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G. MONGERI


PER LA FACCIATA DEL DUOMO DI MILANO 1887

MEMORIE E COMMENTI

Con TAVOLA,

MILANO

PREM. TIPO LITOGRAFIA DEGLI INGEGNERI 27 Via Carlo Alberto 27

I 8 8 3 Estratto dal Periodico IL POLITECNICO Giornale dell' Ing. Arch. Civ. Ind. PER LA FACCIATA DEL DUOMO DI MILANO (1)

I. - Il suo passato.

Quanto più ci avviciniamo alla data, e ne siamo ormai alla vigilia - in cui si chiuderà il primo, e certamente, degli stadi del Concorso per la facciata del Duomo, quello di maggior momento, di tanto si fa maggiore il presentimento dell' importanza di questa grande risoluzione. Anno per anno, tenendoci alla tradizionale sua lapide, si è varcato il quinto centennio dalla fondazione del grande monumento; e non occorre metterci sott' occhio i documenti parlanti delle sue vicende, per immaginare l' interessamento vivissimo, fino dall' origine, che i cittadini tutti, senza distinzione di ceto, consacrarono a questo tempio fatto ormai simbolo loro. Valga in prova per tutti il presente Concorso internazionale, quasi testimonianza imposta dal pensiero d'uno, all'estremo di vita, di cotesta oscura folla di cittadini (2). Ora, dal passato possiamo argomentare l' avvenire. Il popolo è meno scettico di quello che si vuol far credere ; esso ha il senso della sua esistenza nelle grandi opere pubbliche, qual'è questa, e non havvi forse in esso chi non si domandi , fin d' ora, che ne avverrà di questa prova; dov' è che si miri; che si possa immaginare pel meglio del monumento; quale, in ultimo, sia per essere

(1) Questo titolo è quello d'un foglietto volante a stampa, della metà circa del secolo XVII, e segna il momento in cui i progetti pellegrineschi, durati dal 1570 al 1650 circa, cedono il passo a quello del Carlo Buzzi, onde più o meno correttamente, si venne allo stile originario dell' edificio. Noi facciamo nostro il titolo medesimo per il soggetto istesso, ma in circostanza ben diversa e con un indirizzo diverso. Oggi, è della riforma d' una facciata già fatta che è questione, e questa riforma è immaginata per dare il giusto carattere d'arte ad una costruzione che la sua ammirata grandiosità lasciava desiderare; ed oggi, ci accingiamo in faccia a tutta Europa con quella scienza che gli studi del secolo ci prestano. Dalla pubblicazione del programma, l.° Marzo dello scorso anno ad oggi, ci è occorso pubblicare qualche scritto sull'argomento. Grati all' ospitalità cortese del Politecnico, che ci porge le sue accreditate pagine , siamo lieti di qui ripubblicarli, per quel tanto che possono interessare gli studiosi. Alcuni viddero già la luce nei fogli della Perseveranza : questi saranno qui trovati con qualche aggiunta e colle indicazioni delle fonti onde le notizie furono tratte , delle quali le principali furono i ben noti Annali della Fabbrica del Duomo. (2) Alludiamo alla memoria dell'insigne benefattore Aristide De-Togni, defunto ai 21 Settembre 1884, ricordato anche nel programma di concorso, il quale legò all'Amministrazione della Fabbrica la somma di un milione di lire italiane coll'obbligo di erogarle, sotto certe condizioni, nella riforma della Facciata del Duomo. A lui, dunque, primo che a titolo d'onore qui nominiamo, e speriamo non unico nel seguito, vogliamo dato merito dell' inizio della grand'opera. l' esito ad onore di esso; soprattutto, se abbiavi, fin d'ora, più a temere che a nudrirsi di speranze, come da taluni sfiduciati si vuole. Egli è ben naturale: al solo avvenire, per molte di queste domande, spetta la risposta. Si illuderebbe grandemente chi credesse l' impresa sicura e pronta; ancor più chi credesse ad una combinazione che concilii tutte le opinioni. Quello in cui ci pare di poter porre fiducia è nell' età nostra impavida davanti a simili audacie. Intanto, quello di meglio che ci resta a fare dev'essere di seguirne con amore i passi: è quanto chiediamo, cominciando con uno sguardo retrospettivo (1). Ormai non può rimaner dubbio; un disegno della facciata fin dall' origine, contemporaneo alla fondazione, per quanto è noto circa le fasi precorse dal quesito, non ha mai assistito; e se pur ve ne ebbe, non altro potè essere che uno di quegli schemi generici, o, come sogliono dirsi d' insieme, senza carattere stilistico, suscettibile d' ogni modificazione , come spesso accadeva a quel tempo , all' atto di una risoluzione effettiva. Lo dimostreranno fino all'ultima evidenza nel seguito questi studi: intanto, basterebbe a farlo sospettare la controversia, durata fino alla morte di Giovanni Maria Sforza (1476), tra il Duca e l'Amministrazione (2) circa la proprietà della piazza anteriore, e quindi, circa la situazione della fronte sulla linea presente. Pare si mirasse allora, per un puntiglio ducale, ad arrestarla tre archi più addentro, dove in effetto, l' inoltrarsi delle navi si trovava impedito. La pubblicazione del Cesariano (3), posteriore di non molti anni, conduce alla medesima conclusione, chè ragionandovi dell' edificio, allora già celebrato, ne dà col disegno le parti principali e le ragioni geometriche senza mettere nè linea , nè toccar parola riguardanti la facciata. Un più recente argomento farebbe pensare che 1' Amministrazione stessa della Fabbrica , dopo la terribile pestilenza del 1524 e davanti alla persistenza delle navi ancora in tronco e ai mancanti sussidi nei redditi , si fosse rassegnata ad una ricomposizione, almeno temporanea, della vecchia facciata di S. Maria Maggiore fronteggiante quella linea tronca. Un disegno conservato nella celebre Albertina di Vienna, firmato Cristoforo Lombardo architetto del tempio, colla data 1546, sembra studiato, per ordine dell'Amministrazione a consiffatto intento (4). L' Amministrazione, a segno di proprietà fino dal 1456, aveva mantenuta sul luogo su cui doveva correre la linea della fronte , corrispondente alla pianta originaria , una colonnina di marmo rosso (5) , finchè di una degna sua fronte trovò nell'arcivescovo Carlo Borromeo il primo promotore suo fermo e assoluto. Non fu certamente avanti del 1571 che il Cardinale vi si rivolse di proposito : (1) Riassumiamo quanto abbiamo già pubblicato in proposito nell' Archivio storico Lombardo del 30 giugno anno 1886 e nel Politecnico dei mesi di Luglio e Agosto detto anno. (2) Annali della fabbrica. Vol. II. pag. 216, 253, 274, 276, 293 e 295. (3) C. CESARIANO. - I dieci libri dell'architettura di Lucio Vitruvio. Como; Gottardo de Ponte, 1521. (4) Il disegno dell' Albertina si vede nel volume III della Scuola Milanese al doppio numero 149171 : è una manipolazione mal congesta di forme tonde e acute con un campanile: oltre la data sopra-detta, la segnatura del Lombardo è seguita dalle parole: «ingegnere di la venerata fabbrica de la Chiesa maggiore di Milano ». - Egli rimase, infatti, in servizio di essa, quale architetto, dal 1533 al finire del 1556, dopo il qual tempo, senza data precisa, lo troviamo defunto. (5) Annali. Vol. II, pag. 167. Durò al posto dov'è ora la porta maggiore, fino al cadere del secolo XVII in quel torno di tempo egli aveva ottenuto che fossero murati gl' ingressi laterali ai capi del tramezzo di croce. Le cause non erano lievi; ma anche l' accesso al tempio era fatto disagevole: sentì il debito di ripararvi, e forse ne vide il modo nel progetto d' una facciata con cinque porte , anzichè con tre , come ne era l'idea prima, per compenso alle soppresse (1). Così, privatamente, ne diede l' incarico all' architetto suo famigliare, il Pellegrino Pellegrini. Come abbiamo detto altrove (2), il Pellegrini di Bologna, ma originario della diocesi milanese, era un michelangiolesco convinto. Per la chiesa il Cardinale, che voleva il fasto degno d'un grande tempio imponente sul popolo, in antitesi colla rigida nudità protestante , si trovò facilmente all' unisono coll' architetto , e ne uscì, dall' accordo loro, un disegno di quello stile, oggi detto erroneamente classico, allora romano, ma, comunque fosse, macchinoso, tutto compaginato di colonne e di architravi, coperto da un ottuso frontone, una maschera da tragedia, fatta a squadra, grave, accigliata, boccheggiante, appostata ad un corpo agile, ascendente, irrequieto nei moti, esuberante nelle minuzie, qual era l' edificio fin dall' origine e tale arrivato fino a quel tempo. La rinnegazione tra il moderno e l' antico era completa, ma la nuova impronta del tempio doveva trionfare. Il Pellegrini aveva fatto, a richiesta del cardinale, due disegni, ma così poco diversi da tenerli per gemelli. Spariti, però, con lui al suo ritirarsi dalla fabbrica, anzi dalla città, nel 1586 (3), non vennero richiamati a vita che un vent' anni dopo, morto l' autore, non che il commettente. Poco importa dire delle astiosità segrete e della gara aperta sorte in quell' occasione ; basti il sapere uno dei disegni del Pellegrini essere stato l' eletto in competenza con altri quattordici o quindici aspiranti alla grand' opera degni , nè poco nè punto, di considerazione maggiore di quello pellegrinesco (4). La scelta, tuttavia, avvenne nel 1609 (5); e dipese principalmente dal successore e cugino, il cardinale Federico Borromeo. Vi si mise mano senza indugio : nel 1617, se ne trovava inoltrato il basamento, che, dopo il 1621 (6), fu possibile di estendere alla fronte intera. Non piaccia credere, però , che il disegno fosse l' arca santa, su cui nessuno potesse metter mano. Intanto, il Pellegrini da circa quindici anni, era morto, e il disegno , quando fu accettato, lo fu colla riserva di modificarne la parte superiore. Tutti gli architetti esecutori venuti poscia, fra cui il Besnati e il Ricchini, non mancarono di togliere od aggiungere qualche cosa del proprio: ma chi più che altri intervenne fu, nel 1629, (7) un pittore d'alto ingegno, il Cerano (Giovanni Battista Crespi), il quale, fattosi scultore e architetto, inghirlandò i telai delle porte con quei fantastici annodamenti di animali, di frutti, di oggetti diversi, argomento principalissimo, e non indegno, (I) Annali. Vol. IV, pag. 114. (2) La Facciata del Duomo di Milano. - Archivio Storico Lombardo ; fascicolo II , 1886 pag. 307. (3) Annali. Vol. IV, pag. 234. (4) La facciata del Duomo, ecc. come sopra pag. 314. (5) Annali. Vol. V, pag. 60. (6) Archivio di Stato in Milano, come alla nota della Facciata, nell'Archivio, pag. 319. (7) Annali. Vol. V., pag. 155. dell'ammirazione generale anche al dì d'oggi. Chi fosse curioso di conoscere il tramutamento subito non ha che a far confronto di queste porte modificate dal Cerano, coll'unica principale della chiesa di S. Fedele del Pellegrini, e simili a quelle proposte. Del resto, un critico, del secolo XVII, non senza ragione ci lasciò scritto, a proposito di una contesa sui giudizi del suo tempo; che « dal disegno » — intendi del Pellegrini — « al modello » — quello tenuto per accettato — « e da questo all' opera, allestita che fosse, vi erano già tali varietà che parebbe riserbato a doverle intendere finita che la facciata sia. » Per cotal modo, a mezzo del secolo istesso, venivasi lentamente innalzando questa mole, e continuandola, noi avremmo finito coll'avere un ordinamento, quale la chiesa del Gesù a Roma, del Vignola, o quella del Sant' Ignazio, dell'Algardi, questa sul limitare del barocchismo estremo, se un nodo di casi non fosse intervenuto a salvarcene. Li precedette lo spezzamento (1628) della colonna prima destinata alla porta maggiore (1) ; poi, l' arenamento dei lavori, causa la peste del 1629; e due anni trascorsi ancora, la morte del cardinale Federico, il propulsore del progetto pellegrinesco. Ma più che tutto valse l'apparire d'un giovane artista, che entrò nel campo delle incessanti controversie col vessillo di un nuovo disegno. Egli erasi fatto architetto all' ombra della costruzione , come ci lasciò scritto egli stesso: vi fu addetto a sedici anni, e non ancor trentenne, nel 1638, vi era nominato architetto generale. Carlo Buzzi, proveniente, pare, da una famiglia di Casbeno, presso Varese, fu quel desso. In un momento d' ispirazione fortunata, scompigliò d' un tratto, e forse inconsciamente, il catafalco del Pellegrini e l' intera coorte dei suoi infedeli prosecutori. Del disegno suo troviamo un primo cenno nel 1645: si vede che non aveva perduto tempo. Per comprendere cotesto nuovo disegno, giova premettere che, anche nel XVI secolo, il proposito d' una facciata , conforme al resto del tempio, persistette sempre. Al Seregni che era un valente disegnatore nello stile , sono dovuti i molti disegni sussistenti della minor porta al braccio settentrionale, distrutta per la sua chiusura. Anche il Bassi, rivale del Pellegrini, ce ne lasciò uno appena abbozzato nelle stesse forme (2). Il disegno del Buzzi presentavasi non radicale, ma molto spontaneo e ragionevole (3). Intanto manteneva le porte e le finestre in corso di lavoro giusta lo stile pellegrinesco ; sostituiva alle colonne dei pili quadrilateri conformi ai contrafforti dei fianchi; questi innalzava direttamente fino al vertice delle declinazioni del tetto, di cui appariva in vista, secondo lo schema originale, il doppio versante. Considerati cotesti lineamenti in genere , ne sono i lati continuati sulla fronte , qual' è l' aspetto attuale. Nella prima proposta il Buzzi aggiungeva due poderose torri quadrangolari ai lati, agli estremi della linea frontale e non disgiunte da essa: erano da dieci a dodici metri, circa, per lato alla base, e novanta di altezza. Quest' idea pure non sorgeva nuova: era il concetto del Pellegrini pei campanili, se non che in esso si trovavano staccati: l' unione loro nel Buzzi s' accordava

