fazione de' Guelfi, e per essersi fatto ascrivere alla naturalizzazione elvetica, e perché il di lui nipote serviva i Veneti. Queste accuse del Lautrec vennero nell'animo del re malignamente rinforzate dalla contessa di Chateau-Briant, la favorita di quel monarca. Trivulzio, franco e sensibile, informato dell'attentato, al momento partì; e quantunque avesse ottant'anni, nel cuore dell'inverno, superate le Alpi, si presentò alla corte di Francia, dove però non poté avere udienza dal re. Questo rispettabile vecchio si fe' condurre in luogo per cui doveva passare il monarca; e poiché fu alla distanza di essere ascoltato, disse: Sire, degnatevi di accordare un momento d'udienza ad un uomo che s'è trovato in diciotto battaglie al servigio vostro e dei vostri antenati. Il re, sorpreso, lo guarda, lo ravvisa, e passa oltre senza far motto. Tale fu la mercede di quarant'anni di servigi resi alla Francia. Trivulzio si ammalò gravemente. Il re gli fece fare delle scuse; ed il Trivulzio gli rispose che era sensibile alla bontà del re, ma che lo era stato pure ai rigori, ed il rimedio era tardo (I). Frattanto il Lautrec profittò dell'assenza del Trivulzio per arrestare a Vigevano la vedova ed i figli del conte di Musocco, nuora e nipoti del Trivulzio. Il maresciallo fu sepolto a Bourg de Chartres, sotto Montlehery, dove aveva trovata la corte, e dove morì (2). Burigozzo dice ch'ei morì il giorno 4 di dicembre del 1518. Nel vestibolo di San Nazaro Maggiore della nostra città avvi un tempio di assai grandiosa e nobile architettura, intorno al cui architrave veggonsi collocate in alto le tombe della famiglia Trivulzio; il qual edifizio credesi fatto fabbricare dal maresciallo, la tomba del quale sta nel mezzo, colle due sue mogli

(I) Gaillard, tom. I, p. 360. (2) Gaillard, tom. I, p. 361. poste ai lati; e sta scolpito: QUI NVNQVAM QVIEVIT HIC QVIESCIT. TACE . Della sconoscenza ed ingratitudine del re Francesco I ne scrive anche il Prato; havendo non una, ma due et tre volte, dic'egli, con tanta fatica et arte in bona parte dato il stato di Milano a Francesi, ed hora ne ha pagato di sì meritevole guiderdone. Il Trivulzio fu un gran soldato, un signore magnifico, e d'animo reale. L'ambizione sua però fu rivolta più a soggiogare i nemici viventi, ed a vendicarsene, che a procacciarsi una fama generosa presso la posterità. Ei non temette la voce imparziale della storia. È tristo quel popolo che è dominato da un ambizioso che non la teme! Trivulzio, con la sua ambizione, rovinò la patria, scaccionne i naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie che l'afflissero per più di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla nostra riconoscenza. Dell'atrocità di que' tempi, e degli effetti dell'ignoranza e delle torture può esserne pure chiara testimonianza il fatto orribile di Isabella da Lampugnano, la quale, il giorno 22 di luglio del 1519, sulla piazza del castello, fu arruotata viva ed abbruciata. Si credette che per sola crudeltà ella colle lusinghe si facesse venir in sua casa i bambini, e loro togliendo il sangue, gli salasse e divorasse. Si asserì che la cosa venisse a sapersi, perché una gatta di lei fu osservata avere in bocca la mano d'un bambino: Fu subito detenuta, dice il Prato, et stata per alcun tempo perseverante ne' tormenti horribili, negando sempre il vero, finalmente confessò il tutto. La logica non permette di credere che si commettano siffatti orrori per sola crudeltà e senza un fine. La cognizione del cuore umano nemmeno consente di crederne preferibilmente capace una donna, più sensibile alla compassione che non è l'uomo. La ragione e la sperienza ci dimostrano che questa è una prova di più, che coll'uso dei tormenti horribili finalmente si costringe un innocente ad accusarsi di qualunque più chimerico delitto. Ci accaderà di trattarne più diffusamente, mi lusingo, in avanti, proseguendo la storia. La condizione de' Milanesi era assai infelice sotto il duro e dispotico governo del maresciallo Lautrec: aggravii indiscreti, indiscretamente percepiti: patiboli, confische, proscrizioni; quest'era l'arte colla quale colui governava. Io non riferirò quanto ne scrivevano gl'Italiani di quel tempo, che potrebbe forse anco credersi dettato dallo spirito di partito nazionale. Brantome così parla nella vita di Lautrec. On dit qu'avant qu'il fust chassé de Milan, venoient au roy plusieurs nouvelles et plaintes de luy, et qu'il estoit trop sévère et mal propre pour un tel gouvernement.... mais pour gouverner un état il n'y estoit bon. Madame de Chasteaubriant, soeur de mons. de Lautrec... en rebatit tous les coups, et le remettoit tousjours en grace. E lo storico Gaillard, nella vita di Francesco I re di Francia, dice: le maréchal de Lautrec gouvernoit depuis long temps le Milanés avec une rigueur bien contraire à la clemence de son maître. Les proscriptions avoient depeuplé Milan. Les bannis étoient en si grand nombre qu'on les voit jouer un rôle dans l'histoire, se rassembler, former des entreprises, et susciter beaucoup d'affaires aux François. On remarqua que la plus part de ces bannis étoient les plus riches citoyens du Milanés (I). Fu ben diverso il regno di Lodovico XII da quello di Francesco I, non già per cattiva indole di quest'ultimo, ma perché, sotto il nome suo spensieratamente lasciava in balìa d'un favorito il destino de' sudditi. In quel torno morì il nostro celebre Bernardino Corio (2), d'anni sessanta, e fu l'anno 1519. Quattro anni prima lo storico Tristano Calco lo avea preceduto.

(I).Tom. II, p. 202. (2) È da vedersi Apostolo Zeno nelle sue Dissertazioni Vossiane, tomo II, sul merito della storia del Corio da molti a torto disprezzata. Così pure Justi Vicecomitis pro Bernardino Corio Dissertatio. Giusto Visconte è il finto nome del P. Mazzucchelli C. R. Somasco, il cui elogio trovasi nel Giornale de' Letterati d'Italia. CAPO VIGESIMOTERZO.

Vicende infelici de' Francesi. Francesco Secondo Sforza riconosciuto Duca di Milano. Venuta in Italia di Francesco Primo Re di Francia, ed assedio di Pavia.


(1519) L'odioso governo che il Lautrec faceva dello stato di Milano aveva fatto emigrare un buon numero di cittadini, o per sottrarsi alla violenza o per aspettare un miglior tempo, sotto un meno arbitrario governo. Girolamo Morone, il quale era l'âme de toutes les intrigues, et le véritable chef des mécontens (I), dispose che questi esuli malcontenti si radunassero in Reggio di Lombardia, città che allora era posseduta dal papa, e quest'adunanza avea per oggetto l'espulsione de' Francesi dall'Italia, e lo stabilimento della casa sforzesca sul trono di Milano, col riconoscere per duca Francesco, duca di Bari, fratello del duca Massimiliano, e figlio del duca Lodovico Maria. Per comprendere quali apparenze vi fossero da concepire quest'idea, conviene dare un'occhiata alle combinazioni

(I) Gaill., tom. II, p. 217. politiche generali di que' tempi. L'imperator Massimiliano avea terminata la sua vita il giorno 12 di gennaio 1519, e, malgrado gli uffici della Francia, era stato eletto imperatore il re di Spagna Carlo, il quale rese poi nelle serie de' cesari famoso il suo nome di Carlo V. Questo monarca, nel vigore del ventesimo anno dell'età sua, favorito dalla natura d'un animo attivo, elevato, passionato per farsi un nome, favorito dalla fortuna, che gli avea dati i regni delle Spagne, quei delle due Sicilie, la Fiandra, l'Olanda e gli stati della Germania; questo imperatore potente, appena innalzato al trono cesareo, rivolse lo sguardo all'usurpato dominio di Francesco I nel Milanese, feudo imperiale dominato dal re senza investitura o dipendenza dall'Impero. Nella Germania le nuove dottrine di Lutero s'andavano spargendo; già varii sovrani le proteggevano; e correva rischio il papa di perdere del tutto la Germania, se Carlo V, vigorosamente opponendosi, non avesse posto al bando dell'Impero il promotore de' nuovi dommi, il quale sarebbe stato facile, dandogli qualche dignità o qualche modo onesto di vivere, di farlo pentire degli errori suoi, dice il Guicciardini (I), se il cardinal Gaetano, legato apostolico, colle ingiurie e colle minacce non l'avesse spinto al disperato partito che prese dappoi. Il papa per questo gravissimo oggetto della Germania avea bisogno di tenersi amico l'imperatore. Il papa non perdeva di vista Ferrara, Parma e Piacenza, e, collegandosi con Carlo V per discacciare i Francesi da Milano, otteneva di staccare nuovamente dal ducato di Milano queste due città, già usurpate da Giulio II, e di consegnare il rimanente del ducato a Francesco Sforza. Segretamente si andava concertando la lega fra Carlo V e Leone X. Francesco Sforza stavasene a Trento. L'imperatore gli assegnò centomila scudi, ed ottantamila gliene assegnò

(I) Lib. XIV. il papa, colle quali somme poté assoldare degli Svizzeri, a ciò aiutato dal cardinal di Sion (I). I Fiorentini, il marchese di Mantova entravano nella lega contro dei Francesi. Motto confidavano e Cesare e il papa sulla buona volontà de' Milanesi, l'affetto dei quali molto doveva contribuire all'esito della guerra. E questo motivo fu quello per cui dal Morone vennero essi chiamati a Reggio, di che veggasi l'opera, poco sinora conosciuta, ma che merita di esserlo, del Sepulveda: de Rebus gestis Caroli V imp. et regis Hisp., autore contemporaneo, che scriveva i fasti del monarca al quale serviva, e dal quale anche a voce poteva chiedere istruzione de' fatti che esponeva in buon latino nel di lui regno. Della qual opera v'era bensì la tradizione nella Spagna, ma a caso venne a trovarsi manoscritta soltanto l'anno 1775, e si publicò dalla regia stamperia di Madrid nel 1780, sotto la direzione della reale accademia di storia (2). (1520) Il maresciallo di Foix, ossia Lautrec, informato di questa unione che si andava facendo in Reggio, quantunque le intelligenze fra il papa e l'imperatore fossero segrete, senza rispetto alla pace vigente, invase a mano

(I) Cronaca di Antonio Grumello, cittadino pavese. MS. Belgioioso. (2) Nec parvi momenti apud Leonem Carolumque ea ratio fuit, quod Sfortiarum nomen in magna gratia esse apud omnes fere populares Mediolanensis ditionis constabat, quorum studium ad bellum conficiendum magno usui fore non dubitabatur. Quibus rebus proponendis et commemorandis Hieronymus Moronus civis Mediolanensis, vir magni consilii et auctoritatis, per litteras et nuncios principes italicos ad bellum pro Francisco Sfortia, cujus erat valde studiosus, suscipiendum e Tridento cohortabatur: Mediolanenses vero ut a rege Gallorum, cui Moronus erat infensus, deficerent, cunctis rationibus sollicitabat. - Johannis Genesii Sepulvedae Cordubensis Opera cum edita tum inedita, accurante Regia Historiae Academia - Matriti, ex Typographia Regia, anno 1780. - Vol. I, pp. 124 et 125. armata il Reggiano, e si accostò alla città con animo di sorprendere i Milanesi forusciti. Il Guicciardini storico era allora comandante di Reggio, e seppe rendere vano il progetto de' Francesi, le violenze de' quali, commesse in quella infruttuosa spedizione, sono da lui medesimo descritte. Un tal fato, seguìto nel seno apparente della pace e ad insulto delle terre del papa, cagionò negli animi sempre maggiore il ribrezzo verso della dominazione francese, che sconsigliatamente il Lautrec aveva reso disgustosissima ai popoli. (1521) Questa incauta scorreria sul reggiano seguì nel 1521, ed un fenomeno fisico, accaduto poco dopo in Milano, si combinò sgraziatamente pei Francesi onde alienarne sempre più gli animi degl'Italiani, colla persuasione di essere la stessa divinità manifestamente nimica della dominazione francese. Erano stati poco prima scomunicati dal papa Leone X gl'invasori del Reggiano (I). La vigilia appunto di San Pietro, cioè il giorno 28 di giugno del 1521, due ore prima che tramontasse il sole, essendo il cielo quasi sgombro, da una nuvola si scagliò un fulmine sulla massiccia torre di marmo che stava sulla porta del castello di Milano. Quivi era a caso collocata una porzione di polvere, destinata a spedirsi alle altre fortezze dello Stato, che dal Gaillard si fa ascendere a dugentocinquantamila libbre. Prese fuoco, e la esplosione fu orrenda. Il comandante del castello, signor di Richebourg, e trecento soldati francesi acquartierati vi rimasero sepolti (2). La torre era, come attesta il Guicciardini (3), di marmo, bellissima, fabbricata sopra la porta, nella sommità della quale stava l'orologio, il che produsse la rovina quasi totale del castello;

(I) Gaillard, tomo II, p. 209. (2) Così dice il Gaillard, tomo II, p. 209. Il Guicciardini dice più di centocinquanta fanti, lib. XIV. Mi attengo al Francese, perché l'esatta relazione sarà stata data anzi al re, che al governatore di Reggio. (3) Lib. XIV. e la piazza del castello, sulla quale in quel punto trovavansi molti al passeggio, rimase coperta di cadaveri e di tanti sassi, che pareva cosa stupendissima (I); alcuni sassi di smisurata grandezza volarono lontani più di cinquecento passi. Il Burigozzo così descrive il fatto: ma a dì 28 zugno 1521, che fu la vigilia de Santo Pietro, a due ore prima di notte, venne uno horribile tempo da sorte che la sajetta dêtte in el torrazzo in mezzo alla fazada del castello, dove gli era gran quantità de polvere da bombarda, talmente che quella torre sino al fondamento fu fracassata, et portò prede grandissime sino al mezzo della piazza, e tutto el castello se squassò, adeo che per la ruina grande che fu, moritte el capitaneo et da rôcca et da castello, sotto le prede qual ruinorno, et moritte innumerabile altra gente, d'onde questo fu una gran cosa. E il Grumello riferisce il fatto nel modo seguente: A dì 28 junio 1521 da hore 23 dêtte la saietta in la torre de le hore del castello di Porta Giobia de Milano, cossa stupendissima et da non credere chi non la vide, et io la vidi con gli occhii levar la media parte de dicta torre et li fondamenti insiema et portarla oltra il revellino et la fossa, et gittarla in su la piazza de dicto castello, et hebe occixo li doi castellani et il cavalero Vistarino, quale hera ditenuto in prigione in epso castello, et foreno occixi la più parte de le gente herano habitante in detto castello. Le ruine de le stancie et tecti et muraglie non ne dicho niente. Più ruina fece Iddio in un momento in epso castello, che non haveria facto l'artellaria dil re gallico in un anno. De le ruine facte di fora dil castello non ne scrivo, como ruinamenti de tecti, de ecclesie, caxe, rompimenti di catenazi, de botteghe, invedriate, cose admirande (2). Di questo disastro ne scrive un'altra cronaca citata dal

(I) Guicciard., Lib. XIV. (2) Cronaca di Antonio Grumello. MS. Belgioioso, fogl. 102, tergo. Lattuada (I), ed è di Bernardino Forni di Gallarate. Il papa non tralasciò di far ravvisare la vendetta di San Pietro in questo avvenimento; e questo ancora contribuì non poco a sgomentare i partigiani francesi, e ad animare sempre più i loro avversari. Quindi còlta l'opportunità della violenza fatta sulle terre pontificie, e datane ai Francesi tutta l'odiosità, su pubblicò senz'altro la lega, e si radunò verso Bologna la già disposta armata. Il papa Leone X spedì seicento uomini d'armi papalini, toscani e mantovani. Seicento altri uomini d'armi ne fece marciare da Napoli l'imperatore Carlo V. Diecimila fantaccini vi erano, parte italiani, parte spagnuoli, ed ottomila fantaccini oltramontani (2). Prospero Colonna comandava l'armata della lega pontificia; sotto di lui comandava Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara; ed era già in modo distinto in quell'armata Antonio da Leiva, soldato di fortuna, il quale ebbe poi molta influenza nel Milanese, come si vedrà. Il conte Guido Rangoni, Giovanni de' Medici, principe della casa di Toscana, Girolamo Morone, vi si trovarono parimenti. A questa armata si unì un corpo di Svizzeri condotti dall'ostinatissimo cardinale di Sion (3). L'armata de' collegati prese Parma. Gli Svizzeri stipendiati da Lautrec mancando di paga lo piantarono, dice Guicciardini. I collegati, dopo ciò, poco penarono ad impadronirsi del Milanese. Lautrec tentò invano a Vaprio di disputar loro il passaggio dell'Adda. Giovanni de' Medici, montato su d'un cavallo turco, arditamente fu il primo a passar l'Adda, il che animò l'esercito a seguirlo. Lautrec si ricoverò in Milano, dove arrivato, o per non perder l'occasione di saziar l'odio prima conceputo, o per mettere con l'acerbità di questo spettacolo terrore negli animi degli uomini, fece decapitare

(I) Descrizione di Milano, tomo IV, p. 444. (2) Guicciard., lib. XIV. (3) Guicciard. - Gaillard. - Sepulveda. - Cronaca Grumello, fogl. 106, tergo. pubblicamente Cristofano Pallavicino; spettacolo miserabile per la nobiltà della casa, e per la grandezza della persona, e per l'età, e per averlo messo in carcere molti mesi innanzi alla guerra (I). Questo illustre signore, parente della casa Medici, forse in odio del papa mandato dal Lautrec al patibolo, aveva settantacinque anni (2). Dopo l'affare di Vaprio, Lautrec entrò in Milano il giorno 10 di novembre 1521, e il giorno 11, due ore avanti giorno, venne il Pallavicino decapitato sulla piazza del castello di Milano. Egli era stato fatto prigione con insidia dal fratello di Lautrec, ch'era compare di lui. Stavasi Cristoforo Pallavicino nel suo castello di Buffetto dove accolse l'insidiatore (3). Già sino dal giorno 6 di luglio il di lui nipote Manfredo Pallavicino era stato squartato vivo sulla medesima piazza del castello, e le sue membra poste sulle porte della città; et a molti altri gentiluomini milanexi, placentini, et dil Stato fureno tagliate le teste (4). Bartolomeo Ferreri, a detta del Guicciardini, insieme col di lui figlio, aveva terminati per mano del carnefice i suoi giorni. Insomma il Gaillard dice: le mareschal de Foix se ressasia de vengeances cruelles, et combla le désespoir des malheureux Milanois, le suplice fut le partage de tous ceux, qui avoient eu les moindres relations avec Moron (5).

Frattanto che il crudele Lautrec inferociva in Milano, l'armata de' confederati s'accostò alla città. Io, come sempre, così al presente tralascio di annoiare il lettore colla esatta descrizione delle mosse e dei minuti avvenimenti marziali. Pare che gli scrittori prendano un piacer singolare ad internarsi colle descrizioni in siffatte carneficine, e nelle gloriose sceleraggini della guerra. La filosofia c'insegna a non abituarci a mirare con insensibilità 


(I) Guicciard., lib. XIV. (2) Gaill, tomo II, p. 234. (3) Cronaca Grumello, fogl. 103. (4) Grumello, fogl. 104. (5) Tomo 2, p. 217. insensibilità simili sciagure; e forse il bene dell'umanità suggerirebbe di non consecrarle alla gloria, ma di punirle col silenzio degli storici. L'armata de' collegati s'impadronì di Milano il giorno 19 di novembre 1521. Vi entrarono Prospero Colonna, il cardinale dei Medici, il marchese di Mantova, ignorando quasi i vincitori, dice Guicciardini, in qual modo o per qual disordine si fosse con tanta facilità acquistata tanta vittoria. Molte case vennero saccheggiate dagli Spagnuoli col pretesto che fossevi roba de' Francesi. Venne proclamato duca Francesco II Sforza, e Girolamo Morone vi comparve governatore in nome di lui. Lautrec lasciò nel castello di Milano un presidio francese, sotto il comando del capitano Mascaron, di nascita guascone. Cremona pure conservò nel castello i Francesi sotto il comando di Janot d'Herbouville; Como, Lodi, Pavia, Alessandria, Piacenza e Parma vennero tosto in potere della lega. Appena Leone X ebbe la nuova d'essersi occupate dalle armi pontificie le città di Parma e di Piacenza, e d'essere in potere della lega lo stato di Milano, e proclamato lo Sforza, ch'ei morì improvvisamente, all'età di quarantaquattro anni, il giorno l° di dicembre 1521, non senza sospetto di veleno, per cui venne carcerato Barnabò Malaspina, suo cameriere, deputato a dargli da bere. La morte del sommo pontefice, che aveva somma influenza negli affari appena innoltrati, cagionò non lieve inquietudine negli animi. (1522) Al momento che gli avvenimenti cominciarono a mostrarsi prosperi, Francesco Sforza, il quale coi denari somnistratigli da Cesare e dal papa, aveva presi al suo stipendio seimila Tedeschi dal Tirolo, passò nella Lombardia; e come dice Sepulveda: Franciscus quoque Sfortia, quem Germanorum sex milia sequebantur, Mediolanum pervenit, singulari civitatis gratulatione; e ne adduce il motivo, perché era vir de cujus humanitate, temperantia et justitia, magna erat hominum opinio . Da Trento passò pel Veronese senza ostacolo con seimila fanti tedeschi, ai quali i Veneziani Veneziani non fecero opposizione, indi per il Mantovano, Casalmaggiore e Piacenza portossi a Pavia. Lautrec e alcuni corpi veneziani s'erano posti a Binasco per impedire la venuta a Milano del duca; ma lo Sforza, còlto opportunamente il tempo, passò a Milano il giorno 4 aprile 1522. Dove è incredibile a dire (I) con quanta letizia fosse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicità con la quale era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi sforzeschi, e desiderando sommamente di avere un principe proprio, come più amatore de' popoli suoi, come più costretto ad avere rispetto e fare estimazione dei sudditi, né disprezzarli per la grandezza immoderata; e la cronaca del Grumello: fece la intrata in la città Mediolanense con allegria, et tutto il populo con sonar di campane, sparare di artellaria, parendo ruinasse il mondo. Mai fu visto, ne audito tanto triumpho. Cosse da non creder fureno facte per epsa repubblica mediolanense di allegria di Francisco Sforcia suo duca, et domandando denari el Sforcia per paghare lo exercito cexario, da gentiluomini, marchatanti, plebei et poveri herano portati danari, collane, argento; ogniuno portava qualche cossa per far danari, che mai fu visto tanta dimostrazione di amore, et di tutto hera tenuto bono conto, et a tutti quali havevano dato danari, collane, argento, fu a tutti facta la restituzione per Francisco Sforcia, et così fu dato pagha allo exercito cexareo, et ogniuno fu di bono animo di combattere contro i Galli (2). Frattanto Lautrec co' suoi Francesi, con ottomila Svizzeri, e coi Veneziani s'era ricoverato a Monza, ove eranvi il Montmorenci, il maresciallo Chabannes, il Bastardo di Savoia, il gran scudiere Sanseverino, il duca d'Urbino, Pietro di Navarra (3), ed altri illustri personaggi.

(I) Guicciard., lib. XIV. (2) Grumello, Cod. MS. Belgioioso, fogl. 112. (3) Gaillard, tomo II. personaggi. L'armata della Lega, sotto il comando di Prospero Colonna, aveva posto gli alloggiamenti alla Bicocca, luogo situato fra Milano e Monza, e lontano circa quattro miglia della città; il luogo era vantaggioso per la difesa. Lautrec aveva sin da principio avvisato il re, ch'ei non avrebbe potuto difendere lo Stato contro l'armata che si andava formando, a meno che non gli venissero spediti soccorsi dall'erario, onde stipendiare un numero conveniente di Svizzeri; e dalle lettere era bensì stato assicurato di riceverlo, ma realmente mai non l'ebbe. Egli teneva animati gli Svizzeri, mancanti de' loro stipendii, con promesse di imminente arrivo di danaro; ma essi, già troppo lungo tempo delusi, più non badavano alle lusinghe; e minacciavano di abbandonarlo e ritirarsi alle loro case. Il signor di Brantome, nella vita di Lautrec, ricorda il fatto dell'illustre cavaliere Bayard a Pamplona, dove essendosi ammutinati gli Svizzeri che erano sotto i suoi ordini, egli, colla sua gendarmeria, benché non numerosa, seppe reprimerli. Lautrec in vece, secondandoli, volle tentare una giornata: la tentò il 27 di aprile 1522, venne battuto e rispinto e perdette il Milanese. Brantome lo condanna per non aver preso almeno il partito di starsene sulla difesa, aspettando nuovi soccorsi. A me sembra che il Lautrec abbia operato senza prudenza; s'ei vinceva, avevano i collegati quattro miglia distante una città amica dove ricoverarsi; se perdeva, era tosto abbandonato dagli Svizzeri; i Veneziani freddamente l'avrebbero secondato, ei rimaneva con un drappello di Francesi appena bastante per ricondurlo nella sua patria. Come andasse quell'affare ce lo dicono minutamente più autori. Francesco Sforza era in Milano. Avvisato che i Francesi si movevano verso de' collegati, fece dar campana a martello in Milano, dove, e per odio verso de' Francesi, e per amore verso del duca, al momento uscirono quanti cittadini potevano armarsi per combattere; e seimila se ne contarono: Jussis igitur Sfortia popularibus omnibus arma sumere, peditum armatorum sex millia, et item quadringentos equites educit: cum his ad Bicocham in via, quae ducit Modoetiam, consistit (I). Ed il Grumello dice: mai fu visto tanto populo correr alle arme, et il frate predicator di Santo Marco con il crocefisso in mane facendo animo a Milanexi volessero combatter, che era il giorno de la victoria et ch'hera certifichato che vincerebbono senza alchun dubbio. El Sforcia, unito suo exercito, ussite de la città Mediolanense, et pigliò il cammino de la Bichocha con sua ordinanza (2). Oltre i seimila cittadini milanesi armati, che sortirono a piedi in seguito del duca, quattrocento lo accompagnarono a cavallo (3). Il duca co' suoi giunse prima che cominciasse l'attacco. Egli si pose alla difesa di un ponte, ed ivi infatti si scagliò col maggiore impeto il maresciallo di Foix: ma sebben penetrasse, venne rispinto poi con tanto disordine, che la battaglia diventò un macello, poiché dal ponte non potendovi passare che tre uomini di armi di fronte, e ammucchiandosi per la smania di uscire in salvo, si trovarono talmente stretti i nemici, che nemmeno fu loro possibile il difendersi; quindi la maggior parte vennero tagliati a pezzi. I Veneziani poco si mossero e rimasero quasi spettatori (4). Lautrec aveva fatto coprire di croci rosse il corpo di battaglia: questa era la divisa de' collegati, che sperava di sorprendere. Ma Prospero Colonna, informato di ciò, fece porre a' suoi un manipolo d'erba sull'elmo, e così venne delusa l'astuzia. Tremila Svizzeri rimasero sul campo. Gli altri il giorno seguente abbandonarono l'armata. La battaglia della Bicocca è rimasta nella memoria dei Francesi, i quali, per significare che un sito costerebbe molto sangue, e gioverebbe poco acquistandolo,

(I) Sepulveda, p. 131. (2) Grumello. Cr. MS. Belgioioso, fogl. 115. (3) Guicciard., lib. XIV. (4) Gaillard. soglion dire: c'est une bicocque. La conseguenza di tal giornata fu che i Francesi intieramente perdettero il Milanese. I Francesi occuparono Lodi, ma ne furono scacciati il dì 3 maggio 1522; indi perdettero Pizzighettone, poi Genova il giorno 23 giugno. Non rimase ai Francesi che il castello di Milano, che evacuarono poi il giorno 15 d'aprile dell'anno seguente, ed il castello di Cremona (I), il quale durò più tempo nelle loro mani. Le bandiere acquistate alla Bicocca si collocarono in trionfo nel Duomo. Ad animare il popolo molto giovò un frate Agostiniano, che il Guicciardini chiama Andrea Barbato (2). Costui, eloquente predicatore, mosso fors'anche dal sagacissimo Morone, aveva preso sopra del popolo quel predominio, che ebbe già in prima frate Jacopo de' Bussolari in Pavia, come vedemmo nel secondo tomo, cap. XIII; e senza ricorrere ai secoli trasandati, come l'ebbe in Napoli il gesuita Pepe, il quale, padrone del popolaccio, a forza di biglietti stampati con alcune parole pie, ammassò tanto da far gittare una statua d'argento di naturale grandezza. Egli dal pulpito annunziò la morte del proposto Lodovico Antonio Muratori, padre e maestro della critica e della erudizione, onore dell'Italia, e lo annunziò Franco Muratore, e nemico della vergine, nemico de Mamma mia. Lo stesso spirito mosse a declamare altri da que' pulpiti contro Pietro Giannone, costretto a perdere la patria, e ridotto a terminare i suoi giorni in un carcere in pena d'averli spesi ad onore dell'Italia, patria nostra, sedotta dalla interessata e sediziosa voce d'un sacro declamatore. Morone conobbe quanta utilità poteva cagionare un tal mezzo, e l'adoperò. Questo frate si pose

(I) Le date le attesta Burigozzo. (2) Lib. XII. - Gaillard lo nomina Andrea de Ferrara, tomo II, p. 286. a predicare con applauso, anzi con entusiasmo universale in Milano, e confortava i Milanesi a difendersi contro dei Francesi, che stavano per discendere dalle Alpi, ricordando che se erano stati crudeli per lo passato, ora per odio e vendetta di aver abbracciato il principe naturale, non si sarebbero saziati di carneficine, né appagati con tutto l'oro, ed avrebbero con più ferocia rinnovata memoria del Barbarossa. Ricordava gli esempi de' valorosi antenati, assicurava la salute eterna a chi moriva colle armi in mano per difesa della patria e del suo legittimo sovrano. Comparve sommamente animato il corpo de' cittadini milanesi formato dalla milizia urbana. Era meraviglioso l'odio del popolo milanese contro ai Francesi, maraviglioso il desiderio del nuovo duca; per le quali cose, tollerando pazientemente qualunque incomodità, non solo non mutavano volontà per tante molestie, ma messa in arme la gioventù, ed eletti per ciascuna parrocchia capitani, concorrendo prontissimamente giorno e notte le guardie... alleggerivano molto le fatiche dei soldati. Il duca Francesco Sforza l'anno 1522 confermò il senato; stabilì che venisse composto di ventisette senatori, cioè cinque prelati, nove cavalieri e tredici dottori. L'editto è del giorno 18 maggio 1522 (I). Questo corpo


(I) Veggasi il MS. del senatore Visconti nella Collezione Belgioioso d'Este, pp. 181 e 195. Nella Collezione medesima, MS. Miscellanea, tom. I, num. 21, si legge il contratto per la somministrazione del sale fatto fra il duca e Domenico Saulo, genovese. Ogni anno s'introducevano circa staia 330 mila sale, metà rosso e metà bianco, di Tortosa a soldi 20 lo staio posto alle gabelle. Col ducato a lir. 5 potrà il Saulo estrarre 6000 some metà frumento e metà riso fatto, e ciò gratis. Pagherà il Saulo al duca per onoranza annue lire 25 mila; le tratte però non siano libere, se non sinché il frumento non passi nel prezzo lire 5, 10. Se il Saulo da Venezia farà consegnare st. 150 mila sale Cipro, sarà tenuto in computo di quello di Genova, e similmente pagato. corpo ebbe in quella occasione la pienissima podestà di procedere, e giudiziariamente, ed anche per la via della equità: possitque ea omnia quae justitiae et aequitatis . Creato, siccome vedemmo, nel principiare del secolo XVI, egli, sebbene mutata la forma e ridotto a soli undici giureperiti, de' quali nove soli sedenti, durò sino alla primavera del 1786 per lo spazio di ducent'ottantacinque anni. Gaillard, nella sua assai bella storia del re Francesco I, ci informa di varii aneddoti, i quali hanno relazione immediata cogli avvenimenti accaduti nel Milanese. Lautrec, siccome accennai, aveva da bel principio chiesto soccorsi di denaro al re, protestandosi incapace di far fronte ai collegati senza di questo mezzo, per mantenere l'armata ed accrescerla cogli Svizzeri. Il re credeva che Lautrec avesse ricevuti quattrocentomila scudi, ch'egli aveva comandato se gli spedissero; e restò sorpreso, allorché intese da Lautrec in sua discolpa che nulla eragli giunto, e che i Francesi erano creditori dello stipendio di diciotto mesi. L'ordine l'avea dato il re ad un vecchio ed onorato ministro di somma integrità, che il re chiamava padre suo, cioè al sopraintendente Saint-Blançay, il quale, interpellato dal suo monarca sulla spedizione di quella somma, tremando e sbigottito, gli significò che la duchessa d'Angoulême l'aveva obbligato a consegnarle i quattrocentomila scudi, comandandogli il segreto, e rendendosi ella mallevadrice delle conseguenze. Il povero ministro aveva la polizza segnata dalla duchessa, da cui appariva lo sborso fattole. Sin qui si scorge un intrigo di corte per fare scomparire Lautrec, fratello della favorita, a costo della perdita d'una provincia e del sangue di migliaia d'uomini. Luisa di Savoia, madre del re, e duchessa d'Angoulême, secondò due personali passioni, l'avidità del denaro, e la gelosia di comandar sola nell'animo del re suo figlio. Qualche cosa ancora di peggio manifestò ella poi, quando chiamò mentitore il SaintBlançay, e sostenne che que' denari erano un capitale suo, che se le restituiva. L'orrore poi va al colmo, sapendosi che quell'onoratissimo vecchio ministro venne impiccato a Montfaucon (I). (1523) La duchessa d'Angoulême, nel 1523, aveva quarantasette anni, nudriva qualche passione pel duca di Bourbon, contestabile di Francia, avendo essa contribuito a fargli avere degli onori, dovuti alla nascita e merito suo, ma che il re da se medesimo dati non gli avrebbe, attesa la nessuna conformità fra l'umore vivace del re e la grave fierezza del duca; aveva trentaquattro anni il contestabile, allorquando le attenzioni della vedova duchessa d'Angoulême divennero sì pressanti, che ei lasciò chiaramente scorgere quanto importune gli fossero. La duchessa era tanto bella, quant'era possibile all'età sua. Ma ella avea l'anima tanto bassa e plebea, che pensò di vendicarsene, o di ridurre il duca a capitolare con lei promuovendogli de' mali. Cominciò a fargli sospendere le pensioni. Il duca non se ne lagnò, anzi a dispetto di lei accrebbe il fasto e la pompa, per mostrare quale ei fosse indipendentemente dai soldi del re. Il contestabile invitò il re alla sua terra di Moulins, e lo accolse con feste splendidissime (2). La duchessa fece proporre al contestabile la sua mano; egli sdegnò e derise queste nozze. Allora la donna in furore, adoperando il cancelliere di Francia Duprat, uomo nemico del contestabile, creatura della duchessa, e degno di tal protettrice, intentò una lite a nome del re al contestabile per ispogliarlo di tutti i suoi feudi, il Borbonese, l'Auvergne, la Marche, il Forêt Beaujolis, Dombres e molte altre signorie. La lite cominciò collo spogliare il contestabile, e porre i suoi beni sotto sequestro. Egli era il secondo principe del sangue reale, il primo pel suo merito,

(I) Brantôme, Vie de Francois Premier, dice che Saint-Blançay en paya la menestre par après, car il fut pendu à Montfaucon. (832) Brantôme, Hommes illustres. e contestabile del regno. Carlo V, che avea l'occhio sulla Francia, colse il momento opportuno, e, per mezzo del conte di Beaurein, fece al contestabile le più vantaggiose proposizioni: si trattava d'invadere la Francia, e colle armi spagnuole dare al contestabile la sovranità delle terre sue, con aggiunta di altre: contemporaneamente Arrigo VIII dovea invadere altre province, sulle quali l'Inghilterra avea delle pretensioni. Così il re di Francia diventava un principe da non più contrastare a Carlo V. La trama venne scoperta. Il contestabile, a stento, travestito, si pose in salvo nella Franca Contea. Il re Francesco avrebbe voluto che il parlamento di Parigi fosse sanguinario contro i complici, e lo mostrò tenendo un letto di giustizia, e rimproverando al medesimo le sue mitigate sentenze. Coloro che credono siffatti intrighi di corte invenzione dei tempi a noi più vicini, leggano meglio la storia. Così debbe accadere ogniqualvolta un principe d'animo debole si lasci dominare; e peggio poi, se da due opposti partiti. La duchessa d'Angoulême voleva comandar sola. La contessa di Chateau-Briant voleva aver parte al comando. Il duca di Bourbon, prendendo il partito di Carlo V, comparve un fellone. In fatti egli lo era. Coriolano pure per altra cagione tale si mostrò. Se non posso far l'apologia del duca di Bourbon, posso almeno compiangerlo; egli meritava un miglior destino. Gli storici nostri l'hanno insultato oltre il dovere. Frattanto gli affari de' Francesi andavano ogni dì peggiorando. Il presidio francese nel castello di Milano, il giorno 15 d'aprile 1523, avea ceduto il suo posto, custodibus partim morbo absumtis, partim morae taedio inopiàque cibariorum adactis , dice Sepulveda (I). Non rimaneva più alcuno spazio occupato dai Francesi, trattone il castello. Il loro comandante Janot d'Herbouville, signore di Bunon,

(I) Pag. 139. era morto. Erano in tutto quaranta Francesi, e trentadue essendone periti, i soli otto che rimanevano si obbligarono con giuramento di non ascoltare mai proposizione di rendersi, e diciotto mesi si sostennero. Così almeno ce n'assicura lo storico Brantôme (I). I Veneziani, vedendo andare così alla peggio gli affari del re di Francia, informati della indole del re, distratto dalle occupazioni, immerso ne' piaceri, dominato a vicenda da due donne, conobbero che erano passati i tempi del buon Lodovico XII, e che l'essere collegati colla Francia non poteva essere loro di verun giovamento, anzi riusciva di molto pericolo, attese le minacce del potentissimo ed attivissimo Carlo V. Veramente non aveano i Veneziani alcun plausibile pretesto per mancare alla lega che univali colla Francia; ma la Francia istessa, quattordici anni prima, colla lega famosa di Cambrai aveva insegnato ad essi a sostituire al codice del gius delle genti quello della convenienza. Il re di Francia in oltre era minacciato d'una invasione per parte degl'Inglesi. A ciò si aggiungeva la moderazione che Cesare mostrava, consegnando al duca Francesco Sforza le fortezze acquistate dai Francesi, il che toglieva dall'opinione l'inquietudine che un monarca troppo potente, occupando il Milanese, nol ritenesse, e li rendesse confinanti d'una terribile sovranità. Tutto ciò mosse i Veneziani a collegarsi coll'imperatore, col papa Adriano, Francesco Sforza, i Fiorentini, i Sanesi e i Lucchesi. S'obbligarono a somministrare seicento uomini d'armi, altretanti cavalleggeri e seimila fanti per la difesa dello stato di Milano; e Carlo V si obbligò a difendere tutte le possessioni de' Veneziani nell'Italia. Tal confederazione seguì nel mese di luglio del 1523. (2).


(I) Vie de l'amiral Bonnivet. (2) Guicciard., lib. XIV. - Burigozzo. - Sepulveda. - Gaillard, tomo III. La duchessa d'Angoulême voleva che si ricuperasse il ducato di Milano, come lo bramava pure il re; ma voleva che l'onore di quest'impresa venisse accordato all'ammiraglio Bonnivet, e il re al solito accondiscese. Trentamila fanti e duemila uomini d'armi furono posti in marcia sotto il comando di Bonnivet, creatura della duchessa d'Angoulême; e questo Bonnivet fu poi cagione della totale irreparabil rovina de' Francesi e della prigionia dello stesso re, siccome vedremo. Il vecchio generale de' collegati Prospero Colonna, non trovandosi forte a segno di sostener l'impeto di quest'armata, che s'incamminava verso del Milanese, divise ne' presidii i soldati. Diè Pavia da comandare al Leyva, per sé tenne il comando di Milano. Mentre si disponeva questa invasione, il duca Francesco Sforza fu in pericolo colla sua morte di lasciare più libero il campo alle ragioni del re di Francia; poiché, venendo egli da Monza a Milano a cavallo, ed avendo ordinato alle sue guardie di stargli lontane per non soffrire la polve che alzavano col calpestio, se gli accostò Bonifazio Visconti, giovine di nobilissima famiglia, e giunto ad un quadrivio, a tradimento sfoderò una daghetta e tentò di percuotere il duca nella testa; ma il movimento del cavallo fe' sì che appena leggermente lo ferì sulla spalla. Questo Bonifazio era assai domestico dell'eccellenza del duca, dice Burigozzo, il quale asserisce essere accaduto il fatto nel giorno 21 d'agosto 1523. L'assassino profittò del velocissimo suo corsiero, e poté salvarsi nel Piemonte (I). Il duca ritornossene a Monza. Per Milano si sparse nuova che il duca fosse morto o moribondo, e ciò produsse una vera desolazione ne' cittadini. Tre giorni dopo il duca venne a Milano. L'ammiraglio Bonnivet, senza contrasto alcuno, entrò nel Milanese, e direttamente si presentò sotto le mura di Milano per

(I) Guicciard., lib. XV. - Gaill., tom. III. assediarla; ma la plebe era ardentissima con l'animo e con le opere contro ai Francesi, dice Guicciardini (I); e il Gaillard scrive: l'infaticable Moron, plus utile au duc de Milan, que les plus habiles généraux, encourageoit et les bourgeois et les soldats, veilloit à l'approvisionnement de la place, à l'avancement des travaux, et faisoit de plus repentir les François de ne lui avoir point tenu parole (2). La comparsa de' Francesi sotto Milano seguì verso la metà di settembre; intrapresero l'assedio; ma il giorno 12 di novembre cominciò a cadere gran copia di neve, e continuò un tempo cattivissimo per tre giorni. Le opere che aveano scavate i Francesi, erano impraticabili a cagione del fango profondo. Assai malvestiti erano i Francesi, e non era possibile che reggessero a questa stagione; quindi il giorno 14 di novembre 1523, dopo otto settimane di assedio, si ritirarono ricoverandosi a Rosate ed Abbiategrasso (3). Bonnivet voleva ripassare le Alpi, e per assicurarsi la ritirata propose a Prospero Colonna una tregua; ma il Colonna non diede retta a tal partito, quantunque l'ammiraglio francese avesse interposta a favor suo la mediazione di madonna Chiara, famosa per la forma egregia del corpo, ma molto più per il sommo amore che le portava Prospero Colonna (4); il quale innamorato aveva ottanta anni (5), ed in fatti fra pochi giorni spirò in Milano il 28 dicembre 1523. (6), essendogli succeduto nel comando il vicerè di Napoli Carlo Lannoy. Circa a quel tempo venne a Milano il duca Carlo di Bourbon, già contestabile di Francia, e luogotenente e governatore del Milanese

(I) Lib. XV. (2) Gaillard, tom. III, p. 102. (3) Burigozzo. (4) Guicciard., lib. XV. (5) Gaillard, tom., III, p. 113. (6) Sebbene Gaillard, tom. III, p. 117, dica seguìta la morte di Prospero Colonna il 30 dicembre, io credo al Burigozzo, che vivea allora in Milano, e la dice seguìta il 28. Milanese sette anni prima; indi, in questo stesso anno 1523, col carattere di luogotenente generale cesareo. (1524) Rimanevano i Francesi acquartierati ad Abbiategrasso, non senza molestia della città, la quale riceve una buona parte della provvisione dal canale detto Naviglio, che passa appunto in Abbiategrasso, quindi quella via rimaneva intercetta, a meno che non se ne facesse sloggiare i Francesi. Il duca, amato e riverito da' suoi Milanesi, pensò a questa impresa. I Milanesi avevano somministrati novantamila ducati al loro buon principe, che ne avea bisogno per difendersi (I). Nel mese di aprile del 1524 il duca Francesco II, con una scelta squadra de' suoi Milanesi, marciò ad Abbiategrasso, e impetuosamente per assalto se ne impadronì (2); e poco dopo l'ammiraglio Bonnivet ripassò i monti, e così terminò questa spedizione (3). Sgraziatamente però terminò per Milano la vittoria di Abbiategrasso, poiché eravi la pestilenza; ed i Milanesi vincitori la portarono nella patria, la quale pestilenza fu una delle più funeste e micidiali. La strage maggiore seguì nei mesi caldi di giugno, luglio ed agosto del 1524. (4). La cronaca del Grumello dice: et fu un pessimo sacco per la città Mediolanense. Apichata fu peste crudelissima in epsa città per le robe amorbate d'epso castello portate in dicta cittate, si existima moressero de le anime octanta millia, et più presto de più che di mancho (5); e Burigozzo fa ascendere la mortalità a più di centomila persone. Una cronaca originale, che si conserva in Pavia presso la nota famiglia de' conti Paleari, intitolata: Relazione delle cose successe in Pavia dall'anno 1524 al 1528, del molto

(I) Guicciard., lib. XV. (2) Gaillard, tom. III, p. 136. - Guicciard., lib. XV. (3) In questa ritirata morì in un fatto d'armi fra Gattinara e Romagnano il cavaliere Bayard, illustre per la magnanimità, per la fede e per il valor suo. Di esso molto parlano le storie di que' tempi. (4) Burigozzo. (5) MS. Belgioioso, fogl. 129. magnifico signor Martino Verri, dice che in Milano, per la pestilenza del 1524, morirono la metà delle persone, e quella durò per tutto il mese di agosto. Il Sepulveda asserisce che più di cinquantamila uomini vi perirono (I). Il Bescapè, nella vita di san Carlo, dice: ut amplius quinquaginta millia hominum in urbe interirent, praeter alios innumerabiles qui in oppidis desiderati sunt (2). Questa insigne disgrazia forma una epoca per la storia di Milano. Se per lo passato la città, ricca, popolata, presentò i suoi cittadini animosi e non indegni della stima altrui, dopo questo colpo fatale la città stessa, misera, spopolata, languente, non mostrò più se non pochi cittadini, oppressi nell'animo, e destinati per le sciagure de' tempi a invidiare la sorte de' loro parenti uccisi dalla pestilenza. Così in fatti vedremo; e pur troppo duolmi di dover occupare l'animo mio delle luttuose avventure che dovrò riferire (3). Carlo V per dare al re di Francia di che occuparsi nel suo regno, senza pensare al Milanese, spedì un corpo d'armati oltre i Pirenei. S'impadronì di Fonterabia, che si arrese al contestabile di Castiglia Inigo Velasco. Il comando di quell'armata venne in apparenza affidato al duca Carlo di Bourbon, e, secondo il trattato

(I) Sfortia ipse cum Mediolanensium non contemnenda manu. Expugnatoque ponte quo Ticinus ad Abbiagrassum committitur (nam et hic gallico praesidio tenebatur), oppidum ipsum magno impetu oppugnare aggreditur, captumque, deleto praesidio, militibus diripiendum permisit, atque ea victoria laetus, Mediolanum cum praeda magna quidem, sed Mediolanensibus perniciosa revertitur; pestis enim, quae Abbiagrassum afflixerat, Mediolanum ex contagione tam vehementer invasit, ut supra quinquaginta hominum millia ex hac urbe, grassante morbo, absumerentur - Sepul., p. 149. (2) Lib. IV, p. 175. (3) Milan n'étoit plus cette ville florissante, qui suffisoit autrefois à sa defense, et dont les bourgeois étoient autant de soldats. Les ravages qui avoient été faits par la peste l'avoient changée en un vaste désert. Gaill., tom. III, p. 184. dovevano occuparsi Forêt Beaujolis, Bourbonnois, Auvergne ed altri feudi del duca, il quale voleva rapidamente marciare a Lione, e così di slancio accupare la Francia meridionale, promessagli da Carlo V, confidandosi molto nel cuore de' suoi sudditi, sdegnati contro l'ingiustizia del re, ed affezionati a lui ed alla sua casa. Ma Carlo V temeva ch'egli, poiché avesse ottenuto l'intento, non si accomodasse col re. Pescara eragli a fianco, e ne attraversò l'idea. Si progettò di occupare le fortezze poste alle spiagge, acciocché l'armata per mare avesse la sussistenza, la quale sarebbe stata in pericolo di esserle intercetta, qualora avesse dovuto passar per le gole de' Pirenei. Si pose l'assedio a Marsiglia. Il re di Francia, animato dall'ammiraglio Bonnivet, si dispose a portare in persona la guerra nel Milanese. Questo colpo, che sembrava ardito ed inconseguente, nacque da uno di que' segreti di Stato, i quali rare volte si indovinano dal pubblico; perché non sono parti di una sublime politica, alla quale soglionsi attribuire forse con troppa generosità tutte le risoluzioni de' gabinetti; e rare volte trovansi scrittori informati o coraggiosi a segno di pubblicarli. Il segreto di questa risoluzione ci vien palesato dallo storico Brantome nella vita dell'ammiraglio Bonnivet. Bonnivet fece venire al re la smania di vedere la signora Clerici, la più bella donna d'Italia, la quale esso ammiraglio aveva conosciuto ed amata in Milano prima che ne partissero i Francesi (I).


(I) Ce fut luy seul qui conseilla au roy de passer les monts, et suivre monsieur de Bourbon, ayant laissé Marseille, non tant pour le bien et service de son maître, que pour aller revoir une grande dame de Milan, et des plus belles, qu'il avoit faite pour maitresse quelques années devant, et en avoit tiré plaisir, et en vouloit retaster. J'ay ouy dire ce conte à une grande dame de ce temps-la, et mesme qu'il avoit fait cors au roy de cette dame, (qu'on dit que s'appelloit LA SIGNORA CLERICE, L'armata francese, che scese dalle Alpi, guidata dal suo re in persona, era composta di duemila uomini d'armi, tremila cavalli leggieri, ventimila fanti, metà francesi e metà svizzeri, seimila fanti tedeschi e cinquemila fanti italiani (I). Alla metà di ottobre del 1524 passò le Alpi. A tal nuova, quantunque Milano fosse resa deserta dalla pestilenza, e mancante affatto di ogni provvisione, i pochi cittadini che rimanevano, offersero al loro principe Francesco II la vita e le sostanze: ma il duca, seguendo anche il consiglio di Girolamo Morone, suo gran cancelliere, ringraziò i cittadini, conoscendo che non era più il tempo di opporsi, e che nella debolezza di allora si sarebbe provocato inevitabilmente l'ultimo eccidio della patria comune. Comandò dunque il duca ai Milanesi che non irritassero i nemici, piegassero ai tempi, e confidassero nell'aiuto della Divinità e nella fortuna di Cesare. Egli partì da Milano il giorno 3 di ottobre, e si collocò a Soncino nel Cremonese col viceré di Napoli Carlo Lannoy. Il re di Francia entrò nel Milanese il giorno 23 ottobre 1524. Si trattenne a Vigevano, e spinse a Milano il marchese di Saluzzo (2). Tutto ciò seguì senza contrasto alcuno e senza spargimento di sangue, poiché pochi erano gli armati, e il fiore di questi si ricoverò in Pavia sotto il comando di Antonio Leyva (3). Ben è vero che il Bourbon,


CLERICE, pour lors estimée des plus belles de l'Italie), et luy en avoit fait venir l'envie de la voir, et coucher avec elle: et voilà la principale cause de ce passage du roy, qui n'est à tous connuë. Ainsi, la moitié du Monde ne sçait comment l'autre vit; car, nous cuidons la chose d'une façon, qui est de l'autre. Ainsi, Dieu qui sçait tout, se mocque bien de nous.

(I) Veggasi l'opera di Francesco Tegio, fisico e cavaliere, stampata in Pavia per Giovanni Andrea Magri, 1655, intitolata: Pavia assediata da Francesco I Valois, re di Francia.
(2) Le date sono del Burigozzo; del rimanente vedi Gaillard, tom. III, p. 184.
(3) Vix dum erant Caesariani Mediolano per portam quae Romana dicitur, ordine servato, ne Bourbon e il Pescara, appena intesero la marcia del re, che, abbandonando Marsiglia, per le riviere marittime passarono per aspri colli (I), e con mirabile celerità volarono con rinforzo alla difesa del Milanese, e in venti marce, vicenis castris, dice Sepulveda (2), si trovarono a Pavia nel giorno medesimo in cui il re giunse a Vercelli, cioè il giorno 20 di ottobre anzidetto (3). I Francesi, impadronitisi della città di Milano, posero l'assedio al castello, presidiato da seicento spagnuoli. Dice il Guicciardini che il re dispose con laude grande di modestia e benignità, che ai Milanesi non fosse fatta molestia alcuna (4). Il povero nostro merciaio Burigozzo, ch'era testimonio di vista, scriveva che i Francesi facevano tanto male per Milano, che non saria possibile a poter narrare, e de robare et de logiare senza discrezione, et non tanto il logiare, ma volevano le spese et denari, et andavano in le caxe dove li era buon vino et lo voleveno, et così d'altro, ecc. Pavia era stata riparata; era luogo assai forte, ed ivi eranvi ricoverati i soldati migliori. Il re si propose d'impadronirsene, sicuro che, fatto un tal colpo, ei si rendeva assoluto padrone del Milanese. Ma tale era l'avversione che il crudele Lautrec aveva stampata negli animi de' popoli per la dominazione francese, che tutti i cittadini, i mercanti, le donne istesse esponevano la vita per difendersi, contro de' Francesi; il che si vide prima in Milano, poi in Pavia; dove, postovi l'assedio 


profectio similis fugae videretur, digressi, cum per Ticinensem et Vercellensem Galli succedebant; nec tamen rex ipse Mediolanum est ingressus, sed, imposito praesidio, quod arcem simul obsideret, paucis diebus ante novembris kalendas exercitum, oppugnandi gratia, Papiam inducit. Sepulveda, pp. 153 e 154.

