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Mal sont les gens endoctrinés/ Quand par femme sont sermonnés. (Da un quadro dei frati di Limoges). MARCHESA COLOMBI - LA GENTE PER BENE.LEGGI DI CONVENIENZA SOCIALE TORINO - PRESSO LA DIREZIONE DEL GIORNALE DELLE DONNE - Via di Po, N.1, piano terzo 1877. PROPRIETA' LETTERARIA E' assolutamente vietata la riproduzione anche parziale della materia contenuta nel presente volume. Contro i riproduttori saranno fatti valere i diritti conceduti dalle leggi vigenti. INTRODUZIONE

Le mie gentili lettrici, e i gentili lettori * dato che vi sieno lettori pel mio libriccino, e che sieno gentili, * debbono usarmi la cortesia di tornare colla mente alla presentazione che l'illustre commediografo Paolo Ferrari fece loro di me, Marchesa Colombi, in una serata che dedicò a Parini ed alla satira. Si ricordano l'epoca di quella presentazione? Fu poco dopo la pubblicazione del Mattino di Parini, fatta, come ognuno sa, nel 1763. Io ero giovane, giovanissima allora, sposa da poco tempo. Non avevo che diciasette anni; non uno di più. Ma, se ai diciasette che avevo allora, aggiungo i centoventisei che sono trascorsi, non posso a meno di riconoscere che la mia fede di nascita deve attribuirmi la venerabile età di 130 anni. Questo calcolo deve averlo fatto * poco galantemente bisogna convenire * il signor Amerìgo Vespucci direttore del Giornale delle Donne, il quale mi disse: "Lei, Marchesa, che vive da tanti e tanti anni nella società elegante, che ha potuto osservarne i costumi durante tre o quattro generazioni, dovrebbe scrivermi un libro, che trattasse appunto dei doveri e delle convenienze sociali. Una specie di Galateo moderno, che, preso a studiare anche da una persona che abbia vissuto sempre in campagna, le servisse di guida, e le insegnasse a condursi ed a figurar bene in tutte le circostanze della vita." Una cosa che mi ha sempre inspirato uno spavento indicibile, e mi ha preservata dal peccato capitale non compreso fra i sette condannati dalla Santa Chiesa di far gemere i torchi, è la critica. L'idea di quei giudici ignoti, che sezionano un lavoro, lo tagliano, lo spolpano, lo analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell'autore, senza commoversi menomamente allo strazio del suo cuore paterno, mi mette nello stato di sgomento d'un povero scolaretto, il quale deve esporre la sua pagina, il giorno degli esami, ad una Commissione esaminatrice, che non si compone dei suoi maestri, che gli è affatto ignota, che lui considera come un tribunale venerabile e pauroso. Ora, il genere di libro che mi propose il signor Vespucci dovrebbe avere per critici naturali le signore. E però, dato anche che il tribunale supremo delle appendici di giornali avesse voluto scendere ad occuparsi di simile inezia, avrebbe sempre dovuto consultare su molti punti un giurì di signore, prima di pronunciare il suo terribile verdetto. Ed io aveva tanta fede nell'indulgenza delle signore, che ne presi coraggio, ed accettai l'incarico. Ai tempi remoti della mia giovinezza, non esisteva ancora il bel Galateo di Melchiorre Gioia. E fra tutti gli altri libri dello stesso genere, pubblicati prima e dopo di esso, l'unico usato generalmente, era quello di Monsignor Della Casa, un vero gioiello di spirito, reso anche più ameno dallo stile candidamente ricercato e solenne, del cinquecento. Ma l'illustre prelato scriveva il suo libro dedicandolo ad un giovinetto, conciossiacosachè questi cominciasse appena il viaggio della vita, che egli stava per compiere. E però sentiva il dovere di ammonirlo di non fare in compagnia cose laide o fetide, o schife o stomachevoli; di non spruzzare nel viso i circostanti, nel tossire e nello starnutare; di non urlare o ragghiar come un asino sbadigliando; e, soffiando il naso, di non aprire il moccichino e guatarvi dentro come se perle e rubini dovessero esser discesi dal celabro, ecc., ecc. Tutti questi ammaestramenti negativi, sono pregevolissimi senza dubbio. Tanto pregevoli che riuscirono, con lungo andare, a sradicare completamente tra la gente per bene quelle straordinarie abitudini. Ma, per ciò appunto, è affatto inutile ch'io mi occupi di particolari tanto rudimentali, conciossiacosachè i miei lettori - se Dio vuole - non ne hanno bisogno, ed i Bosiemanni e le Pelli Rosse, a cui potrebbero ancora giovare, dubito molto che mi vogliano far l'onore di leggermi. Il Galateo di Monsignor Della Casa è completo, ragionato, tanto da elevarsi quasi all'altezza d'un trattato di morale. Io sono certa, e rassegnata a priori, di non poter fare un lavoro, non dirò migliore, * sarebbe una pretesa ridicola, - ma neppure che s'avvicini al merito di quello. E tuttavia lo faccio. - Perchè? Perchè vi sono certe cose speciali ai nostri tempi, ai nostri