(1) Gli Annali non parlano di questo fatto; se ne ha in memorie private. (2) Si trovano sì gli uni che l'altro presso la Biblioteca Ambrosiana; questo nella Raccolta Ferrari (3) Il Politecnico : fascicolo di Luglio e Agosto 1886. col principio delle cattedrali nordiche e quindi, collo spirito della costruzione per cui si proponevano. Sarebbe interessante ricercare in qual modo venne al Buzzi quest'ardito pensiero. Ma, usciremmo del nostro tracciato: piuttosto, importa sia detto che sorse, quasi contemporaneamente, di fronte a lui, un progetto rivale: era un arruffamento di forme acute e di concessioni al gusto dominante. Fu questo, invece, che arrivò a conquistare per un momento l' attenzione pubblica e il voto delle Autorità artistiche del tempo. Il caso, però, lo si deve agli artisti docili più ai maneggi del suo autore, che era un Francesco Castelli, che al merito del disegno; il quale non altro è che quello d' uno sconclusionato scenografo. Ben diverso era il progetto del Buzzi: questo, se trovò degli avversari nei consigli stessi della Fabbrica, ebbe anche dei devoti, ne' quali principalmente è da riconoscersi l'accortezza d'aver chiesto, e saputo ottenere un esperimento dei pili quadrilateri del Buzzi in fianco alla maggior porta (1) : i quali, in atto, gli valsero la conferma del giudizio pubblico già favorevole; cosicchè, la fabbrica, tra le agitazioni contrarie per due emuli, si arrestò a quel punto. Continuarono le censure ancor molto, fino alle minaccie di demolizione : ma sembra partissero più dal Capitolo ecclesiastico che dai deputati civili; e più che da ragioni di disegno, da ragioni di comodo e di economia. Ce ne rimangono le memorie. A loro fu opposta la troppo facile inerzia e l'oblio vi si associò, nonchè durante il resto del secolo, per buona parte del successivo. E quando risorse, circa al primo terzo del XVII (2), il tema della facciata, il disegno del Buzzi, più o meno evidente, ritornò a gala coi suoi pili e colla sua forma cuspidata. Il secolo stesso ne conta almeno sedici o diciasette di tali nuovi disegni, taluni con un atrio anteriore, altri no, sempre, però, meno uno o due, col connubio delle porte del Pellegrini e del telaio del Buzzi, secondo un ultimo da lui modificato, senza le torri laterali (3). Il tempo non poteva essere maturo ad una sapiente trasformazione, per ritornare risolutamente all' ordine della fondazione : e anche al principio di questo secolo, il compimento, qual' è l'opera presente, (1807), combinata dagli architetti Zanoja e Amati , se può aver a scusa l'impazienza del Dominatore napoleonico e la parsimonia dei mezzi finanziari disponibili, doveva lasciar ancor molto a desiderare, rimpetto a quello che già si presentiva e che anche avrebbe potuto farsi dai loro autori. Gli artisti del tempo ne deploravano l' effetto : il Bossi se ne fece l' autorevole interprete. L'attuale facciata, comunque sia, chiude un lungo ed operoso periodo: puossi aggiungere che, in certo modo, dà una smentita all'antico proverbio milanese, per cui la fabbrica del monumento era condannata a non veder mai la fine. Quante menti e quante braccia in questi ultimi quattro secoli per essa si siano consumate intorno, ci è facile riconoscerlo ancora mercè il tesoro de' suoi Annali: ma sono scarse le figure che vi emergono. Ai due Borromei s' accompagna, ultimo,

(1) Annali, Vol. V, pag. 244. (2) » Vol. VI, pag. 119. (3) La Facciata del Duomo, da pag. 349 a 357. il Bonaparte coronato: questi i promotori. Fra gli attori artisti , al Pellegrini è innegabile il passo primo; al Carlo Buzzi, però, come vedemmo, ne va la palma. Nondimanco , il costui concetto fu un temperamento non una soluzione , un preludio non il fatto degnamente compiuto : fu il tocco magico che richiamò l' opera al legittimo suo indirizzo. Oggi, noi ne raccogliamo l'eredità. - Il programmma del 1.0 Marzo, gittato all' Europa artistica ne è la nobile testimonianza.

II. - La Conferenza Schmidt.

Il quesito della nuova fronte doveva domandare, come ha domandato infatti, alla mente inventrice degli architetti un' alta creazione d'arte che integrasse la costruzione antica ; ma, tacitamente, al momento istesso chiedeva alla scienza architettonica lo studio delle sue forme secondo lo spirito originario dell' edificazione, onde trarne la giusta parola d'ordine pel suo compimento. Da una eccezione in fuori, e questa nemmanco italiana, non una voce, che in mezzo a noi si levasse a farci accorti del quesito, e aprisse il varco al cammino per cui l'arte doveva procedere coi fatti, affissandosi nelle idee che le avessero a sgombrare il terreno. Discutere, come si è fatto da taluni, sulle opportunità dell'opera è troppo facile impresa per tenerne conto : è la parte questa negativa della scienza; noi amiamo l' altra. Vediamo chi ne ha assunto la parte ardua. Nessuno, oltr' Alpi, aveva autorità maggiore dell' architetto Federico Schmidt, di Vienna, per parlare del nostro Duomo, a proposito del concorso per la sua facciata. Architetto e costruttore insigne, che dell'arte gotica germanica fece il suo studio esclusivo, ora, questa gli è alto titolo di gloria, come, fra i molti suoi recenti edifici, lo dimostra il giustamente celebre Ralhhaus della sua città d' adozione. Dippiù , all' opera della riforma della facciata essendosi provato egli stesso , trent'anni circa or sono, la sua parola non poteva che essere ascoltata, se altro non fosse, perchè, lui stesso preconizzato fin dapprima, dappoi fu di fatto chiamato, e ora è fra i giudici che, nella circostanza imminente, dovranno decidere delle sorti di questo grande concorso. La sua conferenza sull'argomento, tenuta a Vienna, nell'Aprile del 1886; poi nell' Agosto a Francoforte sul Meno , edita nella sua versione italiana , riconosciuta dall'autore, in questo periodico istesso (1), non permette alcun dubbio sulla natura dei suoi convincimenti. Egli non si lascia vincere dalle preoccupazioni circa la forma, invece, come ragione vuole, va direttamente allo spirito dell'indirizzo secondo il quale dovrebbe esser sciolto il quesito, e in esso contermina le sue considerazioni. Su questo terreno ci sia permesso di seguirlo, come un amico segue un amico.

(1) Il Politecnico: fascicolo di Settembre 1886. La conferenza dello Schmidt si può riassumere in brevi parole. La costruzione del Duomo di Milano non è, come credesi, di conformazione germanica , ma lombarda: quelli, cui la dobbiamo tale qual'è, sono i maestri da Campione, ultima progenie dei Maestri comacini che estesero pur anche l'architettura nostrale al di là dell'Alpi, dall' VIII al XII secolo. I maestri tedeschi chiamati, e segnati dalla storia istessa del monumento, contrastarono piuttosto che altro lo sviluppo suo nazionale, senza effetto però, anzichè ajutarlo, come, invece, avrebbero potuto: un ajuto però da loro gliene venne, ma limitato alle molte particolarità tecniche; onde quell' impronta spiccata di germanismo passata in sentenza tradizionale nel paese istesso che lo vide sorgere , e tanto più , pertanto , accettato senz' esame al di fuori dell' Italia. Quanto alla norma desiderabile pel concorso, conchiude, come quattro secoli sono conchiudeva il Bramante per l' oggetto istesso e come, oggi, in un'arte sorella, la Musica, conchiude il Verdi: pel riordinamento di cotesta fronte, egli dice, si torni all' antico. La sentenza è solenne: le idee sono nobili e nobilmente espresse, o con una libertà che ne addoppia il merito; ma, siccome quelle d' un' alta intelligenza artistica, ci pare debito di esaminarle nelle loro fondamenta, onde farle valere quant' esse meritano, trattandosi di una grave controversia che tocca l' arte e la storia del paese nostro. Essa fu suscitata già più volte specialmente negli ultimi anni, sotto forma della ricerca circa le origini della edificazione. Non vi c'inoltreremo se in tanto quanto sia indispensabile pel soggetto mosso dall' illustre professore. Nè ci cureremo di ribattere quanto intorno a questo momento storico venne messo in corso dalle dicerie da romanzo e dalle induzioni inconsistenti del Secolo XVI in poi, ripetute tuttodì con una ingenuità incredibile, in scritti seri da uomini seri. Il concentrarsi unicamente nelle idee esposte dello Schmidt ci sembra il modo migliore per semplificare l' argomento e conchiudere fin dove sia possibile. Il giudizio più grave ch' egli pronunciò è questo : il Duomo di Milano è un edificio esenzialmente italiano, anzi lombardo; ed uno dei maggiori argomenti tecnici su cui si appoggia è l' assenza di quel giuoco di arcature, di finestre e di contrafforti, notevole principalmente nelle absidi, che, sotto la denominazione alemanna di widerlager, contrassegna le costruzioni ecclesiastiche del periodo cosidetto gotico, al nord delle Alpi. L'egregio professore pone il dito risolutamente sulla piaga. Per parte nostra, ben inferiori, come ci sentiamo, per osare un giudizio di questo genere, crediamo di non tacere che l' argomento suo è non meno vivamente rincalzato da altri: tal sono la mancanza, nell'edificio nostro, del triforio, il quale era ben facile d' introdurre, poichè non è che la loggia delle cattedrali lombarde, in questo caso, girante allo indentro, della chiesa: poi, e ancor più significante, è la soppressione di quelle grandi finestrate superiori , il clerestory degli inglesi, o il clair voie dei francesi; senza di che il meraviglioso prestigio della luminosità propria dell' ambiente ogivale è perduto. Non si ha che a pensare alle grandi cattedrali di cotesto tempo in tutto il nord, che sono sul labbro d'ogni studioso della materia, Amiens, Reims, Colonia, Strasburgo, Lincoln, Exeter. Nè è ancor tutto ; conseguenza di questa mancanza è anche la funzione diversa e meno indicata che ha l'arco diagonale di contrafforto, o rampante, come dir lo si suole: esso, nel monumento nostro, si ha bensì, quale nei tipi perfetti dell'architettura gotica, dove, or semplici or coi loro raddoppi e coll'intrecci aerei, circondano 1' edificio di una fantastica reticolazione fiorita di pietre e di marmi, ma, da noi, senza rispondere a quelle necessità evidenti che altrove li comandano. Pure, se ci togliamo da queste argomentazioni vittoriose, e concordi colla tesi dello Schmidt, per volgerci a quella del debito che devesi professare ai maestri da Campione, da lui fatti innanzi, c' è qualche cosa per cui ci troviamo trattenuti un momento sopra noi stessi.

III. - i Maestri da Campione.

Campione è, ancor oggi, una terra lombarda, e ancór più precisamente parte della diocesi Milanese , sulla sponda orientale del Ceresio. Non più le sorride l'arte; ma un giorno, almeno certamente fin prima del mille, fu una delle culle in cui si costituirono di padre in figlio quelle consorterie d' imprese muratorie che noi conosciamo sotto il titolo collettivo di Maestri Comacini. Dopo il mille, quando sorse la necessità di riparare alle fabbriche antiche cadenti per lungo abbandono o di costruirne di nuove per i bisogni d'una società presso a scuotere il giogo del Medioevo, questa consorteria nelle funzioni proprie fecesi a provedere ad ogni necessità edilizia, e quindi, creò nel suo seno, non che manuali e maestri, architetti ed artisti speciali per dar forma alle elevazioni e foggiare pietre e marmi , con che decorarle: i maestri da Campione , come oggi li diciamo, sono tra questi ultimi. Tuttavia cotesti maestri Campionesi rimangono ancora un mistero per noi lombardi, sicchè tanto più lo devono essere per gli esteri, sebbene questi si facciano molto più addentro nelle cose nostre di quello che lo si soglia da noi stessi. Sta bene, quale felice induzione, ed è accettabile, che sia una progenie, ultima forse, di quei maestri massonici della plaga comense che, qui e all'estero, si erano fatti gl' imprenditori delle costruzioni religiose e civili con modi ed ordini gerarchici propri, ond' era tolto tanto di merito all' individuo quanto ne veniva all' associazione; però, nel caso nostro, appar più chiaro e naturale che questo giudizio, per cui 1' onore della costruzione è dato alla famiglia dei Campionesi, sia nato nel professore, come in altri, dallo apparire negli Annali della Fabbrica il numero davvero significantissimo di cotesti conterranei, ben oltre d'una ventina (1), che sono iscritti al lavoro nel primo momento di rimettere mano alla sua costruzione. Ma l'occasione importa che per conoscere meglio le cose, si conoscano meglio le persone. (1) Annali, Vol. IX, Indice pag. 66. - Ivi i maestri indicati sono numerati a ventiquattro: si possono credere anche in numero maggiore, per i molti che tacciono la loro provenienza. Non è da meravigliare attesa la loro collettività, se gli individui, coi loro nomi propri, si facciano desiderare. Le ricerche contemporanee non sono , per ora, risalite più in là del principio del secolo XIII: a Modena il vestibolo della porta della cattedrale al lato di mezzodì è data per opera d' un Anselmo da Campione, edificata nel 1209. È dimostrato che vi perdurassero di padre in figlio, oltre un secolo, in lavori di statuaria. E vi cessano per ricomparire a Bergamo e a Verona, quasi al medesimo tempo, circa la metà del secolo XIV: e noi ricordiamo quelli soltanto che posero il nome nell' opera loro e la provenienza, persuasi che delle loro personalità artistiche essi non sono che la minima parte. È la medesima cosa per il Duomo nostro. Se ci facciamo a chiedere conto delle loro funzioni d'arte, noi ci vediamo davanti una schiera di manuali, indubbiamente abilissimi , intelligenti, operosi , sobri , come lo sono tuttodl cotesti laghisti e subalpigiani , non forniti però delle alte qualità di architetti. La personalità artistica , non appare che per quattro di essi, Bonino, Marco, Zeno e Jacopo, i quali ci vengono innanzi (1), non come legati stabilmente alle elevazioni fino dal principio loro, ora meglio noto per mezzo degli Annali, cioè dal Marzo 1388, ma soltanto quali i più influenti degli altri sulla direzione di essa. Facciamo di conoscerli personalmente. Bonino è indubbiamente il più vecchio, e ancor meno indubbiamente l' autore del magnifico monumento preparatosi da Cansignorio della Scala a Verona , lui vivente: vi operava tra il 1360 e il 1375, e su di esso lasciò inciso il proprio nome col luogo di provenienza, Campilione, aggiungendovi Diocesi milanese. Il Ruskin lo proclama il più mirabile dei monumenti funerari italiani del secolo. Sembra dello stesso Bonino l' altro monumento per Barnabò Visconti, circa del medesimo tempo di quello del cognato, compitosi del pari lui vivente, in S. Giovanni ad concam : è quello, ora, nel patrio Museo d'Archeologia. In Bollino c'era davvero un artista : per le cose del S. Duomo non appare che un sol momento, alla consultazione del 20 Marzo 1388, e poi dispare senz'altro. Più tardi, troviamo un omonimo : è un negoziante di marmi. Marco fa mostra di sè dapprima tra i manuali a settimana; ai 5 marzo 1387 (2), non è che un capo squadra di essi, picantibus lapides vivos: neppure è nominato ingegnere - titolo d'onore non d'arte o di capacità — lo è nella consulta del Marzo 1388, in cui ebbe pel primo la parola, circostanza che per alcuni parve argomento di preminenza non solo, ma di privilegio, e tale da attribuirgli il concetto della fabbrica. Si noti: in cotesta discussione 'era unica questione la verticalità d'una muratura. Da questo momento, Marco, che è pure designato col nome di famiglia dei Frisoni, trovasi tra gli stipendiati a mese (3), in grado minore, però, dell'Orsenigo, il primo e più vecchio questo degl'ingegneri nominati. Un'ultima volta Marco apparve, nel Giugno del 1390 (4), ma già infermo; morto poi ai 10 Luglio (5). Non si saprebbe attribuirgli un' opera distinta , se non se