(I) Tegio.
(2) p. 153.
(3) La Cronaca di Martino Verri dice che nello stesso giorno in cui il re passò il Tesino dalla parte d'Abbiategrasso, gl'Imperiali lo passarono alla Stella sul Pavese.
(4) Lib. XV. l'assedio dal re, talmente erano amici e confidenti i cittadini co' soldati, che vivevano come fratelli, s'esponevano ai pericoli, tutti indistintamente, soldati e cittadini; il denaro de' cittadini era offerto per accontentare i soldati che non avevano paghe; i mercanti di panno vestivano i soldati, acciocché reggessero al freddo, e vedevansi prodigi di valore e di buona armonia. La cronaca del Verri descrive un fatto in cui i soli cittadini respinsero i Francesi, i quali da Borgo Ticino per un sotterraneo erano penetrati al disopra del ponte levatoio; e, sbigottiti dalla sorpresa alcuni pochi Tedeschi che vi stavano in fazione, essendo essi fatti prigioni, i soli cittadini, diceva, si opposero, e diedero tempo al Leyva di accorrere co' suoi, senza di che Pavia era presa. Il Tegio ci racconta che una delle più illustri matrone, Ippolita Malaspina, marchesa di Scaldasole, non si sdegnò con quelle belle e bianche mani portare le ceste piene di terra al bastione, e con parole ornate e piene di efficacia accendere li animi de cittadini e de' soldati alla difesa. Tanto male poté fare al suo re il Lautrec, da rendere inespugnabile per l'animosità de' cittadini una città, che ne' combattimenti di dominazione accaduti prima e poi, non comparve mai una fortezza molto importante!

Il re da principio, profittando dell'ardore dei suoi soldati, cercò d'impadronirsi di Pavia con assalti impetuosissimi e replicati, poi, vedendosi vittoriosamente respinto e disperando di ottenere la città col mezzo, si pose a battere le mura coll'artiglieria per diroccarle ed aprirsi la strada; ma le rovine del giorno si andavano con maravigliosa avvedutezza riparando la notte dagli assediati, che, con fascine, cementi, travi, terra, riempivano i vani che s'andavano formando. Fra le altre prove della sconsigliata condotta del re, vi è quella che mancogli la polve per continuare nell'impresa, e se il duca di Ferrara non gliela somministrava, egli era costretto a desistere desistere (I). Vedendo inutili gli assalti, delusa l'azione dell'artiglieria, si rivolge al progetto di sviare il Tesino da Pavia, ed inalvearlo tutto nel Gravellone, col mezzo d'una chiusa posta al luogo ove si divide il fiume in due correnti. Il progetto fu d'un tenente della compagnia d'uomini d'arme del signor d'Alençon, che aveva nome Silly Baglj di Caen. Se riusciva il progetto, il re presentava le sue forze dal lato debole della città, marciando nel letto del fiume; ma una piena rovesciò la chiusa. Si tentò la seduzione; ma in vano. Finalmente fu costretto il re di cambiare l'assedio in un blocco, ed accontentarsi di cingere la città, aspettando che venisse costretta a cedere per mancanza di viveri. Questa è la serie degli avvenimenti presa nel suo tutto, e questo è il transunto di quanto si raccoglie dal Tegio, dal Guicciardini, dal Gaillard, dalle cronache del Grumello, del Verri e d'altri. Ma siccome per le conseguenze un tal assedio si rese famoso, e forma una epoca memorabilissima, non solo della storia d'Italia, ma della patria nostra singolarmente, così anch'io ne scriverò alcune particolarità, di quelle che soglio ommettere ne' casi comuni. All'oriente di Pavia, cioè a San Giacomo, a Santo Spirito, a San Paolo, a Sant'Apollinare stavano i quartieri degli Svizzeri allo stipendio de' Francesi; al nord stavano i Francesi, acquartierati a Mirabello e Pantalena; da ponente stavano alloggiati alla badia di San Lanfranco il re di Francia e il

(I) Secondo Gaillard il duca di Ferrara somministrò polvere pel valore di ventimila fiorini d'oro, e cinquantamila ne somministrò effettivi. La Cronaca del Grumello dice che vennero sotto la scorta del Bonneval trasportate cento some di polvere da Ferrara al campo del re. Il Sepulveda dice: Alfonsus Aestensis, Ferrariae dux, ad Papiae commodiorem expugnationem petenti regi amicitiae gratia ex maxima scilicet copia submittebat. Alfonsus enim tormentis fabricandis oblectabatur, atque ejus artificii scientissimus erat. re di Navarra; a San Salvadore alloggiava il principe di Lorena co' Svevi e Grigioni; a mezzodì finalmente custodivano i posti, sotto il comando del marchese di Saluzzo e di Federigo di Bozzolo, gli Italiani misti co' Francesi (I). Il giorno 8 novembre in tre luoghi era aperta la breccia, tanto era possente e replicato l'insulto di grossissima artiglieria! Tentarono dalla parte orientale l'assalto, e già due insegne francesi erano saliti sopra la rottura piantandovi le bandiere, e furono bravamente rispinti e rovesciati nella fossa. Contemporaneamente il re diresse l'attacco dalla parte occidentale. Fu impetuosissimo, e volle accorrervi il comandante don Antonio de Leyva. Vennero scacciati i Francesi, lasciando più di trecento morti sotto quelle mura (2). Né sempre stettero sulla difesa gli assediati; fecero anzi delle uscite, fra le quali una ne scrive la cronaca di Martino Verri, per cui s'innoltrarono sino a Campese, e tagliarono a pezzi dodici insegne di bellissima gente, onde ricoveraronsi nella città carichi di bottino, trasportando due pezzi d'artiglieria. Il presidio di Pavia era di seimila soldati (3). In mezzo a tai felici successi però i Tedeschi presidiati in Pavia, mancando di paghe, si mostrarono malcontenti; fecero quanto potevano i Pavesi radunando denaro per acquietarli. Il Leyva fece battere l'argenteria sua in forma di denaro, stampandovi il nome proprio (4); ma non


(I) Tegio. (2) Tegio; e il Sepulveda dice: ter milites irrumpere jussi, conatique, ter a Caesarianis, magno accepto detrimento, repulsi. (3) Tegio. (4) Hoc oppidum Antonius Leiva costudiendum susceperat, ibidem Germanorum qui agmen nostrum subsequebantur ad quinque millibus, Hispanisque circiter quingentis et quadringentis equitibus retentis. Ita cum huc quoque Caesariani pleraque tormenta et plurimum bellici apparatus contulissent, recepta Papia, bellum confectum fore rex sibi persuadebat. Sepulveda. bastavano questi sforzi a formare una somma corrispondente al loro credito. Il giorno 22 di novembre tumultuarono a segno di minacciare che avrebbero aperte le porte al nemico. Il comandante di questi Tedeschi aveva nome Azarnes (I), ed era l'autore principale di tal emozione (2). Il viceré Lannoy, informato di tal pericolo, raccolse a stento tremila ducati d'oro; tant'era la penuria in cui trovavasi l'armata, e per fargli entrare in Pavia si servì dell'opera di due semplici fantaccini spagnuoli, i quali cucirono nella sottoveste questa somma, e comparvero al campo francese come disertori, ed ivi, còlto il momento d'una uscita che fecero gli assediati, s'immischiarono nella zuffa, e nel ritirarsi che fecero i Cesariani, con essi entrarono in Pavia, e consegnarono il denaro al Leyva. La fede, l'onore, il nobile sentimento di questi due uomini mi ha fatto bramare di sapere i loro nomi; ma in varii scritti da me esaminati ho trovata bensì la virtuosa azione, ma non i due nomi che meritavano luogo nella memoria de' posteri. Con questo sebben tenue soccorso, distribuito come un pegno del maggiore che aspettavasi per una sovvenzione dei Genovesi, si calmarono gli animi; e pienamente poscia venne ristabilita la tranquillità colla morte dell'Azarnes, procuratagli, come sembra, dal Leyva, insidiosamente e per veleno. I costumi de' tempi si conoscono dai fatti non solo, ma dal modo ancora col quale gli storici li raccontano. Senza verun sentimento di ribrezzo un tale attentato del Leyva si descrive come un rimedio prudentemente adoperato da lui (3).

(I) Gaillard, tom. III, p. 204. (2) Germanos qui erant in Papiae praesidio, quamvis obsidionis initio oppidanorum sumtibus alerentur, stipendium tamen efflagitare, urbem, nisi sibi satisfiat, hostibus sese tradituros minitantes. Sepulveda, p. 156. (3) Accepta excusatione, parvaque pecunia, aequo animo ad bellum confectum stipendii solutionem expectarunt, praesertim post ipsorum praefecti mortem, qui per eos dies ardentissima febri correptus, nec sine veneni suspicione interiit: Sic enim increbuit Era impaziente il re d'impadronirsi di Pavia, e lo doveva essere, perché frattanto s'andavano accrescendo le forze de' Cesariani, siccome vedremo. Non giovando gli assalti, essendo delusa e riparata l'azione dell'artiglieria, reso vano il progetto di deviare il Tesino, allontanata la speranza di ottenere colla fame una città di cui il presidio colle frequenti scorrerie, per lo più fortunate, riportava nuovi soccorsi, pensò a vincere corrompendo il comandante. Questa avventura sarà da me riferita colle parole del Tegio. Il primo giorno di dicembre il re di Francia mandò entro la città un frate dai zoccoli, a cui soleva ogni anno confessarsi Antonio da Leva, ad esso Leva che gli persuadesse a volerli dare la città, che altrimente esso, con tutti i suoi, sarebbe stato tagliato a pezzi con tutti li cittadini, e distrutta tutta la città sino alli fondamenti, non lasciando di fare tutte quelle crudeltà che si potessero; il che s'egli avesse voluto fare, oltra molto tesoro, gli avrebbe ancora donate molte buone entrate nello stato di Milano: la cui ambasciata avendo bene isposta il frate, Antonio da Leva, salito in gran collera, proruppe in tai parole: Se tu non fossi nunzio regale, e tale, come io ho sempre creduto, di buoni costumi et di santità di vita, io ti farei oggi finire la tua vita sopra la forca: non pigliar mai più tale impresa; per hora vanne senza veruna offesa; e dirai alla regia maestà ch'io mi maraviglio molto di quella, che abbi mandata una tal ambasciata a me, il quale ho sempre anteposto la fede a qualunque magistrato o dignità ed oro. Sia lontano da me ogni nome di perfidia e di traditore; ch'io accetterei piuttosto qualunque sorte di crudel morte. Pavia è di Cesare,


increbuit Antonium hac ratione voluisse sine tumultu ancipiti malo mederi, eo scilicet sublato de medio, qui seditionis auctor fuisse putabatur. Sepulveda, p. 158. Il Bugatti nella Storia Universale, libro VI, con indifferenza uguale, dice: havendogli rimediato la subita morte del loro colonnello, tolto di mezzo destramente, per essere il primo in sospetto di tradigione. e data al sapientissimo Francesco Sforza, duca di Milano, e quella mi sforzarò di conservargliela con ogni cura, studio e diligenza, e di rendergliela. Malgrado però l'industria e il valore degli assediati i viveri erano assai pochi in Pavia. Si vendevano alle macellerie carni di cavalli e d'asini. Una gallina si vendeva per un ducato d'oro, le uova si vendevano venticinque soldi l'uno. Mancava il burro, non v'era lardo né olio; di che Tegio minutamente c'informa. Tutto soffrivasi da' cittadini però, anziché ubbidire nuovamente al dominio di un re che Lautrec aveva reso odiosissimo. In mezzo alla pubblica miseria Matteo Beccaria, il giorno 12 dicembre 1524, insultò l'umanità, dando un convito magnifico agli ufficiali del presidio. Il Tegio lo racconta come una magnificenza nel modo seguente. Lavate prima le mani con acqua nanfa, posto in tavola primamente focaccine fatte col zuccaro et acqua rosata, e marzapani et offellette e pane biscotto; lo scalco portò poi fegati arrostiti di capponi, galline, et anitre, aspersi con sugo di aranci, e lattelli di vitello, e cotornici e tortore molto grasse, arrostite nello spiedo; terzo, furono portati pavoni e conigli arrosto, e varii piattelli di carne di manzo trita, condita con zenzevero, canelle e garofani; da poi capponi e lonze di vitello a rosto, con piattelli di carne di caprioli, con uva in aceto composta. Poi petti di vitello, capponi a lesso, con tortellette di formaggio e cinamomo, coperte con bianco mangiare, ovvero sapore composto con mandorle, zucchero e sugo di limone; poco da poi teste di vitello condite con passule e pignoli, e gran pezzi di carne di manzo, con senape e ulive; da poi colombi, anatre, lepretti acconci con pere, limoni e aceto. D'indi a poco furono portati porcelletti arrosto intieri, coperti di salsa verde; poco appresso papari grassi, cotti con cipolle e pepe; dopo lo scalco fece portare i latticini e fritelle fatte a modo tedesco; e cose fatte di cacio di molte sorti. Ultimamente si posero mirabolani, citrini, kebuli, e corteccie di cedro e zucche confettate. Ho tralasciato il pane bianco come neve, e vini bianchi e rossi al nettare o all'ambrosia non cedenti, di che i Tedeschi maravigliosamente se ne godevano e con grande stupore. V'erano molti cantori e suonatori di varie sorti con trombe e tamburi, che rallegrarono molto i convitati, nel qual mangiarono certamente più di trecento uomini. Oggidì si conosce meglio la virtù, e meglio s'imparano i doveri sociali. Un pazzo che facesse altretanto, avrebbe la esecrazione pubblica, e l'autore che lo riferisse, non lo farebbe certamente con lode (I).

CA-

(I) Fin quì l'originale MS. ritrovato presso l'illustre Autore di questa Storia, il quale in Milano cessò di vivere ai 28. Giugno del 1797. in età d'anni 69. mesi 6. e giorni 17., mentre la stampa del presente volume era di già principiata. Al compimento di esso mi sono data la pena di fedelmente raccogliere la più parte di quanto siegue da alcuni tomi in foglio MSS. ritrovati presso il Defunto, ne' quali aveva egli distribuite nelle rispettive nelle rispettive epoche l'ammassata materia per la continuazione della sua Storia. L'Editore. CAPO VIGESIMOQUARTO.

Battaglia di Pavia. Il Re Francesco Primo rimane prigioniero. È condotto a Madrid. Sua liberazione. Vicende in questi tempi della Lega di Francesco Secondo Sforza Duca di Milano, e di Girolamo Morone.


Leone Decimo, alleato di Carlo Quinto, avea terminata la vita, siccome si è detto di sopra, nel tempo appunto in cui si otteneva lo scopo della Lega col discacciare i Francesi dalla Lombardia. Adriano Sesto, suo successore, nel breve suo pontificato d'un anno e mezzo, o poco più, si mostrò piuttosto Sacerdote che Sovrano. Clemente Settimo Medici, cugino di Leone Decimo, fu creato sommo pontefice, mentre i Francesi, sotto Bonivet, se ne ritornavano al loro paese, dopo un tentativo infelice per occupar Milano. Dovevasi ognuno promettere che questo papa mantenesse la Lega; poiché ei da cardinale l'aveva formata; ma così non avvenne. Clemente VII segretamente si unì col re Francesco primo, promettendogli il Regno di Napoli, e ricevendo dal re la guarenzia dello Stato Ecclesiastico e della Repubblica Fiorentina per la Casa Medici. Tutto però segretamente si fece nel tempo in cui durava l'assedio di Pavia. (anno 1525) Frattanto il Lanoia aveva sproveduto il Regno di Napoli di soldati, i quali erano in marcia alla vôlta del Milanese; ed il re staccò il Duca d'Albania con dugento lance, seicento cavalleggieri, e quattromila fanti, e comandògli di marciare verso Napoli per occupare quel Regno; la quale sconsigliata impresa lo indebolì poscia a fronte de' nemici, e fu una delle cagioni delle rovina della sua armata e della perdita della sua libertà. Questa marcia attraverso lo Stato Pontificio, il transito delle munizioni fatto per Piacenza e Parma possedute dal Papa, svelarono tosto agl'Imperiali che il Papa s'era unito col Re di rinforzare la sua armata, ordinando che i suoi francesi acquartierati in Savona marciassero a Pavia, senza avvertire che dovendo coteste Milizie passare ne' contorni di Alessandria presidiata da Cesariani, non erano sicure della loro marcia. In fatti Gaspare del Maino, comandante di quel presidio, fece prigioniere tutto quel corpo. Frattanto al Lanoia giunsero dodicimila Lanschinetti tedeschi, e quindi si trovò alla testa di diciottomila fanti, settecento uomini d'armi ed altretanti cavalleggieri. I dodicimila Tedeschi erano comandati da Giorgio di Frandsperg, uomo di statura colossale, di forza prodigiosa, di coraggio singolare, Luterano passionato; il quale venne a quell'impresa coll'idea di strozzare colle sue mani il Papa, ed a tal fine portava seco un cordon d'oro in forma di capestro, e lo mostrava dicendo, che era d'oro, e che aveva riguardo alla dignità. Di tutto ciò ampiamente scrive ilcitato Gaillard. Così da malaccorto andava il Re Francesco preparandosi la propria sciagura sciagura, indebolendosi egli mentre i nemici si rinforzavano. Bernardo Tasso, padre dell'immortale Torquato, si ritrovava nell'armata del re di Francia, mentre era sotto Pavia, ed in una lettera al conte Guido Rangone, così gli scrive: Questo esercito mi pare con poco governo, con molta licentia, et più grande di numero che di virtù. Poca speranza gli è rimasa di poter pigliare la Città, hora che i nemici si vanno avvicinando (I), e poco dopo: questo esercito (scrive egli dal campo francese) mi pare piuttosto pieno d'insolenza che di valore... Io più tosto temo che spero del successo di questa impresa; et quello che più mi fa temere è, che veggio che apertamente Sua Maestà s'inganna nelle cose più importanti, giudicando il suo esercito maggior di numero, et quel de' nemici minore di ciò che in effetto sono... Io vedo questo campo con quel poco ordine che era quando i nemici eran lontani; né a questa troppa sicurtà so dare altro nome che imprudentia o temerità? Guicciardini , presso a poco, dice lo stesso (2): Risedeva il peso del governo dell'esercito presso all'ammiraglio; il re, consumando la maggior parte del tempo in ozio o in piaceri vani, né ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui: vedendo ancora Anna di Memoransi, Filippo Ciaboto di Brione, persone al re grate, ma di picciola esperienza nella guerra: né corrispondeva il numero dell'esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello che ne credeva esso medesimo. Ho procurato d'indagare come mai il duca Francesco Sforza, principe che non mancava di valore, s'accontentasse di starsene quasi ozioso nel Cremonese, mentre si disponeva il gran fatto d'armi che doveva decidere del destino dello Stato suo. L'armata cesarea era comandata

(I) Lettere di Messer Bernardo Tasso. Venezia, presso Lorenzini da Turino, 1561, p. 4. (2) Lib. XV. dal vicerè di Napoli don Carlo Lanoia: ivi trovavasi il duca di Bourbon, ivi il famoso don Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, ivi il marchese del Vasto; ed il duca Sforza, che alla Bicocca e ad Abiategrasso aveva superati coraggiosamente i Francesi, ora erasi limitato a sgombrare il fiume Po da ogni comunicazione co' Francesi. Non mi è accaduto di trovare che alcuno degli scrittori avesse la medesima curiosità. Quindi o convien supporre che gl'Imperiali per gelosia e sospetto non lo bramassero, ovvero ch'egli non vedesse di sua convenienza il trovarsi in un'armata, nei suoi Stati, senza averne il comando, e senza nemmeno avere il titolo di generale al servigio di Cesare. Ai sovradetti indebolimenti dell'armata francese aggiungasi che Sant'Angelo sul Lambro era presidiato da ottocento Francesi, sotto il comando di Pirro Gonzaga. Oltre gli ottocento fanti vi erano collocati dugento cavalieri. Fu preso d'assalto; e il marchese di Pescara fu il secondo che ascese le mura, ed ebbe l'abito forato da due archibugiate; la guarnigione uscinne disarmata, coll'obbligo di non servire per un mese. Casal Maggiore era occupato da' Francesi sotto il comando di Giovanni Lodovico Pallavicino, che lo presidiava con duemila fanti e quattrocento cavalli. Alessandro Bentivoglio, alla testa di un corpo d'Italiani fece, con un fatto d'armi, prigioniero il Pallavicino, caduto da cavallo, e disperse affatto il presidio francese. Prima che si avanzasse l'armata cesarea a Pavia, conveniva, assicurarsi le spalle e non lasciar dietro i Francesi in que' due luoghi, d'onde difficoltavano le provisioni. Se i Francesi avessero avuta la stessa direzione, non si sarebbero inoltrati a Pavia, lasciando presidiata Alessandria da Gaspare del Maino, il quale, siccome ho accennato poc'anzi, batté e disarmò un corpo di due mila Francesi, che erano in marcia venendo dalla Francia per unirsi al re. A questi primi danni, cioè al distacco del Principe Stuardo di Scozia, spedito spedito verso Napoli, alla perdita de' due presidj di Sant'Angelo e Casal Maggiore, alla perdita di due mila sorpresi verso Alessandria, un nuovo accidente sventurato accadde al re e forse più gravoso, cioè che quattro mila soldati Grigioni, che erano al di lui stipendio, se ne partirono quasi improvvisamente. Giovanni Giacomo Medici, che s'era reso signore del castello di Musso, con insidie s'era altresì reso padrone di Chiavenna, città importante de' Grigioni. Per la qual cosa con lettere della loro Repubblica vennero immediatamente chiamati i Grigioni in soccorso della patria, sotto pena di infamia e di confisca. Così l'esercito francese si ridusse al numero quasi uguale al Cesareo. Il duca di Borbone e il marchese di Pescara ricevettero frattanto il rinforzo di otto mila Tedeschi. Fecero radunare le truppe che tenevano acquartierate in Cremona, Lodi ed altri luoghi; formarono un corpo di ventidue mila fanti, oltre i cavalli, e per Sant'Angelo marciarono a Pavia, e si collocarono vicini e di fronte al campo francese, cosicché le guardie avanzate nemiche si parlavano. Il Guicciardini (I) scrive che Pescara s'avviò per la battaglia sotto Pavia con settecento uomini d'arme, settecento cavalli leggieri, mille fanti italiani, e più di sedicimila tra Spagnuoli e Tedeschi. Ivi si mantennero per venti giorni, allarmando e inquietando i Francesi, ut primum metu ac sollicitudine vexarent, deinde cum vanum timorem consuetudine remisissent, securiores offenderent, ubi visum esset vero praelio lacessere. Così il Sepulveda (2). Il re Francesco stava ben munito nel suo campo, situato nel Barco, il quale, essendo cinto di mura, non dava accesso a' Cesarei, se non per alcune porte ben presidiate da' corpi avanzati francesi. Sperava il re che, stando a fare la guerra difensiva, e guadagnando tempo,

(I) Lib. XV. (2) Pag. 166. l'armata imperiale, mancante di stipendio e mal provveduta di tutto, dovesse sciogliersi da sé medesima. Infatti i comandanti cesarei temevano lo stesso, e perciò deliberarono di commettersi alla fortuna d'una battaglia . Allora i soldati erano mercenari e liberi. Nessun bottino potevano sperare i Francesi debellando i Cesariani, mancanti di tutto. Per lo contrario sommo profitto avevano in vista i Cesarei battendo i Francesi, il re, i principali signori del regno, tutti radunati con immense ricchezze e pompe, e ciò oltre il profitto del riscatto di sì illustri prigionieri. I Francesi avevano la presenza del loro re ad animarli, l'ambizione di segnalarsi sotto de' suoi sguardi, ma l'armata non era per la maggior parte di Francesi; v'erano Tedeschi, Svizzeri, Italiani, Spagnuoli, ed oltre a ciò, i più erano affatto mercenarj e gregarj. Perciò la condizione de' Cesarei era migliore d'assai. Il quartiere del re stava a Mirabello, delizia de' duchi di Milano. Il campo era cinto di terrapieno con fossa, fuori che da un lato, che si credeva bastantemente munito col muro del Barco. Il marchese di Pescara, che da ogni canto osservava la posizione del re, s'avvide che poco custodivano i Francesi quella parte che credevano più sicura pel riparo del muro. Se il muro si gettava a terra, il che non era difficile, era aperto l'adito ad impadronirsi di Mirabello. Aggiungasi che in Pavia mancava la polvere, e che perciò i Cesarei staccarono sessanta Cavalieri Spagnuoli; ciascuno de' quali portava all' arcione un sacchetto di polvere . Questi incamminatisi verso Pavia caduti in mezzo ai Francesi, dieder loro a credere d'essere del Sig. Gian Giacomo Medici; al che venne prestata fede , e così portarono quel soccorso a Pavia . Le truppe del Medici servivano la Francia come presentemente sarebbero le truppe leggieri d' Usseri, Croati , Ulani, Calmucchi, Cosacchi, e poco avvezze alla militare disciplina erano quasi sconosciute all' esercito, col quale guerreggiavano colle scorrerie piuttosto anzichè colla riunione in un corpo solo d'armata. Tutta via il Duca di Borbone e il Marchese di Pescara non avendo da Cesare ulteriori sussidj per pagare i soldati , furono costretti a determinarsi di avventurare la battaglia . Passarono di concerto col Leyva, e si fissò il giorno di S. Mattia 24. Febbrajo, giorno di gala per essere l' annivarsario della nascita di Carlo V. Frattanto negli otto precedenti giorni gl' Imperiali incessantemente, anche di notte , davano l'allarme ai Francesi, e col favore dello strepito di trombe e de' timpani si guadarono per qualche tratto le mura del Barco, sicchè alla minima scossa cadessero poi . In vista di ciò il Re tenne un consiglio, nel quale Luigi d' Ars, il Sanseverino, il Galiot de Genouillac, il Maresciallo di Chabannes, il Maresciallo di Foix , e il famoso la Tremouille opinarono che fosse da abbandonarsi Pavia e ritirarsi a Binasco ; ma prevalsero il Bonivet secondato dal Montmorenci , da S. Marsault, e da Brion , i quali adularono l' inclinazione del Re, che già aveva promulgato per l' Europa , che o prendeva Pavia, o vi periva. Il campo del Re era trincerato e ben collocato per la disesa , la sua rovina accade perchè i Francesi ne uscirono per attaccare il nemico inconsideratamente. Bonivet ebbe il comando di quella giornata . Il campo francese era postato in guisa, che impediva l' ingresso da ogni parte in Pavia, e comunicava col Barco di Mirabello. Il Duca d' Alençon col corpo di riserva era a Mirabello; la prima linea era comandata dal Maresciallo di Chabannes, il corpo di battaglia lo era dal Re; il campo dominava vantaggiosamente la campagna e comunicava col Barco. Il Marchese di Pescara si determinò di entrare pel Barco di Mirabello e di soccorrere Pavia con questa mira, che se i Francesi scendevano dal campo per difendere il Barco perdessero il vantaggio della loro posizione, ed egli desse loro battaglia ; se non dipartivansi, facil cosa era il superare il Duca d' Alençon , ed alla vista de' Francesi portare tutto il soccorso a Pavia . La notte del 23. al 24 febbraio, mentre s'avanzavano a Mirabello, gl'Imperiali fecero de' finti attacchi con molto fragore d'artiglieria, acciocché non si sentisse quanto accadeva a Mirabello. All'aurora si videro gli Spagnuoli entrati nel Barco per un'apertura assai larga, fatta la notte precedente con tal destrezza e silenzio, dice il Bugati (I), che appena da' nemici fu udito il rumore, e parte andarne a Mirabello per indi entrare in Pavia, parte girsene rettamente al campo Francese da quella banda, per cui esso comunicava col Barco. Il Re uscito iminantinente da' suoi trinceramenti entrò nel Barco. Già Don Alfonso d' Avalos Marchese del Vasto s' era impadronito di Mirabello. Un distaccamento de' suoi era già alle porte di Pavia; ma Brion distaccato dal Duca d' Alençon lo battè. Galiot de Genouillac, che s' era reso illustre nella battaglia di Marignano , profittò del momento, e collocò una poderosa artiglieria in quel vano delle mura del Barco per dove entravano gl' Imperiali , la quale talmente gli scompigliò che disordinatamente lì ricoverarono in un luogo basso per essere salvi da' colpi del cannone. Il Re invece di combattere contro del Marchese del Vasto per tal modo isolato, sconsigliatamente uscì dal vano per combattere, e lì diradò per la campagna con tutta la Gendarmeria ; così l'artiglieria del Genouillac dovette celiare per non offendere il suo Re. Gl' Imperiali s' avvidero dell' errore commesso dal Re. Il Duca di Borbone co' Lanschinetti, il Marchese di Pescara cogli Spagnuoli , il Vicerè Lanoia cogl' Italiani attorniarono il Re. Il Marchese del Vasto venne a prenderlo alle spalle. Il Leyva vigorosamente uscì da Pavia. Allora il Maresciallo di Chabannes accorse a soccorrere il Re, e se gli pose al fianco destro col corpo ch' egli comandava . Il Duca d' Alençon formò un' ala sinistra al Re . Fra il Re e Chabannes v' erano

(I) Stor. Univ. Lib. VI. pag. 778. le Bande Nere, cinque mila, tutte veterane tedesche, che avevano combattuto a Marignano. Il duca di Suffolk Rosabianca le comandava. Così fra il re e il duca di Alençon vi era un corpo di diecimila uomini svizzeri comandati dal colonnello Diespach. Un corpo di Lanschinetti, guidati dal duca di Bourbon, sconfisse totalmente le Bande Nere. Il conte di Vaudemont, il duca di Suffolk rimasero estinti sul campo. Borbone si rivolse poi contro il corpo di Chabannes, che rimaneva staccato. Il bravo Clermont d'Amboise cadde morto, e il maresciallo di Chabannes terminò di vivere nel modo seguente. Egli ebbe ucciso sotto di sé il cavallo. Vecchio com'era, cercò di combattere a piedi; ma Castaldo, luogotenente del Pescara, lo fece prigioniero. Castaldo conduceva in luogo sicuro il suo prigioniero; un capitano spagnuolo, per nome Buzarto, osservò Chabannes, il più bel vecchio del suo secolo, nobile, magnifico, e riconobbe che doveva essere un signore di distinzione, di cui diverrebbe lucrativo il riscatto; pretese di essere associato al Castaldo, che lo ricusò; e il Buzarto con una archibugiata gettò morto il maresciallo di Chabannes, dicendo: ebbene, non sarà dunque né mio né tuo (I). Così terminò i suoi giorni questo illustre francese, che s'era trovato a Fornovo nel 1495, ad Agnadello nel 1509, a Ravenna nel 1512, dove comandò, morto il duca di Nemours, a Marignano, alla Bicocca, ec. Egli aveva il soprannome di Gran Maresciallo di Francia. Il re faceva prodigj di valore, e si riconosceva da un manto di tela d'argento (cotte d'armes), e dal cimiero fregiato di copiose e lunghe piume. Di sua mano egli uccise Castriotto, marchese di Sant'Angelo, ultimo discendente degli antichi re d'Albania, che contava per suo

(I) Brantôme, hom. illust. art. La Palice. avo paterno Scanderbeg. Il re si batté lungamente con un gentiluomo della Franca Contea per nome Andelot, e lo ferì nella faccia. Il marchese di Pescara con mille e cinquecento archibugieri Baschi venne a cadere sulla gendarmeria del re. Costoro, scaricato l'archibugio, con mirabile disinvoltura si nascondevano, caricavano, e ritornavano a ferire. Il re per coglierli, dilatò i suoi gendarmi; e gli archibugieri, penetrati e sparsi per entro, in meno d'un'ora rovinarono il corpo invincibile della gendarmeria francese. La Tremouille cadde ferito nel cranio e nel cuore. Il gran scudiere Sanseverino cadde moribondo. Guglielmo di Bellai Langei, vedendolo cadere, scese da cavallo per dargli soccorso: non ho più bisogno d'alcun soccorso, disse il moribondo, pensate al re, e lasciatemi morire. Luigi d'Ars, il conte di Tournon caddero morti. Il conte di Tonnerre appena poté essere riconosciuto fra i morti, tante erano le ferite della sua faccia! Il barone di Trans stavasene all'ala sinistra sotto il comando del duca d'Alençon, assai malcontento di dover trovarsi nella inazione. Il figlio suo unico era nel corpo del re, e, dopo d'aver combattuto ed esaurite le sue forze, si ritirò presso del padre. Il barone di Trans gli chiese dove fosse il re: Nol so, rispose ansante e grondante di sudore il figlio: Va, e sappilo, disse il padre severamente, arrossici di non lo sapere. Il figlio Trans s'ingolfa fra i combattenti, s'accosta al re, e per un colpo d'archibugio cade a' suoi piedi. Racconta Sepulveda (I) che il duca Carlo d'Alençon primo principe del sangue, in vece di porgere soccorso al re, si ritirò colla sua ala di cinquecento cavalieri , e fu il primo a vituperosamente fuggire (2). Tagliò il ponte di legno che poco di sotto a Pavia era fabbricato, acciocché non l'inseguissero i Cesarei. Perciò molti Francesi

(I) Pag. 158. (2) Tegio. pag. 64. ivi giunti sulla speranza di passarvi sicuri all'altra sponda, dovettero avventurarsi ai gorgolj del fiume e sommergervisi; poi v'erano a forza spinti dai fuggitivi, che colla fiducia stessa correvano sulle loro tracce, e vi si affogavano (I). Gli Svizzeri, vedendo scoperto il loro fianco sinistro per la ritirata del duca, e credendosi a tradimento sacrificati all'odio dei Tedeschi di Frandsperg e Sith, che marciavano loro incontro, non vi fu più modo di tenerli. Diespach disperatamente si scagliò solo a farsi uccidere dai soldati di Frandsperg. Abbandonato il re a pochi, perirono intorno di lui il maresciallo di Chaumont, d'Amboise, Estore di Bourbon, visconte di Lavedan, Francesco conte di Lambec fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, ed una moltitudine di cavalieri. Il Bastardo di Savoia Gran Maestro di Francia, vi morì. Il maresciallo di Foix, col braccio fracassato e mortalmente ferito galoppava furiosamente per rinvenire l'ammiraglio Bonivet, al quale attribuiva il disastro, per traforarlo col braccio che gli rimaneva, e morire contento d'aver vendicato la Francia; ma perdette tanto sangue, che cadde, e fu portato a Pavia, dove morì nella casa della contessa di Scaldasole. Bonivet, vedendo perduta ogni speranza, si scagliò quasi inerme fra i Lanschinetti del duca di Borbone, e si fece uccidere. Il duca di Borbone bramava di far prigioniere Bonivet, e vedendolo steso morto esclamò: Ah misero, tu sei cagione della rovina della Francia e della mia!

(I) Bugati Lib. VI, pag. 779. dice che questa precipitosa e, intempestiva fuga del d'Alençon fu non solo vergognosa, ma di più maliziosa, aspirando egli d'esser Re, morto che fosse il Re Francesco; che giunto di lungo in Francia, convinto di malvagio animo contro il suo re, gli fu poi tagliata la testa. Il che è dimostrato falso dai Maurini: Art de vèrifier les dates, p. 573, i quali scrivono che nel tempo della prigionia del re Francesco I il conte d'Alençon, Carlo Borbone, avo di Enrico IV, fu capo del Consiglio di Reggenza nella Francia. Finalmente la presa del Re Francesco Primo, fra i varj modi, co' quali è descritta dagli Autori, sembrami essenzialmente poterli esporre, e circoistanziare così. Il Re tenuto sempre di vista onde farlo prigione, rimase solo in faccia de' nemici, avendo un parapetto di morti avanti di se. Raggiunto in un prato paludoso da un colpo di fucile gli cadde finalmente sotto il cavallo. Egli aveva due ferite in una gamba. Caduto che fu, venne attorniato da un nembo di soldati. Scrive il Grumello (I) , che Tedeschi e Spagnuoli se lo disputavano. Il Re ferito come era anche in fronte, combattendo a piedi uccise due nemici. Gli gridavano gl' Imperiali di arrendersi; ma egli voleva anzi perire. Fu spoglhato delle collane, e di quanto aveva di prezioso, abbenchè inutilmente andasse dicendo: Je sua le Roi, prossiegue Grumello. Un gentiluomo Francese, chiamato Pomperant, che aveva accompagnato il Duca di Borbone nella sua fuga da Francia, fece allontanare i Soldati Imperiali, ed umilmente accostatosi al Re, se gli gettò a' piedi scongiurandolo di non ostinarsi, e di sottrarti ad una morte sicura, cedendo al destino che non secondava il valor suo. Gli propose di rendersi al Duca di Borborne. Il Re chiese del Lanoia Vicerè di Napoli. Pomperant lo rese tosto avvisato e comparve. Il Re gli consegnò la spada, dicendogli in italiano : Signore eccovi la spada di un Re, che merita d' esser lodato, perchè prima di perderla ha sparso con lei il sangue di molti de' vostri, e che non è prigioniere per viltà sua , ma per isfortuna . Lanoia la ricevette rispettosamente in ginocchio bacciandogli la mano; poi trasse la sua e presentandogliela : Io prego, disse , Vostra Maestà di ricevere la mia, che ha risparmiato il sangue di molti de' suoi. Non è conveniente ad un Ufficiale dell' Imperatore di lasciare un Re disarmato, quantunque prigioniero.

(I) Fogl. 142 tergo, e 143. Se tardava Lanoia (I) correva pericolo il Re di essere fatto in pezzi; tanta era la voglia che ciascuno aveva di possedere un tal prigioniere, e vantarsi dell' impresa. La sopravveste del Re fu da essì squarciata in cento parti, e i pennacchi dell' elmetto Reale furono spaccati in minimi frammenti, gloriandosi ciascuno di portare una memoria di così illustre presa. Tutta questa insìgne vittoria accaduta il giorno di S. Mattia 24. di Febbraro del 1515., e non il giorno 14. secondo Burigozzo (2) non durò due ore. Il Verri nella descrizione di questo fatto continua in tal modo : Fu ancora nella sopradetta battaglia fatto prigioniere il Re di Navarra , e quello fu condotto nel Castello della Città di Pavia e gli fu fatto grandissimo onore e pregio, come meritava.

Il Re di Scozia (3) che alla medesima battaglia era , vedendo il gran pericolo se ne fuggì non so come ; ed essendo già lontano dalla Città di Pavia circa otto , ovvero dieci miglia ritrovò un molinaro, al quale benchè esso Re si desse a conoscere, promettendogli larghissimi doni , se lo salvava; niente di meno non curandosi di sua dignità, nè appena ascoltandolo, lo uccisè villanamente ; del che poi n'ebbe debito castigo , perciocchè risapendosi l'iniquo suo fatto fu impiccato , e appresso a quello altri ancora di sua casa . Rimasero estinti in quella memorabil giornata circa undici mila del Corpo Francese, e fra questi si annoverano l'Ammiraglio di Francia Bonivet, Jacopo di Chabannes Gran Maestro del Campo , Lodovico Tremoglia, il Grande Scudiere Galeazzo Sanseverino, il P,alissa, l' Aubignj, ed altri Personaggi del primo ordine, specificando il Verri, che alcuni de'Signori principali rimasti sul campo vennero tumulati con pompa in S. Agostino, ed altri trasportari nella Francia. I feriti e prigionieri furono il Re di Francia, Enrico d'Albret Re

(I) Tegio. (2) Fogl. 23. tergo. (3) O successore del regno di Scozia, come vuole il Bugati, detto Amilton secondo il Tegio. di Navarra, il gran Bastardo di Savoia, il principe di Lorena, l'Ambricourt, Bonavalle, San Polo, Galeazzo e Bernabò Visconti, Federico Gonzaga da Bozzolo con Girolamo Aleandro vescovo di Brindisi e nunzio del papa, e varj altri signori, de' quali tutti fa più diffusa menzione il Bugati (I). Assicurata che fu la persona del Re Cristianissimo, mostrò egli ribrezzo di essere condotto prigioniere a Pavia; ed il Viceré D. Carlo Lanoia lo scortò nel suo campo, dove medicate le ferite scrisse alla Duchessa d' Angouleme sua madre quella breve e terribile lettera: Signora tutto è perduto fuor che l'onore (2). I Generali Imperiali a gara facevano la loro corte al Re, che ammise anche il Duca di Borbone e lo accolse come un Principe del suo sangue quale era. Il Marchese di Pescara appena ristabilito dalle ferite si presentò al Re a differenza degli altri con abito semplice e senza pompa; egli vi unì pure maniere semplici, e piacque al Re sopra di ogni altro. Indi il Re, dice il Tegio, con molto rispetto su condotto in S. Paolo, ove il duca di Borbone gli presentò magnifiche vesti, dopo essersi disarmato, ed al pranzo il viceré lo servì, presentandogli il catino da lavar le mani; il marchese del Vasto versò l'acqua, il duca di Borbone lo sciugatojo. Il Borbone lasciava cader le lagrime, mirando prigioniero il re. La sera il re volle che Lanoia e Vasto cenassero seco. Pescara venne ad ossequiarlo. Gli si concessero i suoi paggi, si ricuperarono abiti, camiscie e molte cose rappresagliate, che i soldati medesimi generosamente presentarono, e fra queste una coppa d'oro, in cui soleva bere il re, ed una croce di oro che papa Leone gli aveva posta al collo in Bologna, e così venne nobilissimamente trattato come se fosse stato non che libero, ma nella stessa sua

(I) Lib. VI, p. 779. (2) Vedi l'Ab. di Condillac : Saggio ec. sua reggia . Tre giorni stette nel monastero di San Paolo il prigioniero Francesco Primo; indi il 28. di febbrajo, fu condotto nella fortezza di Pizzighettone, e collocato nella Rocchetta col gran maestro di Francia, il duca di Montmorenci, ove dimorò sino al 18. maggio come vedremo. Così il Grumello (I), il quale aggiugne che ne' giorni che ivi stette, sintanto che venissero da Spagna gli ordini, il re giuocava a varii giochi et maxime al ballono. Il Muratori, ne' suoi Annali, ne accerta altresì che al re Francesco furono accordati per sua compagnia venti de' suoi più cari, scelti da lui tra quelli ch'erano rimasti prigionieri (2), e il Guicciardini (3) attesta, che il Re in Pizzighettone dalla libertà in fuori, che era guardato con somma diligenza, era in tutte le altre cose trattato e onorato come Re . Una vittoria così compita, con tanta strage dell'esercito francese, e poca perdita degl'Imperiali, (allegandone gli autori chi settecento persone, chi mille, o tutto al più due mila con due soli capitani di conto, cioè Don Ugo di Cadorna, e Ferrante Castriota Marchese di Sant' Angelo), è troppo naturale che producesse quanto afferma il Bugati (4), vale a dire che tutto il campo francese restasse in preda de' soldati, et più de gli Spagnuoli, per cotal vittoria fatti sì ricchi et sì insolenti, quanto altra fiera milizia che più fosse in Italia, minacciando apertamente di cacciar di Stato il duca di Milano, se presto non gli soddisfaceva di quante paghe dovevano avere, e che i Francesi abbandonassero Milano in un momento. Anzi v'è chi scrisse che il grido di questa vittoria fu tale, che nel giorno medesimo restò libera dai Francesi, non solo la città, ma tutto il ducato. Giunta a Madrid la gran nuova della presa del re cristianissimo e della disfatta terribile del


(I) Fogl. 143, tergo. (2) All'anno 1525.pag. 211. (3) Lib. XV. (4) Lib. VI, p. 779. suo esercito, il re augusto Carlo V non permise che si facesse pubblica allegrezza, ed ei medesimo seppe contenersi a segno, che meritò l'ammirazione nullam ex more gratulationem publice fieri passus est, nec ipse laetitia exultavit, sed gaudium moderate pro sua gravitate tulit (I). Il Tegio per fine inserisce la traduzione della lettera che la reggente Luisa, madre del re, scrisse a Carlo V in quella occasione, ed è come segue: A monsignor mio buon figlio l'imperatore Carlo = Monsignore mio buon figlio, dopo che io ho udito e saputo da questo gentiluomo presente, portatore di questa mia, la fortuna la quale è occorsa a monsignore il re mio figlio, io rendo grazie a Dio di questo ch'egli sia capitato nelle mani di quel principe del mondo che io più amo, sperando che la imperiale Maestà vostra ne debba tenere quel buon conto per lo mezzo del sangue, confederazione e lignaggio il qual è tra voi e lui, et in caso che questo avvenga (come io tengo per certo) ne seguirà un gran bene et universale a tutta la cristianità, dall'amicizia e riunione di voi due; e perciò, mio signore e figlio, io vi supplico che lo abbiate per raccomandato, e che in questo mentre comandiate ch'egli sia ben trattato come il grado vostro e suo lo richiede, e commettiate che egli sia servito in tal maniera ch'io possa spesso intendere del suo ben stare e della sua sanità, e così facendo, voi vi obbligherete una madre, la quale d'ogni ora voi avete così nomata, et ancora vi prego che ora voi vi mostriate padre per affezione, come io a voi madre per dilezione. Da San Giusto in Lione, il 3. giorno di marzo 1525. = La vostra humil madre Lovisa. Rimane per ultimo a compimento del presente punto di storia, che io accenni come fra i prigionieri fatti in questa battaglia di Pavia, il principe di Bozzolo Federico Gonzaga, corrotte le guardie, si pose in salv; il conte di San Paul, principe del sangue, creduto morto, venne mutilato

(I) Sepulveda, p. 171. da un soldato imperiale col taglio di un dito per levargli un annello, il dolore gli fece dar segni di vita, e poté palesare al soldato chi egli era, il quale per godere solo del prezzo del riscatto lo custodì incognito, lo guarì dalle sue ferite, e l'accompagnò in Francia. Ed' Enrico d' Albret Re di Navarra, racconta il Grumello (I) , che comprata la libertà dai Militi Cesariani del Marchese di Pescara per scudi sette mila, fuggì dal Castello di Pavia col mezzo delle scale di corda, appostategli dai Signori Ascanio e Paolo fratelli Lonate gentiluomini Pavesi, e fu da essi scortato con cavalli e servi fino in Francia, perdendo questi la Patria , e ricevendo dal Re un ampio compenso, onde nobilmente vivere. Tanta felicità delle armi cesaree eccitò ben presto negli animi di quasi tutti i principi d'Italia un ragionevole timore d'essere l'uno dopo l'altro oppressi e soggiogati dal vicino esercito; ond'è che, dopo varii ripieghi, specialmente progettati tra Clemente VII ed i Veneziani, stimò più opportuno il pontefice di stabilire una concordia cogli Imperiali per mezzo di Gian Bartolomeo da Gattinara, ministro di Cesare in Roma, restando conchiuso quest'accordo, il primo di aprile 1525., pubblicato poi nel dì dieci di maggio dello stesso anno. Le condizioni principali di questo trattato, nel quale fu compreso Francesco Sforza qual duca di Milano, furono la scambievole difesa del ducato di Milano e degli Stati pontificii, compresa Fiorenza coi Medici che vi dominavano, e la contribuzione di centomila ducati da darsi dai Fiorentini, con che le truppe cesaree partissero dai quartieri occupati nelle terre di Parma e Piacenza. I Veneziani, a' quali era stato lasciato il luogo d'entrarvi, intese le mire del re inglese di collegarsi colla regina, madre del re prigioniero, sospesero

(I) fogl. 142 e 143. sospesero di determinarsi ad alcun partito. Frattanto gli insorti lampi di speranza per la tranquillità dell'Italia lasciavano luogo a qualche angustia d'animo sulla sicurezza del re Francesco in Pizzighettone. Infatti il Lanoia ragionevolmente sospettava che il re da Pizzighettone non venisse o tolto per subordinazione di qualche generale, o per tumulto de' soldati, mal pagati e vinti dalla umanità del re, o per effetto di qualche unione de' principi italiani, e singolarmente dello Sforza, il quale poteva acquistarsi un sicuro godimento dello Stato col liberare Francesco Primo, o coll'opera del duca di Borbone, che potevasi riconciliare con tale beneficio. Forse questi sospetti del viceré Lanoia accelerarono nell'animo di Carlo V la risoluzione di volere al più presto in Ispagna tradotto il re prigioniero. Lannoia vedendo il re impaziente della sua liberazione, colse l'opportunità di persuadergli che in un'ora di colloquio coll'imperatore si sarebbe terminato ciò che portava degli anni, trattato che fosse ministerialmente. Quindi fecegli desiderare di andare in Ispagna. Tutto fu segretamente concertato, fingendosi di condurlo a Napoli per custodia più sicura. Venne destinato a scortare il re in Ispagna, a preferenza del marchese di Pescara, a cui dovevasi la insigne vittoria di Pavia. Preferenza ingiuriosa, e che perciò produsse nel Pescara una palese malcontentezza di Cesare, ed un'inimicizia aperta col Lanoia, da cui poscia derivarono gravi conseguenze, come vedremo. Pertanto, sul fine di maggio, scrive il Muratori (I), scortato esso re da trecento Lancie e da quattromila fanti spagnuoli, fu menato a Genova, dove, imbarcatosi con dieci galee genovesi ed altretante franzesi, ma armate dagl'imperiali, in compagnia del viceré Lanoia, arrivò poscia a Madrid. Veramente gli altri scrittori di questo punto d'Istoria concordemente col Guicciardini asseriscono

(I) Ann. d'Ital. Tom. XIV, p. 212. asseriscono, che giunto il Re nella Spagna fu condotto nella fortezza di Xsciativa nel regno di Valenza, dove i re di Arragona anticamente custodivano i rei di Stato. Il capitano Alarçon fu assegnato custode del re, da quando, prigioniero, fu tradotto a Pizzighettone, fino al termine del suo destino in Madrid. La permanenza del re in Pizzighettone fu di settantanove giorni, quanti se ne contano dal giorno 28. febbrajo sino al 18. maggio, in cui accadde il suo trasporto in Ispagna, al riferire di Grumello (I). Preso che fu il Re di Francia, e tradotto a Madrid, il papa Clemente VII cominciò a temere che Carlo V, coll'occasione di venire ad essere incoronato, non s'impadronisse della Romagna, e fors'anco della stessa Roma, facendo rivivere le antiche pretensioni; il che non poteva avere ostacolo, singolarmente colla dominazione che avea del regno di Napoli. Il papa anche temeva per Firenze, la quale era già divenuta una signoria della casa Medici. I Veneziani erano pure atterriti da una tanto prevalente grandezza dell'imperatore, avvisando non senza ragione, ch'ei non procacciasse di rivendicare le città della terra ferma, altre volte costituenti parte del ducato milanese. In queste circostanze, era in Roma ambasciatore di Francia Alberto Pio conte di Carpi, signore di nascita illustre, al quale i Cesarei avevano usurpato la contea: uomo di molta sagacità ed eloquenza, e versato ne' politici affari. Questi, con intelligenza della duchessa d'Angoulême, madre del re prigioniero, gettò i primi fondamenti d'una lega, onde opporsi alla dominazione dell'imperatore nell'Italia. Tutto si maneggiò segretamente. Il papa, ed i Veneziani non bastando, si tentò di far entrare nella lega il re d'Inghilterra Arrigo VIII. Gl'interessi del re sarebbero stati quelli di unirsi anzi con Carlo V, e, mentre era il re di Francia di lui prigioniero,