costumi, che io posso dire, perchè in questi costumi ed in questi tempi ci vivo, e che in nessun galateo antico si trovano, oppure vi si trovano differenti da quelle che pratichiamo tra noi. Cadono le città, cadono i regni, e cadono le costumanze adottate fra la gente civile. - Ai tempi di Monsignor Della Casa erano considerate inciviltà parecchie cose che ora sono ammesse. Invece non si troverà nulla nei galatei antichi sullo scambio delle carte di visita, sulle partecipazioni di matrimoni, nascite, morti, guarigioni; sulle strette di mano; sul contegno da tenere in viaggio, e tante altre cose che appartengono alle nostre usanze moderne. È per questo soltanto - non per fare meglio di nessuno, ma per far altro - che imprendo a scrivere il mio galateo moderno. Ed in esso intendo parlare a persone ammodo che, se possono ignorare, tutte od in parte, le convenienze sociali, non hanno bisogno ch'io insegni loro l'a b c della creanza. Non farò del mio libro un trattato di morale; sarebbe superfluo il pretendere d'instillare in tutti gli animi i veri sentimenti a cui debbono ispirarsi le leggi della cortesia; sentimenti che, del resto, si riassumono tutti nella massima: «Non fate ad altri quello che non vorreste fosse fatto a voi.» Pur troppo i sentimenti umani hanno un limite, e sono pochi i filantropi che possono largire una parte del loro affetto a ciascuno dei loro simili. Non serve negarlo. Tutti possiamo avere rapporti con persone che ci sono uggiose, antipatiche, indifferenti. Tutti gli argomenti morali ch'io potrei scrivere non muterebbero questi sentimenti impulsivi. Mi limiterò dunque ad indicare quello scambio di cortesie che si praticano fra persone educate, e che l'uso generale ha fatto passare in costume: se saranno soltanto cortesie di forma, pazienza! Sarà sempre meglio che seguire l'impulso, e fare uno sgarbo ad una persona che non piace. Dai dieci comandamenti del Decalogo derivarono tutti i trattati di morale che si scrissero poi, con tutti i loro raffinamenti e perfezionamenti. E dalle prime regole di civiltà insegnate da Monsignor Della Casa, emerse la cortesia cavalleresca dei nostri babbi, quella un po' più... cavalière – sono costretta a dirlo in francese - che usiamo noi; ed emergerà pure la civiltà più gentile, lo spero, e raffinata, che beatificherà l'esistenza dei nostri nepoti fino alla più remota discendenza. È là, in quella parte di libriccino secentista, che ho imparato per la prima volta a condurmi coi miei simili, e però, tutto quanto so delle convenienze sociali, il mio galateo, ed i galatei di tutti i tempi che verranno, non sono altro che l'eredità di Monsignor Della Casa. PARTE PRIMA PAGINE ROSEE CAPITOLO PRIMO. Il bimbo. In tutte le leggi umane, ad ogni diritto fa riscontro un dovere. Ma il bimbo, piccino, inconsapevole, fragile come il vetro, ed imperioso come un sultano, fa eccezione alla legge generale. Per lui tutto è diritto, nulla è dovere. Gli inglesi, più seri, più freddi di noi, malgrado le loro esclamazioni continue sulla famiglia, sull'Home, passano metà dell'anno girovagando in paesi stranieri, e pel poco tempo che rimangono at home, hanno provato il bisogno di inventare la nursery, una camera a parte, dove relegano i bambini colle nutrici e le bambinaie. Noi invece amiamo meglio la famiglia, la casa in cui passiamo tutta la vita. I bimbi non ci disturbano, non li isoliamo. Vivono con noi. Sono padroni di tutto l'appartamento. Impariamo il loro linguaggio monco e, nell'intimità, ne adottiamo la nomenclatura strampalata; li mettiamo a tavola con noi; vegliamo ai loro bisogni, li vezzeggiamo, li chiamiamo con nomignoli graziosi ed insensati. Ninì, Rirì, Lolò; conosco un bimbo che ha nome Fulvio, ed è chiamato Fufù. È il giorno di ricevimento. La signora ha molte visite. Ad un tratto risuonano alte grida; non ci si intende più a discorrere. È Mimì che si desta; e significa alla famiglia, sulla quale regna, che è stanco della posizione orizzontale. La mamma sorride di beatitudine; se occorre, lascia un momento la compagnia e corre ad esprimere con un bacio la sua ammirazione per quelle gesta del piccolo despota. Nessuno pensa a biasimarlo; figurarsi! Sono così carine e commoventi quelle note scordate d'una vocina di bimbo! Mimì fa il suo ingresso in sala nelle braccia della nutrice. Qualche cosa di grave lo impensierisce; s'è sognato male, è ancora di cattivo umore. Non si degna di salutare la compagnia; all'invito della mamma di compiere colla sua manina quell'atto di civiltà, alza le spalline rosee e nasconde il volto in seno alla balia, presentando la sua personcina... dal rovescio. È ancora nei suoi diritti. E poi Mimì è così bellino da tutte le parti. Avete un amico di famiglia a pranzo; la mamma ha sorvegliato gli apparecchi con affetto. Mimì