(1) Annali, Vol. I. pag. 19. (2) " Vol. VII, Appendice I, pag. 15. (3) " " " I. 56. (4) " " " I. 133. (5) " " I pag. 35. d' aver diretta la pittura , forse i disegni , dei modelli pei maggiori pili , nell' Aprile del 1388. Zeno sa del veronese nel nome di battesimo: per la provenienza è, probabilmente, figlio o nipote del Bonino, che, a Verona, ebbe, certo, a dimorare a lungo. Qui, comincia la sua carriera coll'arte del riquadratore di marmi, nell'Agosto del 1387 (1); è pagato a settimana con i suoi soci, e doveva essere un abile e solerte capo squadra più che maestro ; siccome tale, però, è chiamato alla suddetta consultazione dei 20 Marzo : non più tardi d'un anno (2), la sua integrità lo fa eleggere spenditore, economo, come oggi diremmo, della fabbrica; se non che, nella maggior parte degl' incontri, durante il lungo suo servizio, lo troviamo alle escavazioni dei marmi nelle valle della Toce, fino al Luglio 1396 (3) , donde o lui stanco, o malcontenta l'Amministrazione che si fosse, per il 1 Settembre (4) lo vediamo tolto e cancellato dagli stipendiati della fabbrica. Finalmente, Jacopo, l' ultimo nominato dei maestri Campionesi alla consulta, ci si mostra dapprima, nell' Ottobre 1387 (5) e addirittura tra i lapicidi d'ordine superiore: non lo si vede fatto capo d' un gruppo di manuali, ma qualificato maestro alla convocazione del Marzo 1388, e nominato ingegnere con Marco Frisone al 1.0 Maggio (6); - capacità questa che ci pare di potergli consentire, e ben maggiore, o almeno tale, messa in seguito, come fu, a migliori prove di quelle toccate a suoi conterranei, poichè è tra coloro che furono chiamati da Giovanni Galeazzo a consiglio e poi trattenuto, per la fondazione della Certosa di Pavia. Anzi è lui che con altri sei ingegneri fa atto di presenza alla collocazione solenne della prima pietra, la quarta domenica dell'Agosto 1396 ; e in una carta, dell' anno successivo , citata negli Annali , corre scritto di Jacopo a proposito della Certosa , presso la quale pare rimasto più mesi : quì principiavit ipsarn fabricana (7). Per lo meno, che fosse artista abile e disegnatore esce evidente dal fatto del 16 marzo 1390, (8) in cui egli, insieme ad un Bonaventuri, francese, di cui ci occorrerà far parola, è chiamato a dare il disegno della grande finestra centrale dell' abside. Quello di Jacopo soccombette di fronte all' emulo, ma, questo licenziato pochi mesi dopo, 31 Luglio (9) , egli deve averne ottenuto la rivincita, considerando ora la forma di codesta finestra. Impertanto, Jacopo sembra ben diverso dagli altri: artista che sa e di teoria e di pratica, è per noi l'architetto vero. Non per questo gli faremo l'onore, come con ben minori ragioni fu fatto ad altri, d'esser l'autore del diseguo del Duomo di Milano. Non è qui il luogo d'indugiarci a ricercare se e quali siano le opere sue; basti notare che, al 10 Dicembre 1398 (10), egli non era più tra i vivi. (1) Annali, Vol. VII, Appendice l, pag. 24. (2) » » I. pag. 23. (3) » » » 165. (4) » » 167. (5) » » VII, Appendice pag. 132. (6) » » 56. (7) » » I. pag. 175. (8) » » pag. 31 (9) » pag. 36 (IO) » » VII. Appendice I. pag. 243. Ma havvi un altro Campionese, che passa come un' ombra di traverso ai lavori della fabbrica, senza avervi preso parte quale architetto, benché lo si trovi iscritto con loro meno propriamente ; egli è Matteo da Campione. Questi, alla morte di Marco, venne chiamato da Monza, dove era trattenuto dalla basilica di San Giovanni per la facciata e per alcuni altri lavori interni. Pare invitato a fine di sottentrar a Marco, nel Luglio 1390 (1); qui giungendo, il 14 (2), benché non accettante, pur dava pareri circa la dimensione per la base dei maggiori pili, i quattro del centro della crociera. Ma su di ciò ci occorrerà di tornare a momento opportuno. Chi volesse arrivare diversamente ad accertarsi dell' intervento nella fabbrica di questi maestri coi contrassegni dell' arte, siccome oggi saggiamente vuolsi dalla nuova scienza, gli sarebbe ben difficile l'orientarsi: a dato di confronto egli non avrebbe che il citato monumento di Verona, e fors' anco quello dell' arca di S. Agostino a Pavia, del 1367, la quale ultima, probabilmente, è del campionese Matteo. Ora, senza condurre il lettore davanti a questi due monumenti, possiamo assicurarlo che da essi non esce alcun lume sul carattere stilistico del Duomo, e, per dire una cosa più facile ad intendersi, si pensi alla facciata di S. Giovanni in Monza, che è dell' ultimo dei nominati , e veggasi se si possa trarne qualche costrutto rispetto al nostro Duomo. Tutto quanto si potrebbe dire è che i monumenti e le fabbriche del Maestri da Campione, fino a questo tempo, si attengono tutti ancora alla forma dell' arco acuto. Quanto all'edificio nostro, allora vi si stava appena compiendo il poderoso zoccolo che circonda il perimetro della costruzione, e appena alzavansi le pareti esterne dell'abside e delle sagrestie, come lo dimostrano gli Annali (3), onde si era lontani, o almeno incerti ancora, sia circa la corona, sia riguardo agli accessorii plastici da cui gli stili prendono, in gran parte, e nome e tipo proprio. Dopo di ciò, ci sentiamo ben altro che indotti ad escludere l' influenza di questi maestri: quello che qui, importa è di far loro la giusta parte, non quali individui che comandano lo stile della fabbrica ma quale una corporazione di edificatori. Prima, però , di conchiudere su questo argomento non dobbiamo dimenticare che il Professore non esclude le influenze di altri maestri , quelli stranieri, e dei germanici in particolare. È intorno ad essi che chiediamo d'arrestarci del pari, per sceverarne le opere, qualora sianvene, conoscere le persone e i sensi, dove e come abbiamo, qui, o giovato o nociuto. È un dovere d'adempiere in ricambio della imparzialità con cui l' architetto alemanno ce ne ha aperto la discussione. (1) Annali Vol. I pag. 36. (2) NAVA. Memorie e documenti eco : pag. 18. Milano 1864. (3) Annali, Vol. VII, Appendice l, pag. 120-145. IV. - I Maestri stranieri intorno al Duomo.

Se, durante i primi vent' anni della costruzione del nostro Duomo, il numero dei Maestri da Campione, che, nelle loro diverse arti, gli si affaccendavano intorno può sorprendere, è difficile non trovarsi egualmente colpiti, se non ancor più, dal numero di maestri d' arte stranieri (1), tedeschi specialmente, che, accorsi, o chiamati, vi portano la loro mano. Coloro, pertanto, che si tengono nei limiti d' un primo sguardo, hanno eguale argomento per attribuire sia agli uni, sia agli altri, il merito d'aver data alla mole del tempio l'impronta d'arte che loro era propria. Ma, cosi per questa concorrenza dei maestri stranieri , come pei Maestri del Ceresio, non sarà fatica vana quella di conoscerli un po' da vicino all' intento d'apprezzarne l'influenza, secondo il senso che sul loro conto ebbe ad esprimere l' arguto Conferenziere viennese. Anche qui, non tendendoci che ai documenti diretti, i nomi sommano, nei primi tempi, e quindi nei più decisivi della costruzione, a circa un ventiquattro. Non meno di otto o dieci, però, altro non sono che scultori o lapicidi; altri cinque o sei, architetti non fanno la loro comparsa che quali consultori chiamati per un dato caso, o colti qui, di passaggio, come appunto nel 1399 (2), furono un Cova, fiammingo, pittore e un Campanios, francese, ingegnere e pittore ; più tardi nel 1400 (3), un Simonetto Negro, un Giovanni Sanomerio, un Mermete di Savoia, ingegneri tutti. Altri veggonsi annunziati , ma non si fanno vivi; nel 1391 (4), è un Ulrico degli Ensingen , di Berna ; nel 1403 (5) , un Venceslao da Praga. Altri ce ne sono , ma godono della fama di costruttori che si è voluto loro dare senza che gliela competa ; tale l'Hans di Fernach, che fa la sua apparizione nel 1390 (6), quattr' anni dacchè le murature d'intorno sono elevate ; mentre fu certo un semplice e modesto, benchè non meno egregio scultore : la porticina della sacrestia meridionale parla per lui: è lui che, nell'anno seguente (7), vien mandato a Colonia , affinchè conduca a Milano un degno architetto , al che non riesce; e ancor più, due anni dopo, nel 1393 (8), viene assoggettato agli ingegneri , allora dirigenti la costruzione , Jacopo da Campione e il Giovanni dei Grassi, anche riguardo a lavori scultorii: tal'era il disegno del frontispizio della

(1) Il primo volume degli Annali è la fonte pressochè unica di questi maestri che potevano, in quanto fu loro possibile, portare qualche pietra all'edificio : li indichiamo distintamente nel seguito. (2) Annali, Vol. 1, pag. 194. (3) » » » » 211. (4) » » » » 51. (5) » » » » 255. (6) » » » » 81. (7) » » » » 45. (8) » » » » 101. portina anzidetta. Dopo di ciò più nulla appare di lui , forse ferito da tale soggezione nel suo amor proprio d' artista. Un altro straniero, cui si è voluto fabbricare un alto titolo d' onore che non merita punto, è il francese Nicola dei Bonaventuris. Lo cogliamo al momento, 6 Luglio 1389 (1), in cui egli si presenta al Vicario di Provvisione, raccomandato dal Duca e dall' Arcivescovo e già col titolo di ingegnere generale della fabbrica: poi, nel 1390 (2), lo si vede fare, in competenza coli' ingegnere Jacopo da Campione, un disegno pei finestroni dell' abside : ne vince la prova ; ma cinque mesi dopo, il 22 Luglio, (3) viene tolto intieramente dai lavori del Duomo: cassetur.... et tolatur ab opere ipsius fabricae penitus, così il Nava (4). Rimase, adunque, tra noi un anno e venticinque giorni. Lo che non impedisce che, tuttora in Francia s'assegni, al connazionale dei Bonaventuris, il merito d'aver diretto la costruzione della nostra metropolitana (5).