(I) Fogl. 143. tergo. prigioniero, smembrare la Francia, togliendone la Provenza in favore del duca di Borbone, e la Brettagna ed altri Stati pretesi dalla corona d'Inghilterra, invadendoli contemporaneamente Arrigo stesso. Così veniva depressa per sempre la potenza dei rivali francesi, ed assicurato il dominio dell'Italia a Cesare. Ma le pubbliche mire cedettero anche allora, come suole comunemente accadere, alle passioni personali. Era il re Enrico VIII, sdegnato contro di Cesare, perché, avendo Carlo V sposata d'anni sette la principessa Maria d'Inghilterra sua figlia, non la volle da poi per moglie, preferendole Isabella, figlia del re di Portogallo, e, come dice Sepulveda (I) Propter iniuriam neglectae filiae, quam Carolo citra legittimam et maturam aetatem cum spopondisset, non ille quidem neglexit, sed justis de causis Isabellae, Portugalliae regis Emmanuelis filiae, posthabuit . Quindi è, che Arrigo s'unì col papa, co' Veneziani, co' Francesi per far argine alla troppo estesa potenza dell'imperatore. Fattasi la lega, che si volle abusivamente chiamare Santa, per esservi alla testa il papa, cominciò questa col dare al re prigioniero consiglj veramente detestabili, benché in apparenza utili per quel momento: Nullam fidem (2), nullum jusjurandum, nullos obsides dare recuset, modo se vindicet in libertatem; facile enim fore jurisjurandi veniam a pontifice maximo, principe conspirationis, qui hanc ipsam veniam ultro deferat, impetrare. Così il succennato Sepulveda. Ma Iddio confonde i divisamenti degli uomini, allorchè essi s' appigliano a perversi ripieghi, onde rilevar il loro stato vacillante, coll' abuso delle cose sacre, e specialmente dei giuramenti. Hassene più di un esempio nella Storia; ed notabilissimo al nostro caso quello che viene registrato dal Continuatore del Fleury, cioè del Cardinale Giuliano Cesarini, e di Ladislao Re di Ungheria nella guerra contra Amuratte GranSultano


(I) Pag. 174., e 210. (2) Sepulveda, p. 175. sultano. Fu pena dello spergiuro la rovina dell'Esercito Cristiano, come la fu quella de' Collegati contra carlo V., siccome vedremo. Carlo Quinto venne in chiaro della lega, per avere i Collegati tentato di trarre dal loro partito Fernando d'Avalos marchese di Pescara, vincitore del re Francesco, il quale a que' tempi era mal contento dell'imperatore, appunto per aver confidata lo Imperatore stesso al Lanoia la custodia e la trasmissione a Madrid del re di Francia. Anzi si era fatto credere al Pescara, che da Genova il re si dovesse trasportare a Napoli; né egli seppe il destino del re, se non quando lo seppe ognuno. Questa diffidenza e questa ingratitudine di Carlo V, avevano lacerato l'animo sensibile del marchese di Pescara. Il marchese era Italiano; e la nazional diffidenza tra Spagnuoli ed Italiani fu la cagione di un inopportuno ed ingiurioso mistero. Perciò Girolamo Morone, che era l'intimo consigliere del nostro duca, uomo di molta eloquenza, dignità e dottrina (I), fu dai Collegati incaricato ad intavolare un discorso col marchese di Pescara. Sepulveda ne riferisce il transunto (2). Ricordò il Morone al Pescara, che

(I) Guicciard. Lib. XVI, fogl. 473. tergo. (2) Pag. 177. Sibi esse in animo, si qua ratione iniri possit, Italiam a crudeli dominatu et intolerabili avaritia Barbarorum in libertatem asserere; de quorum in Italos animo, fideique eorum in se opinione, si non aliunde Marchio didicisset, tamen domestico, suoque exemplo potuisse nuper edoceri, cum de transvehendo in Hispaniam Gallorum Rege tam diligenter fuisset a Carolo Caesare celatus, propter suspectam ipsius, ut caeterorum Italorum, fidem. Qua Barbarorum suspcione Itali, si qua ratio dignitatis haberetur, satis sui officii admoneri possent; nam cui dubium esse suspicionem illam ex timore barbarorum ortam, ne Itali resipiscant aliquando, et vires suas orbi reliquo, adsit modo concordia, non tolerandas agnoscont, et memores veteris majorum gloriae, unanimes ad arma concurrant, et Italiam, ab ipsis Barbaris servitute oppressam, vindicent in libertatem. a gran proposito era l'occasione; che tutti i principi italiani erano pronti a far causa comune per la patria; che altro non mancava se non un capitano d'animo, di cuore, di sperienza, di celebrità, degno d'essere posto alla testa di un'armata; che il marchese di Pescara era quegli che ciascuno eleggeva; che il servigio ch'egli avrebbe reso all'Italia, oltre la gloria, non sarebbe stato senza degna mercede, poiché, scacciati i barbari, né rimanendo più alcun dominio straniero in Italia, ed assicurato Francesco Sforza e stabilito libero duca di Milano, il premio dell'invitto marchese sarebbe stato il possedimento del regno di Napoli: : Praemium suae virtutis, consensu Italiae, regnum Neapolitanum accepturus (I). Non è dubbio, prossiegue il Guicciardini (2), che tali consiglj sarebbero facilmente succeduti, se il marchese di Pescara fosse in questa congiunzione contro Cesare proceduto sinceramente. Il marchese di Pescara ascoltò la proposizione con apparente favore; soltanto mostrò d'avere avanti gli occhi la fortuna e la potenza di Carlo V, e le difficoltà da superarsi. Si protestò interessatissimo per la salute della patria. Per lo che il Morone gli svelò il piano della lega già fatta fra il papa, i Veneti, i Fiorentini, lo Sforza, il re Arrigo d'Inghilterra ed il regno di Francia. Il Pescara destinò di tenerne più comodamente discorso in un luogo più acconcio, attesoché questo primo cenno se gli era dato sulla spianata del castello di Milano. Il Duca Francesco vedendo vessati soprammodo i suoi Sudditi dall' Esercito Cesareo, fece un accordo col Marchese di Pescara di pagargli cento mila scudi con questoo, che prendesse egli la cura di stipendiare, e di provedere

(I) Sepulveda, pag. 178. Notisi che il Pescara era Italiano bensì, ma la casa d'Avalos, originaria di Catalogna era spagnuola, stabilita in Napoli dagli avi suoi sotto Alfonso il Magnanimo, al principio del secolo XV. L'Edit. (2) Lib. XVI, p. 447. l' Armata. Girolamo Morone era Gran Cancelliere del Duca, aveva avuta parte principale negli avvenimenti ancora delle armi. Il Pescara aveva deliberato di far prigione il Morone. il motivo non lo dice il Grumello; inclina però il Gaillard (I) a credere, che diffidando egli di un'impresa dipendente da tanti interessi combinati, e facili a sciogliersi, concepisse il piano di comparire fedele all' Imperatore, ed ottenere in premio il Ducato di Milano, col pretesto della fellonìa di Francesco Sforza. In questo mentre si ammalò il marchese in Novara, e chiamò a sé il Morone, nella persona del quale si può dire che consistesse l'importanza di ogni cosa, dice il Guicciardini (2). Sebbene il Morone diffidasse del Pescara, di cui aveva detto al Guicciardini non essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minor fede del marchese di Pescara; pure lusingato dalle apparenza dell'amicizia e dalle assicurazioni, che insidiosamente allora gli scrisse in una lettera il Pescara, Morone andò a trovarlo, e cavalcò a Novara il giorno 14. di ottobre 1525., in compagnia di Antonio de Layva. Ebbe però la precauzione di volerne preventivamente un salvo condotto. Poi il Morone credendosi solo col Marchese, venne destramente indotto a parlare de'consaputi progetti, e della distruzione delle forze Cesaree, intantochè Antonio de Leyva udiva il tutto, nascosto com' era dietro un panno di arazzo. In tal guisa Carlo V. fu informato d' ogni cosa. Veramente quì il Pescara disonorò se stesso, usando l' industria d' uno sgherro , anzichè mostrare animo nobile e franco di prode Capitano. A proposìzioni di cotal fatta o non si dà luogo onninamente ; o fatte si accertano; o dispiacendo la lealtà e la buona fede vogliono che diasi avvito di abbandonare il progetto, o di doverlo altrimenti palesare. Carlo V. non ebbe torto diffidando del Pescara. Chi non abborrisce l' usare siffatti modi indegni e villani,

(I) Tom. III, p. 319. (2) Lib. XVI, p. 476. tergo. mostra di di essere facile a mancar di fede. Congedatosi quindi il Morone dal Pescara, mentre salutava il Leyva nell'anticamera per ritornartene a Milano, quelli gli disse in ispagnuolo : venite seco noi a casa, ed il Morone ringraziandolo, e seguendo le mosse, Antonio da Leyva ripigliò: voi ci verrete essendo prigoniero dell'Imperatore. Così mancò la fede del salvo condotto, conchiude il Grumello. A tal nuova, che eccitò una sorpresa universale ne' Milanesi, il Duca Francesco Sforza spedì a Novara Jacopo Filippo Sacco Alessandrino celebre Giureconsulto , ed eletto dappoi Presidente del Senato, per ottenere la libertà del suo Grancancelliere, ch' egli dichiarava innocente verso l' Imperatore ; ma il Marchese di Pescara fieramente rispose : che Morone era reo, e reo lo era non meno di Lui Francesco Sforza. Datosi principio agli esami, nei quali lo Storico Sepulveda dice, che per via di tormenti si venne in chiaro di ogni disegno de' Congiurati (I) ; e poscia da Novara tradotto il Morone a Pavia; quivi in presenza del Pescara e del Leyva furono compiti i processi; la risultanza de' quali fu, che il Morone fosse condannato a perdere la testa . Degna in vero è da leggersi la forte e solidissima Apologia, che pubblicò il Morone per sua discolpa . In vista della quale per avventura il Marchese di Pescara nel Dicembre del 1525. venuto a morte in età di 36. anni, ordinò nel suo Testamento all' erede Marchese del Vasto, che intercedesse presso Carlo V. per la liberazione del Morone . Ma il buon volere del Pescara , ed i buoni uffizj del Marchese del Vasto poco avrebbero giovato a scampare il Morone dalla morte, a cui era stato in Pavia condannato, se, come altri pensarono, il Duca di Borbone ad effetto di smungere dal Moroni una gran somma di danaro, non avesse ordita tutta cotesta trama. E in fatti il Duca stesso offrì al Morone la vita e la libertà in

(I) Intentatis tormentis, conjuratorum consilia plenius et apertius indicata. Sepulveda pag. 182. appresso mercè il pagamento di venti mila ducati. L' irregolarità di questo giudizio , e l' ingiusta proposta fecero credere al Morone una finzione in tutto il fin qui esposto affare; ma sentendo che erasi già eretto il palco per la esecuzione della capitale sentenza contro di lui, paga la somma richiesta, e fu tradotto da Pavia a Trezzo, poi da Trezzo a Monza, secondo il Guicciardini, indi il primo del 1527. messo in piena libertà dal suddetto Duca di Borbone, atteso, diceva egli, il meritoo grande che s' era fatto con ragguardevole sborfo di danaro in soccorso dell' Esercito Cesareo, ridotto ad estrema necessità. La Carica però di Gran-cancelliere venne trasferita nel Conte di Landriano, Francesco Taverna. Questa pericolosissima sciagura del Morone ebbe la origine sua dalla investitura del Ducato di Milano in favore di Francesco Sforza, già segnata da Carlo V. il giorno 30. Ottobre dei 1524. con sì dure condizioni, che equivalevano ad una ripulsa. Imperocchè la somma del danaro imposta da Cesare al Duca Francesco in compenso delle spese nel difendere lo Stato di Milano dalla irruzione dei Francesi, si fa ascendere dal Guicciardini (I) ad un milione e ducento mila Ducati d'oro, da pagarsi in diverse rate prescritte : pagamento impossibile dopo tanta desolazione di quello Stato, soggiugne il Muratori ne' suoi Annali (2), che così continua: faceano compassione anche i Popoli, perchè non poteano più reggere agli aggravj ed all' insolenza de gli Spagnuoli. Costretto infatti il Duca Francesco ad imporre notabili aggravj a' suoi Sudditi, esprimne, e giustifica in un suo Editto le proprie dolorose circostanze in questii termini (3); Franciscus Secundus Sfortia Vicecomes, Dux Mediolani, etc. Posteaquam Divina Clementia, et sacratissimi Caroli Caesaris auxilium ad avitum paternumque Mediolanense restituti fuimus Imperium, tanta nos temporum calamitas et

(I) Lib. XVI. pag. 473. tergo. (2) All'anno 1525. (3) MS. Belgiojoso. Miscellanea Vol. I. Num. 4. bellorum vis undique afflixit, ut difficile hactenus dijudicare possimus plus ne felicitatis in adipiscendo Statu, an eo jam adepto miseriae simus assecuti. Nam post Status recuperationem singulis annis renovato ab hostibus nostris bello, et quidem semper graviori atque acerbiori, perturbati adeo et vexati sumus, ut de nostra ac subditorum salute saepe numero fuerit pene desperatum; et ne ullum nobis respirandi tempus reliqueretur, accessit pestis post hominum memoriam saevissima etc. E sebbene al Duca Francesco fosse già stato conceduto il possesso delle Città, e delle Piazze dello Stato, come prima furono ritolte ai Francesi, ad ogni modo però riacuistò piuttosto il nome che l'autorità di Principe, essendo questa esercitata dai Ministri Cesarei, che tenevano nelle loro mani la forza (I). Ora tornando al filo principale della nostra Storia, donde ci ha per un poco dilungati il benemerito della Patria nostra Grancancelliere Morone; la somma di queste disavventure, ed oppressioni dei Duca Francesco si fu, che giovandosi il Marchese di Pescara ed Antonio de Leyva dei progetti manifestati da Girolamo Morone, pretese il Leyva che Francesco Sforza da Cesare ajutato con danaro e soldati a ricuperar la perduta Signoria di Milano, fosse divenuto reo di fellonìa, coll'aver macchinato di scacciare i Cesariani dall Italia, e che il Morone fosse stato il mediatore di questo trattato. Quindi in un congresso tenuto in Pavia, sentenziato di fellonìa il Duca Sforza, fu dichiarato Sovrano del Milanese l' Imperatore Carlo V. In sequela della qual dichiarazione il Marchese di Pescara fece domandare allo Sforza il Castello di Milano, di Cremona, ed altri presidiati dal Duca. Appena cominciava il povero Duca a riaversi da una malattia mortale quando gli venne fatta sì terribile intimazione dall' Abate di Nazzaro. Ricusò egli di date al Pescara i due nominati castelli; bensì accordò gli altri,

(I) Gaillard Tom. III, pag. 299. e disse , che se all' Imperatore così piaceva per giuste ragioni, che non solamente i Castelli, ma lo Stato eziandio e la vita gli avrebbe data: Lui essere sempre stato, ed attualmente essere innocente e fedele a Cesare, e sperare che tale sarebbesi fatto ad essolui conoscere. Si lagnò del suo destino, che sin dalle fasce lo avea sbandino dalla Patria, colla prigionia e rovina del Padre. Poscia, ricuperato appena lo Stato nella sua adolescenza, il Re di Francia ne lo aveva balzato. Finalmente, fatto prigione esso Re, mentre lusingavasi di veder pacifici i sudditi suoi, e ristorati dai sofferti lunghi danni, mentre credevasi tranquillo, eccoti una mortal malattia, eccoti una calunnia atroce , onde perderlo in tutto. Il Marchese di Pescara volle entrare in Milano. Lo Sforza chiedeva soltanto che si aspettasse il riscontro di Sua Maestà Cesarea ; che se quella comandava che Egli fosse privato dello Stato, era pronto a tutto cedere. Ciò non ostante non volle aspettare il Pescara; anzi dispose il blocco del Castello, dove abitava Francesco Sforza . Così Grumello ne assicura del fin quì detto. Abbiamo inoltre dal Burigozzo che questo blocco cominciò al 12. Novembre del 1525., e Grumello prossiegue a dirci che il Duca assèdiato nel Castello di Milano faceva spesse sortite ccn grave danno de' Cesariani; mentovando un curioso cambio di Prigionieri col rimettersi dal Duca liberi cinquanta Lanschinetti incontro a ciaquanta vitelli. In quelle turbolenze, e desolazioni dello Stato di Milano, la disegnata Lega pensava seriamente a prevenire il pericolo di divenire bersaglio delle vendette di Cesare, e Cesare stesso non ne ignorava gli sforzi ed i pericoli ; laonde per allontanare il turbine che andavasi formando, rivolse l' animo a trarre il Pontefice in una nuova Alleanza per distaccarlo dalla contraria, il che tuttavia non ebbe effetto per volersi troppo pretendere da ambe le parti. Uno però degli accordi più importanti a questo oggetto fu il trattato conchiuso della liberazione del Re Francesco. commosso l' Imperatore a ciò fare dal vedere collegati contra di se tutti i Principi d' Italia. L' affare però per la esorbitanza delle condizioni andò lento. Perciò, scrive il Muratori (I), esso Re mal soffrendo quella gran dilazione e forse più per non averlo mai l' Imperatore degnato d' una visita, cadde gravemente infermo, sino a dubitarsi di sua vita. Allora fu , che l' Augusto Carlo non per generosità , ma per proprio interesse , andò a visitarlo, e di sì dolci parole e belle promesse il regalò, che a quella sua visita fu poi attribuita la di lui guarigione. E' quì da notarsi col Guicciardini che Carlo V. operò col suo Prigioniero, come Ponzio Sannita co' Romani. Non l' oppresse, nè lo trattò con generosità. Conveniva o lasciare libero il Re Francesco colla munificenza d'un gran Monarca scortandolo con pompa ed onore fino a suoi confini, senza condizione alcuna e senza fatto insultante; ovvero conveniva tenerlo prigioniero, e frattanto invadere la Francia, staccarne porzione pel Duca di Borbone , invitare Enrico Ottavo a staccarne altrettanto ; indi lasciare sul rimanente del Regna un Re liberato dalla prigionìa e tributario dell' Imperatore. Prese il partito di mezzo, che riuscì , come suole le più volte il peggiore. Vi fu chi consìgliò a Carlo V. il primo grandioso spediente ; ed il parere di quell' accorto Politico fu ricusato, come una idea romanzesca dalla pluralità del Consiglio di Stato. La condizione de' Monarchi è tale, che debbesi ascrivere a molta lode dell' Imperatore Carlo V. l' avere avuto nel suo Consiglio uno almeno, che per nobile franchezza ardisse di manifestare sì generosi sentimenti. In vece si ritenne prigioniero il Re, che ebbe a soffrirne due malattie, e dovette sopportare molte umiliazioni, col sottoscrivere massimamente un trattato vergegnoso, l' emolumento del quale non fu, che di lasciare in mano di Carlo V. una carta inutile, scritta

(I) Annali al 1525. pag. 213. da un suo capitale, ed irreconciliabile nimico. Nel giorno adunque 17. di Gennaio ( epilogherò questa grand' Epoca colle succose parole del Muratori (I) ) dell' anno 1526, e non già di Febbrajo , come ha il Guicciardini, e il Belcaire suo gran copiatore , seguì in Madrid la Pace fra que' due Monarchi ; con aver ceduto (2) il Re a Cesare tutti i suoi diritti sopra il Regno di Napoli , Milano, Genova , Fiandra, ed altri Luoghi , e con obbligo di cedergli il Ducato della Borgogna con altri Stati, per tacere tante altre condizioni , tutte gravosissime al Re Crisatianissimo . Il Gran Cancelliere Mercurio Gattinara, siccome quegli, che detestava sì fatto accordo, ben prevedendo quel che poscia ne avenne, con tutto il comando e l' indignazion di Cesare , non volle mai sottoscriverlo, allegando non convenire all' uffizio suo l' approvar risoluzioni perniciose alla Corona. Il tempo comprovò poi vero il suo giudizio. Fu poi nel principio di Marzo (altri vogliono il giorno 21. Febbrajo ) condotto il Re ai confini del suo Regno , e rimesso in libertà , e consegnati per ostaggio a Carlo V. il Delfino, e il Secondogenito del Cristianissimo , finchè fosse entro un tempo discreto data piena esecuzione al concordato , con obbligarsi il Re di tornare personalmente in prigione, quando non si eseguisse.

CA-

(I) Annali del 1526. pag. 215. (2) Du Mont, Corps Diplomat. CAPO VIGESIMOQUINTO.

Francesco Secondo Sforza bloccato nel Castello di Milano. Sollevazioni, e stato miserabile de' Milanesi. Campo della Lega a Marignano. Morte del Borbone, e saccheggio di Roma. Disfatta de' Francesi. Pace di Cambrai.

Giunta in Milano il giorno 23. Febbraio del 1526. la nuova della predetta Pace, come abbiamo dal Grumello, continuava il duca Francesco Sforza a starsene bloccato nel castello, d'onde coll'artiglierie, non che colle uscite, inquietava gli assedianti. Nella città comandavano Antonio de Leyva, il marchese del Vasto Alfonso d'Avalos, succeduti al Pescara, unitamente all'abate di San Nazaro. La plebe amava l' unico rampollo de' principi sforzeschi. La sua bontà, il valore che aveva dimostrato, la memoria delle guerre e dei mali sofferti sotto un'estranea dominazione, la serie delle sue sventure del giovine Duca, la oppressione, in cui tenevasi, tutto già disponeva l'animo del popolo ad odiare i Cesariani. S'aggiunse la vessazione incessante colla quale il Leyva ed il marchese del Vasto imponevano taglie, oltre il peso dell'alloggio degl'indiscretissimi soldati. Per lo che, saccheggiate le terre, esausti i sudditi, emigrati i coloni, tutto portava all'impazienza, onde colla forza rispingere la forza. Così accadde; e forse correva il pericolo di una totale distruzione l'armata cesarea, se i nobili avessero secondati i movimenti popolari, invece di reprimerli. Il giorno 24. di aprile del 1526 cominciò a rumoreggiare la plebe verso il Cordusio, per avere i fanti della guardia di corte commesse delle violenze nella casa di un popolare, il quale gli discacciò a sassate. I fanti vennero soccorsi da altri compagni, i vicini attrupparono armati; si fece un grido nel contorno: all'armi, all'armi, e si dilatò via via. Il giorno 25. il movimento divenne maggiore; la plebe sforzò le porte della corte, cui trovandole chiuse, diede il fuoco; vi rimasero molti morti, dal castello si fece una sortita, gli Spagnuoli erano in confusione. Un solo uomo di autorità si pose a governare il movimento popolare, e fu messer Pietro da Pusterla, il quale fu forse il solo nobile che prese questo partito, a detta del Burigozzo. Accerta poi il Grumello che il popolare derubato al Cordusio era un artigiano sellaro; che venne dal popolo saccheggiata la corte; bruciate tutte le carte che vi si trovavano; forzate le carceri, e data la libertà ai prigionieri. Antonio de Leyva e il marchese del Vasto si appiattarono verso il Castello in casa di Gaspare del Maino. S'interpose Francesco Visconte, uomo di somma autorità, e venne fatto in nome di Cesare un proclama, per cui dichiarossi: che non si sarebbero mai più imposte taglie, nè, gastigato alcuno pel tumulto seguìto; non posto quartiere in città per nessun soldato, fuorichè la guardia del castello; che nessun Lanschinetto sarebbesi veduto girare per la città, se non per necessità, ed unicamente colla spada e nessun'altr'arme. Restava tuttavia bloccato nel Castello il povero Duca; ed i capitoli per solo timore accordati dal Leyva e dal marchese del Vasto non potevano rendere affezionato il Popolo ai soldati, né questi al popolo; e la memoria delle violenze usate, e della pertinace ostilità per cui si teneva bloccato il duca fomentavano piucchè mai il già scintillante incendio di una guerra civile. Le memorie di que' tempi scritte dal Grumello, e dal Burigozzo, testimoni di vista, ci raccontano minutamente il malcontento de' Milanesi contro i Cesariani , le uccisioni notturne, le animosità del Popolo già vicino a prorompere in aperta sollevazione. Il dì 16. di giugno il tumulto fu assai grande, e tutta la notte fu la città sulle armi, e si sparse sangue alla Scala e in Porta Vercellina, e si fecero barricate attraverso le vie della città con travi, fascine, botti, ec.; e la domenica 17. giugno, essendo gli Spagnuoli collocati sul campanile del Duomo, donde facevano i segnali, la plebe si avventò contro la guardia di corte, ed il capitano di essa, fingendosi favorevole ai Milanesi, diede loro il Santo, col quale contrassegno li assicurò che quei del campanile l'avrebbero consegnato senza opporsi. La plebe credette, e spedì un certo Macasora, il quale salì, credendosi sicuro col nome del Santo; ma in riscontro ebbe un'archibugiata, che lo distese morto: il che veduto dal popolo, tanto sdegno prese pel tradimento, che, posto gran fuoco sotto di quella torre, arrostì coloro che la presidiavano, indi avventatosi al capitano della guardia lo ammazzò; e vi rimasero in tutto cento otto soldati morti. Gli Spagnuoli diedero anch'essi fuoco a diversi quartieri della città, alla Scala, alle CinqueVie, al Bochetto. La plebe allora si smarrì, tanto più che non aveva alcuno alla testa, che la reggesse; e molti cittadini, entrati nelle stalle del marchese del Vasto, montarono su que' cavalli e fuggirono lungi da Milano. Pareva Troia. Ardeva molta parte della Città, e ciascuno ciascuno era occupato a salvare la sua roba. Intanto gli Spagnuoli ed i Lanschinetti rubavano e disarmavano. Tutto era rovina . Fino dal giorno 17. maggio 1526 erasi fatta la lega in Cugnac fra il papa, il re di Francia ed i Veneziani, per liberare l'Italia da tante ostilità, ed ottenere il ducato di Milano a Francesco Sforza, e ridurre in libertà i figlj del re, ostagi di Carlo V. Abbiamo da Sepulveda (I) che Francesco Primo appena liberato dalla prigionia e giunto nel suo regno, trovò un breve del papa, in cui dopo essersi rallegrato della acquistata libertà, lo incoraggisce a riparare i propri danni sefferti, e del suo regno, avvertendolo a non badare a qualunque promessa che stata gli fosse estorta col timore o colla forza nel tempo della sua prigionia: qua in re ( dice, secondo il citato Storico Spagnuolo, il Pontificio Breve ) ne forte impeditus religione timidius ageret, se illum jurejurando, si quod forte Carolo ad suam fidem adstringendam dedisset , Auctoritate Apostolica liberare; proinde quasi re integra nullo jurejurando, nulla fide data fortiter de suis rebus statueret &c., e che quel re, contentissimo per un tal breve, aderì alla lega, ed approvò quanto aveva fatto in Roma l'Ambasciatore suo, Alberto Pio; e, caldo per la voglia che si scacciassero onninamente dall'Italia tutti gli Spagnuoli e Cesarei, accondiscese per fino che: ne Gallo quidem regi ullum esset in Italos imperium, sed annuis tributis esset contentus aureorum millium quinquaginta, quae ipsi a duce mediolanensi, septuaginta vero quae a rege neapolitano, Italorum suffragio deligendo, penderentur . Il giorno 24. di giugno, dedicato a san Giovanni Battista, giorno solenne per Firenze, patria e sovranità del papa, era destinato dalla santa lega per incominciare la guerra nel Milanese, affine di soccorrere il duca Francesco, rinchiuso nel castello di Milano

(I) Pag. 186. e 188. Milano già da sette mesi. Il duca d'Urbino Francesco Maria comandava le truppe de' Veneziani, e Giovanni Medici le pontificie. Clemente VII però non volle comparire aggressore, e scrisse a Carlo V un breve, in cui lo esortava con termini assai energici a desistere dall' ambizione di fare conquiste , ed a donare la pace alla Cristianità, ad ascoltare sentimenti più umani, e provedere alla propria fama. Questo breve venne spedito al nunzio presso di Cesare, che era l'elegante prosatore e poeta, Baldassare Castiglione. Tre giorni dopo il papa si pentì et alteram epistolam mittit aequiorem et moderatiorem perpaucis verbis in eamdem sententiam; ma il Castiglione avea già eseguito il primo comando. L'imperatore pubblicò la lettera del papa e la risposta, la quale conteneva: che Cesare aveva sempre operato per la tranquillità e la pace fra' cristiani; di non aver mai fatto la guerra, se non provocato. Che se il papa bramava la pace, ciò dipendeva da lui. Se poi invece di voler la pace, persiste a promovere il disordine, l'imperatore se ne appella al futuro Sacro Ecumenico Concilio, e prega il sommo pontefice, in un tempo, che rendevasi necessario alla religione, di convocarlo in nome di Dio immortale. Questo è in succinto il cesareo manifesto che allora venne pubblicato, e che si riferisce dal Sepulveda (I). Non ostante questo carteggio tra il Papa e Carlo V, i Veneziani comandati dal duca d'Urbino presero Lodi per sorpresa, e segreta intelligenza di Lodovico Vistarini, stipendiato cesareo. I Pontificj a tale annunzio passarono il Po a Piacenza e si unirono co' Veneti; e tutti di concerto posero il campo a Marignano. Frattanto i cittadini milanesi, spogliati delle armi, e costretti ad alloggiare nelle loro case i soldati, che ne depredavano a man salva ogni cosa, furono ridotti a tali estremi, che non rimaneva

(I) Pag. 193. altro rimedio, fuorché cercare di fuggirsi occultamente da Milano, perché il farlo palesamente era proibito (I): Onde, per assicurarsi di questo, molti dei soldati, massimamente spagnuoli, perché nei fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de' loro padroni, le donne e i piccoli fanciulli, avendo anche esposto alla libidine loro la maggior parte di ciascun sesso ed età. Però tutte le botteghe di Milano stavano serrate; ciascuno aveva occultate in luoghi sotterranei o altrimenti recondite le robe delle botteghe, le ricchezze delle case, gli ornamenti delle chiese... d'onde era sopra modo miserabile la faccia di quella città, miserabile l'aspetto degli uomini, ridotti in somma mestizia e spavento; cosa da muovere ad estrema commiserazione, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quegli che l'avevano veduta poco innanzi pienissima di abitatori, e per la ricchezza dei cittadini e per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e dilicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, e per la natura degli abitatori, inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima e felicissima sopra tutte le altre città d'Italia. Riuscì tuttavia di conforto ai Milanesi l'impensata spedizione da Madrid del duca di Borbone in sussidio dell'armata cesarea con ottocento fanti spagnuoli seco condotti dalla Spagna e cento mila ducati, sembrandogli che tale sussidio potesse mitigare in parte tante gravezze ed acerbità. Molto più poi avvaloravansiì le loro speranze al riflettere che il Duca stesso di Borbone avea promessa da Cesare di essere investito del Ducato di Milano, reso disponibile per la fellonìa dello Sforza, qualora gli riuscisse di scacciarlo da quello Stato; laonde il proprio intsresse richiedeva che si conservassero più intiere l' entrate , e le condizioni della


(I) Guicciardini Lib. XVII, p. 18. Città, e che i Milanesi non continuassero ad essere così miserabilmente lacerati. Il Borbone, che sotto Francesco I dieci anni prima era stato governatore di Milano, venne accolto come un padre dai Milanesi, che da lui solo speravano la cessazione di tanti mali. Il Guicciardini reca per esteso la parlata fatta al Borbone dai principali cittadini milanesi (I), esponendo con lagrime e singhiozzi lo stato deplorabile della comune loro patria, e l'universale abbandono nella pietà e clemenza del Principe loro fututro sovrano. A' quali il duca rispose con grandissima mansuetudine, commiserando la loro infelicità; ma aggiunse che non bastandogli quanto avea seco portato all'intero pagamento de'soldati creditori, gli abbisognavano in oltre trenta mila ducati, col qual mezzo avrebbe condotti i soldati ad alloggiare fuori di Città; affermando, prosiegue il Guiccirdini, che sebbene sapeva, che altre volte fossero stati ingannati da simili promesse, potrebbono starne sicurissimi alla parola e alla fede sua : e aggiungendo pregare Iddio che se mancasse loro, gli fosse levato il capo dal primo colpo dell' artiglierie de' nemici. La quale somma , benchè alla Città tanto esausta fosse grand stima, nondimeno trapassando tutte l' altre calamita la miseria dell' alloggiare i soldati, accettata la condizione protosta, cominciarono con quanta più prestezza poterono a provederla. Si considerò come una punizione Celesle la morte che Borbone incontrò poi nello scalare le mura di Roma nel 1527, perché non fu leale alla promessa fatta ai Milanesi. La vanità degli uomini non contenta di fantasticare sopra i segreti de' Principi, ardisce di pronunziare per fino sulle orme della Divina Providenza, invece di adorarla in vista della profonda nostra ignoranza. Guicciardini conviene che il duca di Borbone diede le disposizioni perché fosse tolto l'alloggiamento militare dalla città; ma ciò

(I) Guicciardini, lib. XVII, pp. 18, 19 e 20. non ebbe effetto, o non tenendo conto Borbone della sua promessa, o non potendo, come si crede, resistere alla volontà e alla insolenza dei soldati, fomentati anche da alcuni de' capitani, che volentieri o per ambizione o per odio, difficoltavano i suoi consiglj. Non è adunque piano ch' egli per insidia e con mala fede facesse la promessa. Finalmente poi, per un Principe del sangue, condotto dal perverso destino ad essere ribelle , Principe di sommo valor militare non doveva ravvisarsi come un accidente strano il finire i suoi giorni combattendo. Ma intanto il duca Francesco II trovavasi a mal partito, mancando omai di viveri nel suo castello. Quindi fece uscire la notte venendo il decimo settimo dì di Luglio più di trecento tra fanti, donne, fanciulli, e bocche disutili, i quali attraversarono dove meno era custodito il passo, e quasi tutti giunsero all'armata de' collegati, rappresentando loro la estremità alla quale era ridotta la guarnigione alleggeritasi anche a tal fine con questa diminuzione. Un sì lagrimevole spettacolo indusse tutto i Collegati a tentare tutti i mezzi per soccorrerla. Laonde sollecitamente il Duca d' Urbino per vie difficili condusse il suo Esercito ad accampare tra il Fiume Lambro e la Badia di Casareto nel luogo detto volgarmente Lambrate, e prontamente spedì un distaccamento ad occupar Monza, la quale insieme colla Rocca venne conquistata. Indi si avanzò verso Milano, e pose il quartiere al Paradiso, di contro a Porta Romana. Dopo tre giorni Giovanni Medici si presentò alla porta, e co' cannoni cominciò a tentare di atterrarla e di aprirsi un varco. I Cesarei invece spalancarono la porta. Questo fatto sorprese gli aggressori, i quali, temendo insidia non osarono di entrare; ed uscirono i Cesarei e fecero piegare il Medici co' suoi; per lo che l'indomani tornarono i collegati a scostarsi ed a porre di bel nuovo il campo a Marignano, aspettando il soccorso degli Svizzeri che stava per mandare la Francia. Sicché l'infelice Francesco Sforza mancando totalmente di viveri, de' quali appena era rimasta la provvisione di un sol giorno, si trovò costretto ai 24. luglio di rendere il castello di Milano per capitolazione, salva la vita, la libertà e la roba sua e di buon numero di nobili che quivi avevano voluto correre la fortuna del loro principe. Nella capitolazione erasi convenuto, che la città di Como si lasciasse allo Sforza con trentamila annui ducati, infino a che Cesare avesse conosciute e giudicate le accuse fatte alla fedeltà del duca: Che lo Sforza avrebbe un salvo condotto per andare all' Imperatore: Che gl'Imperiali sborsassero al presidio del Castello in paga degli stipendj corsi, circa venti mila altri ducati. il Duca non volle cedere il Castello di Cremona, che pur si pretendeva di includere nella Capitolazione. In somma il Duca Francesco si mostrò Uomo e Principe fermo; sostenne più di otto mesi l' assedio, Capitolò ridotto alla impossibilità fisica di continuare, e mentre avrebbe dovuto darsi a discrezione egli ne uscì con una Capitolazione onorevole. E' bensì vero che, trattane La libertà della persora non gli essendo stata dei Capiteli fatti osservata cosa alcuna, come dice il Guicciardini (I), posto che in Como non poteva comandare, nè essere libero dai Cesariani, passò nel Campo degli Alleati, indi a Lodi, nella quale Città cedutagli immediatamente dai Collegati; ratificò per Istrumento pubblico la Lega stabilita nel Congresso di Cugnac. Breve per altro fu la dimora dello Sforza in Lodi, mentre giunti finalmente a Marignano quattordici mila Svizzeri in soccorso degli alleati, con che formossi un Esercito di più di trenta mila fanti, oltre la cavalleria superiore di numero alla Cesarea, non fu loro difficile, comandati dal conquistatore di Lodi Malatesta Baglione, e in seguito dal Duca d' Urbino, dopo diversi attacchi e vigorose ripulse, di costringere Cremona

(I) Lib. XVII. pag. 22. alla resa. Questa seguì ai 25. Settembre del 1526. , coll' uscir libero il presidio a patto, che per un anno noni guerreggiasse nella Lombardia. Cremona fu pure dai Collegati consegnata al Duca Francesco Sforza. Oltre gli Svizzeri venuti in rinforzo dell' armata collegata, non indugiò il Re di Francia in quel torno a spedire in ajuto di essa, giusta i patti, quattro mila Guasconi, quattrocento Corrazzieri, e quattrocento Cavalleggieri sotto il comando del Marchese Michele Antonio di Saluzzo. Forse questo notabile aumento de' collegati accrebbe i timori de' Cesarei a segno, che Carlo V., dice Sepulveda (I), per impedire gli innoltramenti della guerra col mezzo di Ugo Moncada fece al Papa Clemente la proposizione di dargli lo Stato di Milano in deposito frattanto che si esaminasse la causa dello Sforza, il quale, dove fosse cenosciuto innocente, subito gli si consegnasse il Ducato; che se poi fosse stato giudicato fellone, allora Celare ne avrebbe investito, non già Ferdinando suo fratello, ma il Duca Carlo di Borbone: tanto egli mostravasi lontano apparentemente dal volerselo appropriare. Ma Clemente VII. confidando nei grandioSi aumenti della Lega, nemmeno questo partito volle ascoltare. Ottenne però il Cesareo inviato, dice il Muratori (2), colla mediazione di Vespiano Colonna, uno stabilimento di pace fra essò Papa, ed i Colonneli ; per cui riposando su questa Capitolazione l'incauto Pontefice, licenziò quasì tutte le sue milizie. Ma il finto e traditore Moncada, prevalendosi di quello occorrente, si riunì ai Colonneli, e nella notte precedente il 20. Settembre fecero una scorreria in Roma, e saccheggiarono in poche ore il Palazzo e la Chiefa di S. Pietro : non avendo , scrive il Guicciardini (3), maggiore rispetto alla Maestà della Religione , ed ali' orrore del sacrilegio, che avessero avuto i turchi nelle Chiese del Regno di

(I) Pag. 201. (2) All'anno 1526. 22. Agosto (3) Lib. XVII. pag. 30. Ungheria. Entrarono di poi nel borgo nuovo, del quale saccheggiarono circa la terza parte, non procedendo più oltre per timore dell'artiglieria del Castello ; e per tal mezzo costrinfero il Papa, mancante di viveri e di soldati, a ritirarsi in Castel S. Angelo, ed a procacciarsi ad ogni modo l'amicizia di Cesare, ed a richiamare le sue truppe, onde afficurarli di Roma. Ora, sebbene l' esercito della Lega per varj rinforzi avuti in quelli tempi, e per la spedizione fatta nel Novembre di quest' anno 1526. in Italia del Vicerè Lanoia con una flotta, su cui venivano quattro mila fanti Francesi e cinquecento Lance, si lusingasse di poter agevolmente espugnare colla fame la Metropoli della Lombardia, Milano, cingendola da più lati, acciocchè fosse chiuso ogni adito alle vettovaglie; rimase però costlernato alla infausta nuova che Giorgio Frandsperg, o Frantsperg (I) nel Tirolo radunava un armamento in soccorso degli Imperiali : Laonde avvisando di non essere sicuro nell' appostamento vicino a Milano, stimò più opportuno di ritirarsi a Pioltello, luogo sette miglia distante dalla Città, ordinando che si munisse Monza, e vi entrasse un grosso presidio, per così passare ad una si tuazione più vantaggiosa , e togliere ogni commercio con Pavia, Abbiategrasso, e colla Brianza. Quand'ecco in questo stesso mese di novembre, scese dal Tirolo il ricordato Frandsperg, Luterano di Setta, di cui già si è parlato più sopra (che milantavasi di volere strozzare il Papa), con tredici in quattordici mila fanti tedeschi, radunati colle promesse di gran preda; e per il Mantovano giunse a Borgoforte sulla riva del Po. Cambiaronsi allora le speranze dei Collegati, e passarono dalla guerra offensiva alla difensiva, in modo che il duca d'Urbino

(I) Così egli promiscuamente scrive il suo cognome nelle di lui lettere originali pubblicate non ha guari in Milano nel Tomo II. delle Memorie Storiche di Monza e sua Corte a' numeri 250. 253. 255. 256. pagg. 228. 229. 230. d'Urbino lasciati in Vaprio i Francesi e gli Svizzeri sotto il comando del marchese di Saluzzo, accorse col restante dell'esercito a far argine ai Tedeschi per impedirne colla forza i loro avanzamenti. Era fra i condottieri Giovanni de' Medici, che fu padre di Cosimo I. Gran Duca di Toscana, il quale nel primo incontro da un colpo di falconetto restò ferito in una gamba, per cui portato a Mantova cessò di vivere ai 30. del suddetto Novembre (I); giovine di circa anni ventotto, di mirabil senno, e insieme di non minor ardire, mancando in lui chi si sperava, che avesse a divenire l' onor d' Italia nell` arte della guerra. Ma il pronto accorrere dei Collegati non valse a trattener i Tedeschi, mentre essi piombarono sul Piacentino, non curandosi di Milano, già ridotto all'estrema indigenza, e si rivolsero a saziare altrove la loro ingordigia, e la eccitata fame dell'oro, risoluti di passare al saccheggio di Fiorenza e di Roma. L'esempio di questa truppa affamata eccitò ben presto la brama nei soldati cesarei, accampati specialmente nel Milanese, d'imitargli, e l'estrema scarsezza dei viveri fra di noi fece nascere, scrive Sepulveda (2), un generale fermento ne' soldati, che attribuivano al papa i disagi e i mali che sofferivano, e costrinsero i comandanti a marciare seco loro a quella vòlta . Una così impensata e potente irruzione di queste forze riunite costernò l'animo di Clemente VII a segno, sì che acconsentì ad una tregua di otto mesi coll'imperatore, stipulata coll'opera del vicerè Lanoia, luogo tenente cesareo per l'Italia. Infatti, intesa che ebbe il Lanoia questa novità, spedì loro incontro l'ordine di non inoltrarsi, atteso l'armistizio concluso sotto pena d'infamia. Ma l'armata pronta a marciare senza capitani, minacciò di uccidere chi parlasse di ordini contrarj. Sepulveda porta opinione che il Borbone

(I) Muratori Annali al 1526. pag. 221. (2) Pag. 215. Borbone accettasse il comando di questa armata per disperazione di miglior partito; al che concorda eziandio il Grumello nella sua Storia MS.(I). (anno 1527) Partì adunque da Milano il Borbone verso la metà di gennaio del 1527., e andò ad unirsi verso Piacenza coll'armata di Giorgio Frandsperg, seco conducendo cinquecento uomini d'arme, molti cavalli leggieri, quattro o cinque mila Spagnuoli, e circa due mila fanti italiani; i quali, uniti co' tredici o quattordici mila fanti tedeschi del Frandsperg formarono un potentissimo esercito, ed a Fiorenzuola tra Parma e Piacenza stabilirono il diesgno di inoltrarsi, come fecero, verso Bologna, onde poi recarsi a Firenze, ed a Roma, depredando e saccheggiando per via tutte le città e luoghi del loro passaggio. E' opinione quasi comune degli Scrittori che Giorgio Frandsperg venisse in questa mossa percosso da un colpo d' apoplessia, e così finissero i suoi scellerati divisamenti ; ed il Continuatore del Fleury (2) apertamente scrive del Frandsperg: Ma essendo a Ferrara, morì di apoplessa nel mese di Marzo 1527. Il Muratori ne' suoi Annali: fu colpito, dice (3), in

(I) Borbonius, posteaquam nec a militibus ut ab incepto itinere ac proposito desisterent impetrare, nec eos, ut erat, stipendio non suppetente, praecarius imperator, coercere posset, non putavit nec ad suum officium et dignitatem, nec ad Caroli Caesaris rationes interesse ut ipse quoque ab exercitu discederet, ne si tanta multitudo sine imperio ferretur, obvia quaequae devastans atque diripiens, in omnem injuriam et maleficium intolerantius irrueret, et pontificiae ditionis populis, contra inducias factas et Caroli Caesaris voluntatem, longe gravius noceretur. Sepulveda, p. 215. Ritrovandosi il Borbone di pessimo animo per non haver da dar paga allo exercito di Cexare, como più et più fiate li avea promisso, hebe deliberato di levar suo exercito de la Romandiola et pigliar il camino di la città di Florencia, pensando di aver danari da essa Repubblica. Grumello, fogl. 163. (2) Stor. Eccl. Tom. XIX, lib. 131. paragr. 10, p. 211. (3) Annali al 1527.pag.228. questi tempi il Capitano Frandsperg da un accidente apopletico, per cui fu condotto a Ferrara ad implorare il soccorso de' Medici. Nelle citate memorie storiche di Monza e sua corte (I), trovansi lettere di questo capitano dei Tedeschi, segnate li 25. di luglio del 1528. in data di Milano, dalle quali apparisce non essere lui morto altrimenti sul fatto, contra ciò che narrano molti Storici Italiani di que' tempi. Anzi a lode della verità si vuol dire che il Frandsperg sembra in esse lettere fue pentito, e cangiato dai pregiudizj della sua Setta in sentimenti Ortodossi. Il Borbone ciò non per tanto fermo nel suo proponimento, messosi alla testa di tutta quell'armata, attraversò rapidamente gli Appennini, e s'incamminò verso Firenze. La qual città trovando egli, fuor d'ogni suo avviso, ben munita e guardata dalle genti della Lega, sotto il comando del duca di Urbino; piegò verso Roma. Così anco il Grumello (2). Giunto in quelle vicinanze, il duca spedì un araldo a chiedere al papa che mandassegli incontro persona autorevole a concertar seco le condizioni della pace. Ma non si permise tampoco che l'araldo entrasse in città: tanto credevansi il papa e i Romani sicuri al pensare, che i Cesarei mancavano di tutto il bisognevole per fare un assedio nelle forme, e che era vicina e pronta al soccorso l'armata dei confederati. L' estremità però della miseria de' Cesarei fu appunto il motivo della presa di Roma coll'averla eglino investita da disperati. Sembra per buone ragioni, che non fosse in balìa di Carlo V il liberare il papa in questo duro emergente. L'armata era composta di gregari stranieri, che non erano sudditi dell'imperatore, ne erano tampoco pagati da lui, nè conoscevano, se non i loro generali, ed il Borbone sopra tutti. Le armate allora erano collettizie, e radunate

(I) tom. I, cap. XVII, p. 198, e tomo II, carta. 254, p. 230. (2) Fogl. 163 tergo. radunate per un tempo e per un oggetto determinato. Il viceré Lanoia, a nome dell'imperatore, tentò invano di distogliere il duca di Borbone dall'impresa, ed altamente riclamava la tregua da esso lui, come Ministro di Cesare, fatta con Clemente VII., della quale tuttavia nulla Cesare stesso ne sapeva. Quindi a Carlo V né dovea, né potea piacere la mossa di Borbone e dell'esercito suo verso di Roma, se non per altre ragioni, per questa almeno, che nessun utile egli ritraeva dalla oppressione del papa; anzi sommo odio acquistavasi presso tutta la cristianità. Veramente i Generali di Carlo V. operavano arbitrariamente d' assai; il che rende verosimile il dispiacere che mostrò Cesare per la presa di Roma. In una vasta Monarchia ciò debbe quasi per morale necessità accadere; e ne veggiamo mille esempj nella Storia dell'Imperio Romano. Arrivata in tanto l'armata del Borbone ai cinque di Maggio sui prati di Roma, appena egli ebbe esaminati i siti più deboli, e le mura più basse per la scalata, che volendo esso Duca, così in succinto racconta il fatto il Continuatore del Fleury (I), animare i suoi, s' avanzò per mostrar loro il cammino, che poteva condurgli alla Città, appoggiando egli stesso una scala alle mura, e gridando a gola aperta à suoi di seguitarlo ; ma nello stesso tempo fu colto da un' archibugiata , che gl' infranse l' osso della coscia, e lo rovesciò nel fosso . Tosto si fece trasferire al campo, dove morì nello stesso punto , non arrivato ancora agli anni trentaotto: e senza nessuna posterità . Anche il Grumello parla di ugual tenore; ma dettagliando il fatto più minutamente, e scrive (2) : Il Ducha di Borbono prima di dare la scalata a Roma era sicuro che tutti seriano richi et se caveriano la fame, ma li hebbe domandato una grazia a detti Copitanei, che non volessero saccheggiar dicta Città se non per un giorno, che li faceva promissione di darli tutte le sue

(I) Tom. 19.lib.131. parag.12.e 13. pag.212. (2) Fogl. 163 tergo. paghe li avanzavano con Cexare, che erano circha dece overo dodece; et così fu stabilito per li capitanei et militi cexarei… Il povero Borbono, qual haveva animo di salvar la città da le crudelitate et forse contro la voluntà del Magno Iddio, che voleva che Roma in tutto fusse distructa, per li horrendi peccati regnavano in essa città...rimase sul colpo. Fu una sciagura gravissima per Roma la morte del Duca, perchè soggiacque al saccheggio di più settimane. Siffatta morte comunemente dagli Scrittori è assegnata al giorno sei di Maggio del 1527., quantunque alcuni la protraggano al giorno otto. Entrarono ciò non pertanto i soldati in Roma, sostituendo al Borbone nel comando il Principe Filiberto d'Oranges; e presero non solamente Trastevere , ma eziandìo la Città, entrandovi per Ponte Sisto. ' A me basterà di dire in compendio; così a nostro proposito il Muratori (I), che all'ingresso di quella furibonda canaglia rimasero uccisi ben quattro mila tra solati e cittadini Romani. Il Giovio dice fin sette mila. In quella notte poi, e per più di susseguenti ad altro non attesero que' cani , che al saccheggio dell' infelice Città .... tal fu l' inesplicabile miseria di Roma, che con ragione venne creduto aver fatto peggio in quella Metropoli l' esercito dell' iniquo Borbone , che i Goti e Vandali nel secolo V. dell' Era Cristiana . Il Papa, dice Fleury (2) , in cambio di salvarsi per la vicina porta del Vaticano, e di ritirarsi in qualche fortezza dello Stato Ecclesiastico , come poteva fare agevolmente, cori l' assistenza delle sue guardie a cavallo, si lasciò ingannare da Bernardo Pallavicini, che lo persuase a salvarsi nel Castello Sant' Angelo, dove si ritirò accompagnato da una parte de' Cardinali , e degli Ambasciatori ; lasciando tutta la Città senza custodia alcuna. E' noto che giunta a Carlo V. la nuova di questo lagrirnevole sacco di Roma, e della ritirata del Pontefice In Caastel S. Angelo, ove si teneva assediato