troneggia vestito di bianco sul seggiolotto. Osserva che il babbo e la mamma fanno ogni maniera di cortesie a quel vecchio signore, che sono felici di ospitarlo. Pensa che lui pure deve, come rappresentante della famiglia, dimostrare la sua deferenza all'ospite intimo e caro. E togliendosi dai labbruzzi il cucchiaino non completamente vuoto, lo porge rovesciato al vecchio commensale. Tutti sorridono. Mimì sente d'aver compreso bene il suo dovere, e per incoraggiare l'invitato ad accettare la sua offerta, gli carezza il volto colla manina unta.... Com'è gentile Mimì! Eppure Melchiorre Gioia dice che è atto inurbanissimo il palpare il volto ad un proprio eguale e peggio se maggiore d'età; e su questo argomento non transige neppure cogli Dei, e scaglia acerbi rimproveri a Omero, per la sconvenienza d'averci rappresentata Teti, in atto di palpare il volto a Giove. Ma il bimbo è più padrone nel mondo che gli Dei nell'Olimpo. La nutrice entra con Mimì in una chiesa. Mimì ha il sentimento musicale sviluppatissimo. L'organo lo commove piacevolmente; e lui accompagna con modulazioni che va improvvisando quelle note solenni. Tutti si voltano, la nutrice gli dice che quella è la casa del Signore. Ma Mimì è superiore a queste considerazioni. I lumicini dell'altare lo divertono, è al colmo del tripudio, ed è troppo sincero ed espansivo per dissimularlo, e si dà a far galloria con sussulti, e grida, e contorcimenti. Il sacerdote intuona le litanie, il pubblico fa coro. Quelle voci alte, discordi, stonate, offendono il senso artistico di Mimì. E lui esprime con alte strida il suo disgusto, la sua disapprovazione. La balia ha avuto torto di esporlo a quella contrarietà. Ma Mimì ha ragione. È logico e schietto. La sua legge è l'istinto. Non ne conosce altre.

Finchè l'uomo non fruisce dell'intelligenza e della parola, i due grandi e fatali privilegi dell'umanità, il mondo non domanda nulla da lui. Ma guai ai primi passi, ai primi discorsi, alle prime riflessioni! - Il giorno in cui il bimbo troverà una ragione qualunque, bislacca fin che Dio vuole - per affermare un suo diritto, evocherà d'un tratto una folla di doveri, che l'accompagneranno per tutta la vita crescendo con lui, e moltiplicandosi come i germogli della vite, ed i discendenti della sposa evangelica. CAPITOLO SECONDO I fanciulli. Coi parenti * Festa in famiglia * Colle sorelline * Colle persone di servizio * Visite * Inviti * Essendo ospiti in casa altrui * In iscuola.

Così è, signorini miei. Loro hanno sei, sette, otto anni; vestono la gonnellina come la mamma, o il farsettino come il babbo. Si chiamano Mario o Maria, Carlo o Carolina, a seconda del loro sesso. L'abito neutro, il nomignolo neutro sono abdicati. S'immischiano di ragionare o di sragionare, il che viene a dire lo stesso: hanno preso il loro posto in società. Hanno dunque, oltre l'obbligo della civiltà elementare che hanno imparata dalla mamma, e direi quasi succhiata col latte, anche quello dei piccoli doveri di società. La prima società è la famiglia; la più cara; e, come tale, quella che si deve meglio curare per non turbarne l'armonia. - Buon giorno, mamma, buon giorno, babbo, buon giorno, buon giorno... Questa è la prima parola che i ragazzini educati debbono avere sul labbro svegliandosi; e, possono crederlo senza vanità, pronunciata da loro riesce veramente di buon augurio pel cuore dei loro parenti. Così pure avanti di andare a tavola debbono augurare a tutta la famiglia il buon appetito; avanti di coricarsi la buona notte. Queste cose sono già abbastanza elementari, nevvero? Eppure io so di signorini, fino ad un certo punto educati, che non commetterebbero mai nessuna delle sconcezze accennate ne' primi consigli di Melchiorre Gioia, che si dànno l'aria di personcine importanti, che salutano que' di fuori e fanno de' complimenti per sentirsi dire: Che ragazzi gentili, e poi in casa si svegliano domandando ad alta voce la colazione, o magari facendo il broncio e piagnucolando: siedono a tavola prima de' loro genitori; la sera si fanno dire dalla mamma di dare la buona notte al babbo; e, quando escono a passeggio, hanno bisogno che la bambinaia, la quale, poveretta, non ha avuta educazione, li avverta di salutare le persone della famiglia che rimangono in casa. Così, dunque, mi hanno intesa, signorini? Tutti i complimenti che si fanno cogli estranei, li debbono prima di tutto praticare nella loro casa, colla loro famiglia. Questo per la vita di tutti i giorni; ma vi sono giorni diversi degli altri; giorni solenni. Il Natale, il Capo d'anno, gli onomastici, i natalizi di famiglia. È allora che i ragazzi educati debbono dar prova di vera gentilezza. Quando si tratta di festeggiare il babbo, è la mamma che consiglia i bambini, e loro non hanno che a lasciarsi dirigere. Ma