V. - I Maestri alemanni.

Architetti veri non ci mancarono anche dall' estero. Tra il 1391 e il 1394 c'incontriamo in tre architetti alemanni: più tardi nel 1399, in uno francese (6). Essi ci comandano considerazioni più serie e non vane. Il primo dei primi è un Giovanni da Firimburg , probabilmente Friburgo. Ci si presenta nel Marzo del 1391 (7) : non tarda a designare difetti parecchi nella costruzione; gli si richiedono notati in iscritto, e vi ottempera; si determina di porli a discussione, ma le carte non ce ne fanno conoscere nè il senso, nè l'esito. All' incontro, e' è un altro fatto che li adombra : tre mesi dopo, si risolve o la diminuzione del salario mensile assegnatogli (8), ovvero il pagamento a giornata, qualora gli piaccia rimanere: viene naturale che nello stesso 17 Giugno (9), senza compire nemmanco la sua giornata di lavoro , abbia abbandonato la fabbrica per non più ricomparirvi. Pare, tuttavia, si fosse al momento in cui i Deputati si trovano sollecitati alla richiesta di architetti alemanni. Riuscita vana la missione del Fernach, ri-

(1) Annali, Vol. I. Pag. 25. (2) » » 31. (3) » » 36. (4) NAVA, Memorie cit. pag. 19. (5) Il Bayet, nel suo recente Précis d' Ilisloire de l' art. Bibliothèque de l' enseignement. Paris. Quintin, pag. 191 appellandosi agli studi del Renan e del Dussieux, scrive: Vers la fin du siècle (XIV), ce sont des Franrais qui traeent le plan du Dòme de Alilau, et un parisien, Philippe Bonaventure, qui en dirige les travaux. E dire che noi, da anni, e ancor oggi, in queste pagine, ci rompiamo la testa per iscoprirne qualche cosa circa gli autori ! (6) Annali, Vol. I. pag. 197. (7) » » » » 45. (8) » » 48. (9) » » VII. Appen. I. pag. 159 tiratosi il Firimburg, sulla fine dell'anno ai 28 Novembre 1391 (1), fa tra noi la sua apparizione una celebrità alemanna, Enrico Arler, di GmUnd nella Svevia figlio di un altro Enrico d' origine polacco. In patria gli si attribuisce la costruzione della chiesa di S. Croce: gli fu data pure, ma erroneamente, quella di S. Vito di Praga; la quale è invece del figlio suo, Pietro. Comunque, egli ci recava dalla Svevia un alto ideale dello stile acuto teutonico; la Cattedrale di Colonia, da oltre un secolo, era inoltrata nella costruzione ; doveva imporglielo, pari per cinque navi, alla nostra, e non meno arditamente immaginata. E così pure quella di Ulma, nella stessa sua Svevia, a cinque navi, benché avviata già allo stile fiorito, e che allora dagli Ensingen si stava murando con propositi di un' elevazione straordinaria, non mandata poi ad effetto. Qui, l'Arler è accolto e stipendiato indilatamente, in prova peraltro e per soli tre mesi. Egli arriva opportuno, perciocchè stavasi dibattendo delle questioni la gravissima, quella sostanziale delle proporzioni e delle altezze dell' edificio. L'Arler non s' indugia molto : appena confermato, ha già fatta manifesta la sua disapprovazione di quanto erasi fatto, e, se crediamo al Nava (2), « a suo dire « moltissimi erano gli errori, e tali che quasi conveniva demolire il tutto e rinnovare ogni cosa con diverso disegno, poiché egli dichiarava essere venuto a « Milano ad providendum circa negotia fabricce. » Ciò che par certo, e desumesi dagli Annali, i Deputati vollero, ai 17 Dicembre (3), che i difetti accusati dall'Arler venissero da lui dettati e scritti davanti a buon numero di testimoni. Si convenne in una convocazione per trattare sul proposito (4): ma qui, dove appunto l'interesse sarebbe stato grandissimo d'intendere gli appunti dell'architetto, pel tratto di quattro mesi le carte tacciono. Non tacciono , però per la famosa adunanza del 1.° Maggio 1392 (5), in cui la discussione della solidità e delle elevazioni trovasi all' ordine del giorno. Sulle cose dettevi e risolte avremo nel seguito a ritornare ; intanto, vuolsi notato che l'adunanza è composta dei soliti ingegneri e di professionisti estranei, come oggi li diremmo; l'Arler vi è compreso : egli vi rimane solo nel voto, non consensit, di contro all' unanimità degli altri. All' Arler non tornava altro che prendere il partito del Firimburg ; volgere le spalle alla costruzione. È ciò che avvenne , dopo cinque mesi, compiti al 12 Maggio 1392, da parte dell'Amministrazione con un atto di malservito lanciatogli dietro le spalle nel saldarne le spese, ynio dedit magnum damnum et detrimentuni ipsi fabricce pro suis malegestis (6). Tutto ciò non ha impedito che il tedesco Gamodia - stortura questa di nome cui fu sottoposto il suo dai notai del Duomo , atteso il luogo di provenienza , Gmitnd - venisse accreditato non solo del merito del disegno dell'edificio di cui parliamo, ma anche di quello della Certosa di Pavia. (1) Annali, Vol. 1. pag. 57. (2) NAVA, Memorie cit. pag. 30. (3) Annali, Vol. I. pag. 58. (4) NAVA, Memorie cit. pag. 30. (5) Annali, Vol. 1. pag. 68. (6) » » » » 71. La corrente tra la Svevia e Milano non rimase con ciò interrotta. Due anni dopo, 1394, è un Ulrico di Fússingen che ci giunge da Ulma (1). Gli annotatori delle deliberazioni dei Deputati alla fabbrica ci lasciano nel bujo se questi sia lo stesso Ensingen, offertosi nel 1391 e non apparso allora , o se uno scolaro di quella famiglia d' architetti , pei quali , a questo tempo , era in corso la costruzione del Duomo di Ulma. In mancanza di quanto scioglierebbe il dubbio , più importa, qui, è di trovarlo a Milano, ai primi del Novembre del 1394 (2). Questi pure ha le sue osservazioni da far manifeste. Si compone una numerosa commissione , come oggi la diremmo, di ventiquattro persone , artisti e non artisti, per intenderle, dibatterle e conchiudere: la convocazione si tiene presso l'Arcivescovo ai 10 Gennaio 1395 (3). Il Fússingen ha messo in iscritto quanto ne pensa; pur troppo, anche il suo scritto ci manca. Che che ne sia, nulla se ne decide al primo momento: più tardi, appare in contestazione di fronte a lui così la grande finestra posteriore di mezzo, come le forme dei capitelli in lavoro, a cui l'architetto alemanno rifiuta di uniformarsi. Non perdura lui pure: compiti i primi quattro mesi di presenza, circa alla metà dell'Aprile domanda di ritornare in patria (4), e se ne parte. Lo Schmidt accusa gli architetti del suo paese d' intransigibilità: l' intransigenza, per vero, non risulta minore dal lato dei nostri, i quali loro si facevano prevalenti col numero dei voti, come in questo caso: d' altronde, effettivamente , circa lo finestre dell' abside , e ancor più circa i capitelli , come oggi ancor li vediamo, è lecito convenire col maestro alemanno essere le prime non molto omogenee, e gli altri discordanti, almeno in gran parte, collo stile di un monumento che pur volevasi secondo il tipo teutonico. La costruzione frattanto s' inoltrava; e quanto più procedevasi cogli ordinarii ingegneri paesani, tanto più rendevasi difficile, per non dire impossibile, una riforma qualsiasi, anche minima, delle opere iniziate. Le incertezze, nondimeno, si affacciavano assidue, ma non erano vinte affrontandole, come sarebbesi dovuto, bensì transigendo. Il disegno dei capitelli, che il maestro d' Ulma rifiutava, e con fondate ragioni, alle condizioni postegli, veniva rimesso agì' ingegneri della costruzione, e personalmente al Giovanni de' Grassi; di cui, all'atto di approvazione, 17 Aprile 1396 (5), è evidente che 1' iniziativa muove dall' Arcivescovo, non sappiamo se e quanto competente in cose d'arte. Vi apprediamo che era doppio disegno proposto, ed uno pare corrisponda ai capitelli che vediamo in opera, combinazione questa accettata più da fabbrica che, da elemento architettonico interno e da scultore , e quindi più che mai in opposizione allo stile , come quello che comandava un coronamento d'ornamentazione attinta alla vegetazione. (1) Annali, Vol. I pag. 112. (2) 120. (3) 128. (4) 134 e 135. (5) 162. VI. - Il maestro Giovanni Mignot, francese.

L'ultimo degli architetti esteri di questo periodo primordiale ma decisivo non è più un alemanno, ma un francese, anzi di Parigi, un Giovanni Mignot. Il momento in cui giunge, è ai 7 Agosto 1399 (1), si tocca ormai al quattordicesimo anno, dacchè la costruzione prese ad elevarsi simultaneamente da tutte le parti , e più decisa, nel prender forma, intorno alla crociera. Non è difficile immaginare in quale ambiente artistico egli stesse per addentrarsi, e quale la sorte che doveva attenderlo. Peraltro, fra tutti i suoi predecessori, è quello che lascia maggiori segni, colla sua presenza, delle idee che si agitavano intorno alla costruzione. Il Mignot non giunge solo; ma i suoi soci di viaggio, forse più giudiziosi di lui, quel Giacomo Cova, fiammingo, e quel Giovanni Campanios, normanno, che nominammo, se la svignano quasi subito. Il Mignot, rimanendo, ci ha l'aspetto di chi è trattenuto da una forza in cui credeva di riposar sicuro , e questa forza, è a credere fosse quella del principe, Gian Galeazzo. Invitato quasi subito, con altri, a dar compimento ad una delle sagrestie, 26 Ottobre 1399 (2), con una elevazione maggiore per allogarvi una biblioteca, si prende occasione dall'incontro per un esame dei disegni disposti dal Mignot con che finire la costruzione. Da questo momento comincia la grave ed involuta controversia che persiste vivacissima per tre mesi, e che ci è arrivata nel testo, quasi per intero. Sul punto essenzialissimo contrastato, la solidità, non giungendosi ad uno scambio di giudizi concordi, vediamo il Mignot che recatosi a Pavia presso il Duca, con lui, devesi pensarlo si aprì interamente , esagerando gli errori della costruzione fino a farne presentire immancabile lo sfasciarsi. Qui, più che mai e una volta di più, si manifesta il ritegno del Duca, sia in lui sentito, sia comandato dalla sostanza affatto cittadina dell' opera, dall' intervenire, benché signore assoluto, qual egli era, nell' aspra vertenza col Mignot. È al Vicario di Provvisione, più che ai Deputati, che Giovanni Galeazzo mostra di rivolgersi, 10 Dicembre 1399 (3) affinché il Mignot sia ascoltato. Lo è infatti, e, prima cosa , da costoro gli si chiede che dispieghi in iscritto le sue denunzie sui pericoli di solidità che corre la fabbrica, quali ebbe a manifestarli al Duca: poscia, per l' esame di esse, viene chiamata per il 14 Dicembre (4) una commissione numerosa, di diciotto, ingegneri e fabbri tutti estranei alla costruzione, per avere la loro sentenza imparziale e giurata in fede. Il Mignot, rifiuta di sottomettersi : nemmanco 1' intimazione del Vicario, 28 Dicembre (5), che lo

(1) Annali. Vol. I. pag. 107. (2) pag. 198. (3) NAVA Memorie citate, pag. 84. (4) Annali, Vol. I. pag. 199. (5) 200 minaccia di riferirsene al Duca, ne arresta il ribellarvisi: questo si protrae ancora durante il primo mese dell' anno successivo, 1400. Alla fine pur vi si giunge ; e le censure del Mignot, articolate in cinquantaquattro capitoli, cui sono aggiunti, in ultimo, ancora tre, coi loro riscontri contradditori, questi dettati dall'Ufficio tecnico della fabbrica oggi, così lo diremmo noi, vennero per determinazione dell'Amministrazione riunita, 1400, 30 Gennaio (1), recate al Duca, in quel momento a Pavia, da due delegati dell' Opera stessa, un Ambrogio Buzio, giurisperito e un Giovanni da Pusterla. Chi intendesse sollevare, se non in tutto, certo in buona parte, il velo che avvolge le origini della costituzione architettonica dell' edificio, gli sarebbe necessario riunire e prendere in considerazione così i dubbi mossi dall'Arler (2), come gli appunti del Mignot (3); ma la distanza di otto anni, dal Io Maggio 1392 all'11 Gennaio 1400, trascorsi tra essi, renderebbe di primo tratto evidente la mancanza di punti decisi d'incontro, se non fosse altro, per la natura degli artisti e per le mutate condizioni della fabbrica. Diffatti, i dubbi esposti dall'Arler al Consiglio degl'ingegneri sulla solidità sono pochi: toccano della insufficiente resistenza dei pili maggiori e minori interni circostanti al tiburio e alle navi; il resto è quasi un atto d'interlocuzione circa le misure d' altezza, le quali vengonsi imposte senza discussione, e a cui egli non consente. Esse non si comprenderebbero senza un fatto, finora poco avvertito, se pur lo fu, su cui ci occorrerà, inseguito di invocare la pazienza del lettore. Per ora, adunque, possiamo tener dietro al Mignot ; fermarci su quelle che chiamansi le sue proposte e sulle risposte in contraddizione, cosa pure che non ci consta siasi fatta : essa non sarebbe breve e ci svierebbe di troppo dal nostro punto di mira, ma almeno un' idea della natura di esse e delle divergenze tra artista e Amministratori riesce, qui, più che opportuna per l'intelligenza dei fatti, e dove non altro, per la comune curiosità. Vuol essere detto addirittura che, di coteste accuse mosse dal Mignot, le vere e fondate non sono più di sette od otto, e sono intorno alle forme e dimensioni delle parti dell' edificio. Quanto a quelle di solidità e alle misure di riscontro, trovansi spesso così ripetute, dure, eccessivamente minuziose ed esagerate, non che insussitenti, col ritornello, ad ogni incontro, quod est magnus defectus, che, laddove toccano alla statica, offrono buon giuoco ai tecnici di respingerle, e così ne respingono, in cumulo, ventinove delle prime cinquantaquattro, opponendo che, a volerle vagliare, la fabbrica non si finirebbe mai più. In alcuni punti il Mignot alle minuzie aggiunge le puerilità , anche quando tocca il lato giusto della conformazione: nelle quali cose, per altro, i suoi avversari non mancano di rendergli il ricambio; e al male stat che scatta spesso dalle labbra dell'artista francese, il coro degli operai rimanda seccamente un bene stai. Adunque, a voler trarre dalla valanga parolaia dei contendenti qualche lume sull' argomento per noi essenziale, che è lo stile dell' edificio, non vuolsi che un (1) NAVA.Momorie citate, pag. 85. (2) Annali, Vol. I. pag. 68. (3) » » » » 205. intendimento molto persistente, se pure basta. Correndo, anche superficialmente sul diverbio dell' 11 Gennaio, non è, ad esempio, in tutto da condannare l'architetto parigino, là dove (§. 1) lamenta l' esilità dei contrafforti absidiali, da cui si disnoda, in effetto, la costituzione statica della fabbrica ; cosi dicasi , là dove nota certe irregolarità di corrispondenza di misure e spazi (§§. 22, 23, 24): pur ragionevole si mostra circa gli anormali capitelli interni, e ne condanna le proporzioni rispetto alla base, benchè ancor più riprovevoli siano per lo stile, come ben sanno gli esperti, e fu già da noi dinotato; nemmanco ha torto dove avverte troppo angusto lo sguscio delle spallature in fianco alle finestre (§. 2) per volervi far luogo a figure da statuario: egualmente, circa i baldacchini per esse (§.41) troppo elevati e fuor di ragione. Ma più che a tutte coteste particolarità , si dirige il Mignot all'edificazione intera, per lui mal connessa (§§. 1, 13, 17 e 20); incongrua la collocazione dei massi marmorei costituenti le faccie paretali; poi, accusa cotesti pezzi essere troppo sottili, e le finestre mal assestate (§. 20), e i piloni di contrafforto eccedenti di larghezza all' alto rispetto alla base (§. 19) ; e via via, di questo passo, condanna la consistenza tutta e i generali lineamenti della parte superiore dell' edificio, intorno alla quale allora appunto, si era nel fervore della costruzione. Nel leggere coteste accuse, dettate non senza una forma altera, o almeno con un modo di superiorità convinta, s'accorge di aver davanti l'architetto educato all' arte estera, che non conosce e non vuol conoscere la diversa natura della materia nostra edilizia, quali sono i serizzi di riempimento e lo stupendo calcare cristallino della Toce, ben diversi dalle varietà di pietre dure e tenere, e delle arenarie, per quanto compatte, con che si vedono messe insieme le stesse maggiori cattedrali nordiche della Francia e del basso Reno; è di qui che riesce ovvio se quelle materie permisero colà una maggior fioritura ornamentale di cui l'edificio nostro difetta, e se imponevano insieme maggiori accorgimenti statici pel sicuro loro equilibrio. I pratici nostri non mancano, al §. 1, di rinfacciarnelo: e in una convocazione, in cui il Mignot mette in mostra le pietre fatte venire dalla Francia, i nostri gli rispondono che unus brachius nostri marmoris et sarritii in quolibet latere est tam fortis sicut brachia duo lapiduin Franziae vel ecclesiae Franziae. Egli è in occasione d' uno di questi contrasti che, non essendogli possibile di disconoscere la superiorità delle materie nostrali , si fa a battere in breccia le fondamenta. È in questa occasione che apprendiamo da testimoni oculari chiamati a dichiararne sotto giuramento la composizione (1), che queste discendono fino al fondo dell' acquitrino con un primo letto di grosso pietrame di serizzo di dimensioni diverse, rinsaldato di calce e staffato di ferri piombati, condizione