(I) Annali al 1527. pag. 231. (2) Tom. 19. Lib. 133. paragr. 14. pag. 213. assediato, diede manifesti contrassegni d'un intenso dispiacere , sospese le feste già preparate per la nascita di Filippo II. accadutagli il giorno 21. di Maggio, e ordinò pubbliche preci per implorare l' ajuto del Cielo ai mali della Chiesa. Non mancarono Scrittori, che ciò attribuirono a finzione, e ad ipocrisia di Cesare, dubitandone altri , mentre una cotale ipocrisia non avrebbe fatto altro effetto, se non quello di viemaggiormente macchiare la gloria di Carlo V, degradandolo alla furberia d'un meschino e debole principe. In vista di ciò argomentano essi che probabilmente né Carlo V comandò quest'impresa, né se ne compiacque; poiché l'insulto all'inerme sacerdozio non poteva ascriversi ai fasti della gloria, e Carlo imperatore troppo la conosceva, e l'amava. Facili troppo sono le dicerie in tempo massimamente di grandi sconcerti, conchiude il Muratori su questo punto di Storia. Ma il fatto è per altro, che il papa per liberarsi fu costretto a sottoscrivere nel mese di giugno una capitolazione imperiosa e gravosissima col principe d'Oranges e co' principali offiziali, oltre al pagare fra tre mesi all'armata quattrocentomila ducati. Allora fu che i Principi d' Italia scossi da sì orrende novità, e conoscendo il proprio pericolo, rinnovarono tra di loro la Lega, nella quale entrarono i Veneziani, i Firentini , i Cardinali, che erano in libertà, a nome del Sacro Collegio, il Re di Francia, il Re d' Inghilterra, e Francesco Sforza. Fra le altre cose si stabilì che il Ducato di Milano dovesse lasciarsi libero a quest' ultimo. I Veneziani furono i primi ad unirsi colle genti del Duca di Milano, e verso il principio di Luglio portaronsi nella campagna milanese per dare il guasto alle biade ormai mature, e così togliere anche quello mezzo di sussistenza ai soldati rimasti presso Antonio de Leyva Governatore di Milano, i quali non avean pane, onde alimentarli, e vivevano alle spalle de' miseri Cittadini. Pervenuta al vegliante Leyva la notizia del loro arrivo a Lodi andò incontro contro ad essi, e sconcertò le loro mire. Lo stessoo fece con Gian -Giacomo de Medici Castellano di Musso, detto il Medeghino, che si era reso padrone eziandio del Castello di Monguzzo fra Como e Lecco, d' onde era disceso nel Milanese sino a Carate a recarvi danni non pochi. Anche il re cristianissimo a tempo assai opportuno, cioè verso la fine di luglio, mandò in Italia Odetto di Fois signore di Lautrec, con mille uomini di armi e ventisei mila fanti. Passò questi le Alpi con apparenza di liberare il papa; ma il fatto è che si trattenne in Lombardia, prese Alessandria. che venne consegnata allo Sforza. Conquistò Vigevano, e s'impadronì della Lomellina. Genova pure ritornò a' Francesi, che ne affidarono il comando al maresciallo Teodoro Trivulzio. Colta quindi la vantaggiosa circostanza dell'aver il Leyva poche truppe per difendere il Milanese, e del dover egli perciò starsene ristretto nella Capitale, uscì lo Sforza dal Cremonese, risoluto di non trascurare il momento onde scacciare gl' Imperiali dall' Italia. Lautrec che si era impadronito di parte dello Stato pose l'assedio a Pavia presidiata per Cesare dal conte Lodovico Barbiano di Belgioioso, il quale difendavala con diecisette bandiere d'Italiani, che in tutto però non formavano più di mille combattenti. Lautrec batteva la parte più forte, cioè il castello, affine di prendere tutto in un sol colpo. I cittadini pavesi odiavano i Francesi, e combattevano come soldati. Respinsero tre assalti con gloria, e nove insegne tolsero ai nemici. La Cronaca del Verri minutamente ci racconta che il conte Lodovico ne rese informato il comandante supremo Antonio de Leyva Governator di Milano, e quello gli mandò a dire (sono sue precise parole) che avendo fino a quell'ora riportato tanto onore e gloria contra i nemici, che li pareva ben fatto, e così lo consigliava, anzi li comandava, per aver lui pochissima gente in aiuto della difensione di essa città, che vedesse col miglior modo che avesse saputo ritrovare, di lasciare la città in preda ai nemici, uscendone lui con la sua gente a salvamento; salvamento; suadendoli ancor questo per il meglio con questa ragione, che, saccheggiando i nemici la città di Pavia, si sarebbero poi la maggior parte di loro dispersi con li bottini fatti in essa città, andando alle loro patrie ricchi, laonde non si sarebbero poi fatto stima di ritornar più al soldo de' Francesi, di modo che esso Lotrecco, ritrovandosi poi per detta causa con niuno ovver pochissimo esercito, sarebbe stato sforzato a lasciar l'impresa di gire a Napoli, come aveva supposto, la qual era di più importanza e di maggior danno che la perdita d'essa città. Avendo dunque avuto detto conte Barbiano detto avviso, anzi comandamento espresso, subito ricercò di avere e così ottenne da' Francesi salvo condotto . S'impadronirono pertanto i Francesi di Pavia il giorno 5 di ottobre del 1527, ed espiarono la macchia della presa del loro Re. La città venne esposta a crudelissimo saccheggio per tredici giorni, e poco mancò che non rimanesse affatto distrutta. Tutte quelle Fortezze si rimettevano nelle mani di Francesco Sforza, perchè i Veneziani ed altri Collegati non avrebbero tollerato che rimanessero in potere de' Conquistatori . Il Lautrec il 18 del suddetto mese, abbandonata Pavia rovinata, s'avviò a Piacenza, dove aggiunti alla Lega i duchi di Ferrara e di Mantova, proseguì la sua marcia alla vôlta di Napoli; lasciando Milano in una estrema inopia. Non perdè il suo coraggio Antonio de Layva in mezzo alla desolazione della sua armata, poichè giovandosi della partenza del Lautrec, uscì da Milano, diede alcune sconfitte, e soprattutto s'impossessò di Novara, scacciandone il presidio sforzesco coll'aiuto di Filippo Torniello. (Anno 1528) L'unico vantaggio che risultò da queste fluttuanti vittorie, si fu l'ardore, con cui si cominciò in quest'anno a trattare di pace tra Carlo V imperatore e Francesco I re di Francia. Ma sì bella speranza si dileguò quasi appena mostratasi; tantoché nel giorno 25 di gennaio del 1528 gli ambasciatori della Francia, e loro alleati intimarono nuova guerra all'imperatore, e si riaprì più terribili terribile che mai questo marziale teatro, specialmente ad esterminio della misera Lombardia. Adirato l'imperatore Carlo V. al vedere nel re di Francesco I. tanta facilità nel mancare alle promesse, ed ai giuramenti, prese il ministro di Francia da solo a solo in Granata, e dissegli: Dica al suo re, ch'egli manca alla parola che mi ha data a Madrid, e pubblicamente e da solo; ch'egli non opera rettamente, né da un uomo bennato; e se lo nega, mi esibisco di provare in persona a lui la verità, e terminare la controversia col duello. Questa commissione diè luogo alle due seguenti lettere conservateci dallo storico Sepulveda elegante scrittore latino di quella età felice per le buone Lettere. Ci piace d' inserirle per intiero nella nostra Storia , attesochè contengono esse come i Cartelli di disfida tra quei due famosi rivali, e precipui despoti dell'Europa (I) Franciscus Rex Gallorum Carolo Romanorum imperatori designato Hispaniorumque regi, salutem. Renuntiatum mihi est a legatis quos ad te de pace misi, te, conditiones aequissimas aspernantem, excusationem attulisse, quod ego istinc violata fide profugerim; quamobrem ut meae famae consulam, quae falsis a te obtrectationibus et calumniis graviter impetitur hanc ad te provocandi causa epistolam mittere constitui. Nam licet nemo cui sint custodes impositi, data fide teneatur, qua ratione id meum factum vel sola purgari posset; tamen meae famae consultum esse cupiens, cuius magnam semper habui habeboque dum vita supererit rationem, ut hominum de me opinioni satisfaciam, sie tecum agere decrevi. Si me fidem datam violasse jactasti, vel jactas, aut contempta fama quidquam fecisse quod virum nobilem, bonae famae studiosum non deceat, te turpiter mentiri dico, et quoties dixeris mentiturum. Quoniam igitur falso meam famam laedere conatus es, nihil ampius mihi scribas, sed locum certamini idoneum, tutumque deligito; ego arma

(I) Pag. 236. e segg. utrique deferam. Ac ne quid posthac femere in meam contumeliam voce vel scripto jactes, Deum hominesque testor per me non state quominus inter nos controversia singulari certamine dirimatur. Vale. Lutetiae, quinto kal. Aprilis, Anno MDXXVIII. Carolus Romanorum imperator designatus, Germaniae Hispaniarumque Rex Francisco Gallorum Regi S. D. Epistolam tuam, cui dies erat adscriptus ad quintum kal. aprilis, mihi reddidit Gienna, caduceator tuus, sexto, idus junii, longo scilicet intervallo, ad quam eadem fere quae eidem caduceatori dixeram, rescribam. Quod legatis et caduceatoribus quos ad me de pace misisti, quaedam ad tuam contumeliam pertinentia me tibi, purgandi causa, jactasse scribis, ego nec caduceatorem tuum quemquam vidi praeter eum, qui Burgos ad me venit ut tuis verbis bellum nobis indiceret, nec erat cur me tibi, quem nunquam per injuriam offenderam, purgarem; te autem si nihil aliud, tua certe ipsius culpa accusat et condemnat. Quod autem fidem quam mihi dederas me requirere dicis, est, ut ais: requiro enim illam quam mihi Madritii foedere dedisti, te in meam potestatem, ut meum captivum, justo bello captum, rediturum nisi, liberatus, pacta conditionesque foedere acceptas perfecisses, ut scriptura publica tuaque manus testimonio est. Me vero jactasse te contra fidem datam ex custodia profugisse commentitium est; non ego in hoc tuam perfidiam esse dico, sed in eo quod foedus non servas, et jusjurandum fallis, in quo nulla est necessitatis excusatio: quam enim quisque fidem hosti dederit, temporibus adductus, hanc ut praestet jus gentium esse constat, et proborum hominum consuetudinem, qua sublata, tollitur ratio bella semel conflata sine summa hominum pernicie dissolvendi. Quod vero si te dico aut dixero fidem datam violasse aut contemta fama quidquam fecisse quod virum nobilem et bonae famae studiosum non deceat, me turpiter mentiri, et quoties dixero mentiturum, ego, quam sis coeteris in rebus quae ad me non pertinent boni nominis studiosus et officii cultor, non laboro; illud citra mendacium affirmo, quod fidem quam mihi Madritii tum publice, palamque, tum privatim separatimque dedisti, fallas, quod pacta foederaque et jusjurandum violes, te nec boni viri, nec generosi munere fungi; hoc si tu verum esse negabis, scriptura publica tuaque manu redarguente, non ego tuam illiberalem, vixque gregario milite dignam orationem imitatus, te turpiter mentiri dicam, quamquam hoc, me tacente, res ipsa loquitur, tuumque tibi factum, plurimum ab oratione discrepans, aperte dicit: profiteor autem me, ut caeterorum Christianorum sanguini parcatur, tecum de veritate armis viritim disceptaturum et controversias diremturum, ad quod dumtaxat te, qui cum meus captivus sis, pugnare cum altero praeter meam voluntatem communibus legibus prohiberis, idoneum reddo. Quod me amplius ad te scribere vetas, sed aequum tutumque pugnae locum praebere, teque dicis arma utrique deportaturum; patiaris oportet haec ad te scribi, tuaque malefacta, dum res postulat, memorari. De loro certaminis conditionem accipio, daboque operam, quantum erit in me, ut loco injuria omnesque absint insidiae. Erit autem idoneus locus, ut jam nunc nobis condicatur, in confinio regnorum nostrorum ad parvum sinum qui est inter Fonterabiam et Andajam, qua parte, et qua ratione inter nos convenerit, et ad parem conditionem tutamque ab insidiis rationem pertinere visum fuerit; quem locum nihil est quod recuses, cum ibidem et tu dimissus fueris, et filios foederis obsides tradideri; quo ex utraque parte viros nobiles et rei militaris peritos mittere licebit, quorum judicio omnia quae ad parem pugnandi conditionem pertinebunt, et utrius sit arma utrique deligendi, quod ego potius meum esse dico quam tuum, et dies pugnae et caetera quae ad negotium conficiendum faciant, constituantur. Tuum igitur erit ad haec primo quoque tempore respondere; quod si ultra quadragesimum quam tibi haec epistola reddita fuerit distuleris, jam omnes intelligent per te stare quominus singulari praelio decernatur. Vale Ex Montisone, pridie nonarum julii, Ann. Christi nati MDXXVIII. Il Re Francesco non volle accettare la lettera, dichiarando che nessuna risposta avrebbe ricevuta, ricevuta, se non conteneva la mera e semplice disfida significante in rigor di Legge de' Duellisti, ch'era allora in gran voga, le uniche parole del luogo, e del tempo pel duello. Sentivano piùcche mai i Milanesi il flagello della fame, essendo impedita la comunicazione con Lodi, e con altre città, e terre dello Stato, quando Gian Giacomo de' Medici, guadagnato da Antonio da Leyva, che gli consentì di fare la conquista di Lecco, abbandonò il partito francese e si collegò cogl'Imperiali: solite incostanze degli avventurieri di que' tempi. In benemerenza di che radunata in quelle parti gran copia di grano, lo spedì in soccorso della sua Patria. Questo sussidio diede luogo ad Antonio de Leyva nel mese di maggio di conquistare Abbiate grasso, e di riacquistare Pavia presidiata, è vero, da' Veneziani per Francesco Sforza, de' quali il Comandante era Giovanni da Campo Fregoso, ma quasi vuota d'abitatori. Era Podestà e Governatore di Pavia, scrive il Verri, Francesco Sfondrato, il quale poi per la sua virtù fu Senatore, indi Cardinale. Colà s'inoltrarono gl'Imperiali sotto il comando del conte Lodovico da Belgiojoso con alcune bandiere tedesche, ed il giorno 25. se ne impadronirono senza contrasto. Pavia, quantunque già esausta, non andò immune da un nuovo saccheggio. A tali sforzi vi si aggiunse nel seguente mese di Giugno l'altro più valido di Arrigo Duca di Brunsvich, spedito da Carlo V. in Italia con quattordici mila Tedeschi, alfine di recarsi a Napoli onde impedire le rapide conquiste, che colà facevano i Francesi guidati dal Lautrec; a far argine alle quali eravi giunto da Roma il principe d'Oranges coll'avanzo del suo esercito ridotto per la pestilenza suo esercito ridotto per la pestilenza a soli dodici mila combattenti. Il duca di Brunsvich pervenuto coll'esercito cesareo ai confini della Lombardia, espugnò Peschiera; e saccheggiati i territori di Brescia e di Bergamo, ed entrato nel Milanese, venne eccitato dal Leyva a portarsi co' suoi all'acquisto di Lodi, a cui il giorno venti di giugno diedero l'assalto; ma tanta fu l'attività e il valore di Gian-Paolo Sforza, fratello naturale del duca Francesco ivi opportunamente lasciato al presidio di quella città, che vennero gli aggressori rispinti, e costretti a contentarsi di uno stretto blocco, coll'impedire così alla città ogni soccorso di vettovaglie. Brunsvich però, ed i suoi furono sbandati ben presto da una sorta da una specie di peste, detta male mazzucco, che in meno di otto giorni fece di essi una orrenda strage, cosicché il residuo di quell'armata continuò sollecitamente la via del suo destino. Ma intanto la visita del Brunsvich aiutò a consumare i sussidii, che avea dapprima ricevuti Antonio de Leyva, il quale non avendo più mezzi onde satollar le sue truppe, né sapendo più come smungere le borse degl'infelici Milanesi, trovò l'espediente di proibire sotto la pena della vita, e della confiscazione de' beni, che niuno potesse tener farina, né far pane in casa; quindi imposta una rigorosa ed esorbitante gabella in tutto lo Stato sul pane venale, gli riuscì con siffatta inumanità di sfamare sè, ed i suoi coll'oro de' cittadini. Tanto è vero che i tempi andati furono simili, o forse peggiori dei nostri? Odasi su di ciò quanto scrive il Guicciardini celebratissimo storico di que' tempi (I): In Milano per l'acerbità di Antonio da Leva era estremità e soggezione miserabile, perché per provvedere ai pagamenti dei soldati aveva tirato in sé tutte le vettovaglie della città, delle quali, fatti fondachi pubblici e vendendole in nome suo, cavava i danari per i pagamenti loro, essendo costretti tutti gli uomini, per non morire di fame, di pagare a' prezzi che paresse a lui; il che non avendo la gente povera modo di poter fare, molti perivano quasi per le strade, né bastando anche questi danari ai soldati tedeschi, ch'erano alloggiati per le case, costringevano i padroni ogni giorno a nuove taglie, tenendo incatenati quegli che non pagavano; e perché per fuggire queste

(I) Lib. XVIII, pag. 70 e 71. acerbità e pesi intollerabili, molti erano fuggiti e fuggivano continuamente dalla città, non ostante l'asprezza dei comandamenti e la diligenza delle guardie, si procedeva contro gli assenti alle confiscazioni de' beni, ch'erano in tanto numero che, per fuggire il tedio dello scrivere si mettevano a stampa, ed era stretta in modo la vettovaglia, che infiniti poveri morivano di fame, e i nobili mali vestiti e poverissimi, e i luoghi già più frequentati, pieni di ortiche e di pruni. Il Burigozzo ancora più distintamente col suo stile rozzo ci espone siffatte calamità; la testimonianza nondimeno del Guicciardini scrittore straniero, e quindi imparziale, depone irrefregabilmente contra l'atroce soperchieria fatta ai milanesi dal Leyva, e dagl'Imperiali. Ora mentre le cose nel Milanese erano giunte a questo estremo, il Lautrec co' suoi collegati faceva prodigj di valore nel Regno di Napoli, e moltiplicava gloriosamente le sue conquiste; quando, al dire del Grumello, in mezzo alle palme dovette soccombere di malattia il giorno sette agosto del 1528. Gli successe monsig. Vaudemont, che presto egli pure morì, e rimase a comandare l'armata francese nel regno il marchese di Saluzzo, dove per i Cesarei comandava il principe d'Oranges. Ma dopo tante speranze di conquistare tutto quel regno, per un gruppo d'inopinati accidenti, e pei tristi effetti d'una fiera pestilenza in un batter d'occhio diramatasi per quelle contrade, così continua il Grumello (I), il giorno 28 di agosto tutte le forze galliche furono orribilmente fiaccate vicino ad Avversa, città discosta sei miglia da Napoli; sicchè la rimasta armata franzese fu costretta a rendersi a discrezione del nemico, ed i soldati vennero lasciati in libertà con un giubbone ed un bastone bianco in mano. Frattanto i Francesi comandati dal conte di San Paul ritornano nella Lombardia, si uniscono

(I) Fogl. 181. alla Lega, prendono Sant'Angelo, Marignano, Vigevano, ed ai 19 di settembre ricuperano Pavia scacciandone i pochi cesariani, che la custodivano, la quale fu costretta soggiacere questa volta ancora a nuovo saccheggio, e si presentano a Milano. Il pericolo però di perder Genova fece sì che i Francesi colà celeremente n'andassero. Genova coll'aiuto dell'immortale Andrea Doria scosse ogni giogo straniero, e soppresse lo spirito di fazione in guisa che non vi rimase più da quell'epoca in poi vestigio alcuno de' Guelfi e Ghibellini, né degli Adorni e Fregosi. Si riconciliarono le famiglie, si formò un sistema politico, cioè un determinato corpo presso di cui risiedesse la sovranità; si stabilì il numero delle cariche e l'autorità di ciascuna, e il metodo delle elezioni. Tuttociò fu per opera di Andrea Doria, che ricusò ogni carica. Da quel punto Genova diventò libera e repubblica, e i Francesi la perdettero per sempre. (Anno 1529) Il conte di San Paul colle sue armate di ritorno dalla infausta spedizione ridusse il Leyva alle sole città di Milano e Como, mentre il rimanente non era più dell'imperatore. Leyva, quantunque tormentato dalla podagra, il giorno 21. giugno, scondo Burigozzo, afferra il momento in cui il conte di San Paul coi Francesi era a Landriano, ed avendo staccata una parte de' suoi lo batte, lo prende prigioniero coll'artiglieria, e fa un bottino di tutto, onde i Francesi furono totalmente disfatti (I). Una buona parte del Milanese rimaneva tuttavia a Francesco Primo acquistata da' Francesi e da' collegati. Carlo V; che si disponeva a comparire in Italia da Pacificatore, e da generoso e moderato Monarca, colse il destro d'introdurre la desiderata pace col Sommo Pontefice, e cominciò dal consentire Margherita d'Austria sua figlia naturale, nata da Margherita Van-Gest, fiamminga,

(I) Vedasi il Guicciardini Lib. XIX, pag. 85. e segu. fiamminga, in moglie ad Alessandro Medici figlio naturale di Lorenzo Secondo, e cugino di Clemente VII, che per via di questa parentela potè assicurare la sovranità di Firenze alla sua famiglia. Volle pure l'imperatore, fralle altre cose che in quel frattempo cobncesse il Pontefice, stabilire rispetto allo Sforza, che Cesare stesso avrebbe giudidicato della di lui condotta, e dove fosse trovato innocente, sarebbesi restituito ad esso lui il ducato di Milano; se fellone, se ne sarebbe investita persona al Papa benevisa; e così con tai riguardi cercò d'indennizzarlo de' mali cagionatigli dalle armate del duca Borbone. Venne dunque ridotto tutto ciò a trattato formale, e solennemente pubblicato in Barcellona il dì 29 di giugno del 1529., e giurato innanzi al grande altare di quella cattedrale. Contenevasi in esso condizioni molto favorevoli al Romano Pontefice, e si potè quindi argomentare che Cesare avesse ogni cura di fare che Clemente VII. dimenticasse le passate offese. Fu poi il 5 di agosto dell'anno medesimo a Cambrai segnata la pace fra l'imperatore e il re di Francia Francesco I, per cui riebbe i figli suoi ch'erano in ostaggio in Ipagna, e cedette ad ogni ragione sul ducato di Milano. Disposte così le cose a diffondere la sospirata pace per tutte le contrade d'Italia, fu trascelta, siccome centro, la città di Bologna, dove Carlo V erasi determinato ad esempio de' cesari suoi antecessori di ricevere di mano del Pontefice la corona imperiale; Carlo V. vi si trasferì da Barcellona per Genova con mille cavalli e nove mila fanti condotti seco per mare su ventotto galee, sessanta barche e molti altri naviglj, dove sbarcò felicemente nel giorno 12 di agosto. Non tardò punto il papa a spedire colà tre suoi cardinali legati, Alessandro Farnese che poi divenne suo successore, Francesco Quignones spagnuolo, ed Ippolito Medici. Accolti i legati umanamente da Cesare, ed aggradite le feste e gli onori fattigli dal popolo genovese, nel giorno 30. di esso mese passò a Piacenza, dove prontamente accorse Antonio de Leyva a raggiungere il suo sovrano degli affari di Lombardia; da cui vedendosi assai bene accolto, non gli fu difficile di ottenere l'assenso di riprender Pavia, cosa che all'accorto Leyva premeva assaissimo per suo privato interesse; la quale infatti nello stabilimento del Ducato di Milano esguito in Bologna a favore di Francesco Sforza, come vedremo, gli fu assegnata da godere sua vita naturalmente (I). Ritornato in seguito il Leyva al governo del Milanese, guidò le sue genti alla conquista di Pavia, ch'egli presto riebbe e senza spargimento di sangue, atteso che Annibale Picenardo comandante di quella piazza, disperando di poterla difendere dall'aggressione de' Cesariani, la cedette loro senza grande resistenza (2).


(I) Muratori annali al 1529. pag. 260. (2) Guicciardini Lib. XIX, p. 97. CAPO VIGESIMOSESTO.

Congressi in Bologna per la Pace. Incoronazione di Carlo V. Sua entrata in Milano. Matrimonio del duca Francesco II., e sua morte, per cui cessa la Linea Sforzesca.

Eccoci, dopo tanti disastri, ad un'epoca apportatrice di pace alla desolata Italia, e ridente foriera di più tranquilli tempi per la nostra Patria, e per tutto lo Stato insubre. Questa è il congresso apertosi in Bologna tra il pontefice Clemente VII e Carlo V, e che poi fu, per dir così, suggellato colla solenne Incoronazione dell'Imperatore stesso. Recossi pertanto a Bologna Clemente VII. con moltitudine di cardinali affine di maggiormente condecorare la solennità del congresso; e vi pervenne sul finire di ottobre 1529., ricevuto , com'è da presumersi colla più grande magnificenza dal Popolo Bolognese. Alloggiò il Papa nel pubblico Palazzo del Legato e degli Anziani ; e nel dì quinto di Novembre entrò pure in Bologna l' Imperatore Carlo V. accoltovi con uno sfarzo corrispondente alla Augusta sua dignità . Prese anch' egli alloggio nello stesso Palazzo, dove abitava il Pontefice. E' da sentirsi a questo proposito il Guicciardini (I): In questo tempo essendo giunto il Pontefice a Bologna, Cesare secondo l' uso de' Principi grandi, vi venne dopo lui ; perché è costurne, che quando due Principi hanno a convenirsi, quello di più dignità si presenta prima al luogo deputato, giudicandosi segno di riverenza, che quello che è inferiore, vadi a trovarlo ; dove ricevuto dal Papa con grandissimo onore , et alloggiato nel palagio medesimo in stanze contigue l' una all' altra , pareva per le dimostrazioni e per la dimestichezza, che appariva tra loro, che fussero continuamente stati in grandissima benevolenza e congiunzione. E' parimenti degna d' esser letta la circonstanziata descrizione del pomposo ingresso di Cesare in Bologna presso il le Fevre, continuatore della Storia Ecclesiastica del Fleury (2). Cominciaronsi adunque tra questi due gran Personaggi frequenti ed interessanti colloquj onde acchetare le oggi mai invecchiate turbolenze d' Italia. Uno de' primi oggetti che premevano al Papa, era la riconciliazione di Cesare con Francesco II Sforza, duca di Milano, a cui in quest'anno medesimo era mancato il fratello Massimiliano, morto in Parigi in età di anni 39., e perciò chiamato da Cremona, ove soggiornava, giunse egli pure in Bologna il giorno 22. di novembre, sì mal concio di salute, che destava compassione in chi lo vedeva. Munito il duca di un salvo condotto cesareo, si presentò all'Imperatore, ringraziandolo dello avergli generosamente consentito di giustificarsi in persona dalle accuse di fellonia. Quindi tratta la carta del salvo condotto dal seno, rispettosamente la pose innanzi a Cesare, dicendo, che appoggiato alla giustizia dell' Imperatore, ed alla propria innocenza , non voleva nessun' altra sicurezza ; e perciò rinunziava al salvo condotto, il che estremamente gli piacque. Carlo V amava di rendere fausta questa solennità, e farne l'epoca

(I) Lib. XIX. pag. 99. tergo. (2) Lib. 132. pag.305.; e 306. della pace d'Italia. Il papa, i Veneziani lo persuadevano a ciò. Il solo Antonio de Leyva incessantemente ne sconsigliava l'imperatore per certa sua privata politica. E, a dir vero, il Leyva duranti le cílilità poteva tutto nel Milanese; il quale Stato dove fosse ceduto al Duca Francesco II.il potere del Leyva andava in fumo. Oltre a ciò, dopo le molte e lunghe discordie, era Antonio de Leyva male animato contro lo Sforza, e fors'anco gli era insopportabiie, non pel male che ne avesse ricevuto, ma pel gran male ch'ei ben sapeva di aver fatto al Duca stesso, il che rendeva assai più difficile una sincera riconciliazione tra loro. Veggasi su di ciò il diligente Storico Sepulveda, che partitamente ne parla (I).

Mentre questi altri affari e trattati facevano sperare ai Lombardi la sospirata pace, il celebre Girolamo Morone, di cui più volte abbiam con lode parlato nella presente Storia (2) recossi anch'eli a Bologna a fine di ossequiare l' Imperatore, siccorne quegli, che devotissimo era di Cesate, e partitante Imperiale. Da Bologna passato essendo il Morone in Toscana, onde unirli coll' Esercito Pontificio alla spedizione di Firenze in favore dei Medici, cessò di vivere in S. Casciano il giorno 15. Dicembre del 1529., in età di anni 59. Colla morte di questo gran Ministro, nato fatto per governare, perdè Milano, un suo Concittadino che fù e sarà mai sempre uno de' principali ornamenti della nostra Patria. Fu egli molto accetto a Lodovico XII. Re di Francia, da cui fu creato gli II. Nevembre del 1429. Regio Avvocato Fiscale, e nel I5II. aggregato al Senato di Milano . Amicíssimo del Duca Massimiliano Sforza, gli fu dallo stesso data la investitura della Contea  di Lecco. Fu eziandio pregiato assai dall' Imperatore Massimiliano. Francesco Primo Re di Francia lo

(I) Guicciardini, lib. XIX, p. 97. (2) Vedi nell'Indice. Morone Girolamo. ascrisse al Parlamento della Provincia di Bresse, carica onorevolisima, comecche dal Moroni non occupata. Nei Ducato di Francesco II. Sforza fu depositario del comando Supremo, e suo Luogotenente; detto perciò dirittamente: Sfortiani Imperii Columen. Fra i Principi , la benevolenza de' quali Seppe egli concigliarsi mirabilmente, basterà il far menzione di Carlo V. Imeratore, di cui su Consigliere, Senatore, e Cancelliere Supremo. Non mancò al Morone anche l'animo militare, e ne fanno testimonianza la carica da esso lui amministrata di Commissario Generale dell' Esercito Cesàreo in Italia , non che l' ultima di lui spedizione a Firenze. Uomo qual era di alto senno e di consumata prudenza fornito, sostenne luminose ambascierìe, quando a Leone X., quando a Clemente VII., che promosse il suo Figlio Giovanni nel 1529. al Vescovado di Modena, ancorché in età di soli anni venti; e nel 1542. lo creò Cardinale di Santa Chiesa e Vescovo d' Ostia; declinato poscia due volte in qualità di Legato Apostolico a presiedere al Sacro Concilio di Trento. Veggasi l'Argelati Bibl.Script. Mediolanen. nella di lui vita, dove nell' indice delle Opere del nostro Moroni si vorrebbero enunciate anche le sue lettere a Girolamo Varadeo. Noi per chiudere questa ben giusta digressione con altro autentico inedito testimonio, in pie' di pagina sottoporremo al giudizio de' nostri leggitori alcuni squarci di sue lettere (I),


(I) Osservisi il Capo 20.di questo tomo alla pag. 113. Nel 1507 il Morone vegliava su quanto facevasi in Costanza, acciocché gli Svizzeri non ascoltassero le proposizioni dell'Imperatore Massimiliano, ma perseverassero nella fede col re di Francia, duca di Milano. Su di ciò scrisse al gran maestro, Carlo d'Amboise, luogotenente e governatore: "Fuit conventus Constantiensis acriter perturbatus ambigua subdolaque Helvetiorum responsione, nullamque eorum rationem habendam censuit: dissimulandum tamen judicavit, ne eo magis Regi jungantur, quo se ab Imperio neglectos perspiciant. Sedjam dissimulatio ipsa dalle quali sole potranno essi rilevare a qual grado fosse giunta la elevatezza della sua mente, la sua destrezza nei grandi affari, e l'eleganza del suo scrivre. dissimulari amplius non potest, innotuitque omnibus Helvetiis nullam Caesarem in eis fidem reponere, nec stipendia eis daturum, et quando Caesaris legati capitaneos, vexilliferos, preditesque Helvetiorum conscribunt, risum jam omnibus parant. Nec tacent pueri, illos descriptos quidem esse, stipendiatos minime. Igitur quod Helvetios attinet, res in tuto est; habebimus eos, si voluerimus, supra spem numerosiores et fideliores. At inter principes legatosque Germaniae eo usque deventum est, ut promiserint Caesari subministrare stipendia semestria octo millium equitum et viginti quinque millium peditum in Italicam expeditionem traducendorum, quam in mensem februarii differendam censuerunt, ut interea pecuniae, arma et caetera ad bellum necessaria parari possint. A principibus illis quos noris, certior factus sum opera sua dilationem interpositam fuisse, quod eam putent rebus regiis valde profuturam; pollicitique sunt se curaturos, quod milites nec eodem tempore convenient, nec de bello gerendo concordabunt, sed alius alium longo intervallo sequetur, contrariisque sententiis inter se dissidebunt, et potius ad servandam formam, quam ad bellum Regi inferendum progredientur; laudantque ut in claustris Italis praesidia ponantur, cum non dubitent Caesaris exercitum, si aliquantisper in montanis oris arceatur, brevi dilapsurum. Haec illi; sed isthaec ex eorum parte incerta sum, ex nostra autem sine Venetis haud fieri possunt. Quare repeto quod Rex Venetos adsciscat oportet. Vale. Turregi, IV Idus augusti MDVII".(*) Il Moroni era affezionato al re Lodovico XII, dal quale senza ch'ei vi pensasse era stato collocato nella importante carica di avvocato fiscale. Era stato discepolo di Giorgio Merula. Descrivendo egli in una sua lettera a Giacomo Antiquario, del l° novembre 1499, la sua sorpresa nel vedersi fatto avvocato fiscale, prosiegue così: "Quare si quid huius muneris assumptione peccatum est, vides non consulte, nec mea voluntate, nisi coacta, factum, et potius fatorum Ora ripigliando il filo della Storia, , comunque si sforzsse il Leyva di opporsi a questa pace non consentì l' Augusto Carlo alle politiche di lui suggestioni, e fermo tenne il proponimento della sua venuta in Italia, per istabilire,


fatorum necessitati, quam ambitioni, aut culpae tribuendum est. At quaeso videamus quid sit hac in re non probabile: an illud ipsum quod Gallis inserviam? Quasi non oporteat ut omnes illis serviamus, aut quasi caeteri cives, etiam primates, munia etiam majora ab eisdem non ambiverint, et Sfortianam memoriam non abjecerint etiam ii de quibus Sfortiani meritissimi sunt, et qui summis magistatibus et honoribus, auspiciis eorum, functi sunt. An vero forte ipsa officii vis, et fiscalia jura tuendi necessitas, suapte natura odiosa, te commovit? Sed age; nosti mores meos ad obsequendum pronos; nosti illam quam in me admirari soles vim, maledicta de me refellendi, consilia et gesta mea justificandi. Dabo operam ut plurimum prosim, nemini obsim, et si cui nocendi necessitas fuerit, minus laedam, quam alius quilibet fecisset, hacque ratione efficiam, ut ille, quasi modeste et necessario damnificatus, beneficium abs me propterea accepisse putet. Quod si vereris ne a forensi exercitatione repente nimis discesserim, scito magnam esse hujus muneris cum illo similitudinem, majoremque exposci ab advocato Fisci quam ad aliis proptitudinem et rerum copiam, quod plerumque de subitis et insuetis casibus extempore sibi disserendum est, et quo magis excelso ipse loco eminet, auditoresque sunt illustriores, eo magis ornate facundoque colloquio declamare orareque eum oportet; ob id, vel invitus, cogor longe majorem operam rhetoricae studiis navare, quam si in foro cum Bartolis et Baldis permansissem. At non videris rebus Gallicis diuturnitatem polliceri, durumque mihi fore auguraris, cum magistratus fastum gustavero, privatam vitam agere, et quasi ad forensem formulam redire. Ædepol! Non licet mihi pronosticari, neque Italica libertas quando vindicari possit divinare; verumtamen Venetorum, Helvetiorumque foedera, quae Regis arbitrio pendere accepi, multum mihi ad longinquitatem facere videntur; nec, si vera loqui fas est, conjectura in praesentiarum assequi licet, quibus Galli viribus aut quando Italia pelli possint. Sed sit breve, quantum lubet illorum imperium; talem me ostendam in magistratu virum, tantum in communi prodero, tantamque Gallis ipsis stabilire cioè la pace con tutte le Potenzes in essa dominanti. Infattti dopo lunghe e spinose discussioni, giunse al perfetto suo termine un trattato di Alleanza perpetua tra Clemente VII. Sommo Pontefice, Carlo V. Imperatore,


Duminis fidem praestabo, quod successor, quicumque fuerit, et bene de me concipiet, et obsequia mea non aspernabitur. Ubi vero aut temporum qualitas, aut dominantis mores me a republica amoveant, non erit mihi grave, praestantissimorum virorum imitatione, quibus idem contigit, ad honestum me otium convertere, et ad prima studia redire; domesticoque tuo et parentis mei exemplo utar, qui cum ritus et instituta Sfortianorum, in quibus educati estis, jamque obduruistis, exuere et commutate nequeatis, laudatissimam tamen et jucundissimam vitam in otio ducitis, tantasque praecedentis dignitatis retiquias retinetis, ut pauci sint qui praesenti gloriae vestrae non aemulentur etc.".(**) In una lettera che il Morone scrisse il 27 dicembre del 1499 a Girolamo Varadeo, si vede con quanta chiarezza e verità conoscesse gli affari pubblici, e prevedesse l'esito infelice, che ebbero poi i tentativi immaturi di Lodovico il Moro per discacciare Lodovico XII dal Milanese: "Equidem in bonam partem accepi quod ad me scripsisti, ne tanta rerum Gallicarum fiducia ducar, quod Sfortianos contemnam, de quibus feliciora eventa sperari ais; neque enim pro tua in me benevolentia quodpiam mihi suaderes quod e re mea fore non existimares, nec pro tua prudentia vanis rumoribus aut figmentis fidem adhiberes. Ego etiam ex Thoma fratre nonnulla acceperam de Ludovici Sfortiae et amborum cardinalium motibus, quodque propediem novum et magnum exercitum contracturi sunt, cataphractos scilicet Germanos, Burgundosque conducturi, et peditum Helvetiorum delectum in civitate Coriae facturi; jamque machinas et caetera ad usum belli quam maximi paravere: et quod suspicionem auget, ipse frater, me insalutato et quidem inscio, Mediolano excessit, et ut audio, ad eos pergit, futurus eis in omni fortuna comes: quod utique facinus hoc tempore non commisisset, nisi aliqua intellexisset, quae eum in meliorem spem erexissent. Veruntamen, quaeso, pro tua sapientia et rerum usu cogita et diligentius mente revolve quem exitum sit habiturus hic, quem diximus, Sfortianorum motus, quem sententia mea tumultuarium esse oportet. Peculium Ludovici Ferdinando Arciduca d' Austria e Re d' Ungheria, la Repubblica di Venezia, Francesco II. Sforza Duca di Milano, il Duca di Savoja, i Marchesi di Monferrato e di Mantova, lasciando pur luogo alla speranza di entrarvi ad Alfonso duca di Ferrara ogni qual volta seguisse accordo fra esso e lui, l' Imperatore, ed il Pontefice. L' epoca fortunata di questa pace su segnata il giorno 23. Dicembre del 1529., nel qual giorno pei caldi uffici del Papa (I) ottenne Francesco II. Sforza dalla magnanimità di Celsre la Investitura del Dacato di Milano, ovvero la conferma di quella, che prima gli era stata data . Questa autentica conferma però, secondo alcuni Autori contermporanei


Ludovici et Ascanei perexiguum est, si rem et gentem illam respicis; quod provincia ardua est, locaque sunt expugnanda situ atque arte munitissima, quibus adversarius Gallorum rex, potens et ferox, non facile, nec brevi tempore pelli poterit; exercitusque Germanorum, cessantibus forsan stipendiis, vix durare poterit. Spes autem quae de habendis suppetiis a civibus et populis haberi videtur, semper mihi vana et periculosa visa est, quod ut plurimum privata comoda publicis anteferre, et ad tributi nomen obdurescere consuevimus. Caesar non multam opem ferre potest, eamque etiam in praesentia praestare non licet per inducias quas cum Gallis fecit, et in kal. junii duraturas. Helvetii nuper foedere Gallis obstricti sunt, quod eos tam repente violaturos minime crediderim, et quoscumque ex iis Sfortiani contraxerint collectitios et profugos esse oportet. Praeter hos, nullos habent Sfortiani fautores, adversarios vero et hostes plurimos; Venetos in primis, eo formidabiliores quod sunt viciniores, auxiliaque eorum in promptu sunt; praeterea Alexandrum, Florentinamque rempublicam et Januensem, ac Bononiensem, Lucensem, Pisanum, Senensemque regulos, Gallis amicos et auxiliares fore nemo ignorat. Ipsos etiam Ferrariae ducem et mantuae Marchionem, quorum alter Ludovici socer, alter sororius est, cum rege conspirare intellexi. Quid igitur? Profecto videntur mihi Sfortiani provinciam viribus suis longe imparem aggredi, atque immature nimis belli fortunam tentare etc.".

(I) Guicciardini, lib. XIX. pag. 101. contemporanei, fu nel Palazzo del Cardinale di Gattinara ccncertata a patto che lo Sforza , pagasse all' Imperatore entro dodici mesi ducati quattro cento mila , e ne' dieci anni

consecutivi cinquanta mila ogni anno Coronatorumnongenta millia intra decennium (I) , reflando in mano di Cesare Como et Il Castel di Milano, quali sì obligò a consegnare a Francesco come fussero fatti i pagamenti del primo anno (2). Appena giunse a Milano la notizia di questo faustissimo avvenimento, tutta videsì la Città esultante e festosa; e tanto nella Metropoli, quanto nelle altre Città dello Stato si manifestò l'universale allegrezza . Fu pure di grande ajuto al migliore stabilimento dello Sforza nella riacquistata Signorìa la continuazione di sua permanenza in Bologna , dove per la opportunità di starsene presso a Cesate, ebbe dallo stesso indizj vie sempre maggiori di una perfetta amnistìa, in vista del suo contegno, e del suo ragionare ; in guisa che Carlo V. dichiarò in pubblico, se riconoscere i Duchi di Milano e di Ferrara fra tutti gli altri Principi d' Italia per li più saggi (3). Una sì gloriosa qualificazione per lo Sforza inasprì maggiormente contro di lui l' animo maligno e politico di Antonio de Leyva , suo accusatore e detrattore ; cosicchè vedendolo nelle consulte apprezzato da Cesare , e frequentemente interrogato sui rilevanti affari in esse discussi, scrive il Bugati (4) , che il Leiva perciò tutto si struggeva e gettavasi per collera da quel suo seggio, quando lo Sforza ragionava à Cesare delle cose più importanti in Lingua tedesca, che esso non intendea . Su di che poco più sotto particolareggiando: Costui (il Leyva) dice, veggendo poi il Duca Francesco Sforza sémpre sedere fra i primi della Corte Imperiale (ammirato come Prencipe, bersaglio di tanti duri rivolgimenti) et sentendosi mordere come falso accusatore,

(I) Sepulveda p. 291. (2) Guicciardini, come sopra. (3) Bugati Stor. Univ. Lib. VI. pag.808. accusatore, non trovava luogo per l' ira talhora e pensandosi di sfogarla co' Bolognesi; talmente fu ripreso con parole, che più dopo non parole ne men fatti usò come essi. Valse finalmente a calmare le ire e l'animosità di leyva contra lo Sforza, la munificenza di Cesare , che gli assegnò in proprietà, vita sua natural durante, la Città di Pavia, e la Contea di Monza, colla dipendenza tuttavia del Duca Francesco II. , dell' annua rendita di Sette mila scudi, ossia Ducati larghi d'oro ,- per se, e per i suoi discendenti maschj legittimi in infinito, come più amplamente può vedersi nella Storia di Monza , pochi anni sono data alla luce (I); Donazione confermata in appresso dalla Sforza con suo Diploma segnato in Vigevano l'anno 1531. il giorno 6. di febbrajo. Insorse frattanto una nuova turbinosa procella in Milano, che tutti rattristò que' Popoli nel momento stesso, che esultavano per la bramata ed ottenuta pace; siccome anco per l'acquisto del loro Principe naturale. Necessitato Francesco II. affine di raccogliere l' esorbitante somma promessa a Carlo V. ad imporre ai Milanesi gravissime taglie, e dall'altra parte giunta all' Esercito Cesareo, che trovavasì in Ghiara d' Adda, la nuova della Pace stabilita. , si ammutinò per modo, che, sbandato e famelico anche per la recente morte di Lodovico Belgiojoso, piombò d' improviso sulla nostra Città e pretese dai già smunti Cittadini nel termine di quindici giorni le maturate sue paghe, colla minaccia all'occasione di tardanza del saccheggio alle Case, e della prigionia agli abitanti, esigendone frattanto i personali alimenti. Avvisato però il Duca per mezzo di veloci Corrieri spediti a Bologna di questo orribile imminente sterminio, seppe ottenerne pronto il rimedio dalla Clemenza di Cesare , il quale immediatamente richiamate dalla Lombardia


(I) Du Mont Corp. Diplom. Cap. pag. 199., e 200. Frisi Storia di Monza Tom. I. Lombardia le truppe Imperiali, le spedì con tutte le altre sparse per l' ltalia all'assedío di Fiorenza, non lasciando nello Stato nostro che i necessari Presidi pel Caslello di Milano, e per Como. Dissipato così anche questo turbine, e restituita alla Città di Milano la tranquillità, Francesco II. mandò ben presto a prendere e il possesso di quella Città e Ducato, ed a reggerlo in nome suo Alessandro Bentivoglio. Continuandosi nel 1530. le importanti assidue conferenze tra Clemente VII. e Carlo V. in Bologna, per sistemare gli affari pendenti nella Lombardia e negli altri Principati d' Italia ( nel mentre che Fiorenza era, come si detto sopra, assediata dalle Milizie Cesaree, e difesa da Malatesta Baglione, condotto da' Fiorentini a Capitano Generale delle loro Schiere); volle Carlo Imperatore frattanto, che si eseguisse la bramata sua solenne Incoronazione, uno de' principali oggetti della sua venuta in Italia. Questa veramente secondo il Rito praticato ne' Predecessori di Carlo V. dovea effettuarsi in Roma; e già ne erano a tal fine stati spediti colà alcuni Cardinali e Prelati; ma forse il volere di Cesare, e le premurose istanze per la di lui preferenza in Germania, determinarono il Pontefice e l' Iimperatore a compierla in Bologna stessa. Ricevette egli adunque il giorno 22. di Febbrajo dalle mani del Papa nella Cappella di Palazzo, colle stesse cerimonie all' un dipresso, con cui solennizzavasi la Coronazione Imperiale, al dire di Paolo Giovio, ricevette, dico, Carlo V. la Corona Ferrea di Monza, recata colà con tutte le dimostrazioni di rispetto dai Delegati Ecclesiastici e Secolari Monzesi ( che che dica il Muratori su questo notissimo punto di Storia (I); e per siffatta Coronazione


(I) Vedi Rainald. Anna]. Eccl., Muratori al I530., e Frisi Meemorie Storiche di Monza Tom.I. Cap. XV. pag. 199. in fine, e fegg. Coronazione fu egli dichiarato solennemente Re d' Italia , a norma dei molteplici esempj registrati nelle Storie de' Secoli precedenti. Il giorno poi 24. di Febbraio stesso, giorno Natalizio di Carlo V., e giorno in cui ebbe suo prigioniero sotto Pavia Francesco I. Re di Francia, fu imposta all' Augusto Monarca nella Chiesa di S. Petronio di Bologna la Corona Imperiale da Clemente V1I. Sommo Pontefice, poco prima di lui prigioniere, alla presenza di molti Principi, Cardinali, Prelati, Nobiltà e Popolo infinito, fra le acclamazioni, ed il giubilo universale. Quindi il Pontefice e Cesare cavalcarono per la Città a paro a paro sotto un medesimo baldacchino, amnendue vestiti uno alla Pontificale, et l' altro Imperiale , coronati tutti due, cosa ben degna da vedersi (I), e dopo la quale non ne occorse altra in Italia. A compimento di tanta giocondità giunse in quel punto a Cesare la notizia che nato gli era un Figlio, chiamato dappoi Ferrante, e che Solimano gran Turco erasi ritirato col suo Esercito da Vienna attese le molte traverie accadutegli in quell' attacco. Non contento però Cesare di quanto avea operato nella sua dimora in Bologna , volle, per dir così, compir l'opera confermando ai Principi Estensi il Ducato di Modena e di Reggio; ordinando che anche il Papa confermasse la Investitura di Ferrara al Duca Alfonso, mediante però lo sborso di cento mila Ducati (2) ; e rimettendo per formale sentenza il Duca d'Urbino al possesso del suo Ducato . Non restava alla universal pace di tutta l' Italia che il dar termine all' affare di Firenze ; al che pure diede buon successo il medesimo Cesare, in guisa che le turbolenze Toscane ebbero poi il loro fine per via di un Imperiale Decreto, in cui veniva dichiarato Capo di quella Repubblica Alessandro de'Medici, e i di lui Figlj

(I) Bugati Storia Univ. Lib. VI. pag. 809 (2) Paul. Jov. in Vita Alphonsi Ducis Ferrariae. Figlj e Discendenti; ed in loro mancanza uno della Casa de'Medici. Dopo essersi trattenuto in Bologna l' Imperatore col Papa sì lungo tempo partì poscia Cesare per l' Allemagna, e passardo per Mantova il giorno 2S. di Marzo onorò il Marchese Federigo Gonzaga Signore di quella Città del titolo di Duca; e Clemente VII. nell' ultimo giorno del suddetto Mese s' avviò egli pure alla volta di Roma, dove giunse il dì 9. di Aprile. Terminato felicemente in prò della Italia il Congresso di Bologna; il Duca Francesco II. Sforza, bramoso soprammodo di rivedere il suo paterno Stato di Milano, ancorchè non fosse in suo potere per anco in tutta la estensione, come si è avvertito più sopra, apparecchiavasi a fare a Milano il suo ritorno in sembianza, direi, di trionfo. Finoattanto però, che il tempo opportuno di ciò fare, giugnesse ; egli dimorava in Pavia sino dal Mese di Settembre del 1530., dove concepiti avendo dei ragionevoli sospetti, che spente non fossero nell' animo di Francesco I. Re di Francia le pretendenze sue, sulla Lombardia, malgrado le solenni convenzioni stabilite ; stimò prevenirne i tentativi collo stringere e stabilire tempre più fondata l'amica corrispondenza di pene e di sicurezza col Re Francese , e coi Potentati d ' Italia . Partì egli adunque da Pavia, e portossì a Cremonta, ove imbarcatosi sul Po con due Bucentori e trenta barche, accompagnato dagli Ambasciatori del Papa, della Francia , e di Venezia, giunse a Ferrara il giorno ultimo di Settembre; donde poscia, accompagnato pure dal Duca Alfonsò d'Este, nel dì 19. di Ottobre passò a Venezia, per colà trattare con quell' illuminatissimo Senato del modo di conservare la comune interessantissima pace dell' Italia . Furono assai brevi però questi congressi; mentre sappiamo che il Duca Sforza ritornò di corto da Venezia a Milano, dove dopo aver consolati que' Popoli colla amabile e desiderata sua presenza, e dopo di avere assicurati della sua grazia e riconciliazione tutti i suoi malevoli, richiamati richiamati gli esuli, e promesso a' rei un ampio perdono; ricevute quivi le più fauste acclamazioni de' suoi popoli, e le più sincere e festose significazioni della loro adesione e fedeltà a sì buon Principe; rivolse Francesco le sue benefiche sollecitudini alla interiore sistemazione dello Stato, per il cui ben essere, oltre: l'averne deputato, come si è detto, in sua assenza al Governo l' accorto ed incorrotto Alessandro Bentivoglio, volle dare nuova forma al Senato, eleggendone a Presidente il celebre Giacomo Filippo Sacco Alessandrino, e confermare nella Carica di Gran-cancelliere Francesco Taverna . Trascese in appresso ai gradi delle Magistrature gli Uomini più insigni di que' tempi ; tra i quali un essimio Capitano dì Giustizia nella persona di Giovanni Batista Speziano, per opera del quale furono dei malviventi sgombrate le strade, e divenne sicuro il trasporto delle derrate; il che anche contribuì a ricondurre l' abbondanza. Ma tale era la spopolazione delle terre, che, dice Burigozzo (I) fu tanta quantità di lovi su per lo paexe, che era una cosa granda, e fazevano tanto male in amazare persone, zoè puttini e donne, che quaxi se temeva a andare in volta, se non erano 3. o 4. persorse insema, tanto era el terror de questi lupi, & questa non era maraviglia , la causa perché nelle ville erano mancade le persone. I principj del 1531. furono assai lieti, e forieri di fausti presagj nel suo proseguimento. Il dì cinque di Gennajo riuscì a Carlo Quinto Imperatore di poter dichiarare Re de' Romani in Colonia col consenso degli Eettori Ferdinando suo fratello Arciduca d'Austria e Re di Ungheria e di Boemia, Coronato poscia in Francoforte il giorno undici dello stesso Mese . Nè men fausto fu quest' anno stesso a Federigo Primo Duca di Mantova coll'aver menata Moglie Margarita Primogenita di Guglielmo Marchese del Monferrato; dal qual Matrimonio provenne alla

(I) Lib. III, fogl. 70, tergo. Casa Gonzaga per Diploma dei 3. Novembre 1536. emanato da Carlo V. la rilevante eredità di quello Stato (I). Ma fu più interessante per Francesco II. Sforza l' essergli riuscito sul principio di quest' anno medesimo di pagare a Cesare la convenuta prima annata di quattrocento mila Ducati, per il quale sborso gli vennero consegnati il Castello di Milano e di Como, ricevendone la restituzione di quello di Milano a nome del Duca il Conte Massimiliano Stampa nel giorno 15. Febbrajo, secondo il nostro Burigozzo, avvegnache altri la protraggano al mese di Marzo. Due sinistri però occorsero allo Sforza in quest' anno medesimo , che parvero offuscare alquanto l' appena incominciato sereno e la ridonata pace al suo Ducato. II primo fu la occupazione di Morbegno nella Valtellina fatta da Gian-Giacomo de Medici tuttavia ostinato usurpatore e possessore di Lecco, e del Castello di Musso ; per deprimere il quale invasore e ricuperarne i paesi usurpati fu duopo allo Ssorza unirsi cogli Svizzeri e co' Grigioni; oltre l'avere con pubblici Editti proposti premj considerabili a chi l' avesse ucciso. Siffatte occorrenze riuscendo assai gravose al Duca per ritrovarsi molto esausto il di lui erario, attesa la di fresco sborsata somma convenuta con Cesare, fu lo Sforza necessitato d' imporre nuovi aggravj a' suoi diletti Sudditi, già di troppo angariati all' eccesso per quel, che abbiam detto poc' anzi. Burigozzo ne attesta, che il giorno 20. Giugno s'imposero alla macina soldi 50. per moggio e soldi 32. per ogni brenta di vino, e ciò oltre il solito tributo, per lo che un moggio di grano per essere macinato pagava lire cinque, e questa gravosissima Gabella imposta dal Duca aveva per oggetto la guerra contro Gian-Giacomo Medici che s' era usurpato il Dominio di Musso e di Lecco (2). Questa nuova pesantissima imposizione eccitò una turbolenza tale nella plebe di

