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MEZZO SECOLO DI CARICATURA MILANESE OTTO CIMA - MEZZO SECOLO DI CARICATURA MILANESE 1860-1910 - STRENNA A BENEFICIO DEL PIO ISTITUTO DEI RACHITICI DI MILANO 1928-1929 OTTO CIMA - MEZZO SECOLO DI CARICATURA MILANESE - (1860-1910) - 136 CARICATURE - 5 TAVOLE A COLORI FUORI TESTO - MILANO- STABILIMENTO ARTI GRAFICHE BERTARELLI - 1928 Le origini di questo Mezzo secolo di caricatura milanese, non sono affatto recondite o remote come quelle di tutto ciò cui si vuol dare importanza, perchè risalgono a quella Mostra di caricature e macchiette che la Famiglia Meneghina tenne in dicembre del 1927 nella sua sede: in fondo a quel vicolo cieco di via Rugabella, dove l'ultima casa degli Sfondrati guarda con tristezza i ruderi del palazzo Trivulzio, dal quale Luigi XII di Francia, banchettando, avrebbe battezzata la belle rue. E l'Istituto dei Rachitici è grato alla Meneghina (e per essa al dottor Mario Badini, suo presidente, al professor L. M. C. Capelli, suo vicepresidente, ed al pittore Grossi, che curò la riproduzione fotografica di quel materiale) di averne messo a sua disposizione una parte, avanti di ritornarla ai suoi legittimi proprietari. Anzi, facendo uno strappo al nostro proposito di riprodurre soltanto caricature di persone che ormai possono sorridere dal di là di ciò che un giorno parve loro poco rispettoso, ne presentiamo le tre macchiette dovute all'arguzia di un altro caporione della Meneghina: il pittore Daniel Fontana. Dato a Cesare quanto era di Cesare, aggiungeremo che tutto il resto, cioè la massa delle caricature qui raccolte ed abbracciante il periodo di vita milanese che va dal 1860 al 1910, proviene da fonti così diverse, che sarebbe impossibile citarle tutte con precisione; come di molte fra esse l'autore appare incerto o ignoto. Ne chiediamo venia a chi di ragione, osservando tuttavia che se le notabilità e le personalità del tempo che fu non erano più belle di quelle d'oggi, erano assai più originali e caratteristiche, per cui dobbiamo loro essere grati della varietà che ne venne al presente volume. Riusciva però assai difficile evitare che questo Mezzo secolo di caricatura si riducesse ad un centone di macchiette e di tipi, nel quale andassero confusi le diverse epoche ed i diversi campi in cui gli originali svolsero la loro attività. Convenne perciò dividerlo in periodi, che si potrebbero chiamare municipali, prendendo nome alcuni di essi dal sindaco in carica; ed a rendere meno arbitrario il raggruppamento, soccorse la stessa successione dei caricaturisti, malgrado che alcuni di essi abbiano potuto caricaturare personalità di diversi periodi. Fortunati loro! IL SINDACATO BERETTA Fu nel gennaio del 1860, in seguito alle prime elezioni cui vennero chiamati i milanesi, che il dottor Antonio Beretta diventò il primo sindaco di Milano, succedendo all'ultimo podestà conte Luigi Barbiano di Belgioioso. La nomina era ancora regia, ma poiché il Beretta aveva fatto parte del governo provvisorio dei '48 ed era conosciuto per la larghezza delle sue vedute, tutti gli fecero bella ciera, apprestandosi ad appoggiarlo nel difficile trapasso da un periodo di stasi municipale, come era stato il decennio della preparazione politica, a quello di rinnovazione completa al quale la città, finalmente libera ed arbitra dei propri destini, andava baldanzosamente incontro. Infatti l'amministrazione Beretta, rimboccatesi, come si suol dire, le maniche, affrontò arditamente i più complessi problemi; così che in pochi anni riorganizzò tutti i servizi pubblici: da quello delle scuole, già confinate in antichi monasteri, a quello degli omnibus che trovò cari, scarsi e soltanto al servizio della ferrovia; dai pozzi-neri al Macello unico, togliendo lo sconcio del macellare in pubblico; dai pompieri ai trasporti funebri, che venivano ancora fatti a spalle. Istituì pure i sorveglianti urbani, il ricovero di Mendicità, il museo Archeologico, il museo Civico, l'Istituto tecnico superiore, affidandolo a Francesco Brioschi, una illustrazione della scienza, e chi più ne ha più ne metta. Quanto all'edilizia, sono dell'epoca Beretta il trasloco del Municipio dal palazzo del Carmagnola a quello del Marino, di cui iniziò i restauri; la sistemazione di piazza della Scala e di piazza Cavour coi relativi monumenti; l'apertura di piazza Mercanti, della via Principe Umberto col sottopassaggio dei bastioni, della via Solferino e delle vie adiacenti; il quartiere di porta Genova; il restauro dei portoni di porta Nuova e di quelli di porta Ticinese; le case operaie di San Fermo; il cimitero Monumentale, l'allargamento del Corso fra il Durino e San Babila; la nuova denominazione di molte vie; la numerazione delle case per ciascuna via e ancora molto altro! Fu pure in quel periodo di tempo, che l'assessore marchese Trotti alberò le piazze principali e quei larghi dove un po' di verde poteva allietare e riposare l'occhio del passante, cominciando da piazza della Scala, ancor nuova, piazza Fontana, Sant'Ambrogio, il Cascinotto dell'Ospedal Maggiore; e fossero tigli o rubinie, platani o ippocastani, i milanesi dicevano che quegli alberi appartenevano tutti ad una famiglia sola: quella dei trottipiferi.