se sapessero come soffre la mamma, e che malagrazia hanno loro stessi, quando reagiscono contro la lettera da scrivere, contro il complimento da recitare, contro il lavoro da eseguire; e brontolano che non sanno cosa scrivere; e che il complimento è difficile da imparare a memoria; ed a dirlo poi... non osano... E, al momento di dirlo, quelle esitazioni, que' contorcimenti, quel ridere scemo, quasi che il fare una manifestazione d'affetto ai genitori fosse cosa buffa, quegli straordinari abbassamenti di voce e tutto il corredo di smorfie, con cui i fanciulli sogliono guastare le più care scene di famiglia, lo sanno loro, signorini miei, come si traducono in lingua parlata? - Che ragazzi egoisti! Come sono freddi pei loro genitori! Tutto quello che fanno è una formalità compiuta per forza, e non hanno neppur abbastanza delicatezza per non farsi scorgere. Triste solennità per que' genitori! E triste idea, soggiungo io, che danno quei fanciulli della loro educazione! Vi sono poi fanciulli soprammodo disgraziati, che non hanno più mamma o non hanno più babbo. Ed altri la cui sventura è più grande ancora: li hanno perduti entrambi. È un parente, un'istitutrice, che tiene il luogo di quei poveri cari. Allora, a quel parente, a quell'istitutrice, debbono gli stessi riguardi che avrebbero dovuto a' genitori. Se è una sola persona che veglia su di loro, debbono ingegnarsi a farle da sè stessi qualche improvvisata che le rallegri i giorni solenni; poichè, naturalmente, non debbono farsi consigliare da lei. Allora non vi sarebbe più sorpresa possibile. In tal caso, un lavoretto semplice che sappiano eseguir bene, qualche fiore, poche parole scritte, venute schiettamente dal loro cuoricino, anche con qualche errore, non importa, ecco quello a cui debbono attenersi. Pregare un maestro oppure un conoscente che scriva per loro una lettera, sarebbe quanto dire alla persona a cui fanno omaggio, la quale conosce troppo la loro capacità per essere ingannata: - "Badi, non ci avevo proprio nulla nel cuore. Non ho trovato una parola per lei, ho dovuto farmela prestare da altri." Dolorosa notizia questa, e tutt'altro che fatta per allietare un giorno solenne. Alle volte però si possono recitare de' versi ed è certo un pensiero grazioso, sebbene difficilmente i versi possano essere scritti dal bambino che li dice. Ma bisogna che siano scritti appositamente per quella circostanza; o, quanto meno, che il fanciullo, leggendoli in qualche buona raccolta, li abbia compresi perfettamente, e vi abbia trovato l'espressione dei propri sentimenti per la persona alla quale vuol dirli. Ma è assai difficile trovare in un libro i versi che si adattino precisamente a' sentimenti, a' rapporti sociali, alle qualità, alle circostanze d'una persona. Una allusione fuor di proposito basta a metter in ridicolo chi li dice, ed anche la persona a cui sono rivolti. Io conobbi, anni sono, una bambina, che non aveva più mamma, povera gioia! Il suo babbo occupava una alta situazione, ed era sempre assorto in gravi lavori. L'educazione della piccina era affidata ad una vecchia signora nubile, buona senza dubbio, come lo sono tutti quelli che prendono cura de' bambini, ma d'aspetto tutt'altro che avvenente, di modi rigida, rigorosa, punto espansiva, austera nel suo vestire che era sempre nero o color tabacco. Una mattina, giocando con un calendario che stava sul camino, la piccola Gemma vide che quel giorno era San Gaudenzio. L'onomastico della sua governante, che si chiamava Gaudenzina. Cosa fare? Non lo aveva saputo prima, ed omai il babbo era andato allo studio, e non c'era speranza che rientrasse fin all'ora del pranzo. Tuttavia la bimba era compresa del suo dovere, e si sarebbe fatto uno scrupolo di non fare un complimento alla governante. Nel suo imbarazzo pensò di andare in cucina a consultare la cuoca. - Se tu volessi andar a prender de' fiori, Margherita... insinuò la Gemma colla voce supplichevole. - Sie! De' fiori ai ventidue di gennaio; dove li prendo? - Allora, aiutami a pensare cosa debbo fare per la signorina; (la signorina era l'appellativo con cui si soleva nominare la severa governante, che non era mai discesa alla famigliarità di lasciarsi chiamare col suo nome). Fu un'ardua questione. La cuoca cominciò col proporre alla bimba di fare un sonetto. La Gemma non sapeva cosa fosse un sonetto. - Un sonetto, come quello lungo lungo, che ha recitato lo scorso Natale al babbo, spiegò la cuoca. - Quella era una poesia. - Ebbene, una poesia è un sonetto. Ne faccia uno e lo reciti questa sera alla signorina. - Ma io non so farlo. - Se scrive sempre! - Sì, ma non so come si fa a far le poesie. So soltanto copiare. - Ne copii una da un libro. Ne ha tanti! Era un'idea. La bimba la trovò subblime, e la proposta fu approvata alla