(1) Annali, Vol. I pag. 202, Non dispiaccia di conoscerne il testo: dixerunt proedictum opus est bene fundatum , cum sit profundatum per br. XIV, usque ad avi- xium, et quod in primo curso positi sunt lapides magni serrizii, et sunt retracti in diclo fundamento, et in multis aliis partibus sunt inclarati magnis lapidibus et quod super dicta fundamento ex dictis brachiis XIV, vel id circa, sunt brachia trix cum dimidio, et quatuor, pro adequato, serrizii, computata bancha et retracta banchae usque ad marmorem est brachium medium, vel id circa ... Laonde in tutto braccia da fabbrica, diciotto, pari a metri 10,80. questa ben avvertita anche dallo Schtnidt, e che alla prima succede disopra una seconda stratificazione , egualmente acconciata infino allo zoccolo della parete; onde vi si ha, in tutto, un'altezza di braccia milanesi di fabbrica diciotto, circa undici metri. Il Mignot, messo così alle strette nei lati deboli e più aggressivi delle sue argomentazioni, non volle darsi ancor per vinto, e al momento in cui presentiva di aver a lasciar la costruzione, lancia gli ultimi dardi del Parto che teneva in serbo per la riscossa , non altro che ripetendosi però, con poco dissimili parole, e provocando non dissimili risposte. Non havvi di nuovo se non l' accusa che anche le quattro torri allora incominciate per sostenere la cupula mancavano di fondamento , della cui risposta, s' intende che rappresentavano i quattro Evangelisti, ed erano necessarie per correggere 1' irregolarità esistente nella crociera. E qui, da ambe le parti, si vedono invocate le leggi della scienza, senza parer chiaro che gli uni la intendessero meglio degli altri (1). Un' ultima soddisfazione data al Mignot, troppo beneviso al Duca per negargliela, al 21 Febbraio, fu quella di chiamare a consulto di revisione tre ingegneri francischi, qui di passaggio per Roma ; i quali, in diverso modo, confermano le censure del Mignot, essere gli ultimi contrafforti dell' abside male fondati, anzi in falso, e con cattivi cementi, e suggeriscono rimedi che o non erano ben compresi, o andarono spregiati, onde non se ne fece altro. Sorpassando, in coteste divergenze, le molte particolarità, il fatto più evidente era 1' inconciliabilità di idee tra gli esteri e i nostri, i puntigli di solito interponendosi, in cui i primi erano sempre schiacciati dagli altri a numero di voci, anche laddove una certa ragionevolezza stava dal lato dei primi. Giovanni Galeazzo, a cui si ricorreva sempre in siffatte controversie per averne, se non la guida, il beneplacito, doveva rimanerne questa volta colpito: il punto in quistione era davvero troppo grave, la solidità statica dell' edificio, per dissimularselo, come patrono d' ogni cosa dello Stato. Due architetti delegati da lui, Bertolino da Novara e Bernardo da Venezia (2), vengono a ricognizioni in luogo, a spesa della fabbrica. La relazione, 8 Maggio 1400, in nome proprio del primo, forse il più autorevole, benchè firmata dall' altro, conferma soltanto in parte, però, e minima, le censure del Mignot. Non pertanto, il battagliare dalla costui parte cessa. Egli sentivasi, o stimavasi sorretto più che forse lo fosse in effetto, onde persiste in servizio coll'incarico delle vòlte. Coteste divergenze intestine scoppiano però di nuovo, al principio dell' anno successivo, 1401. È ancora in una adunanza di quindici consultori, il Mignot compreso, che, al 26 Marzo 1401, secondo il Nava, (3), si dibatte circa la solidità, la bontà, la spesa e il materiale delle nuove vòlte dell'abside, come erano e in raffronto di quelle anteriormente incominciate. In essa, il contendere perde ogni ritegno pure nel seno istesso dei cittadini amministratori. Quelli che ammirano e applaudono sono non meno numerosi di quelli che rifiutano e condannano. L'accanimento

(1) Annali, Vol. I. pag. 210. (2) » » 213. (3) NAVA. — Memorie cit. pag. 107. - Annali, Vol. I. pag. 224. della discussione non è minore dalle due parti, leggendeno i sunti verbali, tanto che non è permesso lamentare le virulenze e le ingiurie , che in simili casi, si leggono nel secol nostro. Uno dei deputati favorevole al Mignot , un Guidolo Della Croce , in piena convocazione gitta in faccia ai colleghi dissenzienti che il Mignot è un vero artista in geometria, o, come noi diremmo, un artista di scienza, e che i suoi ordinamenti sono conformi a quelli del maestro Enrico, intendasi l'Arler, il quale, secondo lui, qui si ebbe « mandato da Dio e che l'avremmo ancora, se non l' avessimo cacciato via »; soggiungendo, in ultimo, non essere motivo di maraviglia se nella fabbrica si additano molti errori, perocchè « voi avete creato ad ingegneri vostri degli scalpellini di grosso, dei pittori, dei carpentieri, dei guantai, probi forse, ma tutti ignoranti d' arte, che non seppero dar nè principio, nè fondamento all' essenzialità dell' edificazione, di cui è parte principale l'abside » ; E di quella che appunto si questionava. Al Della Croce altri si uniscono, chiamando vituperio cittadino l' avere accolti « per buoni maestri soltanto di coloro che si vantavano per tali, ond'è forza sopportarne gli errori, dopo aver maltrattati gli abili, e respinti i lor buoni consigli, ma la colpa principale cade sui proteggitori di siffatte incapacità prosuntuose »; che è quanto dire sui molti Deputati che erano naturalmente quelli che per favore li raccomandavano. La verità, come si vede, infrange i ceppi, in cui la si vuole tenere avvinta, ma allora, come oggi, come sempre, troppo tardi per trovare rimedio ai fatti compiuti. La controversia erasi accalorata a tale che il Duca ebbe a intromettersene; e ne viene che, al cadere del Luglio 1401, secondo il Nava ai 28, (1), c'incontriamo in un Antonio de Rabi, con una credenziale del segretario intimo di Giovanni Galeazzo, con la data di tre giorni prima, per portare ai Deputati la parola di lui. Essa impone la costruzione di una cappella nel fondo dell'abside, e ancor altro, se occorre; e insieme raccomanda « di procacciarsi un architetto teutonico », il quale, riconosciuto che sia per esperto e abile, d' accordo col Mignot , e pur anche cogli altri ingegneri della Fabbrica, faccia per modo che sia provveduto alla possibile correzione dei difetti rilevati e alla continuazione della costruzione. Due cose importanti qui, escono in aperto : prima, che il partito del Mignot di rafforzare il fondo dell' abside, appoggiato pure dal Bertolino da Novara e dal Bernardo da Venezia, aveva vinto la propria causa presso il Duca: lo che , si noti , essere un partito architettonico affatto francese, il quale , se fosse stato iniziato, avvicinava il nostro Duomo al sistema stellare delle cattedrali nordiche di Francia: poscia, altra rivelazione, quella più preziosa, nei convincimenti di Giovanni essere Galeazzo che soltanto un maestro teutonico era in grado di recar conveniente ordine e compimento a questa fabbricazione. Noi non vogliamo occuparci delle ingiunzioni del Duca circa la costruzione della cappella , tanto più che furono ritirate in seguito da lui stesso un mese dopo, 21 Agosto (2); anzi, in questa occasione, ai Deputati venuti a lui oppone una

(1) NAVA. - Memorie ecc. pag. 120. - Annali, Vol. I. pag. 230. (2) Annali, Vol. I. pag. 232. smentita a chi le avesse asserite, soggiungendo, così per questa come per le altre parti della fabbrica, essere volere suo siano costrutto secondo il placito dei cittadini e uomini di Milano. Su quest' importante argomento degli architetti esteri non devesi dissimulare che, nello stesso incontro, 21 Agosto, il Duca ritorna sulla insinuazione dell' architetto ; e, dopo avere consigliato la chiamata d' un maestro teutonico, ricorda l'Arler, lasciando, però, libertà agli arbitri della Fabbrica, che sono i Deputati e cittadini di Milano, sia di lasciarlo in disparte, sia di richiamarlo, come, egualmente, di mandare poi fatti suoi lo stesso Mignot, se non si confermasse agli ordini dell' Amministrazione, poichè, è ben chiara l'espressione del Duca, con cui chiude questa missiva, egli non vuol addossarsi, nè portare colpabilità alcuna riguardo all' impiego del denaro della Fabbrica. Lo che dimostra una volta di più, se ve ne fosse d' uopo, il ritegno personale del Duca dall' intervenire in questa impresa così ripetutamente dichiarata del tutto cittadina. I Deputati non se la fecero dire due volte: ma, anzi ogni cosa, per temperare un atto che doveva oltremodo contrariare il Duca, quale era quello di licenziare il Mignot, lo avevano fatto precedere dalla risoluzione di una chiamata di altro maestro estero, e propriamente di quel Nicola d'Alemagna, che parrebbe allora si trovasse in Boemia, a Praga, del quale il Principe si era intrattenuto coi Deputati venutigli ambasciatori al castello di Sant' Angelo. Anzi, ora, a mostra di pieno ossequio, sono questi che a lui stesso, il Duca, per mezzo di un suo famigliare, si volgono con preghiera di voler farsi l' intermediario dell'invito al designato architetto germanico. Ma singolar contrapposto! Appena i maestri tedeschi qui sentivansi a disagio, come l'Arler e il Fiissingen, non ebbero maggior premura di quella d'andarsene; il maestro francese, invece, tipo d'una volontà invitta, o ben persuasa di se, accusato di inobbedienza e di arroganza, e peggio ancora, di danni rilevanti recati alla Fabbrica, le si arranca quasi ad opera propria per diritti acquisiti, e ai nuovi appunti mossigli, a cui si era lasciata facoltà di rispondere per iscritto entro cinque giorni, cadenti ai 20 Ottobre dell'anno stesso, 1401 (1), di accusato, al convegno, egli si trasforma in accusatore, e dice iniquità e falsità le mancanze appostegli, dettate, come furono, dagli avversari e nemici suoi personali, pronto. del resto, a rispondere di sè davanti a un testimonio di competenza degna. Non fa bisogno di aggiungere che, due giorni dopo, il 22 (2), è cancellato dal ruolo degli artefici della fabbrica : penitus cassetur, sono le parole della risoluzione presa, colle sue conseguenze. I Deputati , intanto, dovevano sentirne la responsabilità grave, e non ebbero maggiore sollecitudine che quella di mandare al Duca in ambasciata due di essi con il notaio Leonardo da Trivulzio, per raccoglierne le parole testuali, cogliendo l'occasione che non si trovava lungi da Milano, al Castello di Cusago presso Baggio (3). Difatti, ve lo incontrarono, che veniva cavalcando verso la città, ed esposta la ragione del mandato loro, ebbero (1) Annali, Vol. I. pag. 236 e 237. (2) »  » 237. (3)  » » 240. dal Principe quella risposta, dura e risoluta (1), nella quale, per quanto vogliasi travedere il dispetto d'una volontà offesa, vedesi posta nettamente, davanti alla storia, il suggello della misura che personalmente gli compete nell' opera del nostro Duomo, che è quella bensì d'un patrono illuminato e potente, ma che in ciò non vuole andar più in là. Ma, allora i giorni del patrono erano contati: non doveva trascorrere l'anno da quell'incontro, ch'egli ebbe a disparire, 3 Settembre 1402, mentre trovavisi nel castello di Melegnano. Egli non aveva ancor tocco il cinquantesimo anno d'età. In questo intervallo, rimosso dalla fabbrica il Mignot, il Duca ebbe una seconda occasione per affermare ancor più solennemente il suo disinteressamento non che pel Mignot, per la Fabbrica. Un violento reclamo di alcuni Deputati , e con loro di altri cittadini, pei maltrattamenti di cui gli esteri chiamati e il Mingot in particolare, erano vittima da parte dei Deputati e dei maestri loro favoriti (2), a lui giunto, nel dicembre 1401 era respinto seccamente, con atto del 18, dato dal castello di Belgioioso, e ancor questo al rappresentante legittimo della città, il Vicario di Provvisione, perchè, fatto conoscere ai signori Deputati, deliberino e provveggano essi, come loro pare e piace : così dalle memorie del Nava. Devesi credere che il reclamo esprimesse delle verità troppo amare e altrettante note, considerando la dilazione interposta, due mesi, prima di portarlo, col riscontro ducale, come lo fu, ai 21 Febbraio 1402, davanti al sinedrio degli accusati: se tale non ne fu la causa, almeno si è costretti a pensarlo. Il Mignot era intanto in Milano, attendendo la liquidazione del suo credito, ritardata dai creditori di lui, che domandavano in precedenza il soddisfacimento di quanto loro competeva. L' ultima memoria di questo architetto estero tocca ai primi giorni del Marzo 1402 (3): in quel momento era già sulle mosse, e pare da più tempo: egli doveva allontanarsi da noi per sempre. Col Mignot si chiude il novero degli architetti esteri venuti a Milano nei primi sedici anni della elevazione della fabbrica, sotto gli sguardi del Duca istesso. Tuttavia, una domanda vorremmo volgere a noi stessi; ed è questa: se i maestri da Campione ebbero una parte cosi indiretta in cotesta mole, tanto da non trovarne riscontro; se i maestri stranieri non possono vantarsi d' averci dato nemmanco la parola d' ordine, cui dobbiamo tanta unità e omogeneità di aspetto, da non pochi degli stessi stranieri riconosciute e ammirate; chi furono i fattori inavvertiti, uomini o casi, che hanno determinata cotesta combinazione di lineamenti?