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Altra immane fatica della Giunta Beretta, fu quella di organizzare la Guardia Nazionale, al cui comando venne chiamato il conte Pedroli, salito di colpo al grado di generalissimo, e sul quale si faceva ricadere la colpa delle scarse virtù belliche di cui davano prova i suoi militi: pacifici borghesi d'una certa età, che trovavano il cinturone sempre più stretto ad ogni chiamata, e che spesso si facevano portare il fucile al corpo di guardia dalla donna di servizio. Ma più che a tutto il resto, il sindacato Beretta si collega alla questione della piazza del Duomo, della quale si era preoccupato perfino Azzone Visconti decretando nel 1333 che la piazza dei Polli, come si chiamava allora, venisse sgombrata dalle innumerevoli baracche di pollivendoli, vinattieri e polentai di cui rigurgitava, per sostituirvi un decente mercato di commestibili. Il savio principe, come si vede, si sarebbe accontentato di poco; eppure ci vollero dei secoli soltanto per far tavola pulita, perché le ultime bancarelle non si riuscì a bandirle dalla piazza che nel 1832. Bandito dalla Giunta Beretta un concorso per la sistemazione generale della piazza, con l'obbligo di una via coperta che la congiungesse alla piazza della Scala, ne riuscì vincitore il bolognese Mengoni; il quale, trovando il terreno favorevole e spinto da fautori interessati che ne solleticavano la vanità, avrebbe voluto demolire anche l'isolato dei Pattari, ricostruire l'Arcivescovado e spingersi chi sa dove, se, a mozzare le ali alla sua fantasia, non fosse sorta, come era da prevedersi, la questione finanziaria. Sono note le diverse vicende, che condussero nell'ottobre del 1867 alla caduta dell'amministrazione Beretta. Combattuta dai partigiani del piede di casa, che vedevano con terrore l'accumularsi dei debiti; mal difesa dal giornale il Pungolo, nel quale cominciava i suoi tentennamenti Leone Fortis, e scriveva la cronaca Vincenzo Broglio; costretta a trascinare in tribunale i suoi accusatori, assolti malgrado gli sforzi dell'avvocato Mosca, principe del foro milanese, essa dovette ritirarsi proprio quando la battaglia edilizia era nel suo pieno svolgimento, lasciando la piazza del Duomo mancante di quella Loggia Reale che doveva far riscontro all'arco della Galleria, e di quel palazzo dell'Indipendenza che doveva formarne lo sfondo e per il quale, grazie all'aumentato traffico, non si riuscì più a trovare il posto. La Galleria, però, tranne l'arco che al povero Mengoni doveva costare la vita, era compiuta, e noi vediamo come, fra le statue dei grandi italiani che allora decoravano l'ottagono, un caricaturista mettesse anche quella del sindaco Beretta: il quale ebbe forse il torto di volere che i suoi successori non avessero più nulla da fare. Fra i maggiori che tenevano il campo della caricatura a quell'epoca, citiamo Sebastiano De Albertis, che poi salì in fama come pittore di cavalli e di battaglie; Luigi Borgomainerio, Vespasiano Bignami, Giulio Gorra, Francesco Fontana, Camillo Cima ed altri che nella Cicala Politica, l'Uomo di Pietra, il Diavolo a quattro, lo Spirito Folletto, ecc., gareggiavano nel tartassare i valentuomini che, per una ragione o per l'altra, attiravano l'attenzione del pubblico. Sono in gran parte del De Albertis, le macchiette che riproduciamo di quei frequentatori del mondo elegante di cui egli stesso era un assiduo, e la colonnetta coronata da un anello che ritorna spesso nei suoi disegni, è quella alla quale veniva agganciata la catena che serviva a chiudere la contrada di San Giovanni alle Case Rotte quando, nelle sere di spettacolo, conveniva regolare il flusso e riflusso delle carrozze che andavano o tornavano dalla Scala. Il caffè Martini, che stendeva i suoi tavolini lungo i due marciapiedi d'angolo, dove oggi è impossibile soffermarsi, era già famoso per essere press'a poco l'anticamera del teatro e di tutte le anticamere patrizie milanesi; così che sembra ancora di vedervi seduti, impegnati in qualche discussione di politica o d'arte (e l'arte si estendeva alle ballerine) il marchese Clerici; il duca Visconti di Modrone; il conte Giulio Venino che dalle griglie chiuse di casa Dandolo, a porta Orientale, aveva osato fischiare Francesco Giuseppe nel' 57; il bel Missori con l'amico Carissimi, altra guida di Garibaldi; il conte Piola, grande favorito delle belle dame; i due conti Casati, i quali si rassomigliavano tanto, che, incontrandone uno, si diceva: - Oh bell, oh beli! L'è lu o so fradell? E chissà quante macchiette del mondo teatrale, a cominciare dal coreografo alla moda, il Rota, vennero sorprese a quel famoso caffè la cui eredità non passò ad alcuno dei molti che vennero aperti in seguito e che forse vi aspiravano. Fra cantanti, maestri, impresari, giornalisti, gente da teatro d'ogni grado, vi primeggiava Giuseppe Rovani, che nelle grandi serate sciabolava a destra e sinistra sulla musica, gli esecutori e la messa in scena di un'opera nuova, attendendo l'ora di berne un ultimo litro all'Aquila insieme col Maddalena, un portiere della Scala che era la sua ombra. Povero Rovani! Egli era il primo a riconoscere le proprie debolezze e a giustificare coloro che andavano allontanandosi da lui; ma non era capace di resistere a nessuna tentazione. Del Martini era pure assiduo il poeta Piave, che improvvisava i libretti d'opera con la taglierina, non badando molto alla venustà dei versi. Per Giuseppe Verdi ne scrisse una dozzina e mentre il maestro trionfava, il poeta doveva sopportare il supplizio delle facezie suscitate dalla sua musa bislacca. Quanto agli impresari, della Scala e di altri teatri, che convenivano allo storico caffè, lo scettro era tenuto dal Bonola, prototipo di tutti gli impresari teatrali passati, presenti e futuri, il cui cappello a cilindro e le cui dita inanellate formavano l'ammirazione di tutti i suoi colleghi. Fra i quali spiccava la macchietta secca, spolpata di Angelo Boracchi, terrore dei cantanti, dell'orchestra, delle masse che fulminava senza pietà.... e senza levare di bocca il virginia. Anche Arrigo Boito, magro, pallido, allampanato, capitava sovente al Martini; ma la sua aria aristocratica, che si diceva riflettesse la musica della quale andava rivestendo il libretto del Mefistofele, non gli guadagnò a tutta prima molte simpatie tra i numerosi gruppi del Martini. Meno male che il fiasco del 1868 gli venne poi ripagato a misura di carbone coi successivi trionfi. IL SINDACATO BELINZAGHI Al Beretta, che aveva rappresentato, diremo così, il periodo delle vacche grasse, succedette Giulio Belinzaghi, cui toccò quello assai più ingrato delle vacche magre. Eppure apparve subito l'uomo delle circostanze. Ambrosiano fino alla punta dei capelli, venuto dal nulla e scolaro di un banchiere genovese che gli aveva ceduto il suo banco in Milano, el sur Giuli, come lo chiamarono subito confidenzialmente i milanesi, era conosciuto da un pezzo come l'erba bettonega, perché dalle Ferrovie alla Scuola da ballo, dalla Camera di Commercio alla Società di Belle Arti, non v'era istituzione di pubblica utilità in Milano della quale non fosse almeno presidente o consigliere. Di poca dottrina, ma attivo e intelligente, arrivava a tutto, supplendo col buon senso e l'esperienza a quanto gli mancava. Proprio quello che occorreva ai milanesi, ormai sazi di parole grosse e di ampollosità. ampollosità. Tanto semplice di aspetto, quanto furbo per natura, il nuovo sindaco aveva la specialità dei discorsetti improvvisati, metà in italiano e metà in meneghino, intramezzati da barzellette con le quali riusciva a tirar l'acqua al proprio mulino assai meglio che con discorsi ponderosi. Dovendo, specialmente nei primi tempi, barcamenarsi fra le diverse tendenze politiche, aveva sorrisi e paroline egualmente dolci per tutti: tanto per l'onorevole Allievi, direttore della Perseveranza, che non sapeva perdonargli d'aver preso il posto del Beretta, quanto per il bollente Bizzoni, capo dei perduti del Gazzettino Rosa, che lo chiamava il sindaco equilibrista, il sindaco trampolino.

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Il buon naso del nuovo sindaco si rivelò subito anche nella scelta dei collaboratori, fra i quali primeggiò Stefano Labus; uno degli uomini più decorativi di Milano. Qualcuno osservava anzi che la fodera sovrabbondava alla stoffa, tanto i due personaggi erano fisicamente dissimili; ma questo non impedì che stoffa e fodera tirassero avanti lunghi anni insieme, senza strappi e senza rammendi. La parte rappresentativa che toccava spesso al Labus, è ricordata dal caricaturista col ricco tappeto nel quale lo ha drappeggiato: dono di un principe giapponese al vicesindaco, il quale si affrettò a girarlo al Comune. Purtroppo dei numerosi assessori che il Belinzaghi seppe portare alla ribalta del Comune, e che vi lasciarono buona memoria, non rimangono tracce caricaturali; troviamo solo quella del dottor Luigi Sala, detto l'istrice per la sua buona grazia; ma chi sa che anche l'aria arcigna del rigido assessore non abbia servito ad allontanare da palazzo Marino molti di quegli affaristi che vi ronzavano troppo dappresso!