piccola unanimità da quell'ingenua assemblea. La Gemma si mise a sfogliare con gran sussiego il suo libro di lettura, ed a leggerne tutte le poesie. Non ne capiva gran cosa. Ce n'erano di quelle che parlavano della patria: comprese vagamente che non facevano al caso suo. Poi c'erano delle favole: La cicala e la formica; La rana ed il bue; Il cane e la fonte. - Ti pare che una di queste possa andare? domandò alla cuoca. La cuoca trovò che quelle storie di bestie erano fatte per raccontarsi dalle governanti ai bambini, e non dai bambini alle governanti. - E proprio per la signorina non dice niente, soggiunse. Gemma proseguì a cercare. Finalmente trovò una poesia che le parve messa là per lei. Non la comprendeva bene, poverina: non aveva che sette anni, e non comprendeva molto chiaramente neppure la prosa; figurarsi poi i versi! Ma quelli erano dedicati ad una signora, e le pareva ben chiaro che le facessero dei complimenti. Gemma si pose a copiarla colla sua più bella calligrafia. Ci sciupò un quinterno di carta, con cui la cuoca fece un rogo per nascondere la cosa anche al padrone. Giacchè la grande impresa era riescita senza il suo concorso, bisognava serbare la sorpresa anche a lui. La sera giunsero parecchi conoscenti che andavano a fare la partita alle carte col babbo di Gemma e la governante, e quando quella fu seduta fra loro, cogli occhiali d'argento e tutta vestita color tabacco per la solennità della circostanza, Gemma si fece innanzi tutta trionfante colla sua poesia in mano, mentre la cuoca dalla porta faceva capolino, per godere anch’essa di quel trionfo dovuto in gran parte alla sua pensata. Una salva di elogi accolse la bimba. - Come! Gemmolina era riescita da se sola a combinare quella gentilezza? Era una meraviglia. E dove l'aveva copiata? Nel libro di lettura? Ma che idea luminosa! - Via, leggila tu stessa la tua poesia, disse la signorina. Sarà più accetta a me, e la sentiranno tutti. Incoraggiata così, Gemma aperse la carta, fece un bell'inchino, e cominciò a leggere:

Bella, sul fior degli anni, Cinta d'allegri panni, Sopra un sentier di rose, Tu vai movendo il piè: Tutte le belle cose Hanno una vita, un palpito Un'armonia per te.

La signorina color tabacco aveva varcata la cinquantina, e non era per nulla superiore a questa disgrazia. Lascio pensare come accogliesse il complimento della bimba, ed in che imbarazzo mettesse il babbo di lei, col suo risentimento. La povera Gemmolina non capiva nulla di quel cambiamento di contegno a suo riguardo. Lei non aveva mai pensato se la signorina fosse bella o brutta, giovane o vecchia. Un’idea simile viene di rado ai bambini circa i loro superiori. Io avevo una mamma bellissima, e non lo seppi che tardi, dopo la sua morte, sentendolo dire, ripensandoci, ed osservando i suoi ritratti. Si dice: «La mamma è bella» si reagisce contro quelli che fanno il cattivo scherzo di dire: «La tua mamma è brutta.» Ma non si pensa mai a renderci ragione d'una cosa nè dell'altra. Mi ricordo di un servitore che s'aveva in casa, il quale era d'una bruttezza proverbiale. Si diceva: Brutto come Tommaso, per dire l'ultima espressione del brutto. Ma era tanto buono e carezzevole coi bimbi! Io lo adorava; lo colmavo di carezze e di baci; e quando udivo dire che Tommaso era brutto mi mettevo a piangere, e protestavo che era bello, con una convinzione, ed una fede che avrebbe smosso i monti. Mi ricordo pure di una maestra che ebbi più tardi, la quale, poveretta, era gobba, ed aveva il naso schiacciato. Mi pareva un prodigio di bellezza: era la mia ammirazione. Mi sforzavo di tenere alta una spalla, e mi schiacciavo il naso contro i cristalli delle finestre, nella speranza di rassomigliarle. La Gemmolina era nella stessa ignoranza su quell'argomento; a lei per complimento tutti dicevano che era bella, e le era sembrato giusto di dirlo anche lei alla persona a cui voleva fare un complimento. E, ad un tratto, il babbo aveva interrotta la sua lettura; la signora s'era ritirata nella sua camera in collera: un silenzio glaciale era succeduto a tutte le gentilezze che l'avevano accolta un momento prima, ed il babbo aveva finito col mandarla a coricarsi col cuoricino serrato. - Ma perchè? domandava alla cuoca. - Perchè il sonetto diceva che la signorina è bella. E la signorina è rimasta male perchè è brutta. - È brutta? ne sei sicura, Margherita? Fu un triste episodio per la povera Gemmolina. Ora è una piccola mammina di vent'anni; e leggendo questi ricordi della sua infanzia, si ricorderà d'insegnare alla sua creaturina, quando sarà in grado di capir qualche cosa, a non recitar mai complimenti, quando non comprenda bene cosa voglion dire. Anche tra fratellini e sorelline si debbono scambiare saluti, auguri nelle circostanze speciali, e dimostrazioni d'affetto.