(I) Vedi Gaillard. Tom. V. pag. 46. (2) Lib. V. fogl. 73. e 74. Cremona, cosicchè impugnatesi le armi furon uccisi molti di quelli che presedevano al Governo della Città. Fu ventura che accorsero a tempo in sussidio del Castellano Paolo Lonato alcune truppe spedite da Milano, le quali sedarono il tumulto, e col supplizio di cinque dei più sediziosi l'ammutinamento ebbe fine appena cominciato. Ma non così presto cedette il Medici alle sue usurpazioni, mentre potè resistere valorosamente per più mesi alle armi della Rezia e dell' Elvezia speditegli contro dallo Sforza,e comandate da Lodovico Vistarino e da Alessandro Gonzaga; finchè tolti di vita Gabriele fratello di Gian-Giacomo, e Luigi Borserio, Condottieri principali di questi Sollevati, fu costretto il Medici a trattati di pace, ricevendo in compenso dal Duca una somma di denaro e la impunità totale a' suoi delitti, sicchè, nel Mese di Marzo del 1532. cedute le Fortezze da esso lui occupate dapprima si ritirò nel Vercellese. Il Castello però di Musso, ricovero ed asilo del prepotente Medici su per ordine del Duca Francesco demolito, e spianato da' fondamenti (I). Le precauzioni di Francesco Sforza onde semprepiù assicurare la tranquillità de' suoi Stati, vennero per fortunata combinazione corrisposte, anzi potentemente avvalorate da Carlo V., il quale, ben vedendo che Francesco Re di Francia non avea deposte le mire di riacquistare lo Stato di Milano, si determinò di ritornare in Italia, di abboccarsi nuovamente in Bologna con Clemente VII., e di stabilirvi colà una Lega valevole ad infrenare qualunque improvviso tentativo. Appena infatti ebbe egli liberata Vienna da una orribile invasione dei Turchi, e coll'avergli costretti a retrocedere sino a Costantinopoli mercè di un Esercito, che, come scrive il Bugati (2), dopo caduta la grandezza del Romano Imperio, morto il Magno

(I) Bened. Jov. Hist. Patr. Lib. I. in fine. (2) Stor. Univ. Lib. VI. pag. 815. Magno Costantino, non più fu veduto in compagnia ; comparve Cesare nel Friuli, indi il giorno 7. di Novembre in Mantova, dove splendidamente fu trattenuto per più giorni dal Duca Federigo. Convennero sollecitameute quivi ad osservare l' Augusto Carlo, oltre Alfonso Duca di Ferrara Frarcesco Sforza Duca di Milano, il Duca d' Albania, Alessandro de' Medici, ed altri Principi ed Ambasciatori, i quali poscia lo accompagnarono onorevolmente alla volta di Bologna, nella quale Città trovò giunto poco innanzi il Pontefice. Appena accoltili in Bologna sì grandi Ospiti coll' universale tripudio, intrapresero essi assidue conferenze intorno alle rispettive mire. Tre erano i punti, cui premeva a Cesare di assestare in questo congresso : Verteva il primo sulla Religione a quel tempo lacerata da' Novatori; alla sicurezza e difesa della quale domandavasi dai voti di tutto il Cristianesimo la convocazione di un Generale Concilio. Consisteva il secondo nella proporta di Carlo V. al Pontefice di dare in Moglie al Duca di Milano Catterina de' Medici Figlia legittima di Lorenzo de' Medici il giovane, e quindi Nipote dello stesso Papa; sospettando l'Imperatore che i maneggi di Clemente VII. a lui noti per darla in Moglie al Duca d' Orleans secondogenito di Francesco I. Re di Francia nascondesero qualche trama in danno de'suoi Stati d'Italia. Riguardava il terzo.la desiderata quiete, e sicurezza d' Italia, a mantener la quale non v' era altro mezzo che una poderosa nuova Alleanza . Ridotti infatti questi punti a seria discussione si trovò immaturo il tempo per la Celebrazione del Generale Concilio; Clemente VII., che non si era dimenticato della sua prigionia, nè del sacco di Roma, ricusò il secondo, aspirando a partiti più luminosi; il solo terzo, cioè la nuova Alleanza o Confederazione, benchè rigettata dai Veneziani, fu solennemente conchiusa col plauso di tutta l'Italia, e venne pubblicata l'anno 1533. ne1 giorno 24. di Febbrajo a Cesare tanto felice . I principali interessati in questa Lega furono il Sommo Pontefice Clemente VII. , Carlo V. Imperatore, Ferdinando Re de' Romani, Francesco II. Sforza Duca di Milano, Alfonso d'Este Duca di Ferrara, i Genovesi , í Sanesi, ed i Lucchesi ; come anco il Duca di Savoja , il Duca di Mantova, e tacitamente pure i Fiorentini. Fu per ultimo determinato per ciascuna delle parti un proporzionato sussidio, ossia contribuzione a mantenimento di un Esercito, di cui si elesse a Capitano Generale il celebre Antonio de Leyva, fissandone la sua ordinaria Residenza in Milano. Terminato il gran Congresso, Carlo V. nell'ultimo giorno di Febbrajo li congedò dal Pontefice e s'avviò a Mantova; e nel dì 10. di Marzo partì pure da Bologna Clemente, incamminandosi verso Roma. Non essendo però quieto l'animo del Papa intorno allo stabilimento e grandezza della sua Famiglia in Firenze ; nè contento gran fatto della parola ottenuta da Cesare, che sarebbesi data in Moglie al Duca Alessandro suo Nipote Margherita figlia naturale di esso Augusto, si determinò senza verun ríguardo all' alta sua dignità (I) di portarsi a Nizza, indi in Marsiglia per abbeccarsi col Re Francesco I., ed ivi conchiudere, conte fece , il Matrimonio di Catterina de' Medici con Arrigo Duca d' Orleans secondogenito del Re suddetto. Così Clemente bilanciandosi accortamente fra le contese di due grandi Emuli che sconvolgevano l'Europa senza dichiararsi amico o nemico d'alcun di loro, gli faceva servire all'ingrandimento della sua famiglia , coglieva le occasioni, e non si esponeva alle vicende , non dimenticava il sacco di Roma. Tali sono i sentimenti coi quali termina questo punto di Storia un celebre vivente Scrittore nel Tomo III. di un suo Inedito MS., annunciato e lodato nel Tomo I. della presente Opera alle pagg.,31. e 32. Ma tornando al nostro proposito , giunse Carlo V. in Mantova accompagnato sempre dal Duca Francesco Sferza, indi passò


(I) Muratori all'anno 1533. pag. 280. per Cremona, e Pavia, ove al dir del Bugati, volse veder i campi della rotta, e'l luogo dove fu preso il Re di Francia (I). Per ultimo volle pur Cesare felicitare la nostra Metropoli colla sua presenza; su di che il Burigozzi succintamente ne accenna (2), che il giorno 10. di Marzo Carlo V. entrò in Milano da Porta Ticinese sotto baldacchino, vestito semplicemente, con grande comitiva, e andò al Duomo, indi passò ad alloggiare nel Castello, il quale venne presidiato da' Cesariani, durante il suo soggiorno; essendo state addobbate con panni preziosi tutte le strade per le quali passò il Monarca. In questo frattempo il Duca Francesco andò a soggiornare nel Convento delle Grazie dal suddetto Caslello non guari discosto. Dimorò l'Imperatore in Milano quattro giorni, mostrandosi nell' aspetto sempre affabile; in uno de' quali volle assistere ad una Messa Solenne nella Metropolitana. Partì poi il giorno 14. Marzo per Vigevano, dove il Duca Sforza lo trattenne alcuni giorni nelle Cacce (3) ; quindi passò ad Alessandria, poscia a Genova per ritornarsene nelle Spagne. Nel corso di quest' anno 1533. accadde in Milano una atrocità, che non inopportunamente si vuol quì registrare. Un Gentiluomo Milanese della Famiglia de' Maraviglj (4) erasi stabilito in Francia sino dal Regno di Luigi XII., e vi si era arricchito servendo quel Monarca, ed il Successore Francesco I. Era egli Zio del Gran-Cancelliere Francesco Taverna, cui vedemmo sostituito al Moroni. Taverna n'andò per commissione in Francia ; e trovandosi a Fotainebleau col Re, concertò seco lui di far risedere in Milano un suo Ministro, il che sarebbe siato di piacere


(I) Libro VI. pag. 816. (2) Libro IV. fogl. 78. e 79. (3) Bugati Lib. VI. pag. 816. (4) In Milano trovati anche al presente una contrada che porta il nome di questo casato, come lo sono altre dette dei Visconti, Stampi, Moroni, Resta, Piatti, Medici, Bigli ec. [postilla autografa di Stendhal]

qui felice 7.[Septem]bre 1811.

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] piacere al Duca, e di giovamento al medesimo, al quale tornava bene il vegliare per ogni modo sull'Italia. Questa proposizione piacque a Francesco I., che volendole dar effetto conchiuse col Taverna., che a fine di non isvegliare sospetti in Carlo V. collo spedire un Franzese con pubblico carattere, il Maraviglj assumesse questo incarico, siccome quegli, il cui ritorno in Patria non poteva essere misterioso. Fu egli perciò munito di doppie Lettere: l'une Credenziali, l' altre di mera raccomandazione. Coll' avvertenza che le prime tenessersi segrete, e delle seconde sole si facesse uso. Ciò fermato, ed assegnatosi stipendio al Maraviglia, egli sen venne a Milano. Quivi si produsse egli con inusitata pompa troppo giovenilmente, per non dire scioccamente. Vedevasi usare alla famigliare col Duca: sempre alla sua Corte ; sempre in sua compagnia sì alle Feste Sacre, che ai pubblici divertimenti. L' Imperatore ne fu avvisato; ne chiese conto al Duca, dal quale sebbene fossergli comunicate le lettere visibili di raccomandazione, non potè tuttavia togliere dalla mente di Carlo il sospetto d'una nuova fellonìa. Un Gentiluomo di Camera del Duca, della famiglia Castiglioni, vedendo il Maraviglia con sommo fasto e corredo passare in compagnia del Duca, voltosi ad un domestico del Maraviglia, lo investì con isconce parole villaneggiando il suo padrone. Nacque perciò un alterco per modo, che appena passato il Duca, stavasi per venire alle mani fra i domestici d'ambe le famiglie. Interpostisi alcuni Cavalieri ad accomodare il dissidio furono separati per allora. Castiglioni negò di aver detta veruna ingiuria, e Maraviglia ne parve soddisfatto; ed il Duca comandò che più non se ne parlasse. Ma il Castiglione niquitosamente affettò di passare più volte innanzi al Palazzo del Maraviglia accompagnato da un branco de'suoi Bravi, coll'opera dei quali attaccò una sera, e pose in fuga cinque domestici del Maraviglia. Quelli ebbe perciò ricorso al Giudice, che promettendo farne pronta giustizia, non ne fece altro. altro. Castiglioni allora cominciò da capo a novamente insultare i domestici del Maraviglia, i quali prevenuti ed armatisi in una notturna mischia fecero cader morto il Casliglione in sulla pubblica via. La mattina seguente, che fu un venerdì, giorno 4. di Luglio 1533. quello stesso Giudice che non volle prevenire il male, eccoti venirne, e condurre prigione il Maraviglia co' suoi, e mettere i domestici alla tortura senza risparmiar nemmeno un povero vecchio sordo di ottant'anni. La Domenica notte va il Giudice dal Maraviglia, gli fa troncar la testa nel Carcere, e fa esporre il di lui corpo il lunedì mattina 7. Luglio sulla pubblica piazza. Un parente del Maraviglia corre senza indugio in Francia , ed avvisa il Re dell'insulto fattogli nel suo Ministro. Da tutto quello potrebbesi inserire a buon diritto, che il Duca sempre ligio ai cenni di Antonio de Leyva, mal potess comportare di far la misera figura di un ragazzo sotto il pedante; e cercasse quindi alcun mezzo, onde sottrarsì a sì vituperosa servitù. Ed a questo sembra dover attribuirsi la di lui brama di avere presso di se un Minisiro del Re di Francia, col quale all' occassone prendere un partito ; ma che sciaguratamente svelatasi la cosa , siasi il Duca ridotto al miserabile ripiego di non si curare dei patti solennemente giurati con Cesare, e di cercare ad ogni modo pretesti di romperla seco lui, ed impegnarlo in nuove guerre col di lui gran rivale Francesco I. Che che ne sia, parlano dì quello fatto Montaigne Essais lib. I. cap. IX. des Menteurs, e nelle sue Mem. il da Bellay lib. 4. Arno!d. Ferron. lib. 8. Francisc. Valef. e Belcar. lib. 20. num. 50. Gaillard. Vit. Francisci Primi Tom. IV. pag. 246., dal quale vien citata a questo proposito la lettera di Franceseo I. al suo Ambasciatore in Inghilterra, segnata li 16. Luglio 1533. Il qual Re, oltre a ciò, ne Fece altissime querele presso tutte le Corti d' Europa. Carlo Quinto dal canto suo mostratosi soddisfatto della condotta dello Sforza, si rivolse a stringere seco lui parentado, col proporgli in isposa Cristina Nipote sua, come dirssi in appresso. Quanto era bramoso Clemente VII., e seco lui tutti i Principi d'Iitalia, che il Duca Francesco II. Sforza procacciasse di aver prole maschile, col menar Moglie; e si il Ducato di Milano non ricadesse, più in potere di Carlo V. imperatore, giusta i patti più sopra ricordati ; altrettanto premeva a Cesare cotello Matrimonio, onde più sempre sventare i disegni di Francesco I. Re di Francia, in cui scorgeva non deposto affatto il pensiero di appropriarsi quello Stato. A spegnere questa gelosia credette Carlo V. esser pregió dell' opera il procurare allo Sforza un Partito che lo avvalorasse eziandio d'una poderosa Alleanza atta a difenderlo in ogni evento. Parve a Cesare opportunissimo all'uopo dover essere il matrimonio di Cristina ( che altri appellano Cristierna) Figlia di Cristierno II. Re di Danimarca, e di Elisabetta Austriaca Sorella di Carlo V., e quindi Nipote di Cesare stesso. L' Imperiale proposta piacque al Duca Francesco, ed al Re Cristierno. Si conchiusero le Nozze ; ed il Conte Massimiliano Strampa Castellano, fu spedito da Francesco Sforza ad isposare in suo nome la Principessa Cristina. Burigozzo ci narra (I) ch' egli partì da Milano il giorno 23. di Agosto del 1533., e che il giorno di S. Michele iposò a nome del Duca la menzionata Principessa in Brusselles con incredibile magnificenza ; e che ai 13. di Ottobre giunse alle ore 22. in Milano la Staffetta colla consolante nuova di questo contratto Sposalizio, per cui si suonarono a festa le campane della Città, si fecero spari di cannone, e si resero solenni grazie a Dio per sì fausto avvenimento. Prima che la Duchessa Sposa giugnesse a Milano, si pose mano, al dir dello stesso Cronista, a fabbricare i Rivellini sì a Porta Lodovica, che a Porta Ticinese, onde munire i Sobborghi all' occasîone di guerra. Ma quelle prime opere vennero poscia incorporate alle mura sotto il Governo di Ferrante Gonzaga.


(I) Lib. IV. pag. 80. 81. Giunse finalmente la gradita notizia in Milano verso la fine di Aprile, che la Sposa Reale intraprendeva il suo viaggio alla volta di quella Metropoli per unirsi al suo Sposo. Allora Milano, tuttochè ridotto a grande inopia, non lasciò di fare tutti i preparativi più solenni per tale venuta. Contribuì pure alla maggiore grandiosità degli apparati il Duca Sposo, sebbene l' Erario Ducale smunto fosse ed esausto dai sofferti disastri. L'esito superò l' aspettazione. Il giubbilo universale comunicossi ben presto alle altre città dello Stato, le quali diedero contrassegni ben manifesti del loro godimento. Determinate le vie per cui passar dovea la Principessa nel suo solenne ingresso, entrò essa in Milano da Porta Ticinese, quindi dirittamente se ne andò alla Metropolitana, e di là al Castello abitazione del Duca Francesco. Il Burigozzo prossiegue a descriverci (I) gli Archi trionfali eretti con Statue, Armi , ed Iscrizioni, che furono in numero di sei. Il primo al Dazio di Porta Ticinese, il secondo al Ponte di detta Porta, il terzo a S. Michele al Gallo, il quarto presso S. Nazzaro alla Pietra Santa, il quinto alla Porta del Castello, ed il sesto nella piazza interiore del Castello medesimo. Nel mezzo poi della strada del Cordusio eravi un ben inteso gruppo di figure, le quali gettavano acqua. Le strade erano per tutto mirabilmente riattate, e coperte di padiglioni. Spiccavano sopra ogni credere gli ornati della facciata del Maggior Tempio, ed assai più il vasto suo interno ; cosicchè ( sono precise parole di Burigozzo ), all'entrare de quella Ecclexia pariva entrare in Paradixo. Disposte così le cose , giunse la Duchessa Cristina alle porte di quella Città nella Domenica del giorno 3. di Maggio, e non nel Mese di Aprile, come scrisse il Muratori (2). Intorno poi a cotelo suo solenne ingresso, parmi

(I) Lib. IV. fogla. 82 (2) Annali al 1534. pag. 285.Vedi Tatti Annali di Como Decade III. Ghillini Annali di Alessandria, e Cicerejo Tomi 2. pag.123. parmi che la semplice comechè rozza descrizione che ne sa il Burigozzo, sia la più opportuna di qualunque altra, trattandosi di Scrittore che ne fu testimonio di vista: a dì 3. May, egli dice (I) , in Dominicha circa a 21. hora feze la intrata la Duchessa nostra de Milano, e fu in quello modo : Rivata che fu ditta Duchesa andò nel Monasterio de Santo Eustorgio, e li stette fina a hora debita, che fu pox el Vespero del Domo, finito el ditto Vespero, congregato tutta la Gierexia nel Domo se comenzò a partirse verso porta Ticinese, e rivati li Signori Ordinarij alla porta della Città comenzò el trionfo a passare dentro, e aviarse verso el Domo, et prima dui gran maggiori a cavallo de vestiti de veluto negro, e poi seguitando una compagnia grossa de Milanexi, quaxi tutti vestiti de turchino con la banda turchina, poi un altra compagnia con li armaroli tutti in ponto, e bella gente, e ben armati , con sua banda verde , et erano queste due compagnie circa 400. Da poi uno numero grande de Signori tutti a cavallo a dui, a quattro passando in ponto più l'uno, che l' altro. Poi numero 6. squadre de Trombetti , qual sonavano a loco, e tempo. Poi una compagnia de gentil homeni de grandi de Milano tutti vestiti de bianco con, el suo penaggio biancho, e la sua picha in mano , questi non havevano banda nessuna, se non soy tamburi tutti vestiti de bianco, quali , feveno uno vedere troppo maraviglioxo, et erano a numero cercha 200. Poi la guardia del Signor Antonio de Leiva sì lui, come anchora 8. gran Maggiori. De poi el Baldachino portato da Dottori, qual erano in gran numero apparati per portare tal cosa , sotto e qual baldachino ghera l' Illma Duchessa tutta vestita de brocato d'oro, e alla franzetta ; e apresso de lei ghera el Cardinal de Mantova (2) . Per Staffieri de sua excellentia gherano 12. Conti de' primi della Città nostra vestiti de veluto fodrato de brochato d' oro recamato con le tue barette con le penne dentro , che ciascheduno de loro parevano uno Imperatore, e

(I) Lib. IV. fogl. 83. (2) Ercole Gonzaga. questi tali stavano appresso alla persona de sua Excellentia, talche parea che sua Exellentia fosse in un boscoin mezzo de quelli Baroni per quelli penaggi bianchi tanto grandi quant'havevano . Della bellezza de sua Excellentia veramente è più gera divina che humana , ma de pocha ettade (I) . Poi seguitava el Signor Presidente con altri Episcopi e Senatori, e molti altri gentil homeni, e così rivando alla pizza del Castello fu tirata l'artellaria de allegrezza, ma inanzi che andasse al Castello andò prima in Domo, e già era retornata la Gierexia al Domo, e li la receptorno nella Ecclesia del Domo, danddogli la pase, con le orazioni solite, e così se partì, e anadò poi per la strata nominata giorni avanti, e andò al Castello, e lì restò, et el Castello tirò gran artellaria, e alle hore 3. ognuno andò ne soy logiamenti, perchè era hora de cena. Attesta di più il Burigozzo che il Duca Francesco Sforza volle pur esso, ma inosservato, vedere cotesto trionfale ingresso della sua Sposa. Pervenuta, come si è detto questa Principessa al Castello le venne incontro il Duca, che appena reggevasi col bastone in piedi attesa la non ancora totalmente ricuperata salute; e nel dì seguente celebraronsi le feste Nuziali con pompa ed esultazione corrispondente al giubbilo di tutta l'Italia, che da tale Matrimonio si prometteva una stabile tranquillità. Dopo alquanti giorni di quiete, passati tra la feste dei Cittadini, ed i carteggi degli Ambasciadori dei Potentati, del Legato del Papa, e del Protonotario per l'Imperatore Carlo V., fecesi la novella Duchessa vedere finalmente da suoi fedeli sudditi il giorno 14. di Maggio, trasferendosi in isplendida gala coll' accompagnamento dei suddetti unitamente allo sposo dal Castello, ordinaria residenza in allora de'Sovrani, alla Metropolitana per la festa dell' Ascensione, ad ascoltare quivi la Messa solenne. Ned altro abbiamo dagli Scrittori Milanesi intorno a questi Principi nel corrente Anno 1534., se non che volle il Duca

(I) Cioè di anni 15. Francesco Fosse la Funzione del Corpus Domini celebrata dalla Metropolitana il giorno stesso di tale Solennità, e non già nell' ultimo giorno dell' Ottava, come faceasi per l'addietro (I). Per altro il silenzio del Burigozzo mi fa dubitare, che le allegrie di queste Nozze venissero fieramente e continuamente turbate dalla cagionevole salute del Duca Sforza, come vuolsi argomentare da ciò, che fra noi guaridiremo. Al volgere di quest' anno 1534., e più precisamente sul cadere del Luglio fu fatta da Milanesi una straordinaria spesa per la cotruzione dei Ponti, e Tavolati necessarj ad alzar la facciata del Duomo sino ai primi tetti, come vedesi pure anche in oggi (2). Ne quì tralascerò di accennare (per la moltissima relazione che ha colla nostra Storia) la morte seguita in Roma il giorno 25. di Settembre di Papa Clemente VII., di cui abbiam parlato tante volte sin qui. Il di lui carattere fu descritto con imparzialità Storica del Guicciardini e dal Muratori senza che io


(I) Burigozzo Lib. IV. fogl. 84. (2) E' strana a dir vero la inesattezza de'nostri Autori nella Descrizione del Duomo. Meritava almeno questa gran mole d'essere misurata fedelmente, e se non era comodo il verificarne l'altezza precisa, almeno prima di avventurarne una asserzione dovevano accertare quanta fosse la lunghezza massima e la massima larghezza . Per concordare sì varianti opinioni il ch. Ingegnere Ottavio Torelli nel 1782. ne ha prese le più esatte misure, che risultano. Lunghezza - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Braccia 249.e mezzo Larghezza alla Croce - - - - - - - - - - - - - - " 129.e mezzo Lerghezza collo sfondato delle Cappelle alla Croce " 148.e mezzo Larghezza della Chiesa comprese tutte le cinque - navi da muro a muro - - - - - - - - - - - - - - " 97. Altezza della Nave maggiore - - - - - - - - - - - " 78. Delle navi medie - - - - - - - - - - - - - - - - - " 50. Delle Navi minori - - - - - - - - - - - - - - - - " 40. Dalla sommità della lanterna sino al piano del Duomo - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - " 126. Della Guglia compresa la Statua - - - - - - - - - - " 54. mi ci estenda di più (I). Gli succedette il Cardinale Alessandro Farnese Romano Decano del Sacro Collegio, assunto al Pontificato ad un'ora o due della notte susseguente al giorno 12. di Ottobre, col nome di Paolo III. Uomo venerando non tanto per l'età di sessantasette anni, quanto per la grande sua prudenza e dottrina. Nota finalmente il Burigozzo che tra il cadere del 1534. e il principio del 1535. un certo Frate Bono di Cremona ; Uomo dabbene e penitente, che vestiva sacco, diede principio allo stabilimento delle Convertite di Santa Valeria, radunandole in una casa da lui comperata in Porta Vercellina per mezzo S. Francesco da banda sinistra andando verso S. Ambrogio, e ridotta a foggia di Monastero, al quale oggetto andava egli questuando per la Città. Durò quello pio ricovero 251. anni, essendo stato poi distrutto nel 1785. In quel torno pure ebbero origine tra noi i Cherici Regolari Barnabiti , e le Angeliche di S Paolo. Si vedono (scrive il Burigozzo (2) ) certi Preti con abito abietto, con una beretta tonda in testa, e tutti senza capelli e tutti vestiti a un modo, vanno con la testa bassa et abitano tutti insema verso S. Ambrogio (3), e li dicono che fanno li suoi offozj, e li viveno de compagnia, e sono tutti gioveni, poi un' altra compagnia de giovenette, qual ghe dicono Dimesse, vanno alla cercha certi dì della septimana a certi soi lochi, et vanno malvesite con un patelazzo de lino in testa, la testa bassa, serrate denanzi fino sotto la gola, senza ornamento nessuno attorno vanno per Milano 4. e 6. alla volta, però con una compagnia di una o do vegiette dredo, et vanno con el volto descoperto, e queste tal compagnie si de Preti si de queste putte, pare che sia


(I) Guicciardini Lib. 20, pag.112. Muratori Annali al 1534. pag. 287. (2) Burigozzo all' anno 1535.Lib. IV. fogl. 86. (3) Nel circondario della Chiesa detta di S. Agostino, a quali nel 1538. fu donata la Chiesa di S. Barnaba loro primo Collegio, per cui questi Preti furono poi detti Barnabiti. capo una Contessa, qual ghe dicono la Contessa de Guastalla (I). La più interessante, e ad un tempo più funesta memoria del corrente anno 1535. si è la morte di Francesco II. Sforza ultimo Duca di Milano. Fu questa a lui cagionata da confunsione in età di quarantatre anni; non avendo egli vissuto un anno e mezzo compiuto, colla Sposa. Seguì un tale infortunio, che pose in desolazione tutta la Città di Milano, il giorno primo di Novembre a notte avvanzata (2). Principe , di cui gli Scrittori ci lasciarono una onorevole memoria per l'ingegno, la perspicacia, e la


(I) La celebre Contessa di Guastalla e di Reggio, beneficò largamente la benemerita nascente congregazione de' Cherici Regolari di S. Paolo; ed eresse per queste Vergini esemplarissime l'insigne Monastero di S. Paolo, spendendovi del proprio la somma di ottanta mila Scudi. Ai 7. Ottobre del 1535, cominciarono le suddette ad abitarlo. Così il Morigia nella di lei Vita. (2) Così il Burigozzo Lib. IV. pagg. 88. La morte del Duca Francesco II. Sforza viene fissata da Maurini Art de verifier les Dates pag. 840. al giorno 24. di Ottobre del 1535. Dal Bugati pag. 827. nel fine di Ottobre. Dal Morigia Storia di Milano pag. 105. all' ultimo di Ottobre; e finalmente da altri il due Novembre. Sebbene io non creda di tanta importanza per il progresso delle umane cognizioni il dilucidare cotesti dubbi, quanto per avventura lo crede il dottissimo Canonico Lupi di Bergamo, che in un volume in foglio stragrande ha adoperata la sua inesausta pazienza per indovinare simili punti realmente indifferentissimi per conoscere bene la Storia, pure a rinvenirne il vero speditamente ho fatta di ciò ricerca nell'Archivio Arcivescovile; dove nel Diario A. del 1534. al 1580. al fogl. 36. Tergo, ho trovata l'annotazione che il Duca Francesco II. morì il giorno primo di Novembre 1535. Se quel ch. Scrittore avesse compresa la pagina 57. ch' ei cita del mio primo volume non si sarebbe fatte le maraviglie ch'egli innocentissimamente si è fatte alla colonna mille quaranta del suo immenso tomo . Se mai alcuno leggerà quell' Opera sappia che l' altra Storia di Milano, ch' ei mi pone in confronto è stata da me donata alla Biblioteca Ambrosiana, dove ciascuno che il voglia potrà profittarne. bontà del suo carattere. L' avversa sua sorte non gli diè tempo, nè mezzi di tramandare ai posteri alcun illustre documento. Ben è vero che tutti i Prinicipi nelle sciagure si mostrano buoni, singolarmente allorché sperano di veder cangiato l' aspetto delle cose col mezzo della pubblica opinione. Questo infelice Principe nella tenera età di otto anni vide rovinata la Corte Paterna ; prigioniero suo Padre ; se stesso esule dalla Patria, e costretto a procacciarsi un asilo in Alemagna. Ritornato in Patria dopo dodici anni di esiglio, vi passò tre anni sotto il dispotismo del Fratello sospettosissimo col sofferire la umiliante militar protezione degli Svizzeri. Scacciato nuovamente dalla Patria, ricominciò un secondo esiglio per sette anni, che terminò poi all' età di trent' anni allorchè assunse il titolo di Duca, titolo che dovea rendere amarissime le sciagure proprie e de' sudditi, alle quali, mancando esso di forze e di denaro, non poté rimediare. Terminò così con quello sventurato Principe, morto senza Successione, la grandezza della Casa Sforza, che nel periodo di ottantacinque anni ebbe principio e fine. Una Imperatrice e due Regine nacquero da questa Famiglia. L'Imperatrice fu Bianca Maria Sforza, Moglie di Massimiliano Imperatore, Figlia del Duca Galeazzo Maria: una Regina di Napoli fu Ippolita Maria Sforza Figlia del Duca Francesco I. e Moglie del Re Alfonso Ii., e l'altra Regina di Polonia, fu Bona Sforza, Figlia del Duca Giovanni Galeazzo, e Moglie del Re Sigismondo (I). Sei Duchi Sforza ebbero la Signoria di Milano, e del suo Stato; due dei quali, il primo cioè e l'ultimo morirono pacificamente Regnando; e gli altri terminarono la loro vita trucidati, od avvelenati per congiura, o prigionieri in Francia. Osservai nel Tomo I. pag. 440. come otto de' dodici Visconti perirono

(I) Si maritò nel 1518. e morì in Bari nel Regno di Napoli il giorno 17. Settembre del 1558. perirono miseramente: osserviam ora che quattro de' sei Sforzeschi finirono con non minore infelicità . Appena di tre Principi uno potè terminare i suoi giorni in pace tanto nella discendenza Visconti, quanto in quella degli Sforzeschi. Ora, mi si dica se sia poi tanto invidiabile la sorte de' Grandi ; e se abbiano torto i Saggi di ogni età di dare il nome di Aurea alla mediocrità della fortuna, lontana ugualmente dalla inopia che dall' ambiziosa grandezza! Felice colui, che fa oltrepassare la mediocrità nella sola virtù, ne sentimenti, nella coltura dell' ingegno , e che si propone saggiamente per meta de' suoi desiderj quel detto di Teognide: Non volo, non opto ditescere; su mihi tantum

Vivere de parvo, nil sed habere mali.

Ripigliamo il filo della Storia: al Conte Massimiliano Stampa Castellano del Castello di Milano, toccò l'incumbenza di far disporre il tutto per le solenni Esequie del defunto Duca Francesco ; e sì magnificò su l'apparato lugubre nella Metropolitana, che su mestieri il differirle fino al dì 19. di Novembre stesso. In tanto il Cadavero dello Sforza chiuso in una cassa coperta di velluto nero, fu di notte trasportato dal Castello al Duomo coll' accompagnamento di tutto il Clero Metropolitano, e riposto in luogo appartato, finchè fossero celebrati i solenni Suffragj; dopo de' quali il di lui Sarcofago ornato alla Ducale venne collocato nella Metropolitana suddetta nel sito stesso, dov' era quello di Gastone de Soix, vale a dire fra i pensili avelli de' Duchi suoi Predecessori. Per dare poi un idea del costume di que' tempi anche nelle pompe funebri, penso che non sarà discaro il leggere quì l' esatta descrizione del funebre trasporto dal Castello al Duomo del Duca Francesco Sforza , stesa dal nostro Burigozzo, e da esso personalmente veduto, e registrato nella sua Cronaca in questi termini (I). 1535. a dì 19. novembre fu

(I) Burigozzo, lib. IV, fogl. 89. e 90. fatte le Exequie di sua Excellentia, e furono fatte a questo modo. Prima la strataf fu dal Castello al Domo per la strata dritta, zoè dalla Contrà del Majno a Santo Nazaro Pietra Santa ; e verso Santa Maria Segreta, e al Cordusco infino alla Doana, e poi dalla Dovana al Domo.Questo è quanto alla strata, seguita l' hordene, prima numero grande de legno, poi mille poveri tutti con el capuzino negro, e la torgia in mane con uno Ducal pento in carte attacado alla torgia, e andavano a dui a dui, pòi li frati prima de Santo Ieronimo, poi li altri ordeni de frati seconda el suo ordene, et al fin de questi venne la fameja de tutta la Corte, quali erano vestiti de negro, el numero de quali fu grando, e questi tali havevano mantello negro . Poi seguitò le Abazie con le Canoniche de Milano. Finido questi venne li Offiziali de sua Excellentia , zoè li Grandi con el capuzo in testa , e tutti li havevano le veste longhe a terra cosa grande da vedere , el numero de quali fu grandissimo, et tutti andavano a dui a dui. Poi venne la Ecclesia del Domo zoè li Vegioni e le vegione, poi li Capellani, poi li Mazachonisi , di poi li Sacristani, poi li Signori Ordenarii, e poi li Lectori, e qui finisce la Gierexia. Poi seguitò un giovinetto gentihomo tutto vestito de veluto negro, et haveva una spada bellissima aposata alla sua spalla. Dredo a questo un altro giovinetto vestito simile al primo, e lui, e il cavallo, et haveva uno bastono in mano tutto indorato. Poi seguitò li Cortesani de sua Excellentia, quali tutti con le veste negre a terra con la gran coda, e el capuzo in testa, tutti a dui a dai, el numero de quali su assai . All' ultimo di questi venne la sua guardia de Lanzinechi vestiti de negro tutti in zupon con le sue alebarde in spalla. Poi qui li era la mula di sua Excellentia tutta coperta de veluto negro a terra con li stafferi, come se propriamente si fosse stato sua Excellentia, ma non li era se non la mula vota. Poi seguitò la guardia de cavalli legeri a piedi , però con le sue zanette in spalla , e questi tali havevano uno manto negro in dosso. Da poi seguitò el Corpo de sua Excellentia, ma non però che fusse el suo Corpo, perchè non fù possibile poterlo conservare infina a tanto, e per questo fù fatta una imagine a sua similitudine, e quello fu fatto a tale effetto . Era vestito de brocato d' oro rizzo soprarizzo longo a terra fodrato di pelle di gran valore, haveva un saio de veluto cremexo, un sajon de raso cremexì, un paro de calze de scarlata con le scarpe de veluto cremexì con una bacchetta in mane, et haveva la baretta Duchale in testa , qual baretta era bizara , e fu portata la sua persona quatada de brocato sotto el balduchino de tela d' oro , e questo balduchino si anchora sua Excellentia fu portato dalli Dottori dell'una e l'altra Legge . Da poi questi venne li Condizionati Signori. Prima el Signor Joan, Paulo Sforza suo Fratello, el Signor Antonio de Lejva, li Signori Ambasciatori sì de Veneziani, sì delle altre Signorie, poi uno numero grande de altri Signori che numerare non se potevano, pur tutti questi tali con le veste a terra negre, et a questo modo fu finito le exequie de sua Excellentia . In ultimo aggiunge il Burigozzo che le Esequie Furono continuate in Duomo per due giorni consecutivi, e colla precedenza del suono delle Campane di tutta la Città per un' ora di tempo; e che nel primo dì dei Funerali Messer Gualtero da Corbetta feze uno sermone in laude de sua Excellentia, che fu coxa maraviglioxa . CAPO VIGESIMOSETTIMO

Tentativi e progetti per la Successione nel Ducato di Milano. Congresso di Nizza . Entrata di Carlo V. in Parigi ed in Milano. Pace di Crespy. Morte del Duca d' Orleans dichiarato da Cesare Duca di Milano, e prima Sessione del Concilio di Trento.

Eseguita la morte del Duca Francesco II. Sforza, Giovanni Paolo Sforza Marchese di Caravaggio, figlio naturale del Duca Lodovico, e fratello del Duca defunto, consigliato da molti amici, cavalcò per le poste alla volta di Roma, affine di impegnare il Papa presso Cesare , ed ottenerne il Ducato di Milano. Il diritto in esso lui di successione avea indubitatamente minori ostacoli di quello, che allegò in suo favore il primo Sforza, di essere lui cioè marito marito di una Figlia naturale di Filippo Maria Visconti. Ma il Marchese di Caravaggio era in tutto sfornito dell' alto presidio della gloria militare di Francesco, primo degli Sforzeschi , che lo condusse felicemente al soglio Ducale. Ben gli è vero però, che gl' interssi del Pontefice, de' Veneziani, e de'Toscani consigliavano di dar opera, che il Ducato di Milano non cadesse nel dominio di Cesare, già Sovrano del Regno di Napoli, e di tant' altra parte del Mondo. La Francia avrebbe forse appoggiata una tal successione , disperando di avere per se il Milanese: Ma passando (Giampaolo) gli Appennini fu assalito da un velenoso flusso che gli tolse vita (I). Il Conte Massimiliano Stampa Castellano fu spedito con altri Deputati all'Imperatore. affine di riconoscerlo a nome della Città e dello Stato legittimo Sovrano loro sì per le ragioni dell' Impero, come anco per commissione del Defunto Duca. Cesare benignamente gli accolse; diede il Marchesato di Soncino al Conte Stampa, lo confermò Castellano; dichiarò Antonio de Leyva Governatore Generale dello Stato, che ne prese poi il possesso in nome suo, e confermò ciascuno nel proprio ufficio. Giunse questo Cesareo riscontro in Milano il giorno 27. di Novembre del 1535., il quale mitigò la sofferta grave afflizione de' Milanesi a segno che furono suonate a festa tutte le campane, dice il Burigozzo , e nel Castello vi fu sparo strepitoso di Artiglieria per tre giorni. Era appunto in quel dì approdato a Napoli l' Imperatore dopo la gloriosa impresa di Tunisi, in cui vinse Barbarossa, terrore del Mediterraneo, e ripose sul Trono Muley Assan, cui Barbarossa avea depresso per regnare in sua vece. Stava presso di Cesare in qualità di Ambasciatore di Francia il Signor di Velley, il quale intesa l' estinzione della Linea de' Sforzeschi, intraprese a negoziare coll' Imperatore, acciocche investisse del Ducato di Milano Arrigo, Figlio Secondogenito del Re Francesco

(I) Morigia, Storia di Milano, p. 105. I., Duca d'Orleans, discendente dalla Valentina dal lato della Regina Claudia sua Madre, e Figlia di Lodovico XII. Chiedendosi il Ducato per il Duca d' Orleans, non si destava inquietudine tra Principi Italiani, i quali si sarebbero sgomentati invece, dove chiedendosi pel Delfino, si riunisse al Regno di Francia. Il Duca d'Orleans avea sposata Catterina de' Medici, unica legittima di quella famiglia. Il Re proponeva di rinunziare alle sue ragioni sopra la Toscana e il Ducato d' Urbino. Carlo V. tenne accortamente a bada il progetto, e più volte sembrò giunto il momento di una concorde conclusione ; ma nascevano poi nuove difficoltà . Si progettò talora di far Duca di Milano il Terzogenito del Re il Duca d' Angouleme ; ma il Re non voleva far torto al secondo. L'imperatore insisteva da un canto sul pericolo, che morendo il Delfino, il Milanese s' incorporasse alla Corona di Francia; ma cedeva dall' altro, e mostravasi finalmente contento di Arrigo Duca d' Orleans, a condizione però che Francesco I. interrompesse l'opera sua, onde ritornare alla Chiesa Cattolica Enrico .VIII. Re d' Inghilterra ; quindi ch' ei rinunziasse ad ogni pretendenza sul Ducato Milanese, come successore della Valentina; e riconoscesse puramente esso Ducato dalla Investitura Imperiale. Intanto Carlo V. mise in campo il Re di Portogallo, Giovanni III. suo Cognato, a chiedere egli pure il Ducato di Milano per l'Infante Don Luigi suo fratello. Insomma, quando sembrava mancare un tenue filo al compimento delle negoziazioni , destramente faceasi emergere di fianco un impensato motivo di nuova trattativa, qual era quello fra gli altri, che Francesco I. rompesse il Matrimonio progettato fra una Principessa della Casa di Vandome ed il Re di Scozia, col surrogare invece la Duchessa Vedova di Milano, Nipote di Carlo V. Il minuto racconto di questi raggiri sì può leggere nelle Memorie di Langey (I),

(I) Lib. V. che vi ebbe parte , e singolarmenre presso il Gaillard (I). Francesco I. frattanto, a cui dava nell' occhio 1'inresoluzione di Carlo V., ed in cui non era spento il pensiero di ricuperare il Milanese, anche per vendicare l' affronto fattogli nella persona del Maraviglia, sul cadere del 1535. trovò maniera di aprire la strada alla spedizione delle sue Armate in Lombardia, ed occupare così il Piemonte coll'intimare la guerra a Carlo III. Duca di Savoja. I pretesti non gli furono difficili, allegando specialmente la parziale Alleanza di esso Duca oni Cesare. Non esitò quindi il Re Francesco a far innoltrare le armi sue comandate dall' Ammiraglio Filippo Chabot de Brion;e già nel mese di Marzo del 1536. trovavansi nel Piemonte ottocento dieci Lance, mille uomini di Cavalleria leggera, e ventitrè mila Fantacini Francesi. Il Duca di Savoja abbandonò Torino, e si ritirò a Vercelli, ed i Francesi s' impadronirono di tutto il paese sino alla Sesia (2). Intesa da Carlo V. la nuova impensata di questa irruzione, quantunque egli si trovasse in Napoli a goder delle sette colà principiate per lo Sposalizio da lui finalmente accordato della Principessa Margherita sua Figlia con Alessandro de' Medici Duca di Firenze, stimò opportuno il trasserirsi a Roma per fare le sue doglianze con Papa Paolo III. contro del Re di Francia, ed interporlo mediatore di queste ostinatissime differenze. Giunse in quella Capitale l' Imperatore il giorno 6. di Aprile. Ivi eranvi il signor de Velley Ambasciatore Francese che lo seguiva, ed il Vescovo di Macon Ambasciator Francese presso del Papa. Carlo V. malcontento del Re Francesco entrò nella sala del Concistoro, dove erano radunati i Cardinali aspettando il Papa. Il Papa fece pregare l' Imperatore di entrare da lui; ma Carlo V. rispose che voleva ivi

(I) Tom. IV, p. 273 e sg. (2) Burigozzo, lib. IV, fogl. 92 e 93. aspettare il Santo Padre, il quale tosto comparve col numeroso suo corteggio. L' Imperatore disse che aveva cose premurose da esporre in presenza del Sacro Collegio ; il Papa voleva che tutti uscissero trattine i Cardinali. Nò, disse Cesare, ciascuno rimanga : bramo che il Mondo tutto sapia quello ch' io sono per dire. Poi prese a tessere la Storia della condotta di Francesco I., la prigionia di lui, la moderazione propria, il trattato di Madrid, la mancanza totale di fede, la disfida ed il rifiuto del Re. Mostrò la uniforme costanza di rettitudine e sede dal canto proprio; dipinse la invidiosa e subdola politica del Re ; ricordò il vano pretesto dell' invasione nel Milanese per il supposto carattere pubblico del Maraviglia ; la invasione attuale fatta nel Piemonte minacciando il Milanese ad onta del trattato di Madrid e di quello di Cambrai; la disposizione propria per la pace, al qual fine dimenticando ogni ingiuria era pronto a dar l'investitura del Milanese ad un figlio del suo Rivale; non però al Secondo, atteso il prossimo caso di averli a riunire alla Corona di Francia quello Stato, e la ostinazione del Re di volerne ad ogni patto investito il Duca d' Orleans Secondogenito. L' Imperatore con pari eloquenza e magnanimità propose in fine tre partiti; o la pace ed il ducato di Milano pel Duca d' Angouleme Terzogenito del Re; o un Duello fra lui e il Re; ovvero la Guerra. Il Duello sarà colla spada e pugnale, e la Guerra sarà tale ch' ei non deporrà le armi, finchè non abbia ridotto il nimico, o non sìa ridotto ei medesimo allo stato del più povero gentiluomo dell' Europa; e proruppe, parlando de'Generali Francesi, in queste troppo animose parole: S' io ne avessi di simili verrei sin d' ora colle mani giunte e la corda al collo ad implorare la misericordia del mio nemico. Il Papa, i Cardinali, i Ministri esteri, i Prelati, e più di tutti, i due Ambasciatori Francesi rimasero attoniti, ammutoliti e confusi. Osservando l' Imperatore questo silenzio, rivolgo a Velley ed al Vescovo di Macon, disse che avrebbe fatto consegnare loro in iscritto il discorso . Il Papa prese a parlare, e parlò da Padre comune ed imparziale, insinuando ad ogni modo la pace; e così terminò cotesto famoso Concistoro (I). Ma per quanto s' interponesse Paolo III. affine d'indurre Francesco I. a fecondare le buone disposizioni di Cesare; persistendo egli nella dimanda che fosse data l' Investitura del Ducato di Milano al suo Secondogenito; le speranze di accomodamento e di pace tutte in sul più bello si dileguarono. Antonio de Leyva che sedevasi al Governo del Milanese, veggendo i rapidi progressi dell' Esercito Franccse, radunate quante Milizie gli fu possibile accorse ai 30. di Marzo con tutta fretta ad impedire ai nemici ogni avvanzamento; e pose un buon presidio in Vercelli, al mantenimento del quale fu imposta nel Milanese una taglia sopra la macina ed il sale, accordata poi e ressiduata dal Corpo della Città di Milano in sei mila ducati al mese, al dir del Burigozzo (2) ; cosicchè i Francesi, per le difficoltà di ulteriori progressi , ritrocedettero, fermo restando il Campo Cesareo in que' contorni . Ne mancarono i Veneziani di vegliare anch' essi alla difesa dello Stato di Milano, aggiugne il Muratori (3) in virtù della Lega contratta con Cesare l'anno precedente. In quello frattempo, cioè ai 24. di Aprile giunse in Milano da Vercelli la Duchessa di Savoja col figlio, e il dì 25. il Duca di Savoja suo Marito, i quali portatonsi ad alloggiare in Castello presso la Vedova Duchessa di Milano, accolti col disteso suono delle Campane di tutta la Città, e con repplicati spari di artiglieria. Questi due Personaggi per conpensare in qualche modo la festevole accoglienza loro fatta dai Milanesi , avendo seco trasferito da Torino la Sacra


(I) Su di ciò veggansi Beaucaire, lib. XXI, num. 22 e sg. - Sleidan, Commentar., lib. X. - Mèmoires de Langey, lib. V. - Gaillard, tom. IV, p. 305 e sg. (2) Lib. IV, fogl. 92. (3) Annali al 1536.pag.301. Sindone, in cui piamente credesi essere stato involto il Corpo del Divin Redentore, ordinarono che la si esponesse alla vist del Popolo sulla porta della Metropolitana ; indi per maggior sicurezza cambiata la disposizione, la fecero esporre sul Rivellino del Castello il giorno sette di Maggio, accorsovi un Popolo infinito, dice Burigozzo (2), ch' era cosa incredibile de vedere tanto numero de gente. Corrucciato sopra ogni credere l' Imperator Carlo V. per gl' improvisi e rapidi progressi de' Francesî in Piemonte, determinò di venire egli stesso in persona a vendicarne gli oltraggi; e non solo a difendere il Ducato di Milano, e quel di Savoja; ma ad assalire da più lati la Francia istessa, sua ostinata rivale. Radunato un forte Esercito di gente ben addestrata nelle armi, oltre i grossi soccorsi concertati coll' Alemagna e colle Fiandre, i quali dovevan raggiungere l' Armata Cesarea, s' incamminó verso la Lombardia; e senza entrare in Milano passò per Pavia affine di unirsi dappoi al suo Campo. Precorsa la fama della venuta Imperiale in queste parti, fu assai numeroso in Milano il concorso di Potentati, di Ambasciatori e Magnati, onde complimentare l' Augusto Cesare; fra i quali giunse pure il di 20. di Maggio il Duca di Baviera. La vedova Duchessa di Milano , la Duchessa di Savoja col Conte Massimiliano Stampa Castellano portaronsi con numeroso seguito ad incontrare la Maestà Cesarea il giorno 21. di Maggio, ed accompagnatolo a Pavia, dopo la breve dimora quivi fatta da Carlo V. si ritornarono incontanente al loro soggiorno. Cesare prese le mosse verso Asti città del Piemonte per vegliare d' appresso ai Francesi. Pervenuti quivi Antonio de Leyva col Duca di Savoja a ossequiarlo, egli partecipò ad essi ed a primari Condottieri dell'Esercito la sua risoluzione di


(I) Lib. IV, fogl. 93.tergo. portare la guerra nella Francia ad intendimento di vendicarsi dei torti, che riceveva dal Re Francesco. Alla Imperiale proposta si opposero con forti ragioni i Generali Alfonso d' Avalos Marchese del Vasto, Don Ferrante Gonzaga , il Duca d' Àlva, e quant' altri erano famosi Capitani della Imperiale Armata. Il solo Antonio de Leyva sempre coerente alle mire del Comando applaudiva alla Cesarea determinazione ; ciò su bastante a far che l' Imperatore s' accingesse ad eseguirla . Lasciando quindi i Francesi in Torino bloccati, s' impossessò del Forte di Cuneo, ed avviò le sue Armate verso la Provenza. Diresse Carlo V. le marce in guisa che l'Armata entrò appunto nei confini di Francia il giorno 25. Luglio, giorno di S. Giacomo Protettore degli Spagnuoli, giorno in cui l'anno antecedente era giunta in Affrica, ed aveva cominciata la impresa di Tunisi, e gloriosamente poscia condotta a fine. Ciò gli servì mirabilmente per animare i soldati. Fra i Principi, che seguivano l' Armata Cesarea contavansi Duchi di Savoia, di Baviera, e di Brunsvich; ai quali un'accidente fece aggiugnere Francesco Marchese di Saluzzo ; ed eccone il come. Inteso ch'ebbe il Re di Francia il grosso allarmamento di Carlo, e la di lui direzione verso la Provenza, stimò opportuno di richiamare a se l' Ammiraglio de Brion, per l' assenza del quale il comando delle truppe Francesi nel Piemonte rimase al Marchese di Saluzzo. Il Marchese si lasciò sedurre da alcune Profezie che si sparsero. Quelle assicuravano che in quell' anno 1536. il Re di Francia o sarebbe preso, o sarebbe ucciso. Il Marchese persuasissimo della Profezia credette di non dover combattere per un Principe abbandonato dal Cielo. L' amicizia del Re, la gratitudine per l'Ordine di S. Michele, di cui era stato dallo stesso decorato, la confidenza d' avergli consegnato il comando dell' Esercito, rese furono inefficaci dal fanatismo per la Profezia; se pur questa non fu un pretesto . La Religione guida l' uomo alla virtù; l' abuso della Religione lo conduce a soffocar la natura, natura, a calpestare i doveri più sacri, e per sino a perdere il rossore nel commettere il delitto. Veggansi le Memorie del Langey (I), dalle quali anche scorgonsi i discorsi tenuti dall' Autore inutilmente per disingannare il Marchese. Infatti il Marchese di Saluzzo abbandonando le Armate de' Galli li diede co' suoi aderenti al partito di Cesare. Il nostro Burigozzo descrive fra gli altri in maniera più verosimile l' Esercito Imperiale colla seguente semplicità al suo solito (2): qual exercito fu el numero de Lanzinecchi 40. milia, Spagnoli 12. milia. Taliani altri 12. milia, reservardo el Duca de Savoja li era con le sue genti, el Marchese de Saluzio con le sue genti , e poi delli confini tanto numero ch' era cosa grande, al qual numero di Armati è pur necessario aggiungere, che Andrea Doria secondava per mare gli Eserciti Cesarei colla sua Flotta ben proveduta di viveri. L' Imperatore , dopo aver lasciati a sostenere l' assedio di Torino il Marchese di Saluzzo e Gian-Giacomo de' Medici, poi Marchese di Marignano, oltre sei mila Veneziani appostati in ajuto dei Lombardi, secondo il convenuto.; passò in persona le Alpi alla testa di si numerosi e terribili combattenti, ma con infelice successo. Mentre i Francesi devastarono a segno la Provenza , che Carlo V., tuttoche si avanzasse colà senza contrasto, ritrovossi però in un paese sprovveduto di tutto. Il passaggio de' monti scemò l' Armata per gli attacchi continui de' Montanari . Senza dare una Battaglia , in breve cotanto Esercito si ridusse alla metà. La fame, le malattie, i Montanari avevano cagionata questa diminuzione senza nemmeno aver tentato l'attacco del Campo Francese trincerato verso Avignone. Tra queste perdite Cesaree morirono in Provenza di malattia naturale il Conte Pietro Francesco Visconte Primario Capitano de' Cavaleggieri in età di anni 28. 1l Conte Pietro Francesco Borromeo in

(I) Lib. V. (2) Lib. IV, fogl. 94. tergo. età di anni 30., e ciò, che è piu notabile, l'autore, o il fomentatore dì cotesta malaugurata intrapresa, Antonio de Leyva, che cessò di vivere in Aix il giorno 15. di Settembre del 1536. Tutti e tre questi gran Personaggi furono trasportati a Milano; ed i primi due con solennissime Esequie vennero sepolti in S. Maria della Pace ; il terzo poi , cioè Antonio de Leyva fu trasferito alla Chiesa di S. Eustorgio di Milano il giorno 17. Ottobre; indi coll' intervento di tutto il Clero Secolare e Regolare accompagnato alla Chiesa di S. Dionigi con pompa poco dissimile dalla già esposta di Francesco II. Sforza, descritta pure dal Burigozzo (I). La di lui urna però, demolita la Chiesa di S. Dionigi, venne traslocata nel 1785. nella Chiesa di S. Maria del Paradiso in P. Vigentina, dove pure leggesi l'antica di lui iscrizione sepolcrale, alluogata vicino al Coro di essa Cltiesa sotto i Claustri del Convento. Ed è la seguente:

ANTONIO LEYVAE HISPANO HEROI ASCULI PRINCIPI OMNIUM SUAE AETATIS DUCUM BELLI VEL CONSILIO CAPIENDO SOLERTISS VEL IN EXEQUENDO EFFICACISS QUI A CAROLO EJUS NOMINIS V EXERCITUI APUD INSUBRES PRAEFEC ITALIAE PRINCIPIBUS AC GALLOR REGE IN CAESAREM CONSPIRANTIBUS VEL IN MAXIMA RERUM ANGUSTIA INGENII ACUMINE HOSTIUM SIBI INCUMBENTIUM SAEPE CONATUS INFREGIT OPPIDA EXPUGNAVIT AC MULTIS VICTORIIS PARTIS DUCIBUSQ ETIAM CAPTIS MEDIOLAN PROVINCIAM AB EORUM FAUCIBUS EREPTAM IMPERIO RESTITUIT ET SERVAVIT MAGNISQ MOX ALIIS REBUS PRO CAESARE GESTIS DEMUM INTOLLERANDIS MISERABILIS MORBI DOLORIBUS


(I) Lib. IV, fogl. 96. OMNIBUS ARTUBUS CONTRACTIS ET PERPETUO OCCUPATIS SUMMA CUM LAUDE APUD AQUAS SEXTIAS IN FATA CONCESSIT OSSA EX TESTAMENTO HUC TRANSLATA SUNT OBIIT XVII KAL OCT MDXXXVI

Confuso Carlo V. per aver troppo tardi conosciuta la prudenza de' Consiglj de' suoi Fidi, e' spossato per tanti sinistri, dovette ad ogni costo abbandonare l' idea delle conquiste, e ritornarsene con pochi soldati sani da un impresa di nessuna gloria, e di rovina per un gran numero d'uomini. Riuscì però questa guerra assai pesante anche al Re di Francia, a cui costò spese immense, danni incalcolabili, e quel che è più, l' inaspettata morte del Delfino Francesco suo Primogenito. Egli era disordinatissimo negli amori, e negli stravizzi. Erasi posto in cammino per andare all' Armata nel più cocente della State. Dopo di aver giuocato fervorosamente alla palla, stanco e smaniante di caldo, e grondante di sudore bebbe molta acqua fredda, laonde in quattro giorni di febbre si morì. Un onorato gentiluomo Modonese, il Conte Sebastiano Montecuccoli suo Coppiere venne accusato d'averlo avvelenato ad istigazione di Antonio de Leyva, e dell'Imperatore stesso; ed a forza di spasimi e di torture fu costretto a confessarsi reo ; sicché venne squartata in Lione per Sentenza del 7. Ottobre 1536. Fu presente a tale scempio il Re Francesco I., i Principi del Sangue, e tutti i Prelati, Ambasciatori, e Signori (I). Non vi fu Saggio, conchiude il Muratori (2), che non conoscesse la falsità , ed indegnità di quella imputazione, di cui non era mai degno l'animo generoso di un Carlo V.