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Naturalmente, per quanto il Belinzaghi s'ingegnasse a smussare ogni angolo, non mancavano le opposizioni; specialmente da parte dei consiglieri eletti dai Corpi Santi: come veniva chiamato il circondario esterno fin dal tempo in cui Chiesa e Stato formavano una cosa sola e l'arcivescovo aveva anche titolo e potere di conte. Componevano la pattuglia corpisantina, uomini che poi vennero in gran fama e che ritroveremo più avanti, come il Mussi e i Marcora; ma fra i gregari si facevano notare per la loro aggressiva irrequietezza Napoleone Perelli, avvocato popolarissimo, dall'accento così tipicamente milanese, che l'esordio dei suoi discorsi in Tribunale o in Consiglio veniva sempre accolto con sorrisi ironici; e il minuscolo Carlo Airaghi: un granello di pepe nascosto fra due enormi favoriti, che con le sue freddure agghiacciava i colleghi anche di pieno luglio. Fu appunto al consigliere Airaghi, il quale in un giorno di pioggia si lamentava del cattivo stato delle vie, che el sur Giuli, non sapendo cosa obbiettare, consigliò di fare come faceva lui: cioè di rimboccare i calzoni! Fu un successo di ilarità, e da allora il sindaco adéss disi, come era anche chiamato per l'intercalare milanese che gli tornava ad ogni momento sulle labbra pur nel fervore delle discussioni più ardenti, venne sempre rappresentato dai caricaturisti coi calzoni rimboccati. Faceva pure parte dell'opposizione consigliare il conte Aldo Annoni, gran signore di larghe vedute, che cominciò presto ad essere preconizzato come uno dei possibili futuri sindaci di Milano, e la cui successiva nomina a presidente della Cassa di Risparmio, venne salutata da qualcuno come un atto poco meno che rivoluzionario. Bastava invece vedere il pacifico conte sul Corso, seduto nel suo phaéton come in un comodo semicupio, colla frusta abbandonata sulla spalla e le redini sulla groppa dei due magnifici cavalli che andavano dove volevano, e specialmente sui marciapiedi, per giudicare che buon borghese egli fosse.

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Ben sedici anni durò il primo sindacato Belinzaghi (il secondo durò dal 1889 alla morte del conte Giulio, avvenuta in agosto del 1892) per cui si può dire che gran parte del mezzo secolo di caricatura milanese del quale stiamo occupandoci, riguardi quella che venne chiamata l'epoca Giuliana. Sorgeva allora, nel campo musicale, l'astro di Amilcare Ponchielli, che Milano doveva tanto più amare, quanto più sincera era la sua musica e la sua modestia. L'umile capobanda di Cremona non era mai stato seducente, nemmeno quando vestiva l'uniforme azzurra dalle spalline di lana rossa scarmigliata e chiudeva la abbondante zazzera nel kepy impennacchiato; figuratevi quindi come lo conciassero i caricaturisti che non avevano molti riguardi nemmeno per le personalità più favorite da madre natura. E il Ponchielli, più lo facevano brutto e più ne godeva. Non così il povero Catalani, cui la vita serbava soltanto spine, mentre le rose non dovevano fiorire che sul suo tumulo. Anche il maestro Gomez, brasiliano di nascita e milanese per gratitudine, ebbe certo suo quarto d'ora di celebrità; che se poi, di gradino in gradino, scendiamo ai molti musicisti che trovarono un posto nei giornali umoristici dell'epoca, ecco il maestro Coronaro, che tante belle speranze aveva destato; il popolare maestro Panizza, concertatore all'antica; il maestro di canto Leoni, alla cui scuola si formarono tanti divi; il maestro Andreoli che potrebbe chiamarsi l'apostolo dei concerti; il maestro Boniccioli che tenne allegro il mondo infantile con la sua opera i Saltimbanchi; il Sangalli, zelatore del canto popolare, e perfino certo corista della Scala di proporzioni così…. esagerate, che lo chiamavano el pussee gran coo.... rista de Milan. Stelle di tutte le grandezze e piccolezze, sulle quali dominava la bacchetta di Franco Faccio, il primo dei nostri grandi direttori d'orchestra, le cui virtù venivano esaltate con fervore da un'altra delle celebri effe milanesi: Filippo Filippi, critico della Perseveranza, i cui articoli, densi di dottrina e di idee, venivano da qualcuno accusati di pesantezza. Il grottesco di Mario Bettinelli ci presenta Giulio Ricordi nei suoi ultimi anni; ma era almeno mezzo secolo che si trovava sulla breccia il degno pronipote di quel Giovanni Ricordi, umile copista di musica, che in principio del secolo scorso aveva il suo sgabuzzino in piazza Mercanti fra due pilastri dell'Archivio dell'Archivio Notarile, e che fu il primo ad acquistare e stampare un'opera in musica: I pretendenti delusi del maestro Luigi Mosca. Anche le origini editoriali di Edoardo Sonzogno, fondatore del Secolo, editore di musica, impresario, mecenate, ecc., erano state modestissime; come quelle di Emilio Treves, editore e letterato di razza, la cui Illustrazione Italiana poté in breve gareggiare colle migliori dell'estero. * * * Passando al campo drammatico, era in quel tempo al suo apogeo Paolo Ferrari, che lungi dal riposare sugli allori procuratigli dal Goldoni e le sue sedici commedie, col quale aveva richiamato a nuova vita il teatro nazionale durante gli ultimi anni della dominazione straniera, insegnava con l'esempio di una copiosa produzione, come l'arte scenica potesse servire ad agitare anche i più ardui problemi sociali. Sovente una sua commedia era una battaglia civile, alla quale si interessava l'intera cittadinanza; e il direttore del teatro Manzoni, Eugenio Lombardi, che del Ferrari era amico fedele, segnava quelle serate fra le più liete del nuovissimo teatro, erede delle glorie del vecchio teatro Re. Bel tipo quel cavalier Lombardi, del quale si diceva che andasse a letto col cilindro in testa, e chiuso nel suo palamidone! Sempre accigliato, i giovani autori lo avvicinavano tremando nell'atrio del teatro, che egli percorreva impettito per tutta la durata della commedia o del dramma che si stava recitando; ma in quel suo andirivieni da sentinella, non perdeva una sillaba delle discussioni che avvenivano fra gli spettatori più accesi, e ne faceva tesoro a profitto dell'autore, dei comici.... e della cassetta, che era come chi dicesse l'altare davanti al quale recitava le sue preghiere serali. * * * Altro idolo del pubblico, a quei tempi beati in cui molti andavano a teatro per divertirsi a piangere, era Leopoldo Marenco, balzato di colpo alla celebrità con la Celeste, il Falconiere ed altri drammi che fecero in breve tempo il giro di tutti i teatri d'Italia, risparmiando a chi ne scopava la platea, le gallerie e i palchi la fatica di inaffiarne il pavimento, già inaffiato dalle lagrime delle spettatrici di cuor tenero. Ciò che non accadeva ai drammi classici coi quali Cavallotti fece la sua entrata nel teatro, dove incontrò trionfi non meno clamorosi di quelli ai quali era avvezzo in altri campi, e che avevano fatto del facondo oratore e del terribile polemista una delle più spiccate personalità dello scorcio dell'800. Egli però non trovava conforto e refrigerio che nell'arte; e non di rado, nel calore di una discussione che sembrava assorbirlo completamente, lo si vedeva cavare dal fondo delle sue tasche senza fondo, una bozza di stampa o una cartella scritta, per correggervi un verso che non gli andava a genio, o per incastrarvi una rima che finalmente gli era venuta.