Loro poi, miei piccoli lettori, dovranno cercare d'essere i primi a far atto di cortesia verso le loro sorelline. Un uomo, anche in erba, deve essere sempre gentile e deferente verso una signora, anche se è una sorella, e se porta la gonnellina corta. Ed alle amiche delle loro sorelline debbono volgere il saluto loro pei primi; debbono cedere i posti migliori, e, quando cominceranno a farsi grandicelli, a dieci, dodici anni, non le tratteranno più col tu, come si usa tra bimbi. Andando fuori di casa in compagnia, senza darsi l'aria buffa di piccoli galanti, nè offrirsi di portare gli scialletti, i panieri, gli ombrellini delle ragazze, cercheranno di compiacerle se loro li pregano con discrezione di portarli. E, se volessero caricarli in modo, da render loro faticosa la strada ed impossibile di divertirsi e correre, dovrebbero scusarsi con buon garbo, offrendosi però di consegnare quegli oggetti al servitore o alla bambinaia.

E, poichè ho accennato alle persone di servizio, debbono ricordarsi, miei piccoli lettori, - le piccole lettrici sono comprese, - che i primi giudici della educazione dei padroni sono i servitori. Li stiano a sentire quando discorrono in anticamera colla cameriera dei loro piccoli amici: - E così come va, Teresita? Si trova bene in questa casa? - Così, così, veda (cameriera e servitori si danno, sempre del lei). Per la signora, è come servire la Madonna, il signore, lui, non dice mai nulla. Ma i bambini, che tempesta! - Non sono buoni? - Punto. E che mala grazia! «Teresita questo; Teresita quello; Va; vieni; fa.» Comandano come sultani; e mai una buona parola.… - Ah! da noi poi è differente. Tutto quel che domandano è per favore, e per ogni servizio: «Grazie, Giannotto.» - Codesti sono bambini per bene! Gli altri no; hanno capito, miei piccoli lettori? Dappertutto c'è da imparare. Ma badino; si parla ancora. Vogliamo sentir altro? Chissà che ci sia ancora qualche cosuccia di buono. È Teresita che riprende: - I padroncini di Caterina sono buoni. - Oh! quelli poi sono troppo buoni. Li ha visti mai, Teresita, a passeggio? Si figuri che vanno a braccetto di Caterina come fosse la loro mamma. - Ah! È per codesto poi che Caterina non li rispetta, e gli dà del tu. - Ma che le pare, rispettarli? Sono sempre in cucina, frugano nei piatti, le fanno dei dispettacci, e se ci arrivano, siedono alla tavola della servitù. - Allora si capisce che Caterina li tratti da pari a pari. È l'opposto de' miei che sono d'un'arroganza.… Io ho il mal vezzo di risponder brusca qualche volta, ed allora, sentirli come saltano! «E che i padroni sono loro, e che io sono una serva, e che mi si paga perchè debba obbedire....» - Oh! qui da noi di queste parole non se ne sentono. Anch'io, veda, ho un po' il vizio di risponder male. Ed allora bisogna sentire con che pace e con che serietà mi dicono: «Siate un po' più cortese, Giannotto. La mamma ne avrebbe dispiacere se sapesse che ci fate uno sgarbo.» La gli vada a voler male a bambini educati a quella maniera! La lezione è completa, signorini miei. Cerchino di imitare i padroncini di Giannotto: evitino gli errori di quelli di Caterina e di Teresita, e si comporteranno benissimo colla servitù di casa.

In tutte le case dove c'è o c'è stato un bimbo, si vede una sediola d'un'altezza straordinaria, stretta stretta, con due bracciolini, e qualche volta anche una sbarra a saliscendi saliscendi dinanzi per assicurare dalle cadute la personcina minuscola che ci si deve sedere. Quella sediolina è il trono del bimbo. Finchè si mette a tavola inalberato su quel piccolo trono, il bimbo regna sul mondo; ma, appena ne discende, appena adotta una sedia comune, fosse pure per starvi in ginocchio, perchè seduto non arriverebbe col nasino sopra la tavola, allora è il mondo che regna su lui. Allora non è più permesso pigliare il cucchiaino in mano dalla parte che si mette in bocca; nè cacciar le manine sul piatto; nè accarezzare in viso i convitati, nè buttare le posate ed il pane per terra; nè canticchiare o parlare tra sè: nè esprimere ad alta voce la propria opinione sopra un argomento qualunque, mentre i commensali parlano di tutt'altra cosa. È assolutamente proibito di far qualsiasi commento sulla figura o sul vestire o sul contegno delle persone; un errore in cui i bambini cadono ispessissimo. Una volta c'era in casa di mia sorella, a pranzo, una buona e rispettabilissima signora la quale era affetta da un grosso neo sulla punta del naso. Una mia nipotina, che non aveva ancora due anni e parlava appena, impressionata da quella sporgenza insolita, allungò il ditino traverso la tavola, ed accennando quel naso disgraziato, disse: - Cignoa ha bibì. La supponeva una malattia, ed aveva la buona intenzione di compiangerla. Ma che mortificazione avrebbe risparmiata a noi