(1) NAVA. Memorie citate, pag. 126 (2)  »  » »  » 130 (3) Annali. Vol. I. pag. 245. Le prime linee, la loro provenienza e i loro autori. Ci è forza convenirne : addentrandoci nel labirinto degli Annali e delle memorie che per noi furono attinte, non siano venuti a costrutto alcuno sulla questione decisiva, mossa dall' egregio Prof. Schmidt, circa l' essenza dello stile e le sue ragioni d' origine. Rimasti al bujo, ci rimane però ancora da battere a qualche porta per avere una voce che ci risponda; ma ormai questa voce non può venirci che o dagli uomini o dalle cose che inconsci gli uni, innavvertite le altre, si sono trovati a far nodo intorno a quel contrastato conformarsi dell' edificio, quali dovettero essere, come già si fa manifesto dagli Annali, i suoi primi vent' anni. Dopo quanto ci accadde di notare più di una volta in queste pagine, non sarebbe ragionevolmente credibile che il celebre anno 1386 sia quello propria mente della prima pietra. Quel jam multo retro temporibus initiatum lasciatoci scritto dal Vicario di Provvisione coi dodici suoi assessori e con quaranta altri cittadini di alto ordine presenti al 16 ottobre 1387, ci costringe a risalire ben piu indietro, al certo, di parecchi anni, tanto più quanto si rifletta, come il lettore sa, all' estensione e alla natura delle fondamenta, predisposte già fino d' allora a tutta l' alta parte dell' edificio, qual' è la crociera. Ma prima di sciogliere cotesto equivoco, se pur è possibile, havvi un'altra domanda da premettere. Si parla spesso, e nella presente circostanza più che mai, dello stile guardando alla elevazione, giammai all'icnografia che pur è la prima rivelazione del consistere delle masse murali e del loro equilibrio statico. Ora, cotesta pianta del nostro Duomo ci presenta uno scompartimento con moltiplicati centri d'appoggio isolati e angolari, che non è quello certo, della primordiale basilica latina e nemmanco della lombarda del primitivo periodo: essa si avvicina invece alle piante del secondo, quelle dopo il mille, come il S. Michele di Pavia, il Duomo di Piacenza o di Parma, benchè vi ci si senta ancor lontani. Sta bene che domini la croce latina: è cosa piuttosto certa che no, in origine fosse ideata la pianta nostra a tre navi soltanto, cresciute poi a cinque colla inchiusione della linea delle cappelle, dando loro forma di nave coll' ommissione dei tramezzi. Fin qui, saremmo ancora in Italia: ma la forma absidiale poligonata , qual'è, a modo di mezzo ottangono, mascherato sui fianchi dalle sagrestie, appar già poco comune: meno comune ancora il girare delle navi collaterali alla centrale, lungo le braccie di croce e il ricingerne il capo del presbiterio, a forma di secondo coro. Taluno degli scrittori che si sono intrattenuti, in generale, sull' ordine icnografico del Duomo non hanno esitato ad alludere alla icnografia della Cattedrale di Colonia. Hannovi evidentemente alcuni punti di coincidenza, compreso quello delle cinque navi, forse anche là avvenuta coll' unione delle linee delle cappelle: ma diverso si è il poligono absidiale, e questo coronato da cappelle, quanti sono i lati. Comunque sia, il notato girare delle collaterali è modo più propriamente francese ed alquanto anteriore anche al periodo ogivale, e rimasto costante in questi suoi edifici della plaga Nord-ovest. Del resto, il Duomo di Colonia ebbe a fondatore un Gherardo de Rile, francese, e l'epoca di fondazione risale ad un secolo e mezzo, circa, prima del nostro. Senza dare per assoluto, come pur si volle , che si abbia a cercare nella icnografia renana, il prototipo della nostra fondazione, ci sentiamo persuasi che questa non sia italiana d'origine: che se ne troviamo taluna in Italia, con un carattere di siffatto tipo, sono delle chiese claustrali, come il S. Antonio a Padova, cui, per giunta, sono unite le cappelle in guisa stellare e qualche altra, per le quali si ebbero a guida indubbiamente o moduli o artisti monastici oltremontani. Quello che importa di tener per assodato è che l' icnografia nostra rimase indiscussa e accertata tradizionalmente nelle forme e nella estensione, tanto che, nel 1454, entrato al potere il nuovo duca Francesco Sforza, cui la tradizione accettata potea venir tenuta in non cale, si volle collocata una colonna per segnare il punto dove doveva trovarsi la fronte di cui allora si era ancor lontani, sotto il pretesto della maggior devozione dei fedeli, ma, effettivamente, per la ostruzione temuta dello spazio anteriore da parte del principe e specialmente dal poco scrupoloso suo successore. Nelle indagini circa l' icnografia ci sembra difficile andar più oltre senza taccia di temerità. Invece, riguardo all' innalzamento della fabbrica su di essa , ci è dato di farci più addentro nel quesito propostoci. Per veder chiaro è necessario ritornare alla scrittura tante volte richiamata in considerazione, quella del 16 ottobre. Ciò che vi si legge non permette alcuna illusione sul procedere a questo riguardo. Veggasi: vi è confermato, anzi ogni altro, a supremo ingegnere e maestro di fabbrica Simone d'Orsenigo. Evidentemente, non è un nuovo. Si conviene nella facoltà di eleggerne altri che, evidentemente del pari, egli è perchè non se ne dovevano avere. Invece, vengono confermati dei manuali, e tutti poi nominati senza indicazione di un mandato proprio e preciso. Vi si abbassò fino a tutta la categoria dei subalterni; a chi, adunque, la direzione e la sorveglianza dei lavori? Sono i deputati istessi, nel numero di ottantuno, a ciò nominati personalmente, che si danno l' assunto di ripartirsi per turno, in isquadre settimanali, di quattro per squadra a fine di esercitare tale minuta e volgare ispezione tecnica circa la materia o la mano d' opera, che non è più alta quella che, oggi, si richiede da un ordinario sorvegliante edilizio. E cotesti deputati non sono uomini dozzinali: vi si notano l'Arciprete e l'Arcidiacono del Capitolo metropolitano, non che alcuni degli Ordinari; vi si contano gli Abati dei maggiori monasteri della Città; va loro di seguito il fior fiore della sua cittadinanza; la qual cosa se fa testimonio della perizia allora comune nell'arte dell'edificare, noi domandiamo quale atto proclami più alto di questo il sommo interessamento d' ogni ordine di cittadini, quale opera unicamente propria. Ma nessuna indicazione tuttavia di quanto toccasse alle forme architettoniche. Vero è che si può congetturare facilmente che si stesse intorno al poderoso zoccolo coordinato di sarizzi e delle prime modanature di marmi: si può anche pensare che alle elevazioni delle pareti preparate per ricevere la rivestitura della materia bastasse la presenza dell' Orsenigo, in consulta cogli altri cinque maestri, tra cui i quattro da Campione che vedemmo raccolti a quest' uopo per una muratura alquanto pendente, nel Marzo del 1388; ma non una parola di più per iscoprire la qualità o l' indirizzo del lavoro cui attendevasi. Che, fra gl' ingegneri, il campionese Marco da Frisone tenesse una qualche preponderanza, pare non lontano dal possibile; ma per tutto argomento il dire che, morto il 10 luglio 1390, fu sepolto (1), molto onorevolmente in santa Tecla, non dovrebbe bastare per affermare, dopo appena due anni di presenza, l'alto suo merito fino a concedergli l' onore principale della costruzione, come da alcuni si vorrebbe. Anzi, il riprendere, alla sua mancanza, l'antico ingegnere dirigente dei lavori, l' Orsenigo, dimostrerebbe nulla esservi insorto di mutato nell' avviamento della costruzione. È vero che ciò non scema la necessità sentita della ricerca di un maestro più proprio alla sua prosecuzione; ed è anche dimostrata dai fatti; uno dei quali è l' invito, tre giorni dopo, diretto a Matteo da Campione, allora intento a compire la facciata della basilica di S. Giovanni a Monza; il quale, qui giunge, bensì, il giorno dopo, 14 luglio (2), ma non rimane, essendosi limitato a consigliare ]'ampiamento del diametro dei quattro piloni di centro alla crociera di tre quarti di braccio (Cent. 45), i quali, in effetto, come dalla pianta officiale ricordata, comprovano questo sia avvenuto, ed unica parte, forse, da lui avuta, offrendo al plinto la lora misura attuale di metri 3,82 di fronte a metri 3,42, quella dei pili comuni, accrescimento che corrisponde alla sua prescrizione. Non occorrerebbe quasi avvertire che siffatto ampliamento di base, sebbene già un alterazione della pianta d' origine, non preludeva ancora al proposito di una grande cupola e di un'aguglia eccessiva in altezza come quella che vediamo, opera questa del secolo passato, ma poteva bensì conciliarsi ancora coll'esempio della Cattedrale di Colonia e in generale, col piramidare somigliante al centro delle cattedrali nordiche di questo stile. Era ben altro il grande imbarazzo in cui versavano i deputati alla costruzione in quel momento. Privi di un disegno certo; ribelli, fors' anche a sottomettersi ai consigli di Giovanni Galeazzo; morto il Frisone in cui si lusingavano di trovare in patria una guida; rifiutatosi il campionese Matteo; nessuna risposta avendo dall'Ensingen; involatosi il Firemburg, essi facevansi come l' inferma dantesca a cercar tregua all' affanno, volgendosi sul fianco opposto. Intanto che si attendeva quell' Arler di cui parlammo già, i deputati, non sapendo dove battere il capo, il 24 Settembre 1391 (3), s'indirizzano ad un piacentino, dotto in arte geometrica, invitandolo in Milano, causa discutendi cum inzigneriis dictae fabricae de dubiis altitudinis et aliorum de quibus dubium est inter dictos inzignerios.