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Ma quanti altri autori, giovani e vecchi, illustri o meno, tenevano allora il palcoscenico, dei quali i caricaturisti non ci lasciarono alcun segno! Anche in questo ramo la caricatura ha lacune molto vaste ed altrettanto ingiuste. Dobbiamo quindi chiudere con un autore aristocratico: il conte Pullè, che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Castelnuovo, e col più popolare dei drammaturghi da arena: Ulisse Barbieri, detto il Sanguinario, che dal Fossati alla Commenda, dalla Stadera al Re Nuovo seminò di cadaveri tutta Milano. Come non contava le sue vittime, così non contava il numero degli atti di cui si componevano i suoi terribili drammi; nè per questo si poteva temere che gli spettatori si addormentassero in teatro, perchè quando non era un colpo di pistola o di fucile che interveniva a tenerli desti, era un terremoto o un fulmine a ciel sereno che metteva al dovere il malvagio e assicurava il trionfo della vittima innocente. * * * Fu appunto sub Julio che nacque e fiorì il teatro milanese, al quale, purtroppo, non doveva poi sorridere la fortuna che toccò, meritamente, ad altri teatri dialettali. Trascurando il tentativo di certo De Toma, fabbro ferraio troppo amico dell'Austria (che prima del '60 aveva scritto e fatto recitare alcune commedie in vernacolo, fra cui El cioccon de grappa, nel teatrino, oggi chiesa evangelica, di via Cesare Correnti) il merito di aver messo insieme la prima compagnia di dilettanti per recitare in milanese, risale a Pietro Tanzi, un umile travet municipale, che presentò i suoi comici la sera del 16 maggio 1869 al teatro Fiando detto Gerolamo, con la commedia in tre atti El zio scior di Camillo Cima, il quale aveva lanciato l'idea di un vero e proprio teatro milanese nel giornale La frusta, allora diretto da Antonio Picozzi, buon poeta meneghino, già maggiore nelle Guide di Garibaldi. Dal Fiando, quei bravi dilettanti, cui arrideva il favore del pubblico e della stampa, passarono al Carcano, in Porta Romana e finalmente nel locale del padiglione Cattaneo, in corso Vittorio Emanuele, dove la sera dell'8 dicembre 1869 il Teatro Milanese veniva inaugurato ufficialmente con la Donzella de cà Bellotta, cui seguì El barchett de Vaver, sempre del Cima. Incoraggiati dal successo, attori, e autori spuntavano come i funghi e le cose andavano così bene, che Cletto Arrighi, al secolo Carlo Righetti, (il cui Barchett de Boffalora, aveva incontrato moltissimo) pensò di assumere in proprio la gestione finanziaria dell'impresa, acquistando anche lo stabile del Corso. Sembrava, e poteva essere, la fortuna del Teatro Milanese, che accoglieva in sè elementi di primo ordine, come la Giovanelli lo Sbodio, il Giraud: viceversa, la facilità con la quale vennero messe in scena traduzioni, parodie, e quanto di più ibrido poteva procurare facili incassi, aprì la via all'arte tutta personale del Ferravilla, il quale finì col galvanizzare in sè tutto il teatro, così che quando egli venne a mancare, non vi fu più Teatro Milanese. * * * Che dal mondo teatrale a quello della beneficenza, sia breve il tratto a Milano, lo provò, insieme con i veglioni benefici riassunti nella allegoria del Borgomainerio, il Carnevale dei Fanciulli, istituito al vecchio teatro della Canobbiana dalla Famiglia Artistica, di cui era magna pars Enrico Mangili. Industriale attivo, ma artista nell'anima, era l'uomo delle trovate, e il Carnevale dei Fanciulli, che procurò vistose somme alla beneficenza, gli dovette fra l'altro quei coriandoli di carta, che oggi sono la disperazione delle ragazze nei magri corsi della settimana grassa, ma che a suo tempo ebbero tanto successo.... anche perchè costavano pochissimo essendo i rifiuti di una fabbrica di cartonaggi che il primo anno li offerse gratis et amore. Risalgono Risalgono pure allo stesso Mangili le passeggiate di beneficenza che, in occasione di pubbliche calamità, innondazioni, terremoti, colera, ecc., venivano fatte per le vie di Milano, con risultati così brillanti, che il nome della nostra città veniva benedetto nelle più diverse regioni d'Italia. E chi sa che l'idea prima di queste pubbliche raccolte di indumenti, non gli fosse venuta da quell'asinello che, in certa epoca, l'Ospedale Maggiore, bisognoso di bende, pezze, filacce, ecc., mandò in giro a questuare, raccogliendo tanta roba, da suggerire la ripetizione del fortunato viaggio! Miracoli del gran cuore ambrosiano che intenerivano quello del dottor Edoardo Porro, il padre di tutti gli.... esposti di Santa Caterina; grande amico e collega del senatore Ernesto De Angeli, uno di quei capitani dell'industria lombarda, che, all'apogeo della fortuna, amano ricordare gli umili dalle cui fila sono usciti; così come era instancabile nell'operare il bene quell'avvocato Lazzaro Frizzi, che i Rachitici ricordano con particolare riconoscenza, insieme con la degna consorte cui volle intitolato uno dei nostri padiglioni. E mettiamo pure nella categoria Beneficenza spicciola, Romolo Rituali, importatore di giapponeserie e di brillanti chimici, che nella redenzione della fanciullezza abbandonata, riviveva con commozione la propria giovinezza; Ferdinando Meazza, versatile e geniale presidente a vita della Società Patriottica; il fotografo Calzolari, la cui macchina era sempre a fuoco nelle opere del bene; l'editore Aliprandi, i cui torchi gemevano a stampar strenne benefiche a favore di chi gemeva non simbolicamente; il birraio Casanova, membro di tutti i comitati di beneficenza, e così acceso democratico, che nel 1869, durante le dimostrazioni per l'affare Lobbia, gli venne ritirata la licenza per dieci giorni: punizione che quando la sua birreria venne riaperta, fece accorrere in piazza del Duomo a ber birra fresca, anche quelli che avrebbero preferito il vino caldo! Ma come tentare accostamenti logici o pretendere di formare gruppi affini col disordinato materiale caricaturistico caricaturistico di cui è possibile disporre, e che per ragioni ora note e ora ignote spesso esubera e spesso è deficiente? E come allineare figure di primo grado con figure d'ultimo, e dove collocare personaggi la cui attività si è svolta attraverso epoche diverse e non sempre successive? Anche Renzo, quando si trovò davanti al suo povero orticello, si mise le mani nei capelli; per cui se fino ad ora, pur andando a zig zag, abbiamo potuto conservare una certa parvenza di ordine, l'ultimo ventennio del nostro Mezzo Secolo di caricatura milanese, procederà come uno di quei palloncini che sfuggiti dalle mani di bimbi malaccorti si vedono spesso librarsi sulla piazza del Duomo, in balìa d'ogni soffio di vento e poi scomparire fra la selva delle guglie e gugliette. Il lettore avrà quindi la noia di tener dietro ai suoi sbandamenti; ma speriamo che, in premio della sua fatica, non finisca col buscarsi un torcicollo. INTERMEZZO MINIMO Che la matita del caricaturista non abbia peli.... sulla lingua e possa permettersi di conciare l'uomo più illustre nella guisa meno decorosa, è risaputo da un pezzo, ma chi deve presentarlo al pubblico è naturale che senta il dovere di non metterlo spalla a spalla con compagni, senza dubbio onestissimi, ma non eccessivamente desiderati: il Barbapedana, ad esempio, che pure ebbe giorni di grande popolarità, tanto che il suo arrivo nelle osterie più frequentate era accolto da ovazioni. De piscinin che l'era El ballava volontera El ballava su on quattrin Tant che l'era piscinin. Sono versi conosciuti anche da chi non sa come le colombe dal disio chiamate volino con l'ali aperte e ferme; ed infatti, a suo tempo, una scarrozzata scarrozzata suburbana, con meta Monluè, Morivione, la Colombera, e fermata a tutte le osterie intermedie, sarebbe per molti riuscita incompleta se a cassetta, a fianco del brumista, non vi fosse stato il bardo popolare con la sua chitarra e i suoi ritornelli favoriti: De la gussa d'ona nôs L'ha faa foeura i coccett de spos; N'ha vanzaa on tantirolin L'ha faa foeura i ciffonin: Tant che l'era piscinin!