tutti, se non avesse manifestato così apertamente la sua opinione! Un'altra manìa dei bambini è di sindacare il riparto che fa la mamma nel piatto pei loro fratellini, e di annunciare tutti i piatti appena entrano in sala da pranzo, come fossero personaggi importanti. - La minestra! Mamma, mi permetti ch'io non mangi minestra? - Oh! Gigi non mangia minestra? Neppur io. - Neppur io allora! E la mamma deve interrompere ogni discorso, trascurare gli ospiti e le persone della famiglia, per metter fine a quel battibecco. Al dessert poi: - La crema! Mamma, a me darai i geroglifici di cioccolata? - Anche a me. - No, l'ho detto prima io. Nel loro profondo egoismo, sono persuasi che il pranzo è fatto unicamente per loro. La questione è soltanto di sapere chi reclamerà primo i bocconi migliori. A tutti gli altri commensali debbono bastare gli avanzi. E questo spettacolo disgustoso di egoismo e di avidità, che merita così poco gli onori del bis, è ripetuto quasi ad ogni servizio. Ma i miei piccoli lettori, se pure, eccitati dall'olezzo inebbrianti di qualche piatto favorito, sono caduti in tali sconvenienze, arrossiscono ora nel rileggere qui a sangue freddo le loro parole. Vorrebbero, senza dubbio, alla prossima occasione comportarsi in modo che i loro parenti non abbiano a rimanerne male. Ebbene, si persuadano che la loro parte non è nè difficile, nè sacrificata. La mamma non si mette a mangiare di nulla, se non ha servito prima i suoi figliuoli, questo lo sanno. Ma debbono pur sapere e tenere per certo, che quello che lei mette loro davanti è calcolato da lei nella giusta proporzione delle loro facoltà digestive. Debbono persuadersi che per le loro liti, per le loro piccole opinioni personali sul servizio, non mette conto d'interrompere un discorso, e neppure di occupare un minuto l'attenzione della compagnia. Quando non sono in famiglia non prenderanno mai la iniziativa per dare il buon appetito. Basterà che lo diano piano ai loro genitori. Se sono interrogati parlino, senza alzar la voce tanto da sbalordire, e senza abbassarla in modo assurdo. Non si restringano ai monosillabi sì e no. Se una persona li interroga, vuol dire che quel discorso è adatto alla loro intelligenza e capacità, e vi possono prender parte liberamente. Non reclamino mai nulla: non prendano il bicchiere colle mani tanto unte da toglierne la trasparenza; si ritirino quando la mamma lo dice, senza aver domandato di farlo prima, senza esitazioni, nè malumori, nè lagnanze. Evitino di fare qualsiasi rumore colla bocca nel mangiare; non mettano il tovagliolo in istato di fare schifo a vederglielo disteso dinanzi. Tengano la forchetta dalla mano sinistra, il coltello dalla destra; prendano il pane ogni volta che devono metterlo in bocca staccandone soltanto il pezzettino necessario; non posino mai le posate sporche sulla tovaglia; se si cambiano ad ogni servizio le lascino sul piatto; se sono in case di grandissima confidenza dove non si cambiano, le posino sul reggi posate. Si rassegnino a lasciar le salse nel piatto, malgrado le tentazioni della gola, che vorrebbe asciuttarlo col pane come se l'avesse leccato il gatto. A questo modo pranzeranno bene, figureranno bene e non faranno indigestioni vergognose. Non c'è cosa più umiliante che il dover scontare ogni pranzo con un citrato di magnesia, come fanno, purtroppo, parecchi signorini di mia conoscenza, i quali nutrono una tale tenerezza pel loro piccolo stomaco, da non sapergli rifiutar nulla, anche quando i suoi desideri sono smodati. Altre volte un ragazzo, levandosi da tavola si metteva a farne il giro domandando a ciascun commensale se avesse pranzato bene. Era imbarazzante pei ragazzi il rivolgere pei primi la parola a persone che conoscevano poco, o non conoscevano affatto. Altrettanto seccante riusciva ad ogni persona interpellata, che si trovava nella necessità d'inventare un complimento nuovo ad ogni bambino che veniva, e differente da tutti quelli detti dagli altri commensali. Supposto sei ragazzi che facessero a dodici convitati la stessa domanda invariabile: «ha pranzato bene?» le dodici immaginazioni dei convitati dovevano fornire la bellezza di 72 (dico settantadue) risposte variate sull'unico tema: - Sì, ho pranzato, benissimo. - Perchè, naturalmente, una persona educata non può pranzare in casa d'altri senza il superlativo assoluto. Se poi gli invitati non erano gente molto immaginosa, si correva il rischio di udire

72 Ha pranzato bene? + 72 Benissimo, grazie; e tu? + 72 Anch'io, grazie.

In tutto = 216 frasi, da mandar a monte la digestione d'uno struzzo o d'un elefante. E però, visti e considerati tutti gli inconvenienti sovraesposti, quel viaggio d'esplorazione intorno alla tavola in cerca dell'esatta misura d'appetito d'ogni convitato, fu abolito alla grande unanimità.