(1) Annali, Vol. I. pag. 35. (2) NAVA. - Memorie citate, pag. 19. (3) Annali, Vol. I. pag. 51 e 55. Per le sorti artistiche dell'edificio nostro così a lungo dibattute, doveva esservi un momento supremo: questo fu il 24 Settembre 1391. Facciamoci all' invitato. È un nome ignoto: perduto , anzi, nei polverosi e smisurati volumi della Fabbrica. Gabriele Stornaloco , così si appella: risponde alla chiamata: è a Milano, pare, sul finire del Settembre: certo, vi si trattiene più giorni: per lo manco, fino ai 13 del mese successivo, in cui lo troviamo reintegrato delle spese occorse, per lui e due cavalli, e come si esprime lo scritto di cassa, hoc dono, si noti, 16 lire imperiali, oggi come un cinquecento lire, per recumpensatione expensarum factarum in veniendo, stando et redeundo, ac recognitione laboris passi (1). Eppure è lui, questo obbliato, anche oggi nella stessa sua città natale, la cui figura, quasi ombra, attraversa per momento la storia dell' edificio, per andar dispensa nel buio dei secoli, è lui che, inconscio indubbiamente dell' opera sua , lascia le maggiori impronte al monumento, quelle del sistema lineare delle sue elevazioni. Quanto ci fa dirlo è un diagramma completo della sezione trasversale del Duomo, che ci rimane di lui in forma di disegno. Ad esso si aggiunga anche una scrittura, dettata da lui medesimo, intesa ad esplicare i lineamenti e le loro corrispondenze, non senza 1' indicazione delle misure in braccia di fabbrica delle linee principali. Fin qui nulla di singolare per chi risponde con uno schema di massima. Quello eh' è meraviglioso è che cotesto schema corrisponde al fatto , e precisamente, sia nei lineamenti sia nelle misure. Disegno e spiegazione si trovano in uno dei volumi degli Annali, all' anno a cui risale la chiamata, con tutti i contrassegni dell'autenticità. Se non che per una di quelle eventualità di cui il destino si compiace, un'antica e larga macchia d' inchiostro è venuta ad obliterarne in parte la scrittura: la quale, oltrecchè non un modello di chiarezza e di correttezza, manca, qual è, di parecchie linee ond'è tolto di afferrarne completamente il senso. È a questa imperfezione non lieve che devesi attribuire se nella pubblicazione degli Annali non si è stimato opportuno di inchiuderla. Il Nava, ciò non pertanto, benchè alquanto imperfettamente per vero (2), volle darcene e il disegno e

(1) Annali, Vol. VII. Appendice I. pag. 195. (2) Poichè il Politecnico ce ne porge l'agio, uniamo il disegno dello Stornaloco, e diamo, quì di seguito, il testo che vi è apposto, non senza avvertire che Io abbiamo cosparso di punti d'interrogazione dove qualche parola era di lettura incerta od anche inesplicabile, lasciando che altri vi possa eserci-. tare il suo accume. In alto del disegno: Linea A. N. est lactus eragoni comprensi a cuculo corrispondente cum triangulo cujus (?) lactus est altitude ecclasie B. LXXXXVI: simililer linea A, C, est lactus quadrati comprensi ab eodem cuculo. Ai piedi del foglio : Basis trianguli est linea b. c. et est laclitudo ecclesie, videlicet B. LXXXXVI. (M. 57. 113). (?) erit ergo linea a de quod est altitudo sumitas ecclexie, radix de dec. 1020 60 27 (??) quia trigesimo quod est aliquid mimus de 84 qua divisa in figuris triangularibus, ac etiam in quadrangularibus, prout patet in corpore maiuris ecclexie; et trianguli incipiunt ab unitate, secondum naturam triangulorum. Enim. unitas, quae fuit posita est triangulus cum et in (?) potentia, et eo addiderimus super ipsum, secondum erit primus triangulus in actu. Et hoc modo crescunt triangull in infinitum ; et in figura superscripta ceescunt (?) usque ad duodecimum, dividendo lactitudinem in 12 partes, prout evidentur demonstratur (?) il testo. Accettandolo, comunque sia, per noi, non si pensò punto a riempierne le lacune, però ci fu dato , per gentile concessione dell' Amministrazione di correggervi più d' uno svario dí copia ; ond è che così ne approffittiamo per dirne qualche parola che ne chiarisca in qualche modo il senso e l' importanza (1). Cotesto schema grafico, segnato a linee generali, offre, come accennammo, la sezione trasversale delle cinque navate e i punti d' intersezione dove vogliono essere situati i capitelli, così per la nave di centro come per le doppie laterali; quindi, l'altezza dei pili e, secondo il medesimo principio, la sommità delle vòlte al punto acuto del sesto. Nulla di più completo di più semplice ed evidente di fronte allo stato attuale. Ciò che vuol essere notato principalmente è che tutta la combinazione vedesi determinata dal tipo geometrico del triangolo equilaterale, cui viene accessorio il rettangolo nei suoi lati rispettivi proporzionali alla base e all'altezza verticale del triangolo massimo. Così è che il diaframma trovasi inchiuso in una rete di triangoli simili e di rettangoli eguali, nei cui nodi d' incontro si disegnano nettamente i punti cardinali dell' edificio fino al suo piegarsi ad arco delle vòlte; e questo pure è conformato, come infatti, sulla base del triangolo equilatero. Havvi anche di notevole che 1' inclinazione del tetto trae la sua norma dal lato dall' esagono risultante da dug terzi della verticale maggiore , la quale è poi, così limitata , corrispondente all' altezza delle navi collaterali. A prova poi, di studio, per una seria discussione, il diaframma presenta un secondo partito per l'elevazione di queste seconde navi, partito che, come il monumento dimostra, non venne accettato. A questo che il disegno significa converrebbe mettere di fronte quanto dice a parole l' autore istesso colla scrittura appostavi; ma seminata di lacune qual' è non havvi d'aggiungere molto di più. Essa può definirsi una esposizione semplice della figura senza arzigogoli e senza astruserie , anzi semplice e modesta, con-

Qui quidem trianguli omnes sunt eqvalium lactorum et equalium angulorum. Si quidem quadrati sant majores in base plusquam in lactere altitudinis , secundum differentiam a b et b c. Pretarea, quia omnis linea perpendicularis demonstrat se esse majorem secondum quantitatem suam, quantum linea posita est in base, ut linea a d, quod non multum videtur diferre de linea b c, sed sint diferentes ut supra. Competens altitudo est secundum dipstantiam centri ad centrum colonarum, qua (?) in lactitudine majori B. (?) 32 ..... (in effetto M. 19) cum sii usque ad summitatem quanti quadrati ad (?) basem octavi trianguli in angulis c et f, et linea c b secatur per medio in ponto (?) ................... o; um (?) colonarum, mediane seconde colone ascendunt usque ad angulum h, et primi corporis lactitudo, qua est b i, ascendit ausque ad pontum k secundi ad punitivi m, non secundum veram proportionem quia equales sunt in lactitudinern, quando (?) deberent esse eguales in altitudinem, sed (?) propositum minorem . . . minoris lactiludinis quando excedit ipsum proporsionaliter irt altitudine in ponto a. Et mediana lactitudo (?) excedit primam in tertiam (?) . . . . quod major debal excedere medianam in duplum ejus quod excessit primam, quia (?) in lactitudine est duplum ad ipsam prout, videtur (?) in fig. e a (?) in duplum est allitudinis m k. Omnes lactitudines accepi mensurationem de (?) centro nd centrum, ideo non curavi in disegnamentutn quia satis est manifesturn magistris inaignieriis quantum occupant in corporibus ecclezie, nec non lactiludine et area scribi in numeris omnium corporum designatorum, prout se habent secundum figuras geometricales , sed (?) dum inuto (?) causa prolixitatis. Et hoc (?) rever ..... prout melius in possibilitas est. Superius , quatenus dignemini suportare quodquod erratum , confusum quoque (?) fuerit, Deo testa si .....adimplerem. (1) NAVA. — Memorie citate, pag. 27. chiudendo, che piaccia di accettarlo, comunque sia, per aver fatto quant'era per lui compatibile. Chi fosse lo Stornaloco, quale fiducia meritasse la sua persona il lettore non ce lo vorrà richiedere dopo le cose esposte. E fuor di dubbio che la scienza geometrica allora teneva una singolare influenza nelle combinazioni architettoniche, specialmente nelle costruzioni di carattere ogivale. La scienza recata dagli arabi era stata accettata dai dotti claustrali e laici quale una ragione d' essere del mondo visibile. L' uniformarvisi nell' arte architettura veniva ben naturale, tanto più che il principio la conduceva ad unità e ad efficacia meravigliose. Non erano rari li schemi geometrici presi a criterio dai Vescovi e dagli Abati monastici per le grandi loro chiese cattedrali e abbaziali: sono noti quelli pel sistema statico di Amiens e di Reims. Dopo di ciò chi pensasse che lo Stornaloco, preregrinando all' estero, come gl' italiani d' allora meglio facevano che quelli d' adesso, ci avesse recato uno di quegli schemi, osiamo dubitarne, tanta poca relazione di modi e di carattere, tiene lo schema suo con quello delle grandi cattedrali del Nord-ovest europeo dove allora fioriva lo stile. Esperto « in arte geometrica » quale lo dicono i nostri Annali, non ci è permessa induzione maggiore di quella d'uno studioso accreditato, forse fantastico, ma senza le qualità richieste dal caso. Sono i deputati che sembrano compiacersi di esaltarlo e di confidare in lui, quale astro aspettato che li ha illuminati nelle loro inquietudini architettoniche. Se poi se ne considera lo schema, certo lui inconscio e ancor meno informati i deputati, non è quello d'una cattedrale ad arco acuto, ma quello d'una basilica latina a cinque navi, con elevazioni ben maggiori delle ordinarie, lasciando rispettato nell'orginasmo l'arco da tre punti, comandato dalla pianta e dal consenso generale di chi vi presiedeva. Lo schema è accolto, dobbiamo crederlo, coll'entusiasmo d' un' ancora di salvezza come quello che ormai dispensava i Deputati dalle raccomandate dipendenze oltre alpine, onde fu abbracciato senza più, e di qui quell' atteggiarsi, comunque pur sia, finora inesplicato del nostro grande edificio cittadino. Le prove non si fanno attendere. Poco più d' un mese dopo, alla fine del Novembre, giunge a Milano l'Arler, da parecchio tempo chiamato. Dopo un indugio non breve, durante il quale le memorie corrono silenziose, ma non senza, al certo, che, in famiglia, dai Deputati si rimanesse muti sulla controversia più palpitante e agitata delle elevazioni terminali, si arriva finalmente a quella convocazione del 1.° Maggio 1392, già ricordata, nella quale è l'Arler istesso che pone le domande delle cose che si vogliono da lui, e le pone bensì in forma cortese, a modo di dubitazioni, ma molto categoricamente e risolutamente (1). Ed è così ch'egli si volge ai Deputati: Volete ascendere al quadrato o al triangolo? Al triangolo: si risponde in coro. L' elevazione al quadrato avrebbe portato la sommità del tetto ad un quattordici metri più dell'attuale, laonde più omogenea allo stile acuto. - L'Arler prosegue: Volete due o più piani di tetto ?

(1) Annali. Vol. 1. pag. 68. Si risponde del pari: Tre tetti per maggiore solidità e luce. Quale la misura verticale dei pili dei tre diversi ordini ? quale quella dei mezzi pili superiori murati, per giungere al piegar delle volte ? Le risposte sono in termini assoluti e le misure in cifre numerali; se non che, come è naturale, le unità sono in braccie locali: ma non si dura fatica a riconoscerle rispondenti e quelle, in misura metrica, segnate alla tavola ufficiale (Sezione transversale A. B. C. D.), una delle pubblicate dall' Amministrazione. Al modo istesso, circa i dubbi mossi dell'Arler in quanto al procedere oltre secondo l'opera incominciata o a recarvi variazione taluna, dessi sono ribattuti seccamente: «si continui così, perchè cosi piace.» Dopo tuttociò, il rifiuto dell' architetto alemanno - il « non consensit » - di continuare la sua presenza alla fabbrica non ha bisogno di spiegazioni. Nè ha bisogno all' incontro, quell' affermare risoluto e reciso dei tredici convenuti fra cui i principali ingegneri della Fabbrica. Nessuno fa motto del diagramma dello Stornaloco: ma le proporzioni, le forme dei tre tetti, le elevazioni dei pili e delle loro appendici sono le stesse proposte dal geometra piacentino rese concrete e assunte ormai dai deputati a dogma organico della costruzione. Non occore, ci pare, aggiungere una parola dippiù per mostrare che qualunque intervento artistico, come più tardi fu quello del Mignot, doveva trovare un fatto compiuto, già nell' animo dell' Amministrazione, quale cotesto dello Stornaloco, contro cui, ormai era vano il lottare. Sentiamo qui il bisogno di domandare, quale il contegno del Duca in mezzo all'arrabattarsi di opinioni e di risoluzioni che dovevano decidere irremediabilmente dell' avvenire e dell' edificio? È una voce la nostra che si perde nel vuoto.