(I) Veggansi Memoir de du Bellay lib. 8. Sleidan Comment. lib. 10. Memoir. de Langey. lib.7. Belca. lib. 21. num. 52 e Gaillard Vita di Franc. I Tom. IV. pag.449 e segg. (2) Annali al 1536. pag. 303. [postilla autografa di Stendhal]

[«animo generoso» sottolineato] ohimè!

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] [postilla autografa di Stendhal]

Mur.[atori] ce grand historien donne là une pauvre raison C[ivit]a V.[ecchi]a 29 Fev.[rier] 1836.

[Inedita.Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] La Città di Torino, la quale, come si è ricordato più sopra, era dagl' Imperiali di quest' anno 1536. stretta di assedio sotto il comando del Marchere di Saluzzo, e di Gian-Giacomo Medici; fu, dico, la Città di Torino felicemente liberata da ogni angustia per opera del Conte Guido Rangone Modonese, nuovo Generale dell' Armata Francese in Italia; il quale riacquistò similmente al Re Francesco I, varie altre Città, e luoghi del Piemonte; al presidio, e possesso dei quali acquisti fu quindi dal Re di Francia spedito in Italia il Conte di S. Paul, con Lanzichinetti e Cavalleria molta. Cesare intanto ritrocedendo colle sue armi dalla Provenza, passò per mare a Genova; ed in viaggio sostituì al defunto Antonio de Leyva nel Comando Generale delle Armate in Italia Alfonso D'Avalos Marchese del Vasto, o del Guasto, ed elesse a Governatore dello Stato di Milano il Cardinale Marino Caracciolo, che nei primi di Ottobre se n' entrò in quella Capitale a reggerne lo Stato per Carlo V.; il quale pervenuto a Genova, vide quivi assai Principi d' Italia acccorsi, chi per ossequiarlo, chi per motivi politici. Fra questi ultimi Federigo Gonzaga promosse prosso di Cesare le ragioni di Margherita sua Moglie per il Monferrato, rimasto allora privo di Sovrano attesa la estinzione della Famiglia de' Paleologhi per la morte seguita del Marchese Gian-Giorgio Zio di Margherita.. Ottenne il Gonzaga il suo intento, mercè di un Decreto Cesareo del 3. Novembre 1536 , contro le pretendenze del Duca di Savoja, e del Marchese di Saluzzo (I). Quindi l'Imperatore imbarcatosi il giorno 15. di Novembre fece speditamente ritorno in Ispagna. Il Duca di Mantova recatosi con un Commissario Imperiale a prendere possesso di Casale Sant' Evasio Città Capitale del Monferrato, nel mentre che disponevansi le cose pel solenne ingresso, mille e trecento Francesi

(I) gaillard Tom. V. pag. 46. Francesi instigati dai Competitori del Duca sorpresero questa Città, saccheggiando le Case dei Fautori della nuova Duchessa ; ma accorsovi il dì 24. di Novembre il Marchese del Vasto, che faceva la sua residenza in Asti, assalì e sconfisse questi armati, e vi introdusse pacificamente il Gonzaga, che il dì 29. di Novembre ne prese il posseso. Restituitosi poscia a Mantova, trovò essere stata intimata in quella città da Paolo III. la tanto sospirata Celebrazione del Concilio Ecumenico, che giusta questa prima destinazione dovea aprirsi nel Maggio del seguente anno 1537. ma che, attese le nuove gravissime emergenze, fu differito a' tempi migliori. Su di che basta il leggere la Bolla del suddetto Paolo III. premessa a tutte le edizioni del Concilio di Trento. Sul cadere pur di quest'anno ricondottosi a Milano il Marchese del Vasto per nuove importanti providenze dello Stato , fece detenere Gian-Giacomo de' Medici, Signore di Musso, con suo Fratello Batista, caduti in sospetto contra l'Imperatore; ma questi due purgatisi poscia e messi in libertà, fu creato Gian-Giacomo Marchese di Marignano, per levarlo da Musso confine de' Grigioni, scrive il Bugati (I), affine che per niun caso avesse da innovare quivi più cose sospettose . Inasprito piucchè mai Francesco I. contra i Cesarei, non solo ordinò che fosse vigorosamente continuata la guerra nel Piemonte (dove comandavano gli Eserciti rispettivi, il, Sig. d' Humieres pel Re Francese; ed il Marchese del Vasto unitamente al Marchese di Saluzzo per Carlo V.) ; ma determinossi egli stetto col Delfino di recarsi colà in persona onde farne la intiera conquista. Precedette l'arrivo del Re il Gran Contestabile Montmorencì, a cui riuscì di scacciare gli Imperiali dal passo vantaggioso di Susa, e così aprire il varco all' entrata del Re. Per questo fatto il Marchese del Vasto si ritirò di bel nuovo

(I) Lib. VII. pag. 842. [postilla autografa di Stendhal]

[«differito a' tempi migliori» sottolineato] 1 Niaiserie un homme tel que P[ietro] Verri savait bien le pourquoi, mais il n'osa[?] le dire. La Censure rend[?] illisible après sa[?] ch[illeggibile], les liens[?] qu'elle a fait gates[?]

[«Sul cadere» sottolineato] 2 Ce mot me fait un effet [una o due parole illeggibili] à [una parola illeggibile] Lanzi lu en 1815.

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] sotto di Asti, abbandonando il paese fra il Po e il Tanaro. Non contento di continuare in persona il Re Franacesco I la guerra in Italia contra Carlo V. (tanto era l' odio suo verso di Cesare concepito!) Spedì gli Oratori suoi a Solimano gran Signore de' Turchi affine d' incitarlo a far lega seco lui, ed a portar l'armi in Italia a danni dell' Imperatore. Era ancor viva la memoria della gloriosa impresa di Tunisi , e delle vittorie di Cesare contro Barbarossa, terrore, come già dissi, del Mediterraneo. La domanda ottenne quindi agevolmente il suo effetto; mentre allestitasi da Solimano una formidabilissima armata, videsi in un baleno ricolma di spavento tutta la Cristianità. I1 famoso Barbarossa , fatto grande Ammiraglio della Flotta Ottomana , era sbarcato nel Regno di Napoli, e saccheggiava il paese da Taranto a Brindisi. Solimano in Ungheria presso Effek, diede una rotta al Re de' Romani , per cui, secondo le memorie dì que'tempi, rimasero venti-quattro mila Austriaci morti sul Campo. Il concerto tra Francesco I. e Solimano era appunto che Solimano facesse queste mosse, nel mentre eh' egli invaderebbe il Milanese (I). Frattanto la guerra del Piemonte continuava acerbamente; ed il Marchese del Vasto con il Marchese di Saluzzo iti all' assedio di Carmagnola, finirono quell' impresa assi infelicemente, lasciandovi il secondo la vita, colpito da una archibugiata. Interpostosi allora Paolo III. con tutto lo zelo per rompere una sì formidabile orditura, tessuta a desolazione di tutta l'Italia, tanto seppe adoperarsi, coll' intromettervi eziandio i caldi ufficj di tre Regine; cioè di Leonora di Francia, di Maria Sorelle di Cesare, e di Margherita Regina di Navarra Sorella del Re Francesco I., che indusse finalmente le Potenze belligeranti a concertare una Tregua di tre Mesi, conchiusa il giorno 16. di Novembre (2) , e pubblicata da francesco

(I) Guicciardini Lib. VII. pag. 844. e segg. (2) Du Mont Corps Diplomat. Francesco I. in Carmagnola il giorno 27. dello stesso Mese. La quale poi insensibilmente si protrasse fino al Congresso di Nizza, siccome vedremo. A tal nuova ritirandosi i Turchi seco menando in ischiavitù una gran quantità d'infelici Cristiani . E qui uopo è di ammirare, e di ricordare con lode l' alto senno, e la prudente destrezza di Papa Paolo III., che nel colmo dei furori del Re Francesco, seppe accortamente mitigarlo, e ritrarlo dal vendicarsi sonoramente di Carlo V. ridotto in allora a perigliosi cimenti. Pervenuta a Milano la notizia di tale Tregua, tuttochè in apparenza interinale, molte furono le Feste celebrate, e grandi le preghiere al' Altissimo per la continuazione di essa, come ne accerta il Burigozzo. Vennero, intanto, quelle liete speranze non poco funestate dalla morte impensatamente seguita la notte del 27. Gennajo venendo il 28. del 1538. del Cardinale Marino Caracciolo, Governatore dello Stato Milanese ; il quale su pomposamente tumulato in Duomo, e riposto in un magnifico Mausoleo, perfettissimo lavoro del nostro Agostino Busto, chiamato dal Vasari il Bambaja, Autore del celebre Deposito di Gastone di Foix, di cui abbiam parlato al Capo XXI. Al Caracciolo venne in Febbraro sostituito da Carlo V. il Marchese Alfonso del Vasto, il quale, oltre questa nova Amministrazione , continuò nel suo carattere di Luogo-Tenente e Capitano Generale Cesareo per tutta l' Italia. Tali però furono i tristi effetti dell' invasione de' Turchi sopra descritta, che eccitarono la vigilanza e la politica delle confinanti Potenze Cristiane a formare tra di loro una Lega a propria difesa. Unironsi infatti Papa Paolo III., L' Imperatore Carlo V., Ferdinando Re de' Romani, e la Repubblica di Venezia, obbligandoli reciprocamente ad un potentissimo Armamento per terra e per mare, coll' affidare ad Andrea Doria, Grande Ammiraglio delle loro Flotte, la guerra navale. Ma il Papa, che ravvisava procedere l' origine dei disastri dall' inasprimento degli animi tra Carlo V. e Francesco I., giudicò soprammodo necessaria [postilla autografa di Stenhdal]

tout cela est à demi[-]faux, on sent[?] la Censure, et la voix[?] de l'auteur n'est pas nette 1836.

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] [postilla autografa di Stenhdal]

[«funestate» sottolineato] siecle de Gazette pa[illeggibile] que [una parola illeggibile] [una riga illeggibile] Milanais!

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] necessaria la loro rapacificazione per via di una soda pace, ad avvalorare cotesta Lega . A quest' oggetto propose egli un abboccamento dei due Monarchi nella Città di Nizza in Provenza ; al quale egli pure si offrì di recarsi in persona , affine di adoperarvisi come Mediatore, e di accomodare ogni differenza in benefizio universale di tutta la Cristianità oltre ogni credere malmenata dagli Eretici Novatori, e bersagliata dai Barbari. Accettato l' invito , e fissato il tempo, approdò il Pontefice per il primo a Nizza il giorno 17. di Maggio. Quindi giunse da Barcellona Carlo V., e dalla Francia il Re Francesco I. Ivi per quanto perorasse il Pontefice, non potè mai indurre i Monarchi ad abboccarsi insieme; onde gli convenne di trattare gli affari con amendue separatamente in più conferenze. A niun patto tuttavia si potè ottenere la sospirata pace ; conciossiachè il Re di Francia pretendeva per prima condizione il Milanese in favore del suo Secondogenito, il Duca d' Orleans. Tanto però si affaticò Paolo III. che gli indusse entrambi il giorno 18. di Giugno a conchiudere fra loro una Tregua di dieci anni, con che restasse ognuno in possesso di quanto avea preso coll' armi . La Tregua così conchiusa quanto universalnaente applaudita, altrettanto riuscì disgustosa al Duca di Savoja Carlo III., il quale rimaneva per sì lungo tratto di tempo spogliato degli Stati suoi, occupati parte dai Francesi, e parte dagl'Imperiali; non gli restando altra Sovranità, che la sola Contea di Nizza. Merita qui d' essere registrato un accidente occorso all' Imperatore nel partire da Nizza il giorno 20. di Giugno, onde restituirsi in Ispagna, per attendere colà alla guerra contra il Turco. Sbattuto egli da tempesta di Mare, che disperse la sua flotta e poselo in grave pericolo della vita, fu costretto ad approdare alla Terra d'Acqua morta. Invitato dal Re Francesco I. ad entrare in Marsiglia, dove esso Monarca soggiornava con Leonora sua Moglie, e Sorella di Cesare, ricusò Carlo V. il generoso invito del suo Emulo. Ma Francesco I. obbliando ogni ceremoniale, secondo che scrive Robertson (I), e riposando sicuro sui sentimenti d' onore di Cesare , andò ad incontrarlo solo sopra un battello con lealissima confidenza (2) , dicendogli: Mio Fratello, eccomi per la seconda volta vostro prigione (3). Carlo il ricevette colle più sincere dimostrazioni di stima e di affetto,e all' indomani l'Imperatore diede gli stessi contrassegni di confidenza al Re Francesco. Nelle loro scambievoli visite sembrava che si disputasse fra i due Monarchi a chi testificava all'altro maggiore rispetto ed amicizia. Pare incredibile questo fatto dopo vent' anni di guerra dichiarata, e di ostinata nimicizia. En un moment, conchiude Robertson (4), ils paroissoient passer d'une haine implacable, à la réconciliation la plus sincere; de la défiance & des soupçons, à une confiance sans réserve ; & de toutes les manoevres tenebreuses d' une politique perfide, à la franchise , généreuse de deux braves gentils hommes. Stabilita così , e rassodata questa Tregua di dieci anni, osserva il Burigozzo (5), che la maggior parte della Fanteria Spagnuola nel Piemonte per mancanza delle paghe postasi in libertà, in sul principio di Luglio passò il Ticino con animo di venire a Milano, onde vivere a discrezione; ma trovando la nostra Città su l' armi piegò verso il Borgo di Gallarate, dove fermatasi tutto quel mese, vessò con frequenti scorrerie le terre di quel circondario, costringendole a grosse contribuzioni. Ad ovviare a siffatto inconveniente, ed a sedare un altro forte tumulto de' Soldati malcontenti nel seno stesso della Città fu mandato Ambasciatore a Cesare Batista Archinto Dottor di Leggi (6), il quale ne riportò ordine al Marchese del Vasto, che imposta a' Milanesi una taglia di cento mila scudi, fossero questi ripartiti


(I) Hist. du Regne de Charles V. Tom. 2. pag. 191. (2) Bugati Stor. Univ. Lib. VII. Pag. 865 (3) Murtori all'anno 1538. pag. 316. (4) Ivi c. s. pag. 192. (5) Lib. IV. fogl. 102. (6) Bugati Lib, VII. rag. 866. [postilla autografa di Stendhal+

[«sincere» «affetto» sottolineati]

[una parola illeggibile o un segno grafico] Pauvre Pietro Verri!

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] ripartiti alle Truppe, parte delle quali dovesse poi essere spedita per la via di Trento ai preSidj del Re Ferdinando in Ungheria contra i Turchi, e parte a Genova per unirgli alla Squadra Navale del Doria contra i medesimi. Abbiamo pure nella scarsezza delle Patrie notizie spettanti all' anno presente, che l'Imperatore Carlo V. volendo dimostrare il suo grato animo verso Paolo III, cotanto interessatosi nella Tregua conchiusa in Nizza, stralciò dal Milanese il Territorio di Novara, per farne dono a Pier-Luigi Farnese Figliuolo dello stesso Pontefice (I). Fors' anco da questo tratto di liberalità Cesarea fu mosso, siccome narra il diligente Burigozzo (2), anche il Papa ad usare una singolar distinzione al merito insigne di Alfonso d' Avalos d' Aquino Marchese del Vasto, Governatore di Milano , col mandargli in dono la Rosa d'oro da esso Pontefice benedetta nella precedente Quaresima, giusta il Ceremoniale Romano (3), e che fu al Marchese del Vasto presentata il giorno 8. di Giugno nella Messa Pontificale del Duomo celebrata con istraordinaria pompa e concorso di popolo: primo ed unico esempio di cotal dono Pontificio, per quanto io sappia, praticato co'Governatori di Milano . Alla qual notizia aggiunge lo stesso Cronista, che ai 23. di Maggio furono celebrate nella Metropolitana le Esequie alla Imperatrice Isabella Moglie di Carlo V., con gran apparato simile a quello che fu fatto al Duca de Milano . Cessò ella di vivere il giorno primo del suddetto Mese. Sul cadere del 1539. il Marchese del Vasto ebbe la delegazione da Cesare di recarsi a Venezia affine di rimovere quel Senato dai trattati di pace intavolati col Turco; dalla quale ambasciata ritornato in Milano con non troppo felice esito, il provido Ministro tutto si volse

(I) Muratori Annali al 1538. pag.315. (2) Lib.IV. fogl. 103.tergo. (3) Vedasi l'Ordine Romano XI. num. 36., XV. num. 48., e M, Ciampini Tom. 3. pag, 120. alla compilazione di un nuovo Codice di Leggi estremamente necessarie al buon regime delle Stato alle sue cure commesso. Al qual tempo altresì, accerta il Burigozzo (I) essere stato aperto el ponte de Porta Romana, zoè la Rochetta , e fu penta con l' arma dell' Imperatore , e fu resorato tutto el corso de ditta porta, e digono voler far el medemo anchora dal ponte sino al refosso . Intanto giunta agli orecchj di Cesare la infausta notizia della ribellione di Gand ; si determinò egli di pertarsi colà in persona a porvi riparo . Ottenuto dal Re Francesco (col dargli seria speranza, cessati i torbidi del Brabante, della destinazione del Duca d' Orleans suo secondogenito al Ducato di Milano) l' assenso di passare pe' di lui Stati, anzi nel seno di essi , cioè, per Parigi , entrò Cesare in quella Capitale come in Trionfo il primo giorno del 1540. La descrizione di questo famoso ingresso, e della pomposa permanenza ivi fatta può leggersi con piacere presso i molti Autori , che di ella favellano, e singolarmente press il nostro Bugati (2). Fra i men noti accidenti occorsi nella Imperiale dimora in Parigi di Carlo V. è degno d' essere rilevato il seguente. Un giorno disse il Re Francesco a Carlo V. presentandogli la Duchessa d' Etampes: Questa bella Dama è d' avviso ch'io non vi lasci partire, se prima non rivocate il trattato di Madrid. Al che Carlo V. rispose : Se il consiglio è buono, s' ascolti . Il dì vegnente l'Imperatore si pose in dito un diamante di sommo prezzo, e nell'atto di lavarsii le mani se lo lasciò cadere vicino alla Duchessa d' Etampes, la quale s' abbassò , lo prese , e lo presentò a Cesare , che galantemente si scusò dal riceverlo, supponendo l'etichetta Spagnuola, che trasferisce il dominio di quanto cade ai Re, ai primi, che lo raccolgono. Sei giorni si trattenne Carlo V. in Parigi


(I) Lib. 4. fogl. 104. (2) Storia Univ. Lib. VII. pag. 879. e segg. Parigi (I). Sempre rimaneva sospesa l'investitura del Milanese non ricusata mai, ne mai decisamente concessa al Figlio Secondogenito del Re Francesco. Infatti , partito l' Imperatore da Parigi, e depressa e punita la ribellione de'Gantesi, con avere in seguito tranquillata la Fiandra con pari felicità, posposta ogni lusinga e speranza data al Re Francesco in favore del Duca d'Orleans, concedette Carlo V. al proprio Figlio D. Filippo Principe delle Spagne, Arciduca d' Austria , e Duca di Borgogna , sebbene per anco pupillo, il Ducaco di Milano per se e suoi discendenti Figli maschi legittimi, con solenne Investitura, segnata in Brusselles gli undici di Ottobre del 1540 (2). Nel qual anno appunto cessò di vivere federigo II. Gonzaga Primo Duca di Mantova, a cui successe Francesco III. suo primogenito. E da ultimo al suddetto anno appartiene pure la seguente meemoria, che leggesi scolpita in marmo in Vermezzo, Terra posta nel Ducato di Milano.

M D X L ANNUS HIC BISEXTILIS FUIT, ET LUMINARE MAJUS FERE TOTUM ECLIPSAVIT. A SEPTIMO IDUS NOVEMBRIS AD SEPTIMUM USQUE APRILIS IDUS NEC NIX NEC AQUA VISA DE COELO CADERE: ATTAMEN PRAETER MORTALIUM OPINIONEM DEI CLEMENTIA ET MESSIS ET VINDEMIA MULTA.

L' Ecclissi seguì il 7. Aprile e Fu centrale, come può vederSi a suo luogo nella grand' Opera intitolata L'Art de verifier les Dates; ma il totale Ecclisse fu visibile soltanto verso il polo Artico. Nelle memorie da me raccolte veggo che dall'Ottobre del 1733. fino al Maggio del 1734.


(I) Robertson Histoire du Regne de l'Empereur Charles V. Tom. 2. pag. 214 (2) Du Mont. Tom. IV. Part. II. pag. 200. la siccità fu tale, che le sorgntri ed i fiumi si diseccarono, e si penava a macinare il grano; e tuttavia fu abbondante il raccolto. Poi nell' anno 1778. dal 30. Novembre sino al 3. Maggio 1779. non cadde mai neve nè acqua, e malgrado questi cinque mesi di aridità il raccolto fu egualmente copioso. Pare adunque che la siccità del verno giovi alla feconda vegetazione delle nostre terre (I).

(I) Non sarà inutile l' aggiugnere qui appiè di pagina le seguenti memorie sulle stravaganze delle Stagioni fra noi occorse, e da me ritrovate negli Scritti dell' illustre nostro Storico. (L'Editore). Quanto alla pioggia ed al bel tempo in Milano, la metà dell' anno sono giorni sereni. I più sereni sogno i quattro mesi di Giugno, Luglio, agosto, e Settembre; e i più degli altri piovosi sono i quattro mesi Novembre, Dicembre, Gennaro, e Febbraro. La pioggia poi che ogni anno cade stimo cosa vana il calcolarla; essendochè la stessa caduta si rialza in vapori e ricade più volte; nell'anno 1765. caddero 47. pollici d'acqua, e nel 1771. appena ne caddero 25. Il Barometro s'innalza talvolta sino a pollici 28. e lin. 3., e s'abbassa sino a pollici 26. linee 8. e mezzo. Il freddo in alcuni inverni è giunto a consolidare il Po in guisa che sicuramente i carri passavano sul ghiacciato fiume. Molte memorie ne abbiamo singolarmente degli inverni de'seguenti anni 860. 1076 1082. 1126. 1234. 1276. 1318. 1339. 1418. 1442. 1491. 1511. ec. Narra Donato Boffi all'anno 1442. che sino alla fine di Febbraro il Po era gelato per modo, che stancamente vi passavano carri e cavalli. Il Marchese di Ferrara Lionello d'Este fece sul fiume gelato un magnifico convitto, e cadde la neve in prodigiosa copia . A' nostri giorni non è giunto il freddo al segno di far gelare il Po, o il vino nelle botti; ma bensì a far perire le viti ed i fichi, e si ricordano gli inverni del 1709. 1740. come i più rigidi di questo Secolo. Nel 1767. il gelo fu 12. gradi sotto il zero al Termometro di Reaumur. Anche delle Stagioni ci andiam lagnando a torto; quasichè la irregolarità di esse fosse una disgrazia riserbata a noi soli ; quando ella è una conseguenza della costante ed immutabile legge fisica, alla quale è soggetto il Globo che abitiamo. I geli e le Determinatosi poscia l'Imperatore Carlo V. di portar la guerra in Algeri , divenuto dopo la conquista di Tunisi , il nido dei Corsari, e la sede del perfido Barbarossa, e quindi l' incessante flagello delle coste del Mediterraneo Cristiano ; avendo a tal fine allestita una poderosissima Flotta sotto il comando del celebre Andrea Doria, tornò Cesare in Italia, e nel mese d' Agosto pervenne a Trento, dove fu incontrato dal Marchese del Vasto e da numeroso corteggio di Nobiltà Milanese; da Ercole II. Duca di Ferrara, e da Ottavio Farnese Duca di Camerino. Questi lo accompagnarono pel Veronese, Mantovano, Cremonese, e Lodigiano, e nella sua Entrata nella nostra Metropoli ; essendossi aggiunti alla sfarzosa comitiva il Duca Francesco di Mantova, ed il Cardinale Ercole


brine hanno devastate le vendemmie ed i raccolti, cadendo a Primavera innoltrata anche ne'Secoli passati. Nel 1266. íl 6. Aprile; nel 1399. il 25. Aprile; nel 1695. il 9. Aprile; nel 1741. il 4. Aprile; nel 1774. il 2. Aprile o nevicò, o gelò, o cadde brina. Il Magggio nemmeno fu esente da tale flagello: sino nel 873. leggesi d' una brina che il 4. maggio rovinò la vendemmia; e nel Secolo corrente si verificò nel 1738. Il 3. Maggio; e nel 1741. il 2. Maggio. Ho trovata memoria che l'anno 1690. il 5. Giugno vi fu una brina fortissima, e sino alla metà di quel Mese tal freddo che in Milano ciascuno stava vestito di panno. Trovo pure che l'anno 1523,. alla fine di Giugno ed al principio di Luglio per Milano si camminava colla pellicia pel gran freddo. L' Autunno poi rapidamente si trasformò in inverno rigido colla neve e col gelo. Le ultime memorie vicine a noi sono del 1739. 28. Ottobre; del 1774. 24. Novembre; del 1780. 7. Novembre; del 1786. 31. Ottobre. Quando l' inverno è senza neve e senza pioggia, sempre l'annata risulta di abbondante raccolto. Così fu l'inverno 1539.1540., 1682.1683., 1733.1734., 1778. 1779. Raccolti parimenti quattordici memorie di terremoti in Milano. Quelli furono negli anni 801. 1117. ai 3. Gennaro con parte del Febbraro. 1185. 1222. 1276. 29. Luglio . 1287. II. Aprile. 1295. 17. Settembre. 1473. 7. Maggio . 1576. 1642. di lui Zio. Entrò Cesare in Milano il giorno 22. di Agosto del 1541. dopo di aver pranzato nel Monastero di Chiaravalle circa due miglia discosto da essa Città; dove ebbe gran piacere, dice il Bugati (1), di vedere una botte di vino fra due altre collocata, per le grandezza sua meravigliosa , la quale anche oggidì ivi si conserva. Sorprendenti furono gli apparati, gli archi, e le accoglienze fatte dai Milanesi all' ingresso di sì gran Monarca. Egli è un peccato, che nell' originale Cronaca del Burigozzo siasi perduto il foglio, in cui descrive al suo solito quella maestosa entrata, la quale tuttavia è riferita dal Bugati. Rimane per altro un resto di tal descrizione presso il suddetto Burigozzo nel foglio seguente, da cui risulta un mirabile contrasto tra la pompa e la ricchezza degli abiti


13. Giugno. 1395. Febbraro. 1755. 9. Dicembre. 1759. 26. Maggio. 1786. 6. Aprile. L'umidità reca molti danni al nostro paese. Trovo memorabili le innondazioni negli anni 1167. Nel 1177. nell' Autunno il Lago Maggiore s'alzò 18. braccia. 1276. 1374. dal principio di Aprile sino a Luglio pioggia incessante, che corruppe i grani e produsse una carestia orrenda. Nel 1480. in Marzo due settimane di pioggia continua inondarono mezza la città. Nel 1511. dal 5. Gennaro all' 11. Febbraro cadde tanta neve, che sfondò i tetti di molte case. Nel 1525. dal 9. al 14. Giugno pioggia a diluvio, che recò danno per lo straboccare de' fiumi; ed alla fine di Giugno ed al principio di Luglio fece talmente freddo, che varj si posero gli abiti di pelliccia. Nella Cronaca Isimbardi presso questa Famiglia leggesi: „ Aggiuntovi che in tal tempo 1569., anco pure del medesimo anno 1570. venne una così grossa e straordinaria neve in questa Città (Pavia) ed in tutto questo Paese, che mai più fu veduta una simil cosa, perchè era tant' alta, che perseverò tutto l'inverno, che per le strade non potendo camminar le persone a piedi né a cavallo, in molte strade della città erano fatti li volti della propria neve tant' alti , che vi poteva passare sotto un uomo a cavallo, ed un carro carico. " Nel 1572. dicesi quattro braccia di neve ; nel 1695. 9. Aprile ; e finalmente nel 1742.


(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 896. de' Milanesi, Ambasciatori, e Principi, che accompagnavano l'Imperatore, ed il semplice e modello vestire. di Cesare, il quale entrò sotto baldacchino a cavalo vestito de panno nero con un cappelletto de feltro in testa . Dalla Porta Romana n'andò direttamene alla Chíesa principale, e poscia prese alloggio in Corte. Il giorno 24. di Agosto fu alla Messa Solenne in Duomo, ed in esso il giorno 27. levò al Sacro Fonte un bambino del Marchese del Vasto Governatore. Nel qual giorno pure furongli presentate le Nuove Cortituzioni ridotte ormai al loro termine, ed approvate dal Senato, le quali furono da Cesare confermate con suo Imperiale Diploma, datato lo stesso giorno 27. Agosto, e premesso alle Cottituzioni medesime, pubblicate poscia dal Governatore dal Vasto il giorno 5. del seguente Ottobre. Da Milano passò Carlo V. a Genova il giorno 29. del mese anzi detto, d'onde, prima di incamminarsi ai lidi Africani , divertì per poco la sua andata, recandosi a Lucca affine di tenere un abboccamento con Paolo III. già prima concertato. I motivi di tale abboccamento furono l'imminente rottura della Tregua decennale per parte del Re Francesco, il quale esacerbato dal trovarsi deluso intorno allo Stato di Milano, per la investitura di esso conceduta da Cesare al Figlio Filippo II. , e scornato per l' insulto fattogli. ne' due suoi Legati, come diremo or ora, protestava essersi mancato ai patti della Tregua dal canto dell'Imperatore. Aggiugne il Bugati il terzo motivo dei disgusti di Francesco I. con Carlo V., ed è il maritaggio fatto della giovenetta Vedova Duchessa di Milano Cristina, ch'egli chiama Crìstierna nel figliuolo d' Antonio Duca di Lorena , avendogli dato di ciò prima altra intenzione Cesare (1);l' insulto maggiore però accadde in quello modo . Governava lo Stato nostro il Marchese del Vasto, e comandava i Francesì nel Piemonte il Langei. Il Re di Francia spedì due Ambasciatori,

(I) Bugati, Storia Universale, lib. VII, p. 906. Ambasciatori , uno a Venezia, che su Cesare Fregoso Cav. dell' Ordine di S. Michele e Cognato del celebre Rangoni; l' altro a Costantinopoli a Solimano II., che fu Antonio Rincon Gentiluomo Ordinario di Camera del Re. Questi due Legati attraversando sul Po il Milanese presso allo sbocco del Tesino nel Po medesimo, vennero assaliti da due barche cariche di armati, e manierati. Tutti i barcajuoli vennero cacciati nelle secrete carceri di Pavia. Langei, che avea prevenuti gli Ambasciatori dell'insidie, ed in vano procurato di far loro prendere un più sicuro cammino , ebbe l' antivedenza di farsi consegnaare le loro carte, per non avventurare così il segreto dello Stato; le quali carte avrebbe egli spedite loro dappoiche fossero giunti a Venezia. Malgrado la politica del Marchese del Vastlo , Langei trovò mezzo per via di formale processo di far constare la perfida azione eseguita per disposizioni del Marchese, il quale cercava di avere le carte. Ciò attestarono alcuni domestici degli Ambasciatori, che poterono salvarsi, e particolarmente i navicellai, che per opera del Langei erano scampati. Questo fatto diede le seconde mosse al Re Francesco a rinnovare da capo le ostilità sospese colla Tregua di dieci anni, cioè sino al 1548. A nulla pertanto giovò l'abboccamento di Lucca tra Cesare ed il Pontefice, da cui aspettavasi la ultimazione della Pace, la celebrazione pronta del Generale Concilio, e la coalizione de' Principi Cristiani contra l' armi Ottomane ; a nulla , dico, giovò siffatto abboccamento, ancorchè v' intervenisse il Signor di Mony Inviato Fraccese, e non ostanti le proteste di Cesare e del suo Governatore, di esser eglino in niun modo consapevoli dell' accaduta occisione de' Ministri Francesi . Sciolto il congresso di Lucca l' Imperatore Carlo V. affrettosi alla spedizione d'Algeri, contro ogni parere del Pontefice, e di tutti i suoi Generali : spedizione invero infausta e malaugurata; cosicchè sollecitamente salpando Cesare dal Littorale Affricano , approdò assai malconcio a Cartagena il giorno tre di Dicembre. S frattanto il Re di Francia Francesco I giovandosi della rotta sofferta dalle Flotte di Cesare sotto Algeri, e della loro dispersione nel ritornarsene in Ispagna, adunò un potente Esercito, e lo ripartì in diverse posizioni alla invasione degli Stati Cesarei . A quest' oggetto pubblicò previamente una solenne dichiarazione di Guerra nel giorno dieci di Luglio del 1542, Quindi anche nel Piemonte di bel nuovo si ricominciarono le ostilità, essendo il Marchese del Vasto sempre alla testa degl' Imperiali, ed il Langei de' Francesi; in mano de' quali era Torino la Capitale. In queste ostilità accaddero, come suole, continui attacchi, rese, e riprese di città e di Fortezze . Ma divenuto paralitico il Langei sottentrò al comando de'Francesi D' Annebaut, sotto cui furono fatti tentativi per la presa di Cuneo, inutili per altro, attesa la forte resistenza de' Terrazzani ; laonde sbandati i Francesi per mancanza di paghe, anche il lor Generale ritirossi da quel Comando. L'acciecamento tuttavia di Francesco I. e la smania sua di venidicarsi su Carlo V. fu sì eccessiva, che con universale ammirazione conchiuse egli una Lega col gran Signore Solimano ai danni di Carlo V. e del fratel suo Ferdinando Re d'Ungheria. Le condizioni furono che il Barbarossa con armata navale si unirebbe a' Francesi per il Mediterraneo, e Solimano continuerebbe la conquista dell'Ungheria. A tante sciagure delle nostre Contrade si aggiunse l' altra di una prodigiosa quantità dì locuste di grandezza straordinaria piombate sulle campagne specialmente Lombarde, le quali ne soffrirono per ciò un orribil guasto.Il nostro Burigozzi attesta di averle vedute, e scrive nella sua Cronaca (I): a' 3. settembre fu una Domenica circha alle ore 21. passorno per Milano , e traversorno per porta Romana verso porta Comasina, et io le vidi a passare sopra el Corduxo che teneva gran larghezza, ma li in quello locho li era la massa

(I) Lib. IV. fogl. 108. asseme, che certo ognuno stava amirato in vedere tanta moltitudine de sti animali, zoè Sajotole come quelle de prati, excepto che quelle erano baretine scure, e de gran grossezza. Che il danno fatto da queste locuste alle campagne del Milanese sia stato tremendo, ricavasi da quanto scrive pure ìl Burigozzo nella Primavera del seguente 1543. (I) E così dubitando che quelle Sajotole passate non havesseno fatte le ova, e tornasseno a nascere , e fosse nel mal solito nella biava , fu fatto proccessione 3. giorni , che fu lunedi a Santo Ambrogio li 19. Aprile e marri e mercore con le botteghe serrate , e tutti alla processione pregando Dio ne guardi da tal bestie. Nel mentre che la misera Italia, tra per il furore dell' armi de' Francesi e degi' Imperiali , ed il possente ajuto de' Mussulmani prestato ai primi, era per ogni parte da terrore compresa ; tutta la Cristianità con fervidi voti implorava dal Capo Gerarca contra la insolenza de' Novatori, ed il rapido progresso delle loro Acattoliche dottrine l' unico e salutare antidoto della pronta celebrazione del già divisato Concilio Ecumenico. A questo intendimento Giovanni Morone, già creato Vescovo di Modena da Clemente VII. nel 1527., assecondando le premure del Papa tanto adoperossi , che venne trascelta finalmente la Città di Trento alla Celebrazione del suddetto Generale Concilio; l' apertura del quale fu intimata pel giorno d gnissanti del presente anno 1542., ma che per insuperabili ostacoli venne differita sino all'anno 1545. I buoni ufficj poi del Vescovo Morone a vantaggio di tutta la Cristianità, e della Sede Apostolica meritarono di essere rimunerati da Paolo III., che fra gli altri lo promosse nel giorno due di Giugno di quell' anno medesimo all' onore del Cardinalato . Sull'entrare del 1543. vedendosi Carlo V. pressato da continui timori in Fiandra, in Italia, ed in Ungheria attese le formidabili forze spedite contro queste Provincie

(I) Lib. 4. pag. 109. parte dal Re Francerco, parte da Solimano in virtù della Lega contratta col primo, dopo di aver fatto solennemente riconoscere per suo Sucessore nelle Spagne Filippo II. suo Figlio , affine di procurarsi egli pure sussidj considerevoli, onde allestire una possente armata, vende a Giovanni Re di Portogallo per somme immense le lsole Molucche, a lui cedendo i vasti commerci di que' paesi colle piazze principali del nostro Globo; e concertando al tempo steso il Matrimonio della Principessa Maria Figlia del nominato Regnante D. Giovanni col Re Filippo suo Figlio unico , ch' era in età di soli sedici anni, e ritraendo da quelle Nozze, dice Rebertson (I) une dot telle qu'on pouvoit l' attendre du prince le plus riche de l' Europe . Ne di ciò pago abilitossi a discendere di nuovo in Italia; e noi seguendolo in quelle parti niente estranee alla Storia presente lo raggiungeremo approdato a Genova, dove ossequiato da primarj suoi Generali, ebbe campo di sistemare gli affari di quella porzione del vasto suo Impero, e specialmente di premunire il suo Esercito nel Piemonte, sulle cui spiagge temevasi un improviso sbarco de' Mussulmani . Paolo III. non potendo al primo arrivo di Cesare in Italia essere Teco lui a parlamento; tanto si adoperò, che gli riuscì finalmente di aspettarlo nel suo ritorno dalla Germania in Busseto, terra situata fra Cremona e Piacenza spettante a' Signori Pallavicini, dove arrivò l' Imperatore il giorno 22. di Giugno. Seguì tosto il bramato colloquio tra esso Pontefice e Cesare, in cui per quanto Paolo III. bramoso di pace sollecitasse efficacemente la cessione dello Stato di Milano ad un Figlio del Re di Francia ; furono nondimeno sforzi gettati al vento. Non lasciò pure in quel breve congresso l' accorto Papa di adattarsi ai bisogni di Cesare ad un tempo , e di promovere i vantaggi della propria Casa, interessando per sin le lagrime della Figlia di Carlo V., la Duchessa Margherita,

(I) Hist. de Regn. de Charles Quint. tom. 2. pag. 258. Margherita, perchè concedere lo Stato di Milano a Pier Luigi Farnese, o ad Ottavio suo Nipote coll' obbligo di un gravosissimo Cento, e colla istantanea offerta di strabocchevole somma ; ma ogni progetto fu vano. L' assenza poi del Gavernatore e de' Primari Regitori della città di Milano costretti a lasciare le toghe, e a vestir l' arme nel bollore delle attuali guerre forse fu la cagione, per cui nella nostra Metropoli fu istituita in quell'anno 1543. la Congregazione dello Stato, che venne abolita dopo 243. anni, cioè nel 1786. Erasi l' anno innanzi appena avviato Carlo V. verso la Germania che insorsero nel Piemonte fieri torbidi in danno dell' Armata Cesarea. Francesco Borbone Conte d' Enguien a Cerisola battè gl' Imperiali comandati dal Marchese del Vasto. Il Marchese rimasto ferito nella battaglia dovette ricoverarsi sino a Milano. Alcuni fanno ascendere i morti Imperiali a dodici mila. Il primo vantaggio di tal vittoria fu che i Francesi si resero padroni di Carignano, e di quasi tutto il Monferrato. La battaglia seguì il giorno 14. Aprile del 1544. Carlo V. ed Arrigo VIII. d'Inghilterra Alleati, facevano sul Reno preparativi grandi onde fare una incursione nella Francia, dove richiamata perciò la maggior parte delle truppe che erano nel Piemonte, riuscì inutile la carnificina di Cerisola; e n'ebbe un notabilissimo bene l' Armata Imperiale nel Piemonte. Avea la formidabile Flotta allestita da Ariadeno Barbarossa per ordine di Solimano in difesa di Francesco I., già recati immensi danni a Reggio di Calabria, alle Riviere della Lucania e della Puglia, ed a Marsiglia e rivolte quindi le vele all' assedio della città di Nizza in Provenza, avea costretti quegli abitanti a capitolare la resa. Ma intanto che i pochi Francesi rimansti col collegato Barbarossa tentavano di espugnare il Castello, giunta ad essi la notizia che il Marchese del Vasto accorreva frettolosamente in ajuto dalla parte di Genova sulle Galee d' Andrea Doria con fresche Armate, quello bastò perchè i fieri invasori sul finire di Agosto sciogliessero l'assedio dando però il sacco alla misera Città, e Barbarossa si determinasse a tornarsene senza onore in Levante. In questo mentre intesosi dal Marchese del Vasto che Pietro Strozzi Capo de' fuorusciti Fiorentini, unitamente al Conte Giorgio Martinengo Bresciano, raccolti molti Combattenti, stavano per invadere il Milanese, seppe egli destramente prevenire l'attentato, anche coll' aiuto di due mila Fanti veterani opportunamente speditigli in tempo da Cosimo Duca di Fiorenza; per la qual cosa lo Strozzi co' suoi furono costretti a ritirarsi; ma nella lor fuga vennero posti in disordine ed in rotta dal Principe di Salerno Capitano Cesareo non Lungi dal Tortonese (I). Da queste alternative vicende dei due Monarchi belligerannti eccitato Paolo III. rivolse piucchè mai le veglianti sue Paterne premure a tentar nuovi progetti di una stabile Pace, unico rimedio alle universali sciagure. A tal fine lo zelante Pontefice inviò due Legati, cioè il Cardinale Giovanni Morone all' Imperatore, ed il Cardinale Marino Grimani al Re Cristianissimo. L' opera loro fecondata da Personaggi distintissimi sì Ecclesiastici che secolari, ottenne questa volta il bramato intento; di modo che nel giorno 13. di Settembre del 1544. a Crespy città della Valesia nell' Isola di Francia furono sottoscritti dagli scambievoli Plenipotenziarj gli articoli della pace, pubblicati poscia nel seguente Ottobre per tutte le città della Lombardia con dimostrazioni di giubbilo corrispondenti a sì interessante avvenimento. Erano le convenzioni di questo Trattato relative alla presente Storia, che l'Imperatore Carlo V. avrebbe dato in Moglie a Carlo Duca d' Orleans o la propria Figliuola Donna Maria Principessa di Spagna colla Dote della Fiandra, e de'Paesi Bassi, ovvero Anna Figliuola di Ferdinando suo Fratello Re dei Romani coll' assegnamento Dotale dello Stato di Milano.


(I) Bugati, Storia Universale, lib. VII, p.937. La scelta da farsi dei due convenuti partiti fu differita da Cerare a capo di un anno, dentro il quale spazio potesse egli esplorare le volontà del Fratello, e del Figlio Filippo già investito dello Stato predetto, come si è rilevato poc'anzi. E dove poi fosse prescelto l'ultimo dei due partiti, riserbava Carlo V. alla propria podestà i Castelli di Milano, e di Cremona finchè alla Figlia del Re Ferdinando fosse nata prole maschile . Fu pure confusamente stabilito che venissero restituiti al Duca di Savoia i suoi Stati occupati: providenze, dirò col Muratori, più volte accedute ai minori e entrati in Lega colle Potenze maggiori . Comunque però dagli accorti Politici si temette vacillante anche questo Trattato, Paolo III. credette allontanati que' motivi, che fin' ora aveano ritardata la tanto necessaria celebrazione del Concilio di Trento ; cosicchè nell' ultimo giorno di Novembre ordinò con pubblico Decreto, che dovesse darglisi il sospirato principio nel giorno 25. di Marzo dell' anno seguente. La magnanima generosità dell' invitto Carlo V. volle nel Gennajo od al più nel Febbraio dell'anno 1545 anticipatamente felicitare la Francia, nonchè i suoi Milanesi colla Cesarea sua dichiarazione che avrebbe data in Moglie a Carlo Duca d' Orleans la propria Figlia Principessa Donna Maria, e di più colla Dote cotanto deisiderata dello Stato di Milano. Le qualità esimie di questo Principe intimamente esplorate da Cesare gli meritarono una tale graziosa determinazione. Qual colpo facesse questo lampo di felicità presto tutta l' Europa, non che presso di noi, é troppo agevole l'immaginarselo. E fu, a dir vero, un lampo annunziatore di tempestosi infortuni, anziché di stabile sereno. La Principessa Maria di Portogallo, novella Sposa di filippo II., dopo di aver partorito l' infelice Don Carlo il dì 12. di Luglio del presente anno , se ne morì. Parve la di lei morte foriera della inappresso seguita del Duca d' Orleans, accadutagli per febbre maligna gli otto Settembre in età di 23. anni, pochi giorni prima del tempo prefisso alle sue Nozze (I). Infortunio incalcolabile pei Lombardi attese le ottime qualità del defunto giovine Principe , compianto dal Padre non meno, che dallo stesso Cesare. Eccitaronsi per questo disastro dai Francesi novelle pretendenze, ed eccezioni alla pace di Crespy. Ma Francesco I. afflitto oltre modo per tanta perdita, pressato dall' arm Inglesi, e maltrattato nel corpo da un ulcera tormentosa, cominciò a pensare alla sua quiete, tantochè composte le cose con l' Inghilterra , pose ogni cura di mantenere con Carlo V. la Pace segnata in Crespy, e viversi con esso lui concorde, ed amico. Fu al cadere doll' anno una consolante rissorsa a tutti i buoni la prima Sessione del Generale Ecumenico Concilio di Trento finalmente risoluta ed aperta il giorno 13. Dicembre dello spirante 1545. Concilio che durò 18. anni, e terminò nel 1563.

(I) Robertson Hist. de Charl.V. Tom. 2. pag. 293. CAPO VIGESIMOTTAVO.

Filippo II. investito del Ducato di Milano. Morte di Francesco I, ed Interim di Carlo V. Guerre tra Cesare ed Arrigo II. Entrata in Milano del nuovo Duca e sue Nozze. Carlo V. rinuncia i Regni, e l'Impero : si ritira in S. Giusto , e dà fine a suoi giorni.