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Una raccolta completa di quella categoria di macchiette milanesi cui appartenevano la Mamma di gatt e la Marianna, el Capitani, el Sciavatta e via dicendo, riuscirebbe certo interessante, ma non allegra, trattandosi quasi sempre di infelici. Preferiamo fare una scelta, pescando largamente nella collezione di Gottardo Valentini, uno dei più fecondi e precisi caricaturisti milanesi. El Bordoeu, era un misantropo che andava in volta per Milano, accigliato e così nero che pareva intriso nel nero-fumo, senza deviare dal suo cammino qualunque ostacolo incontrasse. Le mamme lo additavano ai ragazzi cattivi come el babao; ma anche i grandi si affrettavano a scansarsi per ragioni che si indovinano facilmente. L'è tanta ciara, era il soprannome col quale veniva designato fra i rivenditori di giornali un poveraccio che, a rinforzare la voce roca, era costretto a frequenti libazioni: un Pungolo e un cicchetto, un Secolo e un cicchetto. Se gli accadeva di vendere una Perseveranza, erano due cicchetti perchè l'avvenimento non era di tutti i giorni. Da ciò si capisce come l'è tanta ciara fosse a quell'epoca il nome dato all'acquavite, la quale ne ha cambiati parecchi di nomi nel corso dei secoli.

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Altro notissimo distributore e rivenditore di giornali, era il Patuzzi, che aveva il suo botteghino in San Pietro all'Orto, dove stordiva i passanti con le sue grida e le sue imprecazioni contro le tipografie che tardavano a fargli le consegne, contro i suoi dipendenti che tentavano di truffarlo, contro la pioggia se pioveva e il sole se faceva bello, e finalmente contro i sorveglianti che avrebbero voluto metterlo al dovere, e non vi riuscivano mai. Dei sorveglianti aveva invece il più sacro terrore un vecchio che i monelli chiamavano quell de la bosinada, il quale si aggirava nei dintorni del Duomo fiutando l'aria, e non appena gli sembrava arrivato il momento opportuno, cavava di sotto alla giacca il pacco delle sue bosinate e si metteva a declamarle con voce che sembrava salisse dall'averno. La gente faceva ressa intorno chiedendogliene copia, ed egli le distribuiva a destra e a sinistra intascando i soldini, senza smettere la sua declamazione, fino a che la comparsa improvvisa dell'eterno nemico, gli troncava a metà la strofa sul labbro. Cosa che ad Omero, rapsodo altrettanto barbuto, non sarà mai capitata.

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Ed ecco, vivo palpitante, l'ultimo campione di quei buoni villici di Montevecchia che venivano a Milano a smerciare i formaggini da essi fabbricati con tutte le regole dell'arte appresa dai maggiori, e che non tornavano lassù, chissà con quanta nostalgia, se non dopo aver vuotato le loro ceste. Portava un cappellino, con fettuccia di velluto nero e fibbia, del tempo del Carlambrogio, e camminando faceva tintinnire la bilancia che gli ricadeva dietro le spalle. Non erano certo profumi di rose o di gelsomini che si lasciava indietro o spandeva intorno; ma ciò provava appunto quanto fossero vecc e quindi buoni i suoi prodotti e quanto fosse sincero il grido col quale li annunciava e raccomandava. Dopo di lui, tipi del suo stampo non se ne videro più, malgrado che le comunicazioni fra Montevecchia e Milano si fossero fatte molto facili. Ma ancor più facile deve essere apparso agli interessati di fabbricare a Milano, col latte di mucca, i formaggini di capra di Montevecchia, aggiungendovi col tempo gesso, calce e, chi sa, forse cemento, per ora, non ancora armato.

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Meno schietta, almeno nelle sue apparenze, la figura di uno sciancato che si trascinava per le vie fuori mano portando un seggiolino sul quale ogni tanto si metteva a sedere, in attesa che qualcuno gli gettasse la limosina. Accadeva più spesso invece che i monelli gli gettassero un grido di dileggio che lo faceva uscir dai gangheri e brandir minaccioso il seggiolino; ma del quale sarebbe difficile rintracciare l'origine se non il significato. * * * A distanza di parecchi anni uno dall'altro, due bei tipi di mattoidi, inoffensivi quanto mai, si incontravano in quella che oggi è la via Corridoni: el matt de via Stella, come lo chiamavano senza complimenti e senza che egli se ne adontasse; e il Falla taià, che se abitava una baracca perduta fra il verde delle ortaglie confinanti col bastione, amava però far pompa della sua zazzera corvina sul Corso e in Galleria, dove formava l'ammirazione dei passanti. Tutto nervi, vibrante e pronto di scilinguagnolo il primo; taciturno, impenetrabile e compassato il secondo, avevano in comune il culto delle belle arti, che ciascuno bistrattava a suo modo. Mentre però l'uno, che sapeva di latino, possedeva parecchie lingue.... e viveva di rendita, stonava e verseggiava in assoluta umiltà; l'altro, per procurarsi qualche allievo, si era battezzato da sè professor Polimuse, col risultato di riuscire assai meno simpatico del suo collega. PEZZI GROSSI Fra tutti i prefetti che il palazzo di via Monforte ebbe di volta in volta l'onore di ospitare, il più felice per la destinazione assegnatagli dal Governo, il più soddisfatto dell'opera propria, il vero cuor contento fra tutti i cuori prefettizi italiani, fu certo il prefetto Basile, ardente siciliano dal largo sorriso, dall'eloquio abbondante e dal fulvo pelo, che Amero Cagnoni, nel Guerin Meschino, condì in tutte le salse più piccanti. Il signor prefetto doveva anche essere molto rapido nel disbrigo degli affari, a giudicar dal tempo che gli avanzava per la passeggiata, la trottata, la Scala; il Manzoni e gli altri teatri dove la prefettura aveva il proprio palco. Sul Corso, sui bastioni e in Galleria tutti gli facevano largo, anche coloro che non lo conoscevano, perchè dalla sua persona sembrava emanare l'alta considerazione che egli aveva di sè stesso. Precisamente l'opposto di Gaetano Negri, che quando doveva passare per qualche via centrale, sgattaiolava tra la folla, lungo il muro, quasi temesse di usurpare con la sua svelta personcina maggior posto di quanto avesse diritto o meritasse. Eletto sindaco nell'intervallo fra il primo e il secondo sindacato Belinzaghi, i suoi discorsi forbiti e densi di pensiero gli guadagnarono subito il titolo di sindaco filosofo, al quale non era insensibile, come quello che gli ricordava i suoi studi prediletti. Il caricaturista dell'Uomo di Pietra lo raffigura nell'atto di ricevere l'investitura sindacale; mentre l'altro sindaco, Pippo Vigoni, detto l'africano per le sue tendenze coloniali e i suoi viaggi nel continente nero, è sorpreso fra i migliori campioni della prima Esposizione canina, da lui presieduta e inaugurata.