VIII. - La parte del duca Giovanni Galeazzo. Giovanni Galeazzo aveva, nel ricordato colloquio coi messi del Duomo, consigliato, lo notammo, un architetto alemanno, che allora si trovava a Praga. Il riscontro all' invito da lui promosso non venne che nell' anno successivo, (18 Aprile 1403); è un nostro che lo inviava da Vienna: l'annunciato era detto non un Nicola, ma un Vinceslao da Praga, il quale dichiaravasi pronto a scendere in Italia. I Deputati si protestavano pronti ad accoglierlo a braccia aperte, assicurandogliene le spese ; ma, forse, la notizia contemporanea della morte del Duca e altre cause taciute, e alcune certamente facili a intendere dai casi precedenti, devono aver trattenuto l' architetto boemo, perocchè non ce ne passa davanti, e solo di lontano, che il nome. La morte del Duca è un punto di sosta, e di lunga sosta, per queste chiamate esotiche, e in generale, si può dirlo, anche per le contrastate modificazioni. Gli eredi immediati e successori sono destinati sempre a discordare dai loro precursori. Non è che alla fine del secolo che Lodovico il Moro promove l'invito d'una colonia quasi, d'architetti e d'artisti oltr' alpini per la costruzione del tiburio. Basta far presente che il nostro edificio, lentamente bensì ma assiduamente inoltravasi nel lavoro, per escludere l' idea di alcun giovamento quanto allo stile. D' altra parte, l' architettura cosidetta gotica, alla fine del secolo XV, anche nella madre patria subiva le conseguenze della gioventù tramontata: era morta bamboleggiando in un lusso di contorsioni barocche. Torniamo al primo ventennio. Prima di trarre tutte le fila dai fatti che si sono compiti in relazione cogli architetti d' oltr' Alpi, parrebbe necessario premettere, rispetto a questi, l' indagine quale parte spetti loro e quale agli altri artefici, semplici lapicidi , venutici egualmente dall' estero , col solo strumento dello scalpello in mano, per spirare le aure del sole italiano, intorno alle mura sorgenti del nostro Duomo. Quanto è facile trovare di cotestoro un dieci o dodici nomi, e ben più se scendiamo col secolo XV, altrettanto è difficile di additarne i lavori e determinare la parte che ebbero nell' impronta tipica dell' opera nostra. Tuttavolta, se l' uomo scompare nella folla dei manuali, le sue maniere nazionali fanno capolino per ogni intorno nella statuaria e nella tettonica del recinto absidiale del nostro tempio, che tutta è di cotesto periodo. Nel profilare, come nello sguasciare delle modanature, in certe particolarità ornamentali, nei filatteri che s' attorcigliano nelle gole verticali delle lunghe finestre; ancor più in parecchie delle statue annicchiate negli alti spigoli delle pareti a sostegno dei doccioni, vi si legge, come in aperto libro, la manualità teutonica, dura, aspra, ma ferma, insistente, qual'è sempre nelle arti nordiche; e poi, nella figurativa di essa, i modi aridi, ossosi, contorti, fin anche le vestimenta nordiche che si riscontrano nella « Schòne-Brunnen » di Norimberga, prologo alla perfezione relativa di essa col Krafft, e col vecchio Peter Vischer della città medesima, e fanno pensare a lui quale artefice della sepoltura di S. Sebaldo. Per chi vorrà studiare, ce n' è ancora, adunque, d' avanzo nel nostro Duomo. Fermandoci noi, qui, come che non altro ci siamo proposto che di scrutare le ragioni della sua essenza architettonica, non parrà troppo arrischiato, se trarremo dal vario andirivieni di artisti esteri e dall' armeggio di parole che loro sfuggirono in occasione dei conflitti coi nostri, alcuni corollari che rischiarino, se è possibile, l' argomento in quistione che è la parte del Duca. Sta, anzi ogni cosa che la forma icnografica dell'edificio non presta motivo mai a contestazione : credere, quindi, questo un elemento cardinale, anteriore al 1386, lo dicemmo : che, circa alla elevazione, non si avessero norme assolute di condotta , onde la chiamata di architetti esteri , dopo la morte di Marco da Campione (10 luglio 1390) e il rifiuto di Matteo di sottentrarvi , sembra del pari ben chiaro : che un indirizzo, comunque fosse, dovesse essersi fermato nel 1393, sanzionato dal Duca, con editto 14 aprile detto anno, ricordato il 21 agosto 1401, ma certo, smarrito, poichè taciuto dagli Annali, non meno che dal Nava, è pur presumibile ; cosi è, che i Maestri alemanni, prima e dopo questa risoluzione, accolti o chiamati, tutti ci vengono dalla Svevia, e principalmente da Ulma; tali il Fiissingen, gli Ensinger, l' Arler, e ultimo il Venceslao di Praga, apparso appena all' orizzonte, ricercato dove un figlio o nipote dell' Arler era stato pochi anni prima (1356-1386) a riacconciare la cattedrale di S. Vito, dovrebbe signi- ficare qualche cosa; e ancora, che tutti questi architetti ci giungevano sotto l'equivoco d'essere arbitri d'una grande e famosa costruzione, o almeno consultori supremi, tutti sotto il patrocinio del Duca, laddove, qui, si trovavano collaboratori , confusi coi lapicidi ed altri manuali minori, insigniti del titolo pari e vano d'ingegneri ; onde andavano impotenti e spregiati ad un tempo : infine, che qualche cosa d'occulto doveva, personalmente, essere nell'animo del Principe, riguardo al concetto fondametale della costruzione, pel sommesso a lui volgersi dei Deputati in ogni loro dubbiezza di modi o di stile, non già come a fondatore ma come a guida e depositario del concetto originario della costruzione e delle sue ragioni. Analogo a questo è pure il pensiero del Nava (1), Se poi pensiamo quanto Giovanni Galeazzo doveva essere legato d' interessi, e d' amicizia alla famiglia imperiale dei Lussemburgo e, personalmente, con quel Venceslao, da cui ebbe vicariato imperiale dapprima (1380), ducato poi (1385), col dominio su venticinque città imperiali d' Italia ; quando si pensa che a Pavia, residenza favorita del Principe, dovevano concorrere studiosi d' ogni nazione dalla Germania Renana non dovrebbe parere fuor del probabile che , sia a simulacro d'ossequio o d'affetto verso chi teneva la spada del Santo Imperio, sia per altra concorrenza qualsiasi di casi, fosse lui che patrocinava l' adozione di uno schema germanico, senza avvisarne alle proprietà di stile; sicchè senza norme venuto nelle mani dei Deputati cittadini , ancor meno informati e forse riluttanti ad una soggezione artistica straniera , per la quale il Duca doveva naturalmente insistere, fu il nodo di casi onde la grande mole prese l'avviamento coll'incongruo seguito di casi già per noi veduti. Ad una mente penetrante, però in mezzo a queste fasi, non è certo sfuggito che, se soltanto in lui ci fosse stata una maggior decisione, tale almen è il convincimento nostro, sarebbe stato possibile agli architetti esteri esercitare certa quale decisa influenza sull' indirizzo stilistico più proprio alla costruzione. Despota, qual era, qui non lo fu, trattenuto forse da una responsabilità che non sentiva competergli. Se cosi ebbe ad essere, qual maraviglia che il segreto scendesse nella tomba col Duca, e coi pochi intorno a lui, che ne sapevano qualche cosa? Per quanto si disdica, certo è che all' edificio rimase fin d' allora una qualificazione indeclinabile di stile, quella di more teutonico, o di germanico presso gli stessi artisti, fino alla metà del secolo XVII. E fu tanto che i lavori in progetto per esso, fino al 1560, sono giusta lo stile acuto del resto dell'edificio, e anche nel principio del secolo successivo, quella mente elevata del cardinal Federico lo ricorda ancora a proposito dei lavori in discussione per la facciata ; e più che in tutti , poi, nel popolo istesso questo sentimento d' arte perdurò siffattamente , e tale che, a mezzo del secolo XVII, bastò uno sprazzo di luce, quello uscito dal progetto Buzzi, per cacciar nell' ombra i concepimenti michelangioleschi del Pellegrini e dei pellegrineschi, e ora vi manderebbe ancora una volta quelli di coloro che volessero tornare indietro senza fede nell' opera intrapresa.

(1) NAVA. — Memorie citate, pag. 16. IX. - Un po' di conclusione. Dopo questo viluppo di casi in cui lo Stornaloco tiene tanta parte, parrebbe ormai superfluo insistere sugli altri innavvertiti od obbliati, eppur prevalenti fattori dell'impronta tipica del Duomo nostro, come lo furono il Matteo da Campione, l' Jacopo e il Giovanni de' Grassi cui il Nava dà speciale importanza, e se accettiamo gli studi suoi, con lui un Gian Giacomo Crivelli, autore del disegno della prima guglia piramidale, quella all'angolo saliente della sagrestia settentrionale della quale nè lui poscia nè gli Annali fanno motto. Chiusi così gli anni ultimi del secolo XIV, le traversie e i disinganni onde furono amareggiati e i Deputati e il Duca istesso, sembrano averli tutti condotti a quella calma dispettosa che è la rassegnazione, per cui è lasciata, d'allora in poi, correre l'acqua all'iavventurosa sua china. Non è in questi periodi che possono aspettarsi tentativi di modificazioni per quanto di lieve conto, dopo quelli essenzialissimi subiti. Il Duca, d'altro verso, osservatore irrequieto, doveva ancor più andar accasciato dal presentimento della immatura sua fine. Uno degli ultimi atti della sua vigilanza fu di raccomandare, ai 3 Gennaio 1400, agli Amministratori della fabbrica l' orfano giovinetto Filippo degli Organi, detto da Modena figlio di Andrea, suo particolare architetto, affinché, promettente e svegliato ingegno qual' era , fosse assunto ad ingegnere e stipendiato , siccome lo fu infatti aggiungendolo in aiuto e allievo a quelli provetti esistenti. La commendazione giunge ai Deputati, per mezzo di un famigliare ducale, il nominato de' Rabbi. In altra occasione dell'anno successivo, la esprime di nuovo, affinché deveniat expertus et valens et dictae fabricae possit fideliter et diutius servire. Fu l'ultimo atto suo di un patronato incompleto certo, ma illuminato. Qui, le sue parole sono quasi profetiche, come suol accadere per il maggior senso che si ha delle cose sul declino della vita. Egli presentiva in Filippino l' arbitro della fabbrica e lo fu infatti per quasi mezzo secolo, finché sotto il dominio dell' aurea Repubblica , nell'Aprile 1418 , lo troviamo brutalmente licenziato e sembra, come oggi diremmo, per ragioni politiche. Quando, infatti un architetto artista chè dagli Organi appare anche scultore e meccanico, perdura presso una edificazione, come questa, da suoi momenti iniziali ancora, per il corso di quarantotto anni, ed egli, poi, a non dubitare, da parte del padre rispettoso delle idee di Giovanni Galeazzo, e mentre i successori di lui, andavano svogliati dall'interessarsene, è lecito concedersi la persuasione avere egli scrupolosamente continuato nell' opera, senza nuovi concetti bensì, ma senza detrimento del suo indirizzo primo. Gli Annali non sono troppo chiusi a suo riguardo; dimostrato un procedere il suo senza contrasti. Per lui , così sorgono tutti i pili e si conformano in parte le vòlte fino alla terz'ultima di quelle in seguito all'entrata, dov'era arrestato il proseguire dall'antica fronte di Santa Maria Maggiore. In più particolar modo a lui si deve il disegno del traforo superiore del maggiore finestrone , nel centro dell'abside, nel quale sono le immagini dell' Annunziata e dei santi e cogli stemmi ducali e cittadini postivi nel 1402 e coloriti quattordici anni dopo: egualmente gli si devono i capitelli interni in isbieco che stanno d' accanto allo stesso finestrone. Quale scultore parrebbe doversi dargli credito di più d'una statua che converrebbe ricercare, seppur rimane. Intanto di lui restano l'immagine dell'Eterno Padre, da lui modellata per la serraglia della vòlta del coro (1405) e il disegno dell'arca sepolcrale pel benemerito Carelli (1406). Nella fabbrica non potè essere, e forse non volle essere che un continuatore accurato e moderato: al postutto, lo Stornaloco era scomparso ma lo Stornaloco era rimasto. Anzi, è questi ancora che ci ha l' aria di ricomparire oltre cent' anni dopo, alla fine del secolo XV; e chi sembra evocarlo dalla tomba, senza nominarlo s'intende, è uno scolaro di Leonardo, quel Cesare Cesariano, di cui ci accadde di far parola. Egli ci dà nel celebre suo volume (1521) la sezione schematica del Duomo coll'altezza verticale fino al sommo del tetto, pari alla linea di base alla fronte, coll' inclinazione dei pioventi determinata dall' incontro dei lati dell' esagono formato coi lati eguali alle verticali dei fianchi; e, infine coll'assegnamento delle altezze diverse dei capitelli e dal vertice delle vdlte secondo il medesimo sistema dello Stornaloco, cioè sui nodi d'incontro di rettangoli e di linee inclinate in ordine al principio fondamentale del triangolo equilatero ; però, con una sola differenza che il modulo del Stornaloco parla da sè colla parola della semplicità e della chiarezza di fronte alla complicazione del Cesariano che , al modo dello stile suo fidenziano , arruffa di forme romboidali e di circoli il suo schema geometrico da parere una combinazione cabalistica per mostrare che il principio medesimo vale per l'elevazione ancora del tiburio e per quella del pinnacolo centrale, come vuole che valga per ogni costruzione in genere ; ecco come egli si esprime ; sono le sue parole : « Questa scenographale figura è conforma alla sopradata ichnographia e orthographia..... le cui commensuratione con le quali potrai il tuto symetriare et in magiore aut minore forma perfigurare, non selum queste ma tute le figurazione et caduna generazione d'altre cose di corpi regulari o transregulari che siano nel mundo aut fiendi» (Liber primus, pag. XVI). Ci si perdoni ancor questa barocca citazione di un volume di un concittadino nostro del Secolo XV, da pochi conosciuto, da pochissimi studiato che racchiude i tesori di erudizione , e che rispetto all' edificio di cui ci occupiamo mette il suggello sulle origini del suo organismo lineare, e potrebbe fors'anche, prescriverne l'avvenire. Tra l'altre cose, dobbiamo a lui ravvertimento delle torri laterali alla fronte (pag. XIII) col segno quadrilatero icnografico ivi tracciato e le parole postevi: «tintinabulorum turrium loco, adhuc indistincta fundatio, etc. » Nell'addurre alcuni nomi sfuggiti alla comune estimazione nello sviluppo della grand' opera, come abbiamo fatto fin qui, non avremmo detto nè tutti nè tutto quanto è venuto a dare aspetto alla creazione dell'arte. Ci sembra , nondimeno di avere ommesso nessuno di quelli che potevano essere e furono sospettati autori dello stile dell'edificio, nè di quegli innominati, i quali, invece, lasciarono in esso qualche cosa di loro istessi. Ancor un' ultima considerazione: se di un edificio religioso, sorto durante un periodo costante nelle forme, ben di raro accade di ammirarne l'unità, dove le generazioni gli sono successe coll'onda incalzante di sensi poco diversi, che pensare d'un edificio massimo, come il nostro, su cui sono passati cinque secoli e quali secoli! tutta la fase dell'arte moderna dal sorgere eroico di essa all'ultimo suo declino, e non concederle molto? E si noti, che in nessun tempo pel Duomo si rimase oziosi, e ancora infatti, di tutto cotesto armeggiare di braccia e di menti esso ne porta i segni impressi in ogni lato. Or bene, a quella meraviglia di cui ognuno s'inebbria nel contemplare cotesto cumulo di marmi che sembra sfidare il cielo, vuol essere aggiunto questa delle volontà incessanti e unanimi dei suoi cooperatori cittadini , nel cercarvi un ordine, una maestà, un sentimento superiore. Lo stesso suo ibridismo, così per loro, divenne fecondo. Chi, adunque dopo tutto ciò, vuol pur cercarvi una ragione di stile si fermi qui. Non diremo una parola dippiù paghi, in vista delle prossime discussioni, per quella parte dell' edificio che ne sarà il compimento supremo, se avremo dissipato qualche incertezza, tolta qualche illusione ancor perdurante, anzi se, è il voto nostro, avremo reso più largo e più libero il campo in cui possa moversi chi vedrà e chi dovrà giudicare.

G. MONGERI. vol. XXXV Tav. 2