(Anno 1546) Per la inopinata, sebben consolante pace, di che godeva l' Italia tutta non meno, che la nostra Lombardia, essendo cessato ogni romor d' arme in quelle felici contrade; scarse notizie somministra alla Patria Istoria il cominciamento dell' anno 1546., che viene tuttavia contraddistinto dalla morte di Martino Lutero seguita in Islebio di Sassonia, e dalle prime quattro Sessioni dell' Ecumenico Tridentino Concilio. Col favor di quella pace pensarono i Milanesi di far pervenire le loro doglianze al Soglio del loro Sovrano Carlo V. contra le eccessive contribuzioni, ond' erano ogni dì più aggravati dal Marchese del Vasto Governator di Milano, il quale per cotali imposte incorreva apparentemente nel sospetto di Ministro infedele eziandio del proprio Principe, con la malaversazione dell' entrate dello Stato. A purgarsi di sì grave colpa ed infamia, se n' andò il Marchese stesso in persona in Ispagna, donde dopo alcun tempo si restituì in Italia esacerbato nell' animo, atteso l' ordine ingiuntogli dal Sovrano di giustificare la propria condotta presso i Censori da Cesare stesso ad essolui destinati. Un sì grave sinistro cagionogli una lunga ed interna febbre, che lo tolse di vita negli ultimi giorni di Marzo in Vigevano, novella Città dello Stato di Milano sopra il Ticino; dal qual luogo trasportatosi il suo Corpo alla Metropoli, fu pomposissimamente sepolto nel Duomo, lasciando presso de' posteri la fama, dice il Muratori, di un perfonaggio egualmente rinomato pel suo valore, che per altre sue belle doti ed azioni. Dopo la di lui perdita piacque a Cesare di rinnovare in Ratisbona addì 5. di Luglio di quest' anno una seconda solenne Investitura del Ducato di Milano in favore di Filippo II, suo Figlio Principe delle Spagne, Arciduca d' Austria, e Duca di Borgogna, e quella pure per se e suoi discendenti figlj maschj legittimi: atto, che consolò soprammodo i Milanesi, i quali perciò venivano assicurati della continuazione di un pacifico, e possente governo, dopo le tante vicende calamitose che per la contrastata successione al Ducato di Milano, aveano i Lombardi dovuto provare. Nè pago tuttavia Carlo V. di tali dimostrazioni del suo parziale interessameuto per quello Stato, si affrettò di sostuire al defunto Alfonso d' Avalos Marchese del Vasto nel Governo della Lombardia, Ferdinando, altrimenti detto Ferrante Gonzaga, già Vice Re di Sicilia, e Zio del Duca di Mantova ; il quale nell' Ottobre giunse in Milano a coprire la sua Carica di Governatore, dichiarato esso pure Capitan Generale dell' Esercito Cesareo in Italia. Che che si narrino gli Storici di quel tempi intorno alla non gran fatto prospera sorte de' Milanesi; si può non per tanto affermare, ch' essa fu avventurosa anzi che no, sotto il felice governo di Ferrante Gonzaga, che durò pel corso di nove anni. Era egli un Personaggio colto ed ornato di ottimi costumi, attentissimo al suo ufficio, facile d' accesso, come può leggersi nella di lui vita scritta da Giuliano Goselini. Al suo arrivo fu immantinenti intrapresa per di lui ordine la ristorazione, e l'ingrandimento delle moderne amplissime mura, dalle quali la Metropoli nostra non solo viene cinta e difesa ; ma ornata eziandio e di comodi, ed ameni passeggi provveduta. Esse ebbero il loro compimento nel 1555. (Anno 1547) La celebre Congiura del Conte Gian Luigi de' Fieschi , uomo di grandi facoltà, ed aderenze in Genova, contra il Principe Andrea Doria ristoratore della Libertà del Popolo Genovese accaduta in quest' anno 1547. ed il Parricidio del Duca di Parma e Piacenza Pier Luigi Farnese , (ne' quali due strepitosi fatti venne incolpato di aver parte Ferrante Gonzaga) cominciarono a denigrare la di lui fama presso de' Milanesi , ed a scemarne perciò l' opinion vantaggioaa, e le aperanze da eaai concepite nel suo Governo. E tuttochè colla morte di Arrigo VIII. Re d' Inghilterra seguita il giorno 28. di Gennajo dell' anno presente si togliesse ai nemici di Cesare il timore di un possente Alleato, e per la parte degli Imperiali venisse meno un dichiarato implacabil nemico col terminar di vivere che fece per malattia Francesco I. Re di Francia il giorno 31. Marzo dell' anno suddetto in età di cinquantadue anni compiuti, non ebbero però fine le turbolenze, nè i timori di nuove Guerre per l' Italia. Imperciocché premendo al Papa la restituzione di Piacenza, occupata per ordine Cesareo dal Governatore Gonzaga; ed altronde determinatosi Paolo M. a trasferire il Concilio Generale da Trento a Bologna, contra l' espresso Imperiale divieto, avvenne che per munirsi di valido appoggio contrasse il Papa una Lega col novello Re di Francia Arrigo II. Primogenito del defunto Re Francesco I. A coteste sinistre emergenze si aggiunse la pretensione di Carlo V. sulla Città di Parma, siccome pertinenza del Ducato di Milano al pari di Piacenza, già occupata dall'Arme Imperiali, dopo la violenta morte ivi seguita di Pier Luigi Farnese. Nella discussione de' rispettivi diritti tra Papa Paolo e gl' Imperiali, Cesare affine di prevenire ogni opposizione del nuovo Alleato del Papa, diede ordine al suo Capitano Generale e Governatore dello Stato di Milano di prontamente ristorare le città e Fortezze di Lombardia, e vi spedì gli opportuni soccorsi di Milizie, e di attrezzi militari. (Anno 1548) Frattanto che il Gonzaga eseguiva gli ordini di Cesare in Lombardia, Carlo V. continuava le fue istanze al Pontefice, perché il Generale Concilio fosse restituito in Trento ; su di che il Papa mostrò grandissirna renitenza, motivo principale per cui Carlo V., affine di sedare i torbidi della Religione in Germania, essendo egli alla Dieta d' Augusta nel giorno 15. di Maggio pubblicò una Scrittura, che noi diremmo Formola di Fede, a foggia della Ecclesi di Giustiniano ; e del Tipo di Costantino Imperatori Greci : Formola, che prescriveva ai Protestanti ciò, che insegnare e credere dovessero, finattantochè il Concilio Generale determinasse la pura e precisa Dottrina della Chiesa Cattolica. Questa celebre Scrittura è quella, che viene comunemente appellata l' Interim di Calo V., Srittura riprovata e contraddetta dai Cattolici ugualmente, che e dai Protestanti. Era a quel tempo Cesare oppresso dagli affari, indebolito nella salute, e specialmente tormentato dalla podagra; laonde pensò di dar sesto alla fua Famiglia. Diede perciò in Moglie a Massimiliano Arciduca d' Austria figlio del Re de' Romani Ferdinando suo Fratello, la propria Primogenita, Donna Maria, ottenendone da Paolo III. l' opportuna dispensa, e destinò il novello Sposo Vice Re di Spagna, durante l' assenza di Filippo Filippo II suo Figlio, chiamato dalle Spagne, onde farlo riconoscere dai Lombardi, e dai Fiamminghi per loro Sovrano. Quella determinazione fu pei Milanesi una fausta contingenza di dover accogliere nella loro Metropoli Massimiliano Nipote di Carlo V., accompagnato dal Cardinale di Trento; dal Conte di Mesfelto; dal Duca di Bransvico, e da molti altri, avvegnachè per breve dimora, quando dalla Germania passò in Ispagna alle disposte Nozze ed al Governo di quel Regno; nella quale occasione la Nobiltà Milanese unita al loro Gavernarore D. Ferrante Gonzaga, accompagnò quello Real Principe fino a Genova per l'opportuno imbarco con isfarzosa gala corrispondente alla grandiosa dignità di tanto Ospite. Ritornatosene Il Gonzaga alla città di Milano, attese con ogni sollecitudiae a disporla per il pompofo ricevimento di Filippo II. , suo nuovo Sovrano, che già erasi dipartito dalle Spagne per venir in Italia dalla parte di Genova. Oltre gli archi trionfali , i teatri, i tornei, le livree, e cento altri apparecchi, che faceansi dal Gonzaga per siffatta venuta, ebbe allora a vedersi ampliata la Piazza Maggiore della Città, al quale effetto venne demolita l' antichissima e cadente Chiesa di Santa Tecla; si videro riattare le strade, atterrati i portici, logge, veroni, palchi, e tetti, che ingombravano Milano, ed impedivano la villa delle Contrade. Su di che il Cronista Bugati (I): Fu, dice, in grandissomo pericolo di esser gettata a terra quella bellissima anticaglia della colonnata del Tempio di S. Lorenzo (2) : il che era un troppo errore, anzi fallo mortale : conciossachè se i grandi uomini di elevato spirito spendono le migliaia di feudi per una statua antica, e per un capo solo, ritratto d' un qualche Divo o Diva, le centinaia , questa sì ampia di marmo, non solamente non meritava ruina , ma di esser conservata in piedi fin' ad una scaglia, ancorchè fin quì non vegga animo

(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 960. (2) Vedi Tom. I. Cap. I. pag. 20. Tav. ivi. eroico che cadendo la repari ne del proprio, ne del commune, come ne anco molt'altre anticaglie degne di memoria , e di ristoro nella Città, de' quali non s' ha considerazione per una Ignobiltà troppo vergognosa . Tuttavia avvertito di questo fatto il Gonzaga, lasciolla , anzi adornolla quella colonnata in foggia d' arco, e d' uno portico molto superbo, pel quale passò il Re Filippo poi. Il dì primo di Novembre di esso anno 1548., sciolse le vele Filippo II. verso dell' Italia accompagnato dal Duca d' Alva Capitan Generale e Maggiordomo Maggiore dell' Augusto suo Padre, e sbarcò in Genova il giorno 22. o 25. del suddetto mese ; nella qual Città fu accolto con grandi onori, ed alloggiò nel Palazzo di Andrea Doria, ove fermatosi alquanti giorni pel conveniente riposo, e per ricevere gli Ambasciatori, da Genova passò a Pavia, indi a Milano. Gareggiarono quelle due città nel ricevere l' Ospite sublime; e segnatamente si distinse Milano; nella qual città nel Dicembre fece la sua solenne entrata, descritta esattamente dal Bugati, e detta da esso poco minore di quella del Padre (I). (Anno 1549) Si trattenne Filippo II. in Milano fino al giorno 8. di Gennajo del 1549. nel qual tempo seguirono le Nozze di Fabrizio Colonna con Donna Ippolita figliuola di D. Ferrante Gonzaga Governatore. Maravigliose, e veramente Reali furono per l' invenzione e e per l'ordine le feste, i banchetti, i giuochi, i torneamenti, i teatri, ed anco le finte battaglie apprestate a questo Real Principe (2) , che nel giorno summentovato partitosi

(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 960. (2) Noi dobbiamo le precise interessanti notizie dello stato, in cui trovavansi le Arti Cavalleresche , e singolarmente il ballo in quel Secolo fra di noi , a Cesare de' Negri, detto il Trombone, il quale in suo libro, intitolato le Grazie dell'amore, impresso in Milano in un tomo in foglio presso Ponzio e Piccaglia, ci fa sapere, che tali arti avevano in Milano stesso la loro sede. Da esso rilevasi che i Francesi, i Romani, gli Spagnuoli titoli da Milano passò il dì 9. a Cremona, indi a Mantova, dove alloggiò nel Palazzo del Duca Francesco Gonzaga già allestito magnificamente per le Nozze di esso Duca con Catterina d' Austria Figlia di Ferdinando Re de' Romani. Da Mantova poi per la via di Trento s'incamminò verso Brusselles, dove trovavasi l' Imperatore suo Padre.

imparavano allora il ballo nella scuola di Milano. Pietro Martire Milanese era il ballerino stipendiato dal Duca Ottavio Farnese in Roma sotto il Pontificato di Paolo III. Francesco Legnano Milanese fu stipendiato da Carlo V. e da Filippo II. e venne largamente premiato. Lodovico Palvello fu caro al Re di Francia Enrico II., ed al Re di Polonia. Pompeo Diobono pure Milanese era d'una nobilissima e graziosissima figura dalla testa a' piedi, di somma agilità e leggerezza ne' movimenti . Il Re Enrico II. di Francia lo fece Maestro del suo Secondogenito il Duca d'Orleans Carlo, che fatto poi Re col nome di Carlo IX. lo amò sempre. Enrico III. pure gli confermò le pensioni. Virgilio Bracesco Milanese insegnò il ballo al Re Enrico II. di Francia, ed al Primogenito il Delfino Francesco. Giovan Ambrogio Valchiera Milanese fu preso al soldo del Duca di Savoia Emmanuele Filiberto e fatto Maestro del Principe Carlo Emmanuele suo Figlio. Giovanni Francesco Giera Milanese fu Maetro di Enrico III. primi Re di Polonia, poi di Francia, e sempre da lui stipendiato. Carlo Beccaria Milanese fu Maestro della Corte di Rodolfo II. Imperatore. Claudio Pozzo Milanese Maestro stipendiato alla Corte di Lorena . Anche in ciò la coltura e l'eleganza cominciò nell' Italia, d'onde le altre Nazioni la presero. Non conviene a noi l'essere vanagloriosi per gli Avi nostri; non conviene agli Esteri la vanagloria pel paragone dello stato attuale. Gli Oltramontani ragionevoli onorano in noi la Famiglia de' loro Maestri . Gl' Italiani ragionevoli compiangono l'attuale nostra decadenza, ed ammirano la superiorità degli Esteri . Allora il ballo comprendeva molti altri esercizj ginnastici, come volteggiare il cavalletto, la scherma e simili . Il Negri par. 13. descrive come il giorno 8. Dicembre. 1598. mentre la Regina Donna Margherita d' Austria era nel Palazzo Ducale di Milano, vi si portò con otto valorosi giovani suoi Scolari, ed ivi alla presenza della suddetta Regina e dell' Arciduca Dama e Cavaliere Milanesi del 1580, che si presentano al Ballo, cavati dall'Opera di Cesare de' Negri intitolata le grazie dell'Amore. Ballerini Milanesi del 1580, che danzano la gagliarda, cavati dall'Opera di Cesare de' Negri Celebre Maestro e scrittore di Ballo in Milano. Il Governatore di Milano, finite le feste, si rivolse alla Riforma del Censo, già ordinata al Marchese del Vasto per Cesareo Rescritto fino dal 1543; e di bel nuovo al Gonzaga stesso con nuovi Rescritti Imperiali del 1546. e 1548. Scelse egli alla grand'Opera due Senatori, un Maestro

Alberto fecero mille belle bizzarie, e fra l'altre un combattimento colle spade lunghe, et pugnali, et un altro co le baste aggiunegndovi poi certe altre invenzioni nuove di balli. I balli avevani i loro nomi. Alcuni presi dall'imitazione delle Nazioni, come lo Spagnoletto, l'Alemanna, la Nizzarda ec. Altri d'argomento d'amore: il Torneo amoroso, la Cortesia amorosa, Amor felice, la Fedeltà d'amore ec. Altri a capriccio, come: la Barriera, il Brando gentile, la Pavaniglia, il Bianco Fiore, Bassa delle Ninfe, So ben io chi ha buon tempo ec. Argomenti e nomi di tutti i balli descritti dal Negri. Gli abiti de' ballerini d'allora erano assai gentili, e senza paragone migliori e più svelti de' nostri giustacuore, come si può vedere nelle due tavole di figure qui esibite. Il Negri stampa la lista delle Dame e de' Calieri ballerine e ballerini de' suoi tempi in Milano. Sotto il governo del Contestabile di Castiglia, cioè dopo il 1592. fino al terminare di quel secolo, i Cavalieri che ballavano sono in numero di centoquindici, nominati dall'Autore (pag. 25.), e le Dame sono sessantasei; in oltre le zitelle, che ballavano, ivi pur nominate, sono trentasei, in tutto centodue donne. Non v'è oggidì un numero simile. Osservo che i nomi delle Dame allora erano meno divoti che non lo sono al presente, ma più eroici: Cornelia, Livia, Lelia, Giulia, Aurelia, Camilla, Virginia, Lavinia, Ottavia, Flamminia, Emilia, Claudia, Drusilla, Lucilla, Deidamia, Elena, Ippolita, Diana, Artemisia, Dejnira, Zenobia, Andronica, Olimpia, Beatrice, Costanza, Ersilia, Bianca, Laura, Vittoria, Violante, Silvia, Delia; tali comunemente erano i nomi delle Dame d'allora. Infine a compimento di questa materia aggiungerò che in Roma nel 1553. presso Antonio Baldo stampatore uscì un libro col titolo: Trattato di Scientia d'arme con un dialogo di Filosofia di Camillo Agrippa Milanese. Questo trattato corredato di molte figure assai ben disegnate, comprende precetti della Scherma presso poco quali si conservano anche presentemente a tratta delle Maestro delle entrate ducali, ed un Fiscale, tutti forastieri, per non dar luogo a parzialità; ed egli stesso come capo di questi membri, cui egli chiamo Prefetti dell'Estimo, terminò lo spinoso affare con Editto del giorno 13. di

diverse maniere di battersi con spada e pugnale, spada e mantello, con due spade, colla spade, colla spada e lo scudo, colle alabarde ec. Si vede che l'arte allora era anche più coltivata e variata di quello, che non lo sia presentemente. Oltre al ballo, il Teatro pure era ridotto in Milano in quella età al sommo della perfezione. Nel leggere presso il citato Negri la descrizione della bellissima Festa Teatrale con maschere a quadriglia , oltre una rappresentazione intitolata l'Armenia, Pastorale data in Milano il giorno 18. Luglio del 1599. alla presenza della Serenissima infante Donna Isabella, del Serenissimo Alberto Arciduca d' Aaustria, e del Cardinale Diattristano Legato di Sua Santità, noi potremo anche su di ciò restarne persuasi. L'invenzione di essa fu del Sig. Camillo Schiaffenati, e del Sig. Gio. Batista Visconte Dottori del Collegio di Milano. Parmi di vedervi il primo germe dell' Opera in Musica ne' due intermezzi, i quali vennero cantati. Si scelsero due argomenti adattati alla Musica. ll primo fu l'Orfeo, il quale con flebil canto sfoga il suo dolore per la morte della cara sua Euridice. L' Eco risponde, ed un dialogo tra Orfeo, ed Eco insegna al vedovo Sposo, che colla magia del suo canto poteva tentar la via di Averno, placare i Mostri, e rivedere Euridice. S' accosta all' antro funesto, ed al suono della sua Lira si spalancano le porte, si mira quella terribile contrada. Plutone, e Proserpina in Trono, i Giudici, le Furie, Caronte, Cerbero, in somma tutto si presenta quello che Virgilio ed Ovidio hanno descritto. La soavità del Canto di Orfeo gradatamente interrotta dalle grida infernali a poco a poco vince, ed ammutoliti gli spiriti, sembrano resi umani dalla dolcezza della voce d' Orfeo, il quale supplichevolmente implora Euridice . Un basso risponde in mucca concedendo la grazia col noto patto ch'egli non la rimiri fintanto che entrambi non sieno usciti dall'Averno. E qui dice il Negri (pag. 287): E seben non pare che il decoro et verisimilitudine della favola admetta musica in Plutone, fu ciò introdotto per maggior soddisfazione de gli aspettatori et ascoltanti et per grillo di chi pateva comandare; il che sembra a me che dimostri non essere stata prima Maggio 1549, quantunque la pubblicazione del nuovo Sistema venisse ritardata fino all' anno 1599. per le gravissime difficoltà poscia insorte(I). Continuò quindi il Gonzaga a nobilitare la Città di Milano con mille altre providenze, ordinate alla decenza di ella, a cui contribuì moltissimo la donazione fatta alla Fabbrica dalla Metropolitana della Piazza del Verzaro, in oggi Piazza Fontana, su cui trasferironsi la più parte delle così dette Baracche della Piazza del Duomo, che tuttavia la ingombravano, levate poi totalmente nel 1682. Appoggiò pure il Governatore Gonzaga la Fondazione del Collegio di S. Simone fatta in quest' anno dal Conte Ambrogio Taegi , destinandogli entrate sufficienti per pascere, vestire, ed ìstruire dodici poveri Fanciulli, a sollievo delle più benemerite Famiglie della Città (2) ; beneficenza fu l' interessante punto di educazione tanto più plauisile, quanto più scarsa era fra noi a que'giorni. In quelli tempi oppresso il Romano Pontefice Paolo III. non meno dagli anni, che dalle fortunose vicende, onde agitato fu il suo non breve Pontificato

prima di quel tempo cantata una intera Azione Drammatica presso noi. La favola è nota, e con essa avea termine il primo intermezzo. Il secondo rappresentava il viaggio degli Argonauti, e per introdurvi un pezzo di Musica si posero le Sirene su vari scoglj, le quali col loro canto studiavansi d' invitare i passaggeri ad accostarvisi. Orfeo ai pose sulla prora della nave; e sciogliendo una voce imperiosa con canto sublime rincorò gli Argonauti a preseguire l' impresa immortale, ed a non curare l' insidioso canto. Il Ch. Abate Arteaga Spagnuolo nell' applaudira sua Opera Sulle rivoluzioni del Teatro Musicale Italiano c' insegna come sotto Leone X. in Roma siasi rappresenrata in Musica La disperazione di Sileno, poesia di Laura Guidiccioni Dama Lucchese, posta in musica da Emilio del Cavalieri. Questo Dramma allora riuscì male. Si abbandonò il tentativo. Poteva in Milano comparire una vera novità. (i) Vedi Somaglia Alleg. ec. Relaz. del Censim. Univ. del 1750. Cap. 2., e 4. (z) Vedi Camill. Siton. Chron. Col. Judic. num. 328. Pontificato, ed accorato singolarmente per l'orribile assassinio seguito nella persona di Pier Luigi Farnese suo Figlio, Duca di Parma e Piacenza, e per la opposizione a' suoi disegni sul Ducato di Parma in favore del Principe Ottavio Farnese fuo Nipote , sopraggiunto da una gagliarda febbre, cessò di vivere in età d' anni 82. il giorno 10. Novembre del 1549. , nel quale anno ai 12. Dicembre l' Imperator Carlo V. con sua Bolla d' oro rinnovò per la terza volta l' Investitura della Lombardia in favore di Filippo II. suo Figlio, e de' di lui Primogeniti non solo, ma delle Femmine di discendenti altresì. (Anno 1550) Ora mentre che in Roma il Collegio de' Cardinali trascelse in Successore alla vacante Dignità Pontificia il Cardinale Giovanni Maria del Monte, detto Giulio III., già Legato Apostolico nel Concilio Tridentino , furono i Milanesi consolati colla nomina del loro nuovo Arcivescovo nella persona di Giovanni Angelo Arcimboldi, renunciatario, secondo l' uso di que' tempi, detto cum iure regressus, di Ippolito II. d'Este; il quale nel tempo del suo Episcopato visse lontano dalla sua Chiesa. Questa rinunzia fu approvata nel Febbrajo del 1550. dal nuovo Pontefice Giulio ma non già nel giorno 5. di detto mese , come parve al Ch. Dottor Sassi (I), attesochè Giulio III. fu eletto Papa soltanto il dì 8. di Febbrajo. Avvezzo l' Arcimboldi alla Pastoral sollecitudine nei 24. anni che egli resse dapprima la Chiesa Novarese , tutto occupossi pel bene del novello suo Gregge, presso cui ogni cosa era in un deplorabile disordine. E' bensì vero che egli in questa sua Metropoli trovò recentemente introdotti i Cappuccini, i Carmelitani della Congregazione di Mantova, ed i Canonici Regolari della Congregazione del Salvatore, a' quali appunto in quest' anno fu ceduta la Chiesa Abbazziale di S. Celso. Vero altresì che la munificenza Cristiana di Lodavica Torella, detta poi Paola Maria, Contessa di Guastalla

(I) Archiep. Mediol. Series Tom. 3. pag. 980. Guastalla avea eretto un grandioso Chiostro per molte Vergini consecrate a Dio, appellate da Paolo III. Angeliche: Un ricovero per le donne pericolanti nel Monastero detto del Crocefisso; ed , atteso l' adottato partito della clausura presso le primogenite sue Figlie le Angeliche di S. Paolo, abbracciato poi nel 1552. meditava già feriamente la erezione del Collegio detto della Guastalla, da essa fondato e dottatO nel 1557. per la educazione di Nobili povere fanciulle. E sopra tutto erasi canonicamente stabilita in S. Barnaba (alla nuova fabbrica della cui Chiesa e Collegio molto avevano cooperato l' anzidetta Torelli, e Giulia Sfondrati) la Congregazione de' Cheriei Regolari di S. Paolo , specialmente addetta all' ajuto spirituale del Vescovo, e che fino dal suo principio fiorì per Soggetti di Santità e di dottrina, come si è notato al Capo Vigesimo sesto. A questi sussidi vuolsi aggiugnere la erezione della vasta Chiesa di S. Angelo e del Convento de' Minori Osservanti, per la qual fabbrica Carlo V. donò cento pertiche di terra, concorrendovi pure la liberalità del Governatore Ferrante Gonzaga, di sua Moglie, e della primaria Nobiltà Milanese; cosicchè potè mettere la prima pietra di questo Tempio l' Arcivescovo stesso Arcimboldi; il quale tuttavia dopo cinque anni e due di Episcopato giunse al termine della vita, a noi lasciando le importanti sue Costituzioni e Decreti promulgati nel principio del suo Arcivescovile Ministero, e pubblicate dal Saffi (I), rer le quali chiramente si scorge quanto gli stesse a cuore la da tanti secoli sospirata, e sempre per la iniquità de'tempi attraversata Riforma del Clero e de' costumi, riserbata dalla Divina Providenza all' incomparabile S. Carlo Borromeo. Sul cadere di quest' anno 1550., secondochè nota il Bugati (2), finì i sui giorni in Pavia il celebre nostro Concittadino Andrea Alciati, non avendo compiuto il cinnuanquantottesimo

(I) Ivi come sopra pag. 984. e segg. (2) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 965. cinquantottesimo anno della sua vita, il quale fu quivi sepolto con molti onori , e decorato di un elegante Mausoleo in marmo, che ammirasi anche in oggi ne' portici della Università. (Anno 1551) Una delle prime cure di Giulio III. appena assunto al Pontificato, fu quella di rimettere da Bologna in Trento il Conncilio Generale, giacchè, così piaceva ancora all' Imperatore Carlo V., e pubblicò il Decreto del riaprimento in quella Città per il giorno primo di Maggio dal 1551. Fece poi restituire al Duca Ottavio Farnese Gonfaloniere della Chiesa, la città di Parma, in contraccambio della quale corse allora voce, che l' Imperatore Carlo V. proponesse la Città di Siena. Tanto parea voglioso quel Monarca di possederla! Il Duca Ottavio, che ben vedeva la difficoltà di mantenersi in possesso di quello Stato, avendo anche ai fianchi Don Ferrante Gonzaga Governator di Milano; nel Maggio di quest'anno segretamente implorò la protezione di Arrigo II. Re di Francia, e contrasse seco lui un Tratatto di Alleanza , riferito dal Du Mont (I). Papa Giulio , a cui premeva l' amicizia di Cesare, richiese Parma dal Duca Ottavio, e procedè contro di esso colle Censure, dichiarandolo ribelle, e decaduto perfino dal Grado di Gonfaloniere. Carlo V. pure sdegnato co' Farnesi per quella Lega, tolse fralle altre cose al Duca Ottavio Novara, ed il Ducato di Cività di Penna: beni dotali della Duchessa Margherita d' Austria sua Figlia, e Moglie di esso Ottavio, e gli diè in dono a Giambatista del Monte Nipote di Giulio III., a cui lo Zio conferì il grado di suo Gonfaloniere e Capitan Generale. Arrigo Re di Francia malcontento dell' Imperatore e del Papa prestò immediatamente i convenuti sussidj al Duca Ottavio, inviandogli gente, denari, e Capitani, fra quali il Signore di Termes. Giulio III. prevedendo a' casi suoi si collegò apertamente a danno de' Francesi con Cesare, a di cui insinuazione

(I) Corps Diplomat. insinuazione recatosi Ferrante Gonzaga Governator di Milano con numerose soldaresche sollecitamente raccolte, sul Parmigiano, s' impadronì di Bressello, prese Colorno , e pose una specie di assedio a Parma. Nelle quali azioni militari essendo rimasto ucciso Giambatista del Monte Nipote del Papa , venne per rimerito creato Gonfaloniere e Capitan generale della Chiesa lo stetto Ferrante Gonzaga. Ma nel mentre che Milano era sospeso fra il timore e la speranza sul riuscimento dell' assedio di Parma ; e mentre temea d' altronde nuovo incendio di guerra nel Piemonte, ebbe un lucido intervallo di giocondità pel ritorno dalle Fiandre e dalla Germania al suo Regno delle Spagne di Filippo II., che perciò passò per Trento a 6. di Giugno, complimentato da' Padri di quel Concilio, riaperto nel precedente Maggio ; indi trasferitosi a Como, poscia a Milano, ed a Cremona, e da ultimo nel giorno 17. Giugno a Genova, sempre corteggiato da Cesare Gonzaga Figlio di Ferrante Governatore assente, ivi sciolte le vele per le Spagne, meta del suo cammino. Ne andò guari, che dalle Spagne istesse Massimiliano colla Sposa Reale Donna Maria Sorella d' esso Filippo II. approdarono a Genova, d' onde per la via di Milano e di Mantova restituironsi in Germania alla Corte Paterna. Il timore de' Milanesi risguardo alle cose del Piemonte era pur troppo fondato; atteso che nel Settembre cominciarono ivi ostilità considerevoli per parte del Re Cristianissimo, che colà avea spedita una moltitudine di Armati sotto il comando del Signor di Brisac, e dove Ferrante Gonzaga Governatore di Milano con parte de' suoi Combattenti fu costretto ad accorrere, lasciando in sua vece all' assedio di Parma Gian-Giacomo Medici Marchese di Marignano. (Anno 1552) Forse l' impegno della continuazione di questa Guerra nel Piemonte indusse il Re Arrigo a dar retta ad un Trattato di Pace pel Ducato di Parma, promosso in Roma dal Cardinale di Tornone Plenipotenziario del Re Franco. Trattato che fu preceduto da una Tregua Tregua biennale il giorno 29. di Aprile del 1552. tra Giulio III., Arrigo II., Ottavio Duca di Parma, e l' Imperatore Carlo V. (I). Frattanto l' ardor della Guerra tutto si concentrò nel Piemonte, dove per far argine ai progressi del Generale di Brisac , Ferrante Gonzaga richiamò in suo ajuto Gian-Giacorno Trivulzi, a cui pure si unì Emananuele Filiberto coraggioso Principe di quel medesimo Stato. Tanto però fu pertinace l' ambizione di Arrigo Re di Francia, e tanto focosa la smania di deprimere il suo Rivale Carlo V., che risolse in questo torno di tempo d'insestarlo in tutti i vasti suoi Dominj con armi ed armati. Fece una Lega co' Principi Protestanti affine d' invadere la Germania, assicurate le spalle; quindi rinnovata l' Alleanza colla Porta Ottomana, eccitò i Mussulmani a muover fiera guerra agl' Imperiali nella Transilvania e nell' Ungheria, indi nel Regno di Napoli, e finalmente in Italia . Oltre a ciò vi fu gran guerra nel cuore della Toscana. Siffatti torbidi insorti ad un tempo scemarono in gran parte le rispettive Armate nel Piemonte, che accorsero dove più infierivano le battaglie; e molti furono d'opinione che questa nova ed inaspettata procella non poco valessee a disingannar finalmente Carlo V., il quale ormai stanco delle instabiii vicende del Mondo meditò la generosa risoluzione di abbandonarlo. La scarsezza delle truppe nel Milanese produsse eziandio ua prossimo pericolo ai Cesariani sull' entrare dell' Agosto del 1552. di essere per sorpresa de' Francesi cacciati dal Castello di Milano. L'affare seguì in questo modo (2): Lodovico Biraga Milanese Colonello di Francia, uomo assai intraprendente e voglioso di Immortalare il suo nome, dopo varie segnalate imprese e vittorie riportate su gli Imperiali nel Piemonte, seppe che il Castello di Milano era mal custodito dalle rispettive guardie , le quali forse

(I) Vedi Du-Mont Corps Diplomat. (2) Bugati Stor. Univ. Lib. VII. pag. 970, e 971. troppo fidavansi delle circostanze dei tempi. Accertatosi col mezzo di fidi ed intelligenti esploratori della verità del fatto, li pose in animo di sorprendere quel Forte ; quindi tratto al suo partito un certo Giorgio Senese, soldato arditissimo, che dimorava in Milano, e che colle sue accorte maniere erasi procacciata la confidenza di molte Famiglie nobili, e segnatamente di Giovanni de Luna Castellano del Forte, in cui giorno e notte entrava ed usciva solo senza alcuno ostacolo; commise il Biraga a questi l' esecuzione di tale impresa. Erane il disegno di scalare con sufficiente numero d' armati uno sperone di esso Castello vicino alla stanza del Castellano, di uccidere la sentinella ed il Castellano suddetto, e coll' armi opportuni farsi adito al Corpo di guardia, e questo ucciso calar il ponte onde introdurvi altri appostati soccorsi, e così condurne a fine la malagevol opera. Premesse in fatti alcune squadre scelte e coraggiose, venne il Biraga con altri prodi armati dal Piemonte per la via degli Svizzeri ; ed appiatatosi in città in luogo adattato, aspettava l'avviso di assocciarsi al tradimento. Entrò frattanto il Senese colle sue genti nel Castello dalla parte della fossa nel bujo della notte, ed appoggiate le scale alle mura trovaronsi corte al montarle ; laonde insorto non so qual bisbiglio negli aggressori, questo fece sì, che tra per la confusione, e per lo sospetto d' essere sorpresi , si diedero subitamente alla fuga. Le scale ivi abbandonate dai traditori, furono l'indizio del nero colpo ideato; e la vigilanza del Governatore Ferrante Gonzaga giunse a scoprirne reo lo stesso Giorgio Senese, da cui, per via di processo fattogli da Niccolò Secco Capitano di Giustizia, saputali l' orditura infame, venne egli squartato vivo. Salvaronsi gli altri, uscendo precipitosamente dai confini dello Stato; e Lodovico Biraga, termina il Bugati, fu poi gridato ribello della Patria per commission di Cesare e del Senato. In vista di cotale pericolo occorso al Castello di Milano, il provido Governatore Ferrante Gonzaga fece fare due opere dette a Tenaglia verso Porta Comacina e Porta Vercellina in difesa di esso Castello , poscia demolite: per lo stesso motivo fece abbassare i due Campanili di S. Simpliciano e di S. Francesco della nostra Città . Tutto questo hassi da una Cronaca di Mario Pizzi Proposto degli Umiliati, veduta e citata dal Puricelli (I): L'anno del mille cinquecento cinquanta due lo ditto Signor Don Ferrando fece fare quelle due Fortezze al Castello de Milano , qual sono apellate Tanaglie. L' una verso Porta Cumana , l' altro verso Porta Vercellina. Et peche li Campanili de Santo Simpliciano et de Santo Francesco li signoreggiavano, volse fossero ambidue abbassati piu de brazza quaranta per Campanile. Era quello de Santo Francesco una mirabil cosa, alto, et forte , et bellissimo. (Anno 1553) Rincrescendo oltre modo a Giulio III. queste ostinate guerre fra Carlo V., ed Arrigo II. Re di Francia , sulla speranza indarno altre volte concepita di indurre la pace fra i litiganti Monarchi, spedì ad esso loro due Cardinali Legati nel 1553. affine di riconciargli di bel nuovo; ma la spedizione fu vana : Tanto erano gli animi irritati, e trasmodate le loro pretese! Continuossi intanto la guerra in ogni parte, essendo il Re di Francia collegato nuovamente co' Turchi, già padrone del Mediterraneo, e della Corsica, coll' avere prima devastara la Sicilia. E per quanto spetta alla nostra Storia si inasprì la guerra in Piemonte, benchè con vario evento; quando Carlo Duca di Savoja, Principe sfortunato, che dimorava in Vercelli, soccombendo alla sciagurata sorte di vedere ne' suoi Stati il teatro della guerra, cessò di vivere nel giorno 16. di Agosto lasciando suo Successore ed erede Emmanuele Filiberto Principe di Piemonte, che di que' tempi segnalavasi con sommo valore, militando nelle Fiandre presso l' Imperator Carlo V., dichiarato Supremo Generale dell' Armata. Allora fu che i Francesi calarono a Vercelli; e

(I) Monum. Bas. Ambr. pag. 1067. colla intelligenza di alcuni Cittadini, si resero padroni di quella Città il giorno 20. di Novembre. Accorse ben tosto da Napoli un'Armata spedita da Cesare, ma indarno; mentre i Francesi spontaneamente ritìraronsi, spogliandola però del Tesoro del Duca defunto, nascosto nella Cattedrale di S. Eusebio. Sul cadere di quest'anno 1553. morì Odoardo VI. Re d' Inghilterra, d'anni sedici, Figlio di Enrico VIII, al quale successe Maria sua Sorella secondo il testamento del Padre, Regina molto Cattolica, cui vedremo nel seguente anno proposta dall' Imperatore Carlo V. in seconde Nozze a Filippo suo Figlio, dichiarato già Duca di Milano. (Anno 1554) Proseguiva intanto D. Ferrante Gonzaga nel Governo di Milano, non tralasciando mezzi per viemaggiormente nobilitare la nostra Città, la quale nel 1554. vide fondarsi nel suo centro due Cattedre di Dialettica, e di Filosofia Morale per l' educazione della Gioventù, dette dal suo Fondatore Paolo Canobio: Le Scuole Canobiane , monumento delle quali esiste tuttora una assai capace, e magnifica aula per tal uopo, coperta dappoi di una elegante cupola nel 1681.(I). E` da presumersi che Ferrante Gonzaga desse mano a questo cotanto utile stabilimento per la nostra Città; al cui decoro materiale provide il Governatore in que' giorni con un Decreto (2) per cui ordinavasi a' Reggitori della Città stetta di ridurre a retta linea il Cavo dei Naviglio della Martesana dalla Cataratta, ossia Conca , come dicesi tra noi , della Cascina de' Pomi fino a Milano. Per tutto questo non restarono i Milanesi, unitamente al Castellano Giovanni de Luna di fare riclami contro il Governo del Gonzaga all' Imperatore Carlo V., il quale in vista di essa chiamò a se dall' Italia il Marchese Governatore a render conto della sua amministrazione, e spedì nel tempo stesso dei Ministri a Milano a sindacare

(I) Saxius de Stud, Mediol. Cap. XI. col. 48. (2) Decreto nell'Archivio della Città. la di lui condotta. Giustificatosi egli ciò non per tanto alla presenza Imperiale dalle false accuse passò a vivere il restante de' giorni in Mantova sua Patria sciolto dalle gravose cure non meno, che dalla invidia, e dai fortunosi roverscj, che accompagnano per lo più la elevatezza, e l' ambizione del comando (I); rimanendo intanto suo Luogotenente in Milano Don Giovanni Gomez Svarez de Figueroa. Continuò tuttavia la guerra in quest' anno tra Carlo V. ed Arrigo II. ne' Paesi Bassi con discapito dell' Imperatore . Ma il giorno 25. di Luglio fu un' Epoca fortunata pel Re Filippo II. ; conciossiachè gli aprì il campo all' acquisto di una novella Monarchia , e recò al tempo stesso nuovi timori ai nemici della Casa d' Austria. Voglio dire, che Filippo II. rimano vedovo della prima Moglie Portoghese, contraendo altre Nozze con Maria Stuarda Regina d Inghilterra, ed erede di quel Regno per la morte del Re Odoardo VI. unico suo fratello, aggiunse agli altri titoli di Sovranità, quello altresì di Re della gran Brettagna; Matrimonio faustissimo, che riunì gli Inglesi al seno della Chiesa Romana. Terminate le feste, e le pompe Nuziali, richiamato Filippo II. in Ispagna dal Padre suo Carlo V., Questi ormai deliberato di allegerirsi del peso di tanti Regni, rinunciò solennemente al Figlio gli Stati di Olanda, con tutto l' ampio tratto de' Paesi Bassi; dichiarandolo insieme Re di Napoli, e Duca di Milano, e cedendogli per intiero l' amministrazione assoluta di questi Stati. In virtù di tale cessione nell' Ottobre dello stesso anno 1554. fu spedito a Milano Don Luigi di Cardona a riscuotere dai Sudditi Il giuramento di Fedeltà, dovuto al loro nuovo Sovrano. (Anno 1555) Nel Marzo del 1555. ai 29. di esso Mese finì di vivere Papa Giulio III. , benemerito pel suo zelo nel procurar la pace dell' Europa, e d'Italia, e per aver riaperto

(I) Bugati Stor. Univ. Lib. VII. pag. 992. riaperto il Sacro Concilio di Trento, e meditata seriamente la riforma della Corte di Roma. Ai 9. di Aprile ebbe per Successore nel Sommo Pontificato il Cardinale Marcello Cervino, che ritenendo contra il costume il proprio nome fu detto Marcello II. Uomo quant' altri mai degno di sì elevato Posto ; ma i giudizj di Dio ben diversi dai nostri lo rapirono dopo pochi giorni di Pontificato alle speranze di Roma, d' Italia, e di tutta la Cristianità ; essendo egli morto il dì primo di Maggio , in età di soli 55. anni. Succedette ai 23. dello stesso mese a Marcello II. il Cardinale Teatino Gian-Pietro Caraffa, che assunse il nome di Paolo IV. Personaggio che erasi acquistata universalmente gran fama di pietà, e d'integrità; ma del cui Pontificato gli animi più avveduti fecero infausti presagj, siccome gli avvenimenti mostrarono pur troppo. Nel sopraddetto mese di Aprile fece Milano la perdita di due insigni Soggetti l'uno per letteratura e l'altro per lo zelo Episcopale. Fu il primo Marco Antonio del Conte detto Maioraggio dalla terra di Mariaga nel Milanese in cui nacque, che terminò di vivere ai 4. Aprile, benemerito fra di noi per essere stato pubblico Professore di Eloquenza per anni 14., e Scrittore Latino puigatissimo. Molte Opere ci rimangono latine e greche da esso pubblicate in prosaa e in verai (I). Ne parlano di esso lui con molta lode le Storie del tempo, e tutti i Biografi delle Persone di Lettere . Note sono le accuse fattegli dai malevoli sul cambiamento, ch' egli adottò, seguendo il genio degli Umanisti del Secolo XVI., del proprio Nome, e su qualche punto di Ortodossia. Hassi alle stampe la elegantissima Orazione, ovvero Apologia Latina, ch'ei recitò innanzi al Senato di Milano a suo discarico (2) . L,' altra perdita che rattristò i Milanesi seguì il giorno 6. di Aprile nella

(I) Vedi Argelati Bibl. Script. Mediol. Tom. II. col. 839. e segg. (2) De mutatione uominis Oratio etc. coram Senatu Habita. Mediol. 1541. 1547. in 4. persona di Giovanni Angelo Arcimboldi, Arcivescovo di Milano, dopo cinque anzi e due mesi di Pontificato. Prelato da tutti compianto, e riconosciuto degno di più lunga vita. Eransi in quel torno impadroniti i Francesi di molte Piazze del Piemonte, e segnatamente di Casalmonferrato , coll' aver battuto in Campo il Figueroa Vicegovernatore di Milano ed apertosi in tal guisa il varco alla confinate Lombardia. Il perchè da Napoli sen venne al Governo dello Stato di Milano, senza lasciar quello delle due Sicilie, Ferdinando di Toledo Duca d'Alva. Questi accorse sollecitamente ad opporsi ai progretti de' Francesi; ma con esito infelice, tuttochè rinforzato dalla Spagna e dalla Germania di numerose Truppe. Vuolsi dai politici che ne fossero la cagione le doppie istruzioni che abbisognavano per le azioni Militari; atteso che Carlo V. nella rinuncia degli Stati fatta a Filippo II. suo Figlio, erasi riservata l' autorità di amministrare col Figlo la pendente Guerra: e ognun sa che la felicità dei successi bellici per lo più consiste nella spedita esecuzione dei rilievi opportuni. Questi disordini, e perdite posero in necessità i Cesarei , nonchè i Milanesi di chiedere l' ajuto dell' accorto e formidabile guerriero Gian-Giacomo de Medici Marchese di Marignano. Sen venne egli prontamente in soccorso della Patria coronato di allori per la celebre vittoria di Siena, e fregiato dello Stemma gentilizio dei Gran Duchi di Toscana (I) colla vicina aspettazione del Toson d' oro per parte di Cesare. La di lui venuta però nelle nostre contrade fu come un lucido baleno , che tosto svanì; perciocchè tra pochi giorni dopo il suo arrivo in Milano diede fine al suo vivere ai sette ovvero agli otto di Novembre del suddetto anno. Il Duca d'Alva Governatore lo assistette in morte, e l' accompagnò ezìandio alla sepoltura . Un tant' uomo perduto immaturamente dai Milanesi

(I) Muratori Antichità Estensi. Milanesi, ben sì meritava singolarissimi onori, e perenne monumento . Quindi di esso lui a buon diritto così scrive il Bucati testimonio oculare (I) Il suo corpo dopo le solennissime esequie (nelle quali furono quattro stendardi, di quattro suoi generalati fra l' altre cose, cioè quel dell' Imperatore per l' impresa di Siena ; quel del Duca di Fiorenza : quel del Re de' Romani per Ungheria, et l' altro del Duca di Savoja pel Piemonte) fu portato a Melignano in deposito : ma poscia dal Successor di Papa Paolo quarto, Pio quarto suo fratello, hoggi Pontefice felice, datogli eroica sepoltura nel Duomo di Milano di marmi esquisiti, et di bronzi, lavorati dalla dotta mano di Leone Aretino: ove si vede la statua sua pur di bronzo in abito militaare svelta (2). E per ultimo verso il fine di quest'anno fu dato principio al magnifico Palazzo eretto a spese di Tommaso Marini Genovese, venuto ad abitare in questa città circa al 1525., essendone stato Architetto Galeazzo Alessi Perugino. Una delle principali cure del novello Pontefice Paolo IV. non fu già di mostrarsi perfettamente neutrale verso i due Monarchi belligeranti, cosa, che al Primate della Chiesa universale non solo parea convenirsi, ma che poteva allora moltissimo giovare alla desiderara pace . All' opposto Papa Paolo IV. pose ogni studio nel promovere una Lega offensiva e difensiva tra esso lui ed Arrigo II. Re di Francia , conchiusa dappoi il giorno 13. di Ottobre

(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 994. (2) Questo insigne Deposito è disegno dell' immortale Michel Angelo Buonarroti, eseguito dal sullodato Leone Aretino Milanese, e da esso terminato nel 1564 al prezzo di sette mila ed ottocento feudi d' oro, oltre le sei colonne donate da Pio IV. Ciò rilevasi dall' istrumento di convenzione per questa grande opera eseguita il 12. Settembre 1560. tra il Cardinale Moroni e Gabrio Serbellone a nome di Pio IV., e Leone Aretino figlio di Giovanni Batista Milanese della Parrocchia di S. Martino in Nosigia . Così nell' Archivio di Casa Medici Carta segn. C. I. numero 8. del 1555. Per questa Lega, (il di cui scopo riguardante la presente Storia, consisteva negli acquisti del Regno di Napoli, della Lombardia, e della Toscana ), trovossi costretto il Duca d' Alva ad abbandonare sollecitamente il Piemonte, onde recarsi alla difesa di Napoli ; Regno il più soggetto alle fatali conseguenze dell' indicata Lega , e ch' egli governava in qualità di Vicerè. (Anno 1556) Fu trascelto da Carlo V. al Governo della Lombardia in luogo del Duca d' Alva il Cardinale Cristoforo Madrucci Vescovo e Principe di Trento; e pel comando delle Armate Cesaree nel Piemonte il Marchese di Pescara il giovine, unitamente a Giambatista Castaldo, Capitano sperimentato e valente. Giunti questi due Generali al loro destino trovarono che i Francesi scorrevano impunemente il Vercellese, ed il Novarese, facendo rappresaglie e saccheggi, a ciò incitati dallo scarso numero de' nemici che in molta parte erano passati col Duca d' Alva al Regno di Napoli. Non eaaendo però ancor giunto in Milano il nuovo Governatore, fu duopo al Senato di Milano l' assoldar nuove Truppe a raffrenare la licenza nemica; e parte di esse furono allora spedite a difender Novara ; dalla qual città uscito il Governatore Girolamo Sacco Pavese ad investire i nemici, fu dai Francesi ferito in modo che prestamente giunse al termine di sua vita. Stanchi alla fine tra le varie luttuose vicende i due Monarchi di consumare tesori, e sparger sangue in tante guerre desolatrici, e desiderando l' Augusto Carlo di lasciare i suoi Stati tranquilli al Figlio, dacchè continuava in esso lui la brama di ritirarsi a godere in pace il resto di que'giorni , che potea promettersi dalla semprepiù indebolita sua sanità; riuscirono concordemente i Regnanti, colla mediazione operosa del Cardinale Reginaldo Polo Arcivescovo di Cantorberì, e sommamente benemerito della Chiesa di Dio, massimamente per la riconciliazione dell' Inghilterra colla Sede Romana, di stabilire una Tregua di cinque anni fra esso Imperatore ed il Figlio Filippo II. da una parte, ed Arrigo II. Re di Francia dall'altra. La Carta di quella Tregua leggesi presso il Du-Mont (I) Datata in Cambrai il giorno 5. di Febbrajo del 1555. giusta l'Era Fiorentina e Veneta; ma realmente secondo noi nell' anno 1556. Quella sospensione d' armi diede l'ultima mossa a Carlo V. ad eseguire il suo memorabil disegno. Laonde trovandosi egli in Brusselles nel giorno 6. Febbrajo assiso in Trono col Re Filippo II. alla destra, come Re d'Inghilterra, ed alla presenza delle due Vedove Sorelle, Leonora già Regina di Francia, e Maria già Regina d' Ungeria, del Duca di Savoja dichiarato Governatore de' Paesi Bassi, e d' innumerabili Potentati e Signori, rinunziò al Figlio la Corona di Spagna non solo, ma tutti eziandio i suoi vasti Domini; eccettuati quelli della Germania Superiore già ceduti al Fratello suo Ferdinando, dappoi Imperatore. Qual fosse l'esultazione dei Milanesi, anzi di tutta la Cristianità per l' anzidetta Tregua quinquennale, colla fondata e ragionevole speranza di dover ciascuno riposare da tanti disastri, è troppo facile l' immaginarselo. Al Papa però, o a dir meglio, alla trasmodata ambizione del Duca di Palliano, e del Cardinale Caraffa suoi Nipoti, non andò gran fatto a sangue cotesta Tregua. Speravan eglino d' ingrandirsi vie maggiormente nella continuazione di questi torbidi. Infatti Paolo IV. ad intendimento di riparare al supposto sfregio della Tregua conchiusa senza sua saputa, sotto colore d' immischiarsi in una Pace stabile, inviò ad Arrigo Re di Francia in qualità di Legato il Cardinale Carlo Caraffa fuo Nipote, ed il Cardinale di Mottola al Re Filippo, dal quale non potendo ottenere ciò, che era l' oggetto della sua Legazione, dice il Bugati (2), si rivolse in Francia. Il progetto della pace proposta dal Cardinale Caraffa consisteva nel sollecitare Arrigo II. a

(I) Du-Mont Corps Diplomat. (2) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 955. riprender l'armi e proseguir le conquiste rappresentategli di facile riuscita. Intesasi la trama dal Re Filippo, diede quelli ordine al Duca d'Alva che vegliasse alla minacciata sicurezza, e l'eletto Governatore di Milano Cardinale Madrucci si affrettò di venire in Giugno alla sua residenza, la quale tuttavia durò pochi mesi. Fu certamente grande la compiacenza de' Milanesi nell' accogliere il loro novello Moderatore; ma riuscì maggiore il giubbilo sparso per tutta la città alla nuova d' essere stata approvata da Paolo IV., e dal Re Filippo II. la sostituzione fatta da Ippolito II. d' Este di Filippo Archinto all' Arcivescovado di Milano in luogo del premorto Arcimboldi . L' essere l' Archinto Patrizio Milanese, insigne nella pietà e nella Dottrina, tre volte Legato a Carlo V., poscia a Paolo III., da cui fu destinato Governatore di Roma, indi creato Vescovo di Borgo San Sepolcro, poscia residente nel Sacro Ecumenico Concilio da Trento trasferito in Bologna, traslatato alla Chiesa Vescovile di Saluzzo, e finalmente Vicario Generale, e Legato a Latere di Giulio III. e suo Nunzio alla Reppubblica Veneta, erano i molti e forti motivi da dover rendere universalmente accetta la di lui scelta, e sospirata da Milanesi la sua venuta. Non restava più a Carlo V. nel Settembre del 1556. altro che lo Scettro e la Corona Imperiale, essendosi egli spogliato di tanti suoi Domini in favore del Re Filippo II. suo figlio, e perciò in quello tempo pensò, di alleviarsi anche di un tale peso (siccome già da noi si è accennato poc'anzi); inviando le insegne imperiali a Ferdinando I. Re de' Romani, di Ungheria, e Boemia, suo Fratello, col pregare gli Elettori ad approvare cotesta sua cessione. Trovavasi verso il fine di Settembre Carlo V. in Gand, da dove (così il Bugati (I)) licenziati prima tutti gli Ambasciatori, Prencipi, Capitani, e Ministri; in una lettica si fece portar alla Rocca al mare accompagnato solo dal Re

(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 997. Filippo, e dal Duca di Savoja : dove avendo dato alcuni bei ricordi al figliuolo, e la benedizion sua ; imbarcossi colle due Reine, Leonora, e Maria, sopra una Biscaglina, accompagnato da quattordici altre per Ispagna, non senza lagrime di tutti quelli, che intervennero in quella partenza. Egli pervenuto per quello Oceano tempestoso felicemente a Laredo terra di Biscaglia, fu rincontrato da gran numero di primi Baroni di Spagna, e condotto in Valledolid Città onorata e Metropoli del Rgno di Castiglia . Ora, mentre che Carlo V. con ammirazione di tutta Europa, rinunziando all' Impero, ed a' suoi vasti Regni, disponevasi al ritiro di una privata vita , Paolo IV., ed Arrigo II sempre più stringendosi in Alleanza, risolvettero di trasportare nel Regno di Napoli il teatro principale della Guerra. (Anno 1557) Partitosi intanto dal suo Governo il Cardinale di Trento per cagione di alcune discordie nate fra esso lui ed il sovranominato Giambatista Castaldo, vennegli sostituito interinalmente Don Giovanni di Figueroa Castellano del Forte di Milano e Successore di Giovanni de Luna. Il dì 24. di Febbrajo di quell'anno 1557., giorno Natalizio di Carlo V., e memoranda epoca, per così dire, dei più fausti avvenimenti del suo Regno, fu dal medesimo contrassegnato dall' ultimo atto della grande Scena, ch' ei rappresentò nel Mondo; voglio dire che in esso giorno appunto diede l' ultimo addio al Mondo stesso, ed alle sue pompe; forse a ciò incitato maggiormente dalla freddezza e scarsezza de' Cortegiani, che nei quattro mesi di sua dimora in Vagliadolid vennero ad ossequiarlo; oltre il ritardo della pensione di cento mila feudi, che si era riservata su i ceduti Regni. Il perchè ritiratosi nel Monistero di San Giulio dei Monaci di San Girolamo posto ai confini della Castiglia e del Portogallo, luogo da lui molto tempo innanzi eletto per pacifica sede degli ultimi suoi giorni, col riservarsi soltanto dodici persone al suo servigio; potè così più liberamente occuparsi nell' orazione, in limosine, ed in altre opere di Cristiana porta. E' troppo bello il passo del celebre Robertson nella sua Storia di Carlo V. a proposito di questa abdicazione, perché non abbia quì luogo assai opportunamente, recato dalla Traduzion Francese. On n'a pas besoine (scrive egli (I)) de profondes reflexions, ni d'un grand discernement pour sentir que le royautè n'est pas exempte de foucis et de peines, et que le plupart des hommes élevès au trone achetent chèrement cette prèèminence qu'on leur envie, par les inquiètudes la satiètè et les degouts qui en sont insèparables. Mais descendre du rang supréme à un état de subordination, et renoncer au pouvoir pour chercher le bonheur, c'est un éffort qui n'en paroit pas moins au-dessus de l'esprit humain. L'histoire offre cependent plus d'une exemple de princes qui on quitté le trone pour finir leur vie dans la retraite; mais ce furent ou del hommes foibles qui se repentirent promptement d'une détermination prise à la lègere, ou d'illustres malheureuex, qui dépouillès du sceptre par un rival, ne tomberent qu'à regret dans une condition privèe. Diocletien est peut-ètre le seul monrque digne de règner, qui ait abdiqué l'Empire an philosophe, et passè de longues annèes dans une retarite volontaire, sans jetter en arriere un coup d'oeil ou un soupir de regret vers la grandeur et le pouvoir qu'il avait abandonnès.