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Il pezzo più grosso della politica militante milanese, era senza dubbio il marchese Emilio Visconti Venosta, che dopo essere rimasto fedele a Mazzini fino al 6 Febbraio, si era dato alla diplomazia, reggendo a più riprese il dicastero degli affari esteri. Ma dove e come rintracciare le sembianze dei molti valentuomini che gli facevano compagnia alla Camera o al Senato? Giuseppe Marcora, stette a lungo sulla breccia; ma davvero che nel suo irriducibile ambrosianismo non ebbe mai l'aria terribile prestatagli da Bettinelli; mentre il fulvo Mussi, veterano di tutte le assemblee, vi par di vederlo, quale primo sindaco democratico di Milano, intento a preparare col classico risotto la Refezione Scolastica agli scolaretti indigenti, secondo la promessa fatta loro dai banchi dell'opposizione dal dottor Malachia De Cristoforis, assessore per l'istruzione, che gli sta modestamente alle spalle come sottocuoco. È infine col marchese Ponti, la cui gestione ricordò sotto certi aspetti quella fastosa del Beretta, e sotto il cui sindacato venne municipalizzata la pubblicità e innondata Milano di avvisi e manifesti, che si chiude la serie dei sindaci nel nostro Mezzo Secolo di caricatura, perchè Bassano Gabba, che nel 1910 salì al seggio sindacale, fortunatamente è ancora vivo. INTERMEZZO AL SELTZ Insieme coi proprietari di cui ci rimane la caricatura, quanti dei caffè, ristoranti e osterie che fiorirono nel periodo del quale ci occupiamo sono scomparsi completamente, mentre altri passarono in altre mani e i più fortunati salirono alle più alte vette! Nota a tutti i frequentatori della Galleria per l'oculatezza con la quale dal suo banco sorvegliava l'andamento del servizio e la cortesia che usava con tutti gli avventori, per ognuno dei quali trovava la parola adatta, era la signora Campari, che certo non misurava il suo orario su quello degli operai nascosti fra le impalcature dell'Arco ancora in costruzione, tanto era assidua e infaticabile: così che si può dire la fortuna della grande casa industriale che porta il suo nome sia cominciata precisamente da essa. Sempre in Galleria, in quell'ottagono che allora era decorato con le statue di sedici illustri italiani, dirigeva il caffè Biffi, del quale era uno dei fortunati proprietari, il cavalier Capretti, venuto dall'antico caffè delle colonne di fronte a San Babila. Il Biffi, quantunque non avesse le odierne proporzioni, era già il maggior caffè di Milano e il più frequentato dai forastieri, nonchè dagli artisti di canto che potevano accordarsi il lusso di una bibita. La sera, poi, aveva il vantaggio di offrire ai suoi avventori, l'accensione del rattin, l'ingegnoso meccanismo col quale venivano accese le innumerevoli fiammelle a gas che illuminavano la cupola e l'ottagono. Anzi, fu certo la quotidiana ammirazione di quella cupola che fece nascere nel Capretti l'idea di gettarsi da essa.... a volo! Con quella passione, se fosse nato oggi, il signor cavaliere sarebbe stato senza dubbio un asso aviatore e avrebbe battuto il record dell'altezza: a quel tempo, invece di salire, era già molto pensare a scendere. Ma sia che le ali da lui ideate come paracadute non gli garantissero un sicuro ammarraggio; sia che durante i lunghi studi la sua pancia avesse preso proporzioni eccessive, il volo dalla cupola rimase allo stato di progetto, con grande sollievo dei suoi amici e dei frequentatori della Galleria. Oggi non è raro il caso, quando non si debba pagar prima, che la cassiera di un bar, nel ricevere il denaro che le date, lo faccia con tale degnazione da lasciarvi la bocca ancor più amara dell'aperitivo bevuto. All'offelleria Bai, invece, all'angolo di Santa Radegonda e del Corso, potevate aver preso un rabarbaro, che quando lo pagavate vi si trasformava in rosolio, per la cortesia dei proprietari. Non per nulla sotto la caricatura di chi stava a quel banco troviamo questa gustosa ottava "Quant al banch?.- Vint - Va ben? - Grazie contin! Lu.... quanti past?... on krapfen, duu african, E1 vermouth china - trenta e vint cinquanta, La sta ben la soa sciora? - Lu sessanta? Ecco el rest. - Oh marchês, l'è anmò a Milan Quanti marrons glacès?... hinn sopraffin..." In sta maniera amabil e graziosa Baj-a lu, Baj-a lee, Baj-a la tosa. * * * Non tutti coloro, però, che sono ricordati in questo intermezzo hanno una biografia facile come quelli che li hanno preceduti. Cosa volete dire, per esempio, sul conto dei due birrai che vedete qui contro e che venivano chiamati uno el crapon e l'altro el barbison? Che facevano a gara nel mescere birra buona e fresca ai propri avventori.... cercando di rubare sulla misura? E del padrone dei Promessi Sposi, fuori di porta Venezia, che forse non aveva mai letto Manzoni e ignorava fosse mai esistita un'osteria della Luna piena? Ah, le vecchie osterie della vecchia Milano, che dovevano rimaner chiuse durante le funzioni sacre, che non potevano vender vino se non ad ore fisse ed il vino non potevano comperarlo se non ad una certa distanza dalla città! Osteria voleva dir tutto: ristorante, caffè, bottiglieria, bar, e come c'erano le osterie che prendevano il nome dalla contrada in cui si trovavano, ve ne erano altre che le davano il proprio; ma se gli osti dei nostri tempi, quando sono sicuri dei propri clienti, si permettono di prendersela col dazio che aumenta periodicamente, con le visite sanitarie, con gli orari limitati, ecc., cosa dovevano dire i loro predecessori che per un nulla correvano il rischio di vedere il sole a scacchi o di aver slogate le ossa? Una grida del 1591 imponeva perfino che le misure da adoperarsi, e cioè il boccale, il mezzo boccale e il quarto di boccale venissero acquistate dal fornasaro de vedro Antonio Ferrari, giusto il campione depositato presso il Vicario di provvisione: pena una multa o quanti tratti di corda fossero sembrati sufficienti a chi di ragione. Ma sì, fargliela agli osti! Se la misura di vetro era legale, chi impediva che il vino fosse scarso? Fu allora che nel collo del boccale, al punto giusto della misura, venne infisso un chiodo che impediva qualunque frode. Quanto al prezzo, il vino rosso migliore non poteva eccedere gli otto soldi al boccale: tant'è vero che si dice ancora: - Mi el bevi de vott! - per mostrare il proprio buon palato. Quello scadente, costava in proporzione e quanto all'acqua aggiunta.... la questione è ancora pendente, nè si può prevedere il giorno in cui sarà risolta.

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Legittimo orgoglio di molte osterie e bois (nome di un trattore francese venuto a Milano sullo scorcio del 1700 e dal quale vennero battezzate le trattorie di basso rango) è oggi quello di vantare antiche origini; ma non sempre le orgogliose affermazioni corrispondono a verità. Ecco, da una grida del maggio 1613, l'elenco delle principali osterie esistenti in Milano a quell'epoca: osteria della Foppa a porta Comasina e di San Marco alla porta Beatrice o di Brera; della Croce Rossa con bettolino a San Bartolomeo, in porta Nuova. In porta Romana del Pavoncino, di San Giorgio, del Fuso, delle Due Spade, del Pavone, della Spada con bettolino al Bottonuto, del Laghetto, dei Tre Re, del Cappello, del Falcone. In porta Ticinese: della Noce, della Serenella, della Rosa bianca, della Fontana con bettolino a Sant'Eustorgio, dell'Orocco al ponte dei Fabbri, dei Tre Scagni al Carrobbio, della Balla, del Pozzo. In porta Vercellina: della Maddalena, della Croce Bianca, di Sant'Ambrogio; e in porta Orientale: dell'Aquila, del Moro, del Leone, della Cervietta, del Sole, del Gambero, del Zenzuino, dell'Agnello, di San Michele al Verzaro, del Bissone, della Cervia a San Raffaele, della Corona, della Foppa e del Popolo. Come si vede, nè l'osteria delle Tenaglie nè quella dell'Esercito, di cui ai due campioni femminili che abbiamo avuto l'onore di presentare, non entrano nell'elenco: ciò non toglie che fossero note ai buongustai dell'epoca specialmente per quelle sleppe di manzo lesso che avreste cercato invano nella trattoria di Innocente Giussani, fuori di porta Orientale, il quale venne appiccato nel 1700 perchè serviva ai suoi avventori carne equina invece di bovina. Doveva però esser bravo nel cucinarla, perchè la frode continuò a lungo, e non venne scoperta se non quando il Giussani fu sorpreso a seppellire, in località detta il Boschetto, lo scheletro di un cavallo non da corsa, ma da barche, che andava a far compagnia a quelli di molti suoi infelici predecessori. Ma basta di osterie: torniamo al seltz con gli aperitivi di Giulietta Marchesi, chiamata la bella oggion dai suoi ultimi adoratori, i quali, per la loro acerba età, si diceva che appartenessero alla Latteria Lombarda, allora ai suoi primordi; torniamo alla birra col tedesco Trenck, uno dei re della vecchia Galleria, e terminiamo con un bicchierino di cognac tre stelle versatoci all'American-bar sul corso Vittorio Emanuele. LA VALANGA. Ci siamo così andati avvicinando al nuovo secolo ed ai nuovi caricaturisti: sulle orme del Conconi e del Cagnoni è spuntato il Mazza che continuerà la sua strada oltre il confine di tempo che ci siamo prefissi; e mentre il Valentini, inesauribile, ci fornirà buona parte del nostro materiale, Piero Portaluppi, destinato a spargere il sale sulla Milano vecchia e a legare il proprio nome a quella nuova, non sdegnerà la matita del caricaturista. Così come Guido Bertini, pittore, poeta e commediografo geniale del Teatro Milanese. Con Bouvier, Mosé Bianchi e Previati abbiamo tre colonne della pittura lombarda. Del primo si diceva che dipingesse col fiato, contando i peli della barba o i capelli agli originali dei suoi ritratti; e chi lo vedeva curare con tanto amore i fiori, i cespugli, le erbe del suo piccolo giardino di Milano, comprendeva quale passione nutrisse per le più piccole cose create e quanta religiosa cura impiegasse nel riprodurle sulla tela. Agli antipodi di Bouvier, era Mosé Bianchi: vasto nel concepire, vario nella scelta dei soggetti, maestro del disegno, dalla sua scuola uscì larga schiera di giovani che all'audacia di una nuova tecnica non sacrificavano comodamente i cardini fondamentali dell'arte. Più discusso di tutti, il Previati ebbe principi burrascosi. La sua maniera affatto personale, urtava contro molte pregiudiziali; e la vita gli riuscì dura fino al giorno in cui, nella completa potenza dei suoi mezzi, mezzi, snebbiata l'atmosfera nella quale amava indugiarsi, conobbe le gioie del trionfo. E questo anche per merito del Grubicy, mecenate e pittore pur esso d'avanguardia; così che oggi le migliori tele del Previati sono da tutti apprezzate al loro giusto valore. Del Conconi sono note le vaporose creazioni, e specialmente le magnifiche acque-forti che lo resero popolare, malgrado non producesse quanto il suo ingegno gli avrebbe permesso e i suoi ammiratori avrebbero desiderato. Anche la fantasia e la genialità che davano sempre un'impronta personale alle creazioni dell'architetto Sommaruga, avevano fatto nascere le più liete speranze; ma egli scomparve giovanissimo lasciando di sè largo rimpianto. * * * Se il notaio Bolgeri, che ricordava d'avere avuto nella propria famiglia quel dottor Raiberti che anche la letteratura milanese non ha dimenticato, era notissimo in certi ambienti dove la conversazione non era vano cicaleggio, il negoziante di cavalli Valerio aveva il suo regno al Corso e sui bastioni, dove non guidava mai meno di due pariglie fra l'ammirazione degli intenditori. Sedeva al suo fianco una graziosa piccina che, all'occasione, non avrebbe esitato a raccogliere redini e frusta dalle mani paterne, e di lui si narravano gesta meravigliose. Una volta, dietro scommessa, era entrato col suo tiro a quattro in quel vicolo della Galleria vèggia che adesso sta per sparire; aveva fatto la sua brava voltata in quella piazzetta dove oggi stenterebbe a manovrare un'automobile, e ne era riuscito fra gli applausi dei presenti. Un'altra volta, invece, aveva scelto per teatro della sua impresa il cortiletto dell'albergo Europa sul Corso, e malgrado esso fosse ancor più angusto che non lo sia oggi e che una colonna di ferro vi sorgesse proprio nel mezzo, vi era entrato e ne era uscito con facilità, come se fosse stato a piedi! Altra bella macchietta di quel Corso che è pur sempre la vetrina di Milano, il professor Guglielmo Rossi, molto ricco e molto pieno di sè; il quale, avendo avuto un tempo delle ambizioni politiche, si era sentito chiamare in certo comizio professore di non si sa che cosa. E forse non era un'aquila, perchè in certa altra riunione, avendo chiesto la parola, non mancò il temerario che gridò al presidente di dargliela subito perchè non gli mancava che quella! Assiduo alle competizioni politiche, era pure il Risi che Garibaldi teneva per suo fiduciario in Milano. Repubblicano di razza, non sdegnava la musa vernacola milanese, e quando i suoi concittadini lo mandarono in Consiglio Comunale non esitava a mettere in rima gli ordini del giorno che venivano presentati. Il professore Dupin era conosciuto per i suoi precedenti giovanili. Figlio di un calzolaio, lo si era sempre visto nel negozio del padre in contrada della Passerella; poi aveva debuttato come dilettante sulle scene del teatro milanese, e infine si era conquistata la cattedra di lingua francese in alcune scuole superiori. Il dottor Bondioli era conosciuto invece come el dottor di poveritt, ai quali prestava le più disinteressate assistenze; mentre del generale Tahon de Revel, che i milanesi avevano conosciuto a suo tempo come brillante comandante del corpo d'armata, ammiravano la prestanza giovanile e l'assiduità a tutte le cerimonie militari, civili e religiose. Altro medico dei poveri, l'Archinti, spirito bizzarro; ed altre macchiette a tutti simpaticamente note, il marchese Filippo Villani, che le Cinque Giornate avevano trovato chiuso in una segreta di Santa Margherita, cioè della direzione di polizia, e che aiutava coi gesti e con le contrazioni del volto singolarmente mobile, l'afonia cronica dalla quale era afflitto; e il direttore delle scuole elementari in piazzale delle Galline, Gagliardi, la cui somiglianza con Cavour gli aveva procurato presso gli scolari che lo amavano come un padre, il soprannome del quale sembrava compiacersi. Immancabile a tutti i convegni del mondo che si diverte, era Emilio Silvestri che suppliva con un brio indiavolato a quanto gli mancava per gareggiare in vaghezza con l'Apollo del Belvedere. Gara che