In tanto Paolo IV. era il solo, che espressamente non approvava l' abdicazione dell' Impero fatta da Carlo V. in favore di Ferdinando suo Fratello. Per la qual cosa non solo scrisse Lettere pressanti agli Elettori, perche anch' essi non riconoscessero Ferdinando per legittimo Imperatore; ma nel Venerdì Santo di quest' anno fu nella Cappella Pontificia per ordine sfuo ommessa la solita preghiera per l'Imperatore. Questa durezza del Papa, scrive il Muratori (2), fu attribuita al mal animo suo verso la Casa d' Austria ; Laddove altri la chiamavano un giusto zelo per sostenere l' antica autorità dei Romani Pontefici nell'elezione

(I) Tom. II. pag. 546 (2) Annali al 1556. pag. 414. degli Augusti. Ma se Carlo Augusto non volea più quella Dignità, avea senza fallo essa a cadere in chi era Re de' Romani, e la morte civile di lui in tal caso operava ciò, che la naturale. La sconfitta poi dei Francesi a S. Quintino, il Maresciallo di Brisac in Piemonte valorosamente respinto dal Marchese di Pescara, il richiamo del duca di Guisa Generale di tanta importanza per l' Armata Francese, e l' arrivo alle porte di Roma del Duca d'Alva la notte del 26. Agosto, indussero il Papa Paolo IV. alla Pace col Re Filippo II, conchiusa felicemente il giorno 15. di Settembre; Pace per altro non universale, non essendovi concorso il Re di Francia Arrigo II. Qualunque però essa fosse, apportò dei considerevoli vantaggi specialmente alla Lombardia. Allora fu, che essendosi gli Eserciti d' Oltremonte partiti dall' Italia, onde guereggiar contra i Francesi ai confini del loro paese; lì videro i Milanesi costretti per la pubblica sicurezza a mettere in piedi una Urbana Milizia, che supplisse alla mancanza delle necessarie Truppe, e potesse far fronte ai movimenti che temevansi de Francesi sopra quello Stato. Ogni Casa, racconta il Bugatti (I), somministrò uno o due atti alla guerra, e senza eccezion di persone ; Laonde in pochi giorni si ridussero sotto le insegne di Santo Ambrosio, di tutte le porte et quartieri della Città circa vinticinque mila persone fiorite, sotto varj Colonelli, Mastri di Campo, Capitani, et Sergenti. Egli è vero, che non potendo tanta gente essere sì bene armata di tutto punto, nel giorno statuito d' essa rassegna generale ; non furono pel vero più di quattordici, over quindici mila. La morte succeduta in appresso di Don Ferrante Gonzaga seguita in Brusselles ai 15 di Novembre di Novembre del 1557. fu forriera di molte altre perdite considerevoli accadute dappoi. Questo Principe e valoroso Capitano, dopo la libera compra di Guastalla per vendita a lui fatta dalla Contessa Lodovica , figlia ed erede del Conte Achille Torello, (che

(I) Stor. Univ. Lib. VII. pag. 1008. 1009. impiegò quest' ampio Patrimonio nelle pie fondazioni da essa stabilite in Milano), fu compianto fino da suoi Emuli, ed anco dal Re Cattolico, presso cui più di una volta erasi pienamente giustificato dalle atroci calunnie, che gli. aveano i suoi malevoli imputate. (Anno 1558) Rimasto quindi Milano sprovveduto di chi vegliasse, al suo Governo , fu spedito dal Re Filippo col carattere di Regio Luogotenente e Capitano Generale Consalvo Ferrante di Cordova Duca di Sessa ; il quale giunse fra di noi nel Marzo del 1558., e dal di cui valore poco dopo il suo arrivo trovaronsi assicurati i Milanesi per alcuni movimenti d' armi allora insorti di bel nuovo nel Piemonte; contro de' quali recatosi immediatamente il prode Governatore e Capitano, ristrinse le Guernigioni nemiche, e liberò Cuneo e Fossano ridotti quasi in poter della Francia. In quello stesso Mese di Marzo, correndo il giorno dodici, o tredici, fu esposta nella più formale solennità dal commissionato Principe d'Oranges alla Dieta degli Elettori in Francoforte la rinunzia dell'Impero fatta da Carlo V., come abbiam detto, nella persona del Re Ferdinando suo Fratello, la quale venne accettata, col riconoscerlo tutti d' unanime consenso per legittimo Successore dell'Augusto Germano . Fu poscia spedito dal nuovo Cesare Martino De Guzman Ambasciatore al Pontefice per rendergli a nome dell' Imperatore la dovuta ubbidienza; e così il Re Filippo II spedì pure D. Giovanni di Figueroa, altre volte Governator di Milano in favore dell' Augusto suo Zio; ma il Papa non volle ammettere nè l' uno nè l'altro alla udienza, e in corto dire, finchè visse ricusò sempre di approvare Ferdinando per Imperatore, non senza scandalo (inserisce con impeto il Muratori) (I), della Cristianità. Ma quanto consolò i Milanesi la nuova d' essere stato riconosciuto Imperatore dalla Dieta Imperiale il Re Ferdinando; altrettanto rattristò que' Cittadini la perdita

(I) Annali al 1558. pag. 434. seguita in Bergamo il giorno 21. Giugno del proprio amatissimo Pastore, Filippo Archinto, il quale per la malizia d' un torbido e scaltro Calabrese, Regio Economo in Milano, sotto l'apparenza di zelo pel Principato, fu sempre tenuto lontano dalla sua Sede nei due anni del suo Arcivescovato. E tanto più amara riuscì a' Milanesi la perdita di un Prelato sì dotto e pio, in quanto ch' essa accadde appunto nel tempo stesso che la Città in Corpo avea ottenuto dal Re Cattolico il sospirato richiamo del calunniato Pastore. Infatti il suo cadavere fu trasportato da Bergamo a Milano; e dopo le solenni esequie prestategli nella Metropolitana, venne ivi tumulato nella Cappella di Santa Catterina, ove gli fu eretto un elegante mausoleo di fini marmi , arrichito con bronzi dorati, in cui vedesi il di lui Simulacro in marmo pure scolpito. Gli affari però della Guerra tra i due Monarchi procedevano con varie vicende a segno che mossi erano entrambi dal vivo desiderio di rendere ormai la sospirata tranquillità all' Europa. E già tutto sembrava collimare a quello avventuroso termine ; quand' ecco che Carlo V. dopo 19. mesi di vita esemplare, e Cautamente impiegata nella Monastica solitudine di San Giulio nell'Estremadura, diede fine al corso di sua vita mortale il giorno 21. di Settembre del 1558. in età di 58 anni, sei mesi, e venticinque giorni. La dolcezza di quel clima, e l' allontanamento dagli affari rilevanti, inseparabili dal suo vasto Impero, aveano sensibilmente calmata la violenza della sua podagra, e sospesi i dolori da quali fu per lungo tempo tormentato. Ma sei mesi avanti la aua morte riprese il male le violenze di prima. Allora fu, che tra per la solitudine , ed il paventoso penfiero dell'imminente fine di sua vita, gli cadde in animo di farsi celebrare, se vivo tuttavia e presente, que' suffragj, che se gli sarebbono fatti dopo la sua morte. Senza entrare quì nella disamina di siffatta risoluzione (su di che varj Scrittori rilevarono molte cose) , noi diremo soltanto, che terminate le lugubri ceremonie, Carlo V. si ritirò nel suo appartamento colmo di tristi idee, inspirategli da questa viva immagine della morte. Spossato eziandio dalla lunghezza della maninconosa e funebre Liturgia, e vinto da una troppo forte impressione soggiacque ad un assai violento accesso di febbre il giorno ultimo di Agosto, il quale non che abbandonarlo; crebbe anzi sempre più di giorno in giorno sino al ventunesimo di Settembre, in cui con tutti i aegnali di ottimo Cattolico, alle due ore della mattina spirò. Tale fu il fine di quello Principe, conchiuderemo col Muratori (I) per ischivare le eccessive lodi comunemente dategli dagli Storici, uno de' più gloriosi, che abbiano maneggiato lo scettro Imperiale. E' singolare, che in morte Carlo V. manifestò per suo Figlio un Paggio di dodici anni, che attualmente stava al servizio del Re Filippo, a cui lo raccomandò. Fu questi Don Giovanni d' Austria, creduto da alcuni nato da Leonora di Plombes , e secondo altri da Barbara Blomberg, il quale cresciuto in età ed in senno, pareggiò la fama di sì gran Padre con gli illustri fatti, ond' ebbe rinomanza tra i primi Guerrieri dell' età sua al cader del Secolo Sedicesimo. La morte di un tanto Monarca fu compianta perfino da' suoi nemici. Ebbe egli sepoltura in Granata nella Cappella Reale dei Re di Spagna. Il Re Filippo II. gli fece celebrare in Brusselles solennissime esequie, e con tale magnificenza, quale non si rinviene sì agevolmente nelle Storie. Funerali perciò chiamati dal Fleury tra i più superbi della terra (2) . Sono questi minutamente descritti da Alfonso Ulloa nella Vita di Carlo V. (3). Ned è men degna di esser letta la descrizioae della Pompa funebre replicata nella Metropolitana di Milano per lo stesso Carlo V., esposta da Gaspare Bugati Scrittore contemporaneo

(I) Annali al 1558. pag. 434. (2) Stor. Eccl. Tom. 22. ediz. di Genova pag. 358. (3) Ven. 1606. Lib. V. pag. 248. tergo, e segg. contemporaneo (I) . Queste Imperiali e Reali esequie celebraronsi nel Gennajo del 1559. coll'intervento del Duca di Sessa Governatore della Città, del Marchese di Pescara, degli Inviati di tutte le Città dello Stato, del Senato, del Magistrato, e di tutti gli Ordini qualificati, avendovi recitata l' Orazion funebre Francesco Grasso Presidente del Magiastrato. Le quali esequie vennero poi repplicate con gli apparati medesimi del Catafalco (Architettura di Vincenzo Seregno Milanese), per Maria Regina d' Inghilterra, e Moglie di Filippo II. Re delle Spagne e Duca di Milano, passata agli eterni riposi il giorno 17. di Novembre del 1558., recitandone una elegantissima Orazion Funebre il Senatore Pietro Antonio Mariano. Fu questa perdita veramente grande per tutta la Cristianità, e segnatamente per l' Inghilterra, dove quella religiosissima Principessa, ajutata in ciò efficacemente dai consiglj e dall' opera del Cardinale Reginaldo Polo, avea felicemente ristabilita la Cattolica Religione , dopo il funesto Scisma cagionato dalla nota Apostasia di Arrigo VIII. suo Padre.

(I) Stor. Univ. Lib. VIII. pag. 1028. e segg. CAPO VIGESIMONONO. Seconda Pace di Cambrai. Ultimazione del Concilio di Trento. Il Cardinale Carlo Borromeo entra in Milano alla Residenza del suo Arcivescovado. Elogio di questo Santo Prelato con cui si dà fine al presente volume

Cambiaronsi finalmente le passate mestizie in altrettant pompe di gioia e di universale allegrezza, allorchè dopo la vittoria di Gravelinga, e la ricuperazione di di Dunkerque fatta dagli Spaguoli con istrage dei Francesi, convennero Arrigo II. Re di Francia, e Filippo II. Re di Spagna nel concertare proposizioni diPace; la quale venne sytipilata in Cambrai il giorno tre di Aprile 1559. colla scambievole restituzione della Città e Luoghi conquistati, e segnatamente al Duca Emmanuele Filiberto la Savoia col Piemonte; il Monferrato al Duca di Mantova ; e Valenza, Asti, e Vercelli allo Stato di Milano. Cotesta Pace parve divenir maggiormente consolidata dall' avere Filippo II. sposata in terze Nozze Isabella Figlia dello stesso Arrigo II. Re di Francia, ed il Duca Emmanuele Filiberto Margherita Sorella del suddetto Re Cristianissimo. Grandiose furono le feste, le illuminazioni, le esultazioni di Milano, della Francia e della Spagna, e di tutta l' Europa per sì lieti avvenimenti. Quando il Re Arrigo II. per festeggiare i Matrimonj della Figlia e Sorella entrato in una Giostra, di cui molto dilettavasi, venne colpito dalla scheggia di un' asta spezzatasi, la quale se gli conficcò nell' occhio destro per la visiera dell' elmo, che era socchiusa, e gli penetrò fin dentro al cervello: il che fu cagione, ch' egli dopo undici giorni, ai dieci di Luglio perdesse la vita , con estremo universale dolore di tutti i suoi Sudditi ; succedendogli nel Regno Francefco II. suo Primogenito, in età di sedici anni. Poco dopo quest' infortunio seguì in Roma la morte di Papa Paolo IV., accaduta il giorno 18. di Agosto per idropisia. Buon per lui, che fino dal principio di quest' anno medesimo conobbe le iniquità de' suoi Nipoti, e vi pose efficace rimedio. Il Popolo Romano fece inaudite stravaganze nel Palazzo della Inquisizione da quello Pontefice eretto in Roma, rimanendo quasi miracolosamente preservato dal furor popolare il Cardinale Alessandrino Michele Ghislieri Capo di quel tremendo Tribunale. Ma non prima ebbe fine l' anno 1559., che la Chiesa di Dio riconobbe il Supremo suo Capo, Successore di Paolo IV., essendone caduta l'elezione concorde fatta dai Cardinali radunati in Conclave la notte precedente la Solennità del Natale di nodtro Signore nella persona di Giovanni Angelo de' Medici Cardinale di Santa Prisca , che prese il nome di Pio IV., Milanese, Figlio di Bernardino, e Fratello del celebre Gian-Giacomo de' Medici Marchese di Marignano, uno de' più valorosi Condottieri d' Armi in Italia, come si è detto in più luoghi di questa Storia. (Anno 1560)Salito sulla Cattedra di S, Pietro il Cardinale de' Medici, corrispose egli ben presto alle concepite speranze di un ottimo governo, che rimediasse ai disordini del troppo troppo severo Antecessore; essendo egli di un naturale assai mansueto, pratico degli affari del Mondo, amante de' Letterati, limosiniere, e di altri molti pregi adorno, coll' appoggio delle quali prerogative giunse al Supremo Grado della Chiesa. Uno degli atti suoi primi fu l' annullare, o correggere varie determinazioni di Paolo IV., e riconoscere per Imperatore Ferdinando I. ed i Ministri suoi. Rivolse poscia Pio IV. le sue cure a dar segni di gratitudine a Milano sua Patria, di cui fu il Quarto promosso al Sommo Pontificato, rinnovandole questo onore dopo il corso di 317. anni, e creando ai 31. Gennajo alcuni Cardinali auoi Concittadini, cioè Gian-Antonio Serbellone auo Cugino Veacovo di Novara (essendo il Pontefice Figlio di Cecilia Sorella di Gio-Pietro Serbellone, Padre dell' eletto); Carlo Burromeo suo Nipote , Figlio del Conte Giberto e di Margherita Medici sua Sorella; e Lodovico Simonetta già Datario e Vescovo di Pesaro, traslatato alla Chiesa Vescovile di Lodi. Oltre a quelli aggiunfe nel 1565. al Collegio de' Cardinali altri illustri Milanesi che furono Carlo Visconti Senatore ed Oratore a Filippo II., Francesco Abondio Castiglione; Alessandro Crivelli; Francesco Alciati ; Francesco Grassi Senatore poi Presidente del Maggior Magistrato di Milano; e promosse alla Chiesa Vescovile di Cremona Niccolò Sfondrati poi Cardinale, e Pontefice col nome di Gregorio XIV. Sarà presso tutta la posterità un monumento di lode a Pio IV., l'avere egli nelle prime sue providenze liberato dalla Carcere, in cui languiva già oltre a due anni, il Cardinale Giovanni Morone Milanese , uno de' più grandi Uomini, che vivessero in quella età; fatto ivi tradurre da Paolo IV per sospetti di eresia. E non volendo l' imperterrito Prelato grazia alcuna, ma severa giustizia , Pio IV. gli accordò nuovi rigorosi processi, pei quali emanò sconto della sua assoluta innocenza. Ora sebbene il novello cardinale Carlo Borrumeo contasse di età soli 22. anni, il Pontefice Pio i V. approvò la rinuncia ad esso lui fatta dell' Arcivescovado di Milano dal Cardinale Ippolito II. d'Este , che colla morte dell' Arcivescovo Archinto era tornato per l' accennata ragione del Regresso al possedimento di quella Dignità; cedendogli non guarì dappoi anche questo Diritto. Seguì la tanto per noi memorabilrinuncia il giorno 8. di Febbrajo; ed il Cardinale Carlo Borromeo prese il possesso del conferitogli Pastoral Ministero nel seguente Maggio coll'universale giubbilo di tutto il Popolo , che avvezzo ad ammirarne la virtù fino dai teneri di lui anni, presagiva un fortunato Governo utilissimo eziando al bene universale della Chiesa. Intanto venne egli dallo Zio promosso alle luminose Cariche di Segretario di Stato , e di Legato di Legato di Romagna e di Bologna; nel mentre che quasi al tempo stesso fu dichiarato il di lui Fratello Conte Federigo Borromeo, Capitano Generale della Chiesa, col darglisi in Moglie Virginia Figlia del Duca di Urbino. Appena giunta ìn Milano la consolante notizia della esaltazione al Papato del Cardinale Gian-Angelo de Medici, che immantinenti la città spedì a Roma fette ragguardevoli Personaggi trascelti dal Collegio de' Giureconsulti per felicitarlo nella sua Promozione . Pio IV., che già apparteneva allo stesso Collegio, gli accolse con somma affabilità, gli ricolmò di Privilegj, e loro concesse la perpetua prerogativa di avere in Roma un Uditore della Romana Ruota, ed un Avvocato del Concistoro. Assegnò poscia allo stesso Collegio entrate stabili onde formarsi una Biblioteca, ed erigere quella maestosa fabbrica, cui tuttora veggiamo ; all' edifizi della quale immediatamente accintosi l' insigne Architetto Milanese Vincenzo Seregno (I), fu pel 1564. ridotta all' odierna simmetria e grandezza. Anche il Maestoso Tempio di S. Vittore al Corpo ebbe nel 1560. il suo principio, e nel giorno 31. Marzo fu

(I) Morì nel 1594., e le di lui esimie prerogative leggonsi compendiate nel suo elogio Sepolcrale nella Chiesa di San Giovanni alla Conca. posta la prima pietra di quel vasto edificio, disegno di Galeazzo Alessi Pellegrino celebre Architetto. Così sempre più nobilitata la Città di Milano accolse nel Giugno per suo Governatore Francesco Ferdinando d' Avalos di Aquino, Marchese di Pescara. In mezzo però à sì fausti, e moltiplicati avvenimenti ebbero i Milanesi a deplorare la perdita irreparabile del Gran-Cancelliere Francesco Taverna Conte di Landriano. Era quelli nato da una delle nostre più cospicue Famiglie; quindi pei felici suoi progressi nella Scienza del Diritto, eletto a Dottor Collegiato, a Fiscale, a Senatore, ed a Presidente del Magistrato Straordinario, venne da ultimo creato Gran-Cancelliere dal Duca Francesco II. Sforza, e confermato in sì alto posto dall' Imperatore Carlo V. La probità, i talenti, l'attività, il cuore, e la prudenza di questo degno Ministro si conobbero in varie Legazioni, ch' egli felicemente esegui presso la Repubblica Veneta, in Roma presso Clemente VII., presso il Re di Francia, e presso l' Imperatore, conciliando trattati di Pace, ed Alleanze. Egli meritò dal suo Principe la nobilissima commissione di firmare il Contratto di Nozze per Francesco II. colla Principessa di Danimarca. Volentieri ricordo questo illustre Milanese, di cui la Famiglia de'suoi discendenti conserva, oltre lo splendore del nome, il più prezioso retaggio della umanità, cortesia , e beneficenza ; perciò resa una delle più amate Famiglie de' nostri tempi. A que' giorni pure, o all' un di presso seguì la morte del giovinetto Re di Francia Francesco II, accaduta il giorno cinque di Dicembre, succedendogli nel Reame Carlo IX. suo Fratello in età assai tenera, onde intraprese in suo nome il Regime di quella vasta Monarchia Catterina de' Medici sua Madre, e Tutrice. Volle il Sommo Pontefice Pio IV. nel principio del 1561. dare una nuova pubblica dimostranza di Stima e di amore per Milano sua Patria, col mandare in dono a questa Chiesa Maggiore un maraviglioso Tabernacolo , tutto di bronzo dorato e di squisito travaglio; Opera, dice il Bugari (I), di basso e intiero rilievo d' Aurelio da Cesare terra del Milanese , ma fatto in Roma. Memore però il Pontefice della unanime risoluzione stabilitasi nel Conclave, in cui seguì l' esaltazione sua, e firmata con giuramento. (Risoluzione che farà sempre onore sommo presso le future età a quel Sacro sublime Consesso, in vigor della quale chiunque fosse eletto Papa obbligavasi a riaprire senza dilazione il Concilio Generale già principiato in Trento) Pio IV., a sommossa sicuramente dello zelantissimo nipote Carlo Borromeo, rivolse a questo per tutta la Cristianità rilevanitissimo oggetto, tutte le cure, ed i pensieri . Laonde dopo di averne nel dì 29. di Novembre dell' anno precedente con sua Bolla intimato il suddetto riaprimento nella Città stessa dove ebbe il suo principio, da eseguirsi in quest' anno nel giorno di Pasqua, trascese cinque Legati, affine di Presiedere al medesimo. Le circostanze nondimeno de'tempi costrinsero que'Prelati a differire la prima Sessione fino all' anno seguente 1562. Infatti si tenne essa il giorno 18. di Gennajo con numerosissimo intervento di Cardinali, Arcivescovi, Prelati, Teologi , Principi , ed Oratori de' Sovrani ; fra i quali degni sono, rispetto alla nostra Storia, che sieno rammemorati i Vescovi Lombardi : Niccolò Sfondrato di Cremona, e Gian-Antonio Volpi di Como, già Nunzio Appostolico all' Elvezia . Tra i Legati Pontificj Presidenti al Concilio, de'quali era Capo il Cardinale Ercole Gonzaga, annoveravasi il Cardinale Lodovico Simonetta; ma rapito dalla morte al principiare delle Sessioni il Cardinale Gonzaga fu sostituito a quella importante Presidenza l'insigne Cardinale Milanese Giovanni Morone, la di cui vasta mente, e probità singolare contribuì assaissimo ai prosperi successi di quella Sacra Assemblea. Anche il Re Cattolico nel Marzo di questo stesso anno spedì a quel Generale Concilio in qualità di Oratore , il Marchese di Pescara Governatore

(I) Storia Universale, lib. VIII, p. 1040. Governatore di Milano, attesa la di lui abilità singoiare e consumata prudenza . Ma i felici avanzamenti, nonchè il tanto sospirato compimento di esso Ecumenico Cancilio dovranno i Posteri riconoscerlo sopra ogni altro dallo zelo ed attività del Santo Cardinale Carlo Borromeo, come si è accennato poc'anzi, tuttochè dimorante in Roma presso del Pontefice suo Zio ; meritamente perciò chiamato la Ruota , che moveva tutta quella gran macchina. Attese pure in questi tempi l'Imperatore Ferdinando I. a stabilire il Figlio Massimiliano nella successione de' suoi Reali , e della sua dignità . E infatti fu egli Coronato Re di Boemia e di Ungheria, ed ai 25. di Ottobre proclamato Re de Romani nella Dieta degli Elettori in Francoforte, ricevendone la Corona solennemente il giorno 30. di Novembre. Questi prosperi successi non arrecarono però alcuna tranquillità all' Italia, attso un maligno influsso di catarri e sfreddimenti, o come dice il Muratori di qualità epidemiale, diramatosi fino dal principiar dell' Autunno per tutte le sue contrade, in guisa che nella sola Milano perirono da cinque in sei mila persone (I) . Cotesto malore passando da una Città all' altra, estinse in Napoli circa venti mila di quegli abitanti ; e fece in Roma una notabilissima strage, per cui morì nel Novembre di quest' anno medesimo il Conte Federigo Borromeo con immenso dolore del Papa, a cui il Re Filippo II. poco prima avea donato il Ducato d'Oira nel Regio di Napoli, ricaduto alla Corte, con altre amplissime promesse, e coll' avere assegnata al tempo stesso una pensione annua di dodici mila scudi sopra l' Arcivescovado di Toledo al Cardinale Carl di lui Fratello, al quale siffatta immatura perdita aggiunse non pochi stimoli onde infervorarsi vieppiù nella santità della vita intrapresa . Sul finire di quest' anno Alfonfo Pimentello, di nascita Spagnuolo, Castellano di Milano, d' ordine del Re Filippo fece allargare la fossa del


(I) Storia Universale, lib. VIII, p. 1044. Castello coll'atterramento della Rocca di Porta Comasina , già eretta come abbiam detto da Ferrante Gonzaga ; e fu in quel torno, che Giovanni Battista Trivulzi Arciprete della Metropolitana abbellì la sua Chiesa di una gran pianta di bronzo di getto, ornata con pietre preziose, i di cui rami sostengono una quantità di lampade, che ardono davanti la Cappella di M. V., detta perciò dell' Albero . Accadde pure in allora, che tre mila de' nostri Lombardi , condotti in Francia dal Conte Giovanni Anguissola in ajuto di Carlo IX., ebbero parte in una segnalata Vittoria riportata nel Dicembre sopra gli Ugonotti. Tuttavia abbisognando al Re Carlo di un prode Capitano per rinnovellare la Guerra contro i suddetti ; poichè temeansi da loro, ancorchè domati coll' arme, sempre nuove ribellioni, ed ostilità, trascelse a quest' uopo il celebre Lodovoco Biraga Milanese, che noi vedemmo nel 1552. tentare la sorpresa del Castello di Milano a danno de'Cesariani ; ed affine di meglio animarlo gli conferì il vacante Marchesato di Saluzzo (I). Avea frattanto Francesco Ferdinando d'Avalos Marchese di Pescara eseguite le commissioni di Filippo II. al Sacro Concilio di Trento, e nel 1563. continuava in Milano a reggere la Lombardia; quando nel Marzo sen venne dalle Spagne Don Consalvo Ferrante di Cordova Duca di Sessa a rilevarlo ; il che accadde quasi contemporaneamente alla morte di Giovanni Batista Castaldo canuto e valoroso Capitano, che diresse già nel Piemonte l' armata di Carlo V. nel 1556. con ammirabile intrepidezza, e che volle essere privatamente tumulato nella Basilica di S. Vittore al Corpo. Ebbe quindi il Duca di Sessa poco dopo il suo arrivo in Milano a dar luminose prove di sua destrezza e prudenza. Erasi allora prefisso Filippo II di estirpar le Eresie da tutti i suoi Dominj , dopo di aver scampata una grande burrasca nel ritornare ch' egli facea


(I) Bugati, Storia Universale, lib. VIII, p. 1044. dalle Fiandre in Ispagna. Quindi a tal fine diede ordini tremendi in Vagliadolid, con legarsi egli stesso per male intesa religione al fiero voto, di recar colle sue proprie mani, se bisognasse, le legna al rogo per abbruciare Don Carlo suo Figlio, dove egli folle stato convinto di simili errori. Ora dopo di aver impetrato da Pio IV. la facoltà di sabilire in Lombardia la Inquisizione all' uso di Spagna , inviò al Governatore di Milano Duca di Sessa ordini pressantissimi pel suo eseguimento. Ma tali e tanti furono i riclami de' Popoli intorno a questo Dicasterio, reso pur troppo terrible dai seguiti in allora funesti esempj , che l'avveduto Ministro giustamente temendo di una pronta ribellione, dovette non solo desistere dall' eseguire i Sovrani Comandi; ma seppe efficacemente interporli eziandio preffo il suo Monarca, acciocchè rivocasse la prescritta novità. Stava altamente a cuore del novello Arcivescovo Carlo Borrorneo il rivedere la sua Chiesa Milanese, ch' egli sapeva trovarsi in uno stato deplorabile; ma trattenuto in Roma dallo Zio Pontefice per affari rilevantissimi, e sopra tutto vegliando pei progressi del Sacro Concilio di Trento, unico mezzo e fondamento della Riforma, che seriamente meditava di intraprendere; spedì da Roma stessa a Milano nel Giugno del 1563. il P. Benedetto Palmio insigne Oratore con alcuni altri Operaj Evangelici della Compagnia di Gesù, i quali fissando la loro abitazione in vicinanza della Chiesa Parrocchiale di s. Vito al Carrobbio, concordemente all' operoso zelo de' Cherici Regolari di S. Paolo, cominciarono ad ispianare la via alla desiderata Riforma di quella illustre Chiesa. Quand' ecco, che irfermatosi gravemente Pio IV. nel Novembre, destossi un serio timore della sua vicina perdita. Questo fece si, che i Padri radunati in Trento determinaronsi a pensare unanimi dì ridurre il Concilio al suo termine; e quantunque il Papa di lì a poco ricuperasse le forze, e la sanità ; tanta fu ciò non ostante la diligenza del venerando Consesso nello ultimare i punti di Dogma e di Riforma , che nel giorno quattro di Dicembre colla Sessione vigesima quinta ebbe quell' ultimo Ecumenico Concilio il sospirato suo fine. Concilio, conchiude ed epiloga da suo pari il Muratori (I), a cui intervennero i più dotti Vescovi e Teologi di tutti i Regni Cattolici, e che superò tutti gli altri precedenti per l'ampia esposizione della Dottrina della vera Chiesa , e per la correzione e riforma di assaissimi punti spettanti alla Disciplina Ecclesiastica. Tanti abusi, che da lì innanzi cessarono, tanta emendazione e mutazion di costumi nell' uno e nell'altro Clero, e il presente bell' aspetto della Chiesa di Dio tanto ne' Pastori di sublime grado, che dell' ordine inferiore, troppo diverso da quello, in cui si trovava essa Chiesa, allorchè Dio permise la nascita di tante Eresie nel Settentrione, per gastigo di chi si ribellò alla Religione de' suoi Maggiori : tutto questo lo dobbiam riconoscere da quel benedetto Concilio, che poi fu solennemente confermato dal Romano Pontefice, ed accettato almeno per quello , che appartiene ai Dogmi, da tutta l' università de' Cattolici. Misericordia di Dio fu ancora, che in tal congiuntura sedesse nella Cattedra di San Pietro un Pontefice di buona volontà, che i grandi affari della Santa Sede fossero principalmente apoggiati alla mente diritta, all' indefesso zelo, e alla Pietà singolare del Cardinal Carlo Borromeo , primo Ministro della sacra Corte, che a gloria di Dio, e a beneficio della Repubblica Cristiana trasse a fine quella memoranda impresa. Ebbe a quel tempo la Città di Milano l' onore di accogliere nel suo seno due Arciduchi d' Austria Ridolfo ed Ernesto Figli di Massimiliano II. Re de' Romani, provenienti dalla Germania onde recarsi in Ispagna alla Corte del Re Cattolico. Chiese questi al Cugino suo Massimiliano gli anzidetti due Principi per tenerli presso di sè, acciò educati e cresciuti ne' costumi Spagnuoli potessero in ogni evento essergli di sostegno della propria Corona; giacchè malissimo contento Filippo II. dell' unico suo Figlio

(I) annali al 1563. pag. 461. Don Carlo, giovine infermiccio, poco contava sulla di lui persona. Si fermarono i suddetti Arciduchi d' Austria in Milano alquanti giorni, trattenutivi colle possibili dimostrazioni di onori, e di feste corrispondenti all' alto loro grado ; e nel principio di Gennajo del 1564. partiti da questa città passarono per Cremona a Genova, ove sciolsero le vele verso la meta dell' intrapreso lor viaggio. Piacque oltre a ciò a Ferdinando Imperatore per fini a lui noti con suo Diploma dei cinque Gennaio di quest'anno 1564. confermare la Bolla d' Oro di Carlo V. del 1549. toccante l'ordine della Successione nello Stato di Milano a favore di tutti i Discendenti di Filippo II. anche per linea femminile. Questo tratto della Imperiale providenza assicurò viemaggiormente la tranquilla consistenza dello Stato Milanese, colla fondata speranza di una lunga , e continuata serie de' suoi Duchi nella Regia Famiglia degli Austriaci di Spagna, e di Germania Ed in quest' anno altresì il Cardinale Carlo Borromeo non più comportando oggi mai di starsene lontano dalla sua diletta Chiesa Milanese; e volendo ad un tempo dare agli altri Vescovi assenti dalla loro Diocesi un luminoso esempio della esatta Riforma, cotanto inculcata dal Tridentino Concilio, pensò seriamente a staccarsi dagli agi di Roma, ed a recarsi in persona a pascere la sua amatissima Greggia . Per meglio disporsi alla grand'Opera, cominciò a riformare severamente la propria Corte. Quindi ad imitazione dello Zio , che avea ordinata in Roma la fabbrica del Seminario Romano, giusta i Decreti del sullodato Concilio , diede principio in Milano al Seminario de ' Cherici , affidandone il governo a quegli stessi Gesuiti da esso lui spediti da Roma, e ordinando che si radunassero Interinalmente nella nominata Casa di San Vito. In questo tempo altresì, al dire del Bugati (I), fu terminata la Statua di Pio IV. opera di Angelo Siciliano, e collocata

(I) Storia Universale, lib. VIII, p. 1049. in alto nella parete interiore della Metropolitana presso all' Arca Sepolcrale di Ottone e di Giovanni Visconti Arcivescovi. Ella è sostenuta da un piedestallo, o sia mensola di marmo, tutta traforata, e fregiata di un gruppo di puttini ; scolpita egregiamente da Francesco Brambilla , ed encomiata per la sua artificiosa eleganza dal Vasari nella Vita di Benvenuto Garofalo. Con questo monumento di gratitudine vollero i Rettori del Maggior Tempio raccomandata a' Milanesi la memoria di un sì benemerito Pontefice. Ne altro ci rimane a compimento delle Patrie notizie somministrateci dalla Storia nel corrente anno 1564,, fuorchè l' accennare la scelta fatta dal Re Filippo II. a suo Capitano in Italia ed a Governatore dello Stato di Milano di Don Gabbriele de la Cveva Duca d' Albuquerque , Signore di un merito distinto per la pietà, giustizia, e valor militare.La seguita erezione in Pavia del Collegio detto Borromeo dal suo munifico Fondatore Carlo, la quale grandiosa fabbrica, destinata dal pio Cardinale alla educazione nella pietà, e nelle scienze di molti e qualificati Giovani dello Stato, fu eseguita sul disegno del celebre Architetto Pellegrino de' Pellegrini ; ammontandone la spesa all' importo di sessantamila e più scudi d'oro, postasi nei fondamenti di esso la seguente memoria : Carolo Cardinali Borromeo Fondatore . Anno MDLXIV. die XIX. Junii. E per ultimo la accaduta morte dell'Imperatore Ferdinando I, . noto Zio del Re Filippo II. Duca di Milano, la quale perdita seguì il dì 25. di Luglio, succedendogli nell' imperio Massimiliano II. suo Figlio Re de' Romani, d' Ungheria, e di Boemia. Felicissimo fu pei Milanesi l'entrante anno 1565., e foriera di prospere cose fu la prudenza, e la destrezza, con che il nuovo Governatore di Milano, Duca d' Albuquerque per ordine del Re Cattolico sedò la ribellione originata in Casale del Monferrato dalla animosità di alquanti Cittadini, che col pretesto di lesione dei loro antichi privilegi fatta da Guglielmo Duca di Mantova e loro Signore, studiavansi di sottrarsi al suo Comando. Mentre il presentarsi del Duca d' Albuquerque alle porte di Casale colla Armata Spagnuola, ed il ritorno de' Sollevati alla ubbidienza del loro naturale Principe, fu un punto solo. Ma per tornare onde siamo partiti, faustissima fu pei Milanesi la risoluta e ferma determinazione del Cardinale Carlo Borromeo di staccarsi ad ogni costo dal fianco dello Zio in Roma, e portarsi personalmente a reggere la fua Chiesa di Milano, mosso a ciò fare dalle gravi obbligazioni della Residenza Vescovile, tanto inculcate dal recentemente conchiufo Concilio di Trento. Vinto infatti dalle allegate sodissime ragioni del Nipote, Pio IV. gli diede di buon grado l'assenso di trasterirsi per alquanti Mesi alla sua Chiesa, e quivi celebrare il primo Concilio Provinciale , di cui all'estremo abbisognava, il suo diletto Gregge. Nella sua partenza volle lo Zio ampliargli la Dignità, che possedeva di Legato a Latere del Bolognese, Romagna, ed Esarcato di Ravenna; creandolo suo Legato a Latere in tutta l'Italia . Era egli a quel tempo, scrive il Bescapè (I), Abbate, o Commendatario di almeno dodici Chiese in diversi Stati, Arciprete di S. Maria Maggore in Roma, Sommo Penitenziere della Santa Chiesa , Conte di Arona, Principe d' Oira nel Regno di Napoli; oltre le amplissime pensioni , e sacri redditi ch'egli ritraeva da varie Provincie. Protettore del Regno di Portogallo, dei Cantoni Elvetici Cattolici, della Germania inferiore, de' Francescani , Carmelitani, Umiliati, de' Canonici Regolari di S. Croce di Coimbra, e degli Ordini Militari di Malta, e di Gesù Cristo di Portogallo. Cosicchè le annue sue entrate ascendevano alla somma di novanta mila zecchini, quibus cum haberet, conchiude egregiamente il Bescapè, insignis fuit, et cum dimisisset, insignitor.

(I) De vita et rebus gestis Caroli S. R. E. cardinalis tit. S. Praxedis, archiep. Mediol., libri VII. Carolo a Basilica Petri, praeposito gen. Congr. Cler. Reg. S. Pauli, auctore. Ingolstadii, ex officina Davidis Sartorii, 1592, lib. I, pp. 25 e 26. insignitor. Infatti avea egli di già ricusato l'onore di Prefetto del Sacro Palazzo, alienata l' Abbazia di Calvenzano, applicandola alla fabbrica del Collegio Borromeo in Pavia, ceduto il Marchesato di Romagnano a favore di Federigo Ferreri suo Cognato, vendute le Galere già allestite, che a lui pervennero per la morte del Fratello Conte Federigo, come proventi totalmente contrarii al suo istituto. Aggiungasi inoltre, che il Cardinale Carlo Borromeo, allorchè sen venne a Milano, possedeva già quell'Arcivescovato libero per totale cessione del Cardinale Ippolito d' Este di Ferrara, nella di cui Casa o per ammministrazione, o per titolo, o per regresso, erasi continuato il possesso di quell' insigne Sacerdozio da sessanta e più anni (I). Avvisò finalmente a Milano il Cardinale Arcivescovo Carlo Borromeo il giorno 23. di Settembre del 1565., sei anni dopo la partenza sua dalla Patria, accolto da Cittadini quall'altro Ambrogio con tale allegrezza e pompa, che giunse quel fiero tripudio a contristare l'animo umilissimo del Santo Pastore. Il di lui ingresso così è descritto dal Bescapè (2). Vrbem ingress est die dominico IX. Cal. 0ctob. anni à sal.M.D.LXV. cum XXVI. aetatis annum ageret. Triumphales portas , symbola , elogiaque honorificentissima ; ac viarum ornatus, non est opus explicare : è Basilica Regum , quae nunc Eustorgiana est, de more mitra, & ceteris Pontificalibus indumentis ornatus prodiit . albo equo, stragulis coloris eiusdem sericis adhibitis, insidebat . Confaloneriae familiae ; cuius illud est ius, & institutum ; nobiles viri , rubeo, & splendido vestitu pedites eum cingebant : sericum vmbraculum itidem album, sublime super eum serebant. clericis & monachis ordine praeeuntibus, ad maiorem ecclesiam sacra solemni pompa proccessit. Dux, cum Senatu, & aliis Magistratibus , & omni sere nobilitate comitatus est : vniversa ciuitas concurrit : reliqua acta, acque adhibita

(I) Bugati, Storia Universale, lib. VIII, p. 1061. (2) Vita S. Caroli ut supra Lib. I. pag. 27. adhibita pro ritu consueto . Specifica ulteriormente questo pomposo seguito il fu ch. Prefetto dell' Ambrosiana Biblioteca Baldassare Oltrocchi, e aggiugne al Bescapè ed al Giussani (I) : Eadem qua Carolus tegebatur umbella Gubernator ad Antistitis laevam impari gressu equitans, ut medius ex umbella postrema equus extaret. Ita scribit Carolus ad Cardinalem Novocomensem. Gubernatorem subsecuti sunt Genevensis Episcopus ad Sabaudiae Ducem Pontificius Legatus, Bergomensis Episcopus Cornelius, & Cremonsis Sfondratus, Delphinus insuper Torcellanus, & Landrianus S. Marci in Calabria Episcopi. Aderat etiam Ormanetus cum Thoma Asaphensi Episcopo . Ultimus omnium Petrus Georgius Vicecomes Mantuae Ducis apud Gubernatorem Orator, quem Senatutus deinde, ceterique Urbis totius Ordines de more sequebantur. Ne sarà ben grato ai cortesi Leggitori della presente Storia, che io qui soggiunga quanto a compimento di questo trionfale ingresso espone l' indefesso raccoglitore delle memorie del gran Borromeo in una seguente annotazione (2) Secessurus pacis osculo Gubernatorem, & Senatores procedentes excepit , reliquis manum osculandam porrexit . Neque omittam Gubernatorìs officia benevolentae plena, qui, ad multam noctem perfectis omnibus, Carolum ad cubile ipsum intimum honorificentissime, nec fine observantissimi animi signifitione deduxit ; hinc tanta humanitate captus Carolus ad Pontificem , & fusius ad Altempsium Cardinalem triduo post in hanc sententiam scripst : Deo auspice efficiam profecta, ut Patriae meae reddam , quod debeo , quando quidem tot in adventu mes benevolentiae testimoniis me sibi adeo obstrinxit ut, ut majorem propemodum a me curam, quam quae munere ipso debetur, jure suo quodammodo exigat. Me praecipue Gubernatoris religio,


(I) De Vita & Rebus Gestis S. Caroli Borromei S.R.E. card. archiep. Mediol. Libri Septem, quos ex Io. Petro Giussano ....Bartolomaeus Rubeus ....latine reddidit. Balthassar Oltrocchi....notis uberrimis illustravit. Mediolani 1751. Lib. I. col. 51, nota (b). (2) Ibid. ut supra col. 52. nota (d). pietas sibi devinxit, quem mei. Pontificis observantissimum nactus summopere recreor. Integerrimum item, atque laboris amantissimum intueor, eum denique, quem vix optare auderem. Tanta itaque fuit omnium Ordinum in eo excipiendo pompa, ut Hieronimus Vida invidiosa ferme sententia testatum secerit biduo post in Epistola, tanta Borromeum celebritate exceptum, ut vix a Regali pompa differret. Collocato il Cardinale Carlo Borromeo nella sua Sedia Arcivescovile di Milano, si sa per ognuno quali, e quante cose abbia egli operate a gloria di Dio, a proprio e perenne vantaggio di questa nostra Patria, ed a giovamento eziandio di tutta la Chiesa Cattolica. Inutil cosa parrebbe ed all'istituto della preseute istoria, ed ai tempi, in che ci viviamo, l'entrare qui a particolar disamina delle azioni del Santo Prelato, che traggono a se, per così dire , quasi tutto il corpo della Storia Patria, fino al cadere del Secolo XVI., e delle quali azioni pieni sono i Libri, piene le memorie presso di noi; e la fama ne dura vivace tuttavia, e durerà, son certo, presso ai più tardi Nipoti fino alle età più rimote. Noi saremo ben contenti di terminare questo gran punto di Storia coll' indicare a' nostri Leggitori il bellissimo e succoso Elogio del Santo Pastore pubblicato dall' immortale Vescovo e Signore di Vence Antonio Godeau nella sua Opera intitolata: Eloges des Evesques, qui dans tous les siecles de l' Eglise ont fleury en Doctrine et en Sainteté (I), a cui dà questo egregio principio: L' homme cest un petit Monde, dans le quel Dieu a ramassé toutes les beautez qui sont répandues dans les corps differens dont le grand est composè. On peut dire de mesme de Saint Charles Borromée, Cardinal, & Archevesque de Milan, qu' il a estè l' abregè de tous les Saints Evesques que Dieu a donnez à son Eglise dans le siécles qui l' ont precedè, & qu'il recueilly en luy

(I) A Paris 1665. Eloge XCVIII. pag. 627. toutes les vertus Episcopales qu' il avoit partagées entr' eux . E dopo avere esposti ripartitamente tutti que' punti delle sue controversie, e sofferte vessazioni, che fsarsero tanto rumore presso i men dotti , conchiude (I) : Comme en sa conduite il n' avoit agi par aucun mouvement humain , il n' employot aussi aucune dèfence humaine. Les prieres ferventes , les veilles continueelles, les cilices , les haires, & les disciplines, estoient les armes dont il se servoit en cette guerre . Enfin , elle finit à son avantage . Le Roy d' Espagne reconut son innocence; &' il luy donna tant de marques de son estime , &' de sa bien-veillance , que ses ennemis en eurent une exetréme confusion , & que par ses ordres exprès ils furent contraints de le laisser an paix dans l' exercice de ses fonctions . Vaglia però sovra ogni altro l' insigne ritratto del gran Borromeo lasciatoci da un celebre Dottore della Sorbona, autore certamente imparziale. Scrive egli (2): Iddio volle donare questo gran Santo alla sua Chiesa , perchè fosse egli una luminosa guida ai Vescovi , ed a tutti i Pastori nella moltiplicità, ed estensione dei loro sacri doveri. Attesochè se noi vogliamo per poco esaminarne la vita. comprenderemo agevolmente, che lo Spirito Santo suscitò S. Carlo per convertire una parte de' Popoli Cattolici della Chiesa di Milano, l' una delle principali d'Italia; vale a dire per cominciare la riforma di una sì gran parte della Casa di Dio colle sue sante Costituzioni , co' suoi Seminarj, e col rinnovamento degli esercizj della penitenza .... Destinandolo per tanto Iddio a sì grandi, e sì proficue imprese, ed infuso avendo in esso lui lo spirito ed il genio del suo magnanimo antecessore Ambrogio, volle che gli succedesse così ne di lui spirito e condotta , come nella sede e nel trono dela Chiesa Milanese . Al quale intendimento conferì Dio stesso a S. Carlo

(I) Pag.643. & 644. (2) Oeuvres de Messire Antoine Docteur de la Maison & Société de Sorbonne Tom. 27. a Paris 1779. pag. 520. & 521. grandi qualità, ed i grande ajuti, onde sostenere il difficile incarico di riformare la sua Diocesi, per cui dovea in appresso vedersi impegnato in gravissimi contrasti e combattimenti. E di vero, mirabil cosa è a dirsi, come Iddio lo autorizzasse presso i suoi parenti e affini nell'Italia, presso i suoi amici nella Romana Corte; per la sua illustre nascita presso i più Nobili del Secolo; per la sua dignità di Cardinale, di Nipote del Papa, e di Legato della S. Sede presso gli Ecclesiastici e Principi; per le sue grandi ricchezze, istrumenti dell'ardentissima sua carità presso i poveri; per l'alta sua pietà presso i buoni; per le sue umiliazioni e meravigliose sue austerità presso i peccatori. Inoltre dotollo Iddio di un volto vulnerabile, pieno di rispetto e maestà; di consiglio e prudenza capace a governare tutta la Chiesa, siccome fatto avea sotto il Pontificato dello Zio; di magnanimità di gran Signore e di gran Santo per non temer punto le minacce de' violenti Governatori, gli attentati di morte de' Monaci furiosi, le calunnie de' ribelli Ecclesistici, il raffreddamento del Papa, e de' Cardinali ingannati e sorpresi. Di più vi aggiunse un'esimia forza di mente straordinaria nell' intraprendere le più gran cose; un immobile costanza per eseguirle, e culdurle a fine; un ardente e generosa carità, onde recarsi intrepido in mezzo agli appestati, ed in mezzo ai torrenti; una robustezza di corpo infaticabile per visitare incessantemente la sua Diocesi, e sopportare le umiltà di pubblico penitente per confondere la pubblica impenitenza; un violento amore della Chiesà primitiva per farne rifiorire l'antica disciplina nella decadenza degli ultimi tempi; una profonda venerazione pe' suoi Canoni penitenziali, affin di rinnovarli e proporli come modelli sicuri ; una luce penetrante nell' adattare gli eccellenti rimedj al bisogno delle anime; e finalmente tutte le doti Divine ed eroiche necessarie ad un Vescovo per riformare i disordini di una Chiesa, ed abolirne i più deplorabili abusi. L' Epoca illustre di un sì eminente Personaggio sarà per ora il convenevol termine della presente Istoria, non omettendo di protestarci grati al benemerito Storico e nostro Concittadino Pietro Verri, anche per averci lasciate copiose ed interessantissime Memorie Patrie, onde produrne la di lei continuazione fino a dì nostri ; le quali non è improbabile che siano per vederne un giorno la luce.

FINE DEL SECONDO TOMO. INDICE DELLE COSE PIU' NOTABILI CONTENUTE NEL PRESENTE VOLUME INDICE DELLE MATERIE: A INDICE DELLE MATERIE: B INDICE DELLE MATERIE: C INDICE DELLE MATERIE: D INDICE DELLE MATERIE: E INDICE DELLE MATERIE: F INDICE DELLE MATERIE: G INDICE DELLE MATERIE: H - I - L INDICE DELLE MATERIE: M INDICE DELLE MATERIE: N INDICE DELLE MATERIE: O INDICE DELLE MATERIE: P INDICE DELLE MATERIE: Q - R INDICE DELLE MATERIE: S INDICE DELLE MATERIE: T INDICE DELLE MATERIE: V [postilla autografa di Stendhal]

[segno grafico di unione tra testo e postilla] Conjure[?] à [una o due parole illeggibili]

[Inedita. Trascrizione a cura di Annette Popel Pozzo] INDICE DELLE MATERIE: X - Z FINE. ERRORI PIU' NOTABILI, E LORO CORREZIONI

e lo accolse il Duca pag. 48 / e lo accolse mirabile provisione pag. 54 / mirabile previsione Duca Giovanni Galeazzo pag. 64 / Duca Galeazzo Maria Cardinal Santa Crore pag. 134 / Cardinal Santa Croce Pellegrino Galeazzo Alessi pag. 366 / Perugino Galeazzo Alessi Avvisò pag. 375 / Arrivò de le laisser an paix pag. 378 / de le laisser en paix

NELL'INDICE

Istrice= divisa assunta dal Duca Lodovico il Moro pag. 440 Istrice= divisa assunta da Duca Lodovico XII.