avrebbe poco interessato anche Dario Papa, che il giornalismo milanese d'ogni colore ricorda come un vero maestro per vastità di coltura, scrupolo di verità e dignità professionale. Così come la giovane scuola. drammatica riconobbe in Enrico Annibale Butti una promessa che il pubblico incoraggiò col suo plauso. Attratto giovanissimo dal teatro, portò la esuberanza del suo temperamento in drammi e commedie che ebbero grande successo. Purtroppo scomparve molto presto dalla scena del mondo, e assai prima che il suo bagaglio artistico fosse esaurito. Sottile, mingherlino e con una testa da passero spennato, era il nobile Pullè che la beneficenza trovava alacre qualunque fosse la causa dei suoi richiami. Segretario di cento Comitati, lavorava in silenzio per ritrarsi modestamente nell'ora in cui altri si sarebbe messo in vista; così che, suda e suda, fra i cavalieri della beneficenza milanese, (come venivano chiamati i valentuomini grazie ai quali il nome di Milano venne tante volte benedetto nei giorni delle pubbliche sciagure) gli toccò solo la soddisfazione delle opere buone compiute. E quella è sperabile non sia mancata nemmeno al magutton. Il più alto dei muratori milanesi, al quale ricorrevano i padroni di casa quando avevano una grondaia da riparare e volevano risparmiare la spesa di un alto ponte. Le benemerenze di Luigi Buffoli nel campo della cooperazione, sono troppo note per dover ricordarle. Il caricaturista lo sorprese con la vanga alla mano, il cappellaccio e gli scarponi del terrazziere mentre stava spianando il terreno al suo Milanino, e che quel terreno lo avesse bagnato col miglior sudore della sua fronte, nessuno oserebbe mettere in dubbio. Resta solo da augurarsi che non lo abbia sparso invano. Assai più tranquilla missione nel mondo aveva saputo scegliersi l'orologiaio Pugni, che passò la sua lunga esistenza fra il tichettìo regolare di cento e cento cronometri, e guai se uno di essi osava interrompersi, indugiare, affrettare! - Sei tu? - chiedeva con fiero cipiglio il Pugni all'indisciplinato, e si poteva scommettere che la sua ira non sbagliava bersaglio. Esitava invece a varcare la soglia della sua bottega, qualcuno che non conosceva il vecchio orologiaio, perchè di fuori, in caratteri uniformi, stava scritta questa minacciosa insegna: Orologi Pugni Pendole. E i più timidi naturalmente, giravano al largo. Lungo, sottile, allampanato il marchese Visconti di Saliceto, era noto per la sua assiduità al Corso, il suo monocolo, la sua villa di Tremezzo e il grandioso palazzo di Cernusco sul Naviglio, dove l'arciduca Ferdinando e Beatrice Antonio Decio. Ricciarda erano andati a passare la luna di miele, mentre il Piermarini preparava loro la villa di Monza. Assai più modesto, l'avvocato l'avvocato Rocchini era conosciuto per l'avvocatt di poveritt, che ricorrevano a lui come ad un galantomone d'antico stampo; mentre Antonio Decio, cassiere della banca Belinzaghi e cognato del signor Giulio, rappresentava a meraviglia anche nel fisico il tipo dei cassieri che non scappano.... e non scapperanno mai. Favorito, per il diametro della sua persona, da un soprannome che non è lecito ripetere, l'appaltatore della pulizia stradale milanese, Filippo Pennati, veniva tutti i giorni a Milano da Monza, dove aveva casa, fondi, famiglia, tutto insomma, tranne i registri della sua complicata amministrazione, perchè quelli (prima nota, giornale, mastro, libro di cassa, ecc.) li aveva tutti in testa. E se nascevano contestazioni tira molla, aveva sempre ragione lui, sia perchè la memoria di quell'eccezionale analfabeta era prodigiosa, sia perchè la sua voce potente superava quella dei suoi oppositori messi insieme. Quanto a voce grossa, anche il Bruni, proprietario di casa in piazza Beccaria, appaltatore, impresario e gaudente, ne era così ben fornito, che se avesse indossato la toga, forse forse si sarebbe ritirato davanti a lui anche Luigi Maino, perchè il principe del Foro milanese, l'uomo che poteva vantarsi di non avere un nemico a questo mondo, non poteva soffrire i cosidetti tromboni. E mettiamo in un solo mazzo, assortito di colori e sapori, il capo degli esattori del Gas, che portava con grande dignità il peso della carica e della pancia; il litografo Zanaboni, chiamato ceralacca di lutto, perché il nero-fumo dei suoi capelli e della sua barba, accuratamente ritinti, s'accordava con quello del palamidone nel quale chiudeva la gioia d'essere cavaliere di più ordini; il libraio Robecchi, appassionato cultore di storia, nato, vissuto e morto fra i libri di cui si era nutrito per più di sessant'anni; il dottor Semenza, simpatico originale dal cuore ampio come il cappellaccio che portava in giro; e finalmente il dottore-callista Righini, che si vantava d'aver avuto fra le mani.... le estremità opposte di mezza Milano e sobborghi. di gran fama il Broggi, e segretario della Società degli Autori il Borghi, queste due personalità avevano in comune la distinzione del tratto e l'eleganza della persona: così che i loro rispettivi sarti, quando li incontravano in estrada o li vedevano sulla soglia di qualche ritrovo mondano, avrebbero potuto inorgoglire d'essere al loro servizio. Non così il rigattiere dal quale andava a vestirsi Romeo Carugati, critico teatrale della Lombardia, che tutte le cure dello stile brillante e la vasta dottrina serbava per la rubrica affidatagli. Del suo modo di vivere si raccontavano storie vere che sembravano favole: dormiva con una piccola scimmia; si lavava con l'acqua adoperata il giorno precedente, o quell'altro ancora, e quando in casa si permetteva di offrire qualche liquore liquore ad un amico, doveva litigare col bicchierino e col piattino perchè le idee, diremo così, dell'uno aderivano tenacemente a quelle dell'altro e non volevano separarsi. In compenso le sue critiche erano molto apprezzate dai lettori e in tutto il mondo teatrale. Del fondatore e direttore del Guerino, Aldo Mazza che cominciò ad essergli compagno fedele nel 1904, ci ha dato un Dante barbuto, occhialuto e con tanto di sigaro in bocca che vale tutta quella Divina Commedia che il Pozza distillava ogni settimana per il maggior diletto dei milanesi e la disperazione di chi ne era la vittima. E ben lo seppe l'assessore Mira, il più piccolo dei grandi uomini che sedettero al Marino e alla Camera: tanto piccolo, che quando a Montecitorio si alzò a parlare la prima volta, venne interrotto da uno zelante delle buone forme parlamentari il quale, credendolo seduto, severamente: - In piedi! In piedi! - Il professor Edoardo Bonardi, illustrazione della scienza medica godeva fama di essere l'uomo più côlto di Milano, perchè non v'era ramo dello scibile nel quale non sapesse spaziare da competente. Sempre corrucciato col mondo, che trovava molto diverso da quello dei suoi sogni, anche nell'aspetto aveva dell'ariete, e certo se avesse potuto aggiungere alla solidità dei suoi argomenti quella della vasta fronte quadrata, i suoi avversari gli avrebbero ceduto senz'altro il campo. Non così l'olimpico marchese Ermes Visconti, che sembrava nascondere dietro i suoi occhiali d'oro e dentro la prolissa barba alla Wotan un saggio ottimismo di altri tempi. Ed eccoci già all'ultima pagina del nostro Mezzo Secolo di Caricatura, mentre l'abbondanza della materia avrebbe permesso permesso ben altro sviluppo. Ma ecco pure Vittorio Bertarelli, pensiero e azione del Touring-Club, ammonirci con la sua esperienza che ogni viaggio va diviso per tappe e che chi fa el pass pussee longh de la gamba, el ris'cia de mazzass se non el se stramba. Ragione per cui usciamo con l'illustre astronomo Celoria a riveder le stelle, con l'augurio per i nostri pazienti lettori e per tutti i benefattori dei Rachitici, di vivere felici, sani e a lungo come l'ex-ambasciatore conte Giuseppe Greppi, che campò oltre i cento anni fresco e arzillo come se ne avesse la metà. INDICE Il sindaco Beretta pag 7 - Il sindaco Belinzaghi pag 23 - Intermezzo minimo pag 47 - Pezzi grossi pag 53 - Intermezzo al seltz pag 59 - La valanga pag 67