Alle volte accade che un ragazzo si trovi in salotto quando le persone di servizio introducono una visita, e la lasciano per andar ad avvertire la signora che deve riceverla. In tal caso è ben difficile che il visitatore, o la visitatrice, lasci al bambino l'imbarazzo di prendere la parola. Gli parla, ed il bambino non ha che rispondere. Dato però che il visitatore non facesse quel primo passo, tocca al piccolo padrone di casa a farlo, sacrificando la sua timidezza al dovere d'ospitalità. Egli si avanzerà, ad ogni modo, verso il nuovo venuto, e se questi non dice nulla, gli darà il buon giorno, e lo pregherà d'accomodarsi. Da parte d'un bambino è sempre meglio che si limiti a dare il buon giorno o la buona sera; perchè questo obbliga soltanto ad una risposta analoga. Vi sono persone che non amano discorrere coi bambini; questo non fa il loro elogio, ma vi sono. Risponderanno: buon giorno; grazie: e sarà finita. Mentre invece, se il bimbo domanda «Come sta?» si richiede la risposta circa la propria salute, ed il ricambio della domanda, a cui il bimbo deve poi rispondere alla sua volta. Senza contare che al bambino, il quale non è in grado di comprendere nè di compatire la sofferenza di chicchessia, è affatto assurdo di esporre il nostro stato di salute. All'entrare della persona che deve ricevere la visita, il bambino si ritirerà, limitandosi a domandarne il permesso. In tutte le case però si ricevono visite, relativamente di confidenza, alle quali i bambini possono assistere per qualche tempo. Allora, come in tutte le circostanze, non debbono parlare colle persone adulte se non sono interrogati. Quando però una prima interrogazione li ha invitati a discorrere, non debbono obbligare il visitatore o la mamma a farli continuare il discorso a forza di domande, come se recitassero il catechismo. Dovranno prender parte alla conversazione, senza parlar troppo nè forte, ma senza soggezione ridicola, nè interruzioni nè silenzi assurdi, finchè il discorso sia esaurito. E non entreranno in un secondo argomento se non vi sono di nuovo invitati da una domanda diretta. Se i visitatori hanno con sè dei bambini, i piccoli padroni di casa si metteranno accanto a loro dopo aver salutato i loro parenti, ed avvieranno il loro discorso in modo da poterli invitare a giuocare; ma con naturalezza, e senza che appaia o un'abitudine imparata, o un effetto della noia, che provano a stare colle persone che sono nella sala. Vi sono bimbi che, chiamati in sala per una visita, vi accorrono tutti ansimanti, investono i visitatori ad uno ad uno con un: «Come sta?» a bruciapelo che par che dicano: «O la borsa o la vita!» e prima che l'ultimo interpellato abbia pagata la sua imposta a quella curiosità simulata, si voltano ai bambini e dicono colla stessa precipitazione: - Andiamo a giocare. Bisogna invitare il piccolo visitatore a giocare, ma senza fretta, e senza scortesia verso la gente che è in sala. E quando il bimbo ha detto di sì, il padroncino di casa deve rivolgersi a chi accompagna il suo giovine amico e domandare se permette che il ragazzo vada con lui a giocare. Una volta poi ottenuto lo scopo, bisognerà lasciare la scelta dei giochi agli ospiti; e qualunque sia quello che scelgono, cedere a loro la parte più piacevole. È superfluo il dire che un bambino educato non deve mai nè domandare un giocatolo nè accettare un dono qualsiasi da un altro bambino, e neppure rispondere: «Se la mia mamma e la tua lo permettono accetterò» come fanno taluni, per avere la coscienza d'aver agito bene, senza tuttavia rinunciare affatto alla speranza del dono. Bisognerà rispondere: - Ti ringrazio; ma sai pure che i bambini non possono nè fare nè ricevere doni. - E se la mia mamma lo permette? potrebbe risponder l'altro. - La tua mamma lo permetterebbe sicuro per non fare una scortesia alla mia mamma ed a me; ma non bisogna metterla in questa necessità. E per nessuna insistenza non deve cedere e prestarsi a quella parte ridicola di giungere in sala ad esporre le sconvenienti domande: - Mamma, sei contenta ch'io offra questo? - Mamma, mi permetti di accettar quello?

Se un bambino va colla famiglia a far una visita, osserverà le regole che ho già accennate riguardo al saluto, ed alla conversazione. Se nella casa dove va non vi sono bambini, e gli tocca di assistere a tutta una serie di discorsi che non comprende e non lo interessano, dovrà rimanere composto e non dare il menomo segno di noia. Convengo che questo è difficile. Mi ricordo ancora certe discussioni interminabili a cui dovevo assistere nella mia infanzia, tra la mia povera mamma ed una vecchia baronessa inferma, che non aveva nessun bambino in casa, e teneva in sala tre enormi cani barboni. Si parlava sempre di quitanze, ipoteche, usufrutto, capitale ed interesse. Avevo imparate a memoria quelle parole, e qualche volta mi sorprendevo a canticchiarle mentre giocavo colla bambola, ma mi erano oscure come i geroglifici delle piramidi. Un giorno dopo aver assistito un'ora a quei discorsi inesplicabili, ed essermi fatto dire parecchie volte, di non far ballar una gamba, di non strappar la frangia del mio paltoncino, di non strofinare i nastri del cappello, di non agitarmi sulla sedia, di non fare assolutamente nessuna cosa, ridotta all'immobilità d'una piccola statua mal posata e punto artistica, sentii che la mia pazienza era completamente esaurita; e tentai di porre fine a quel supplizio, ricorrendo all'atto più incivile che possa fare una ragazzina per bene; dissi coll'accento strisciante della noia: - Mamma, andiamo? Vedo ancora, dopo tanto, tanto tempo, la vampa di rossore che salì al volto della mia cara e bella mammina. Ella si rizzò senza parlare. Era tanto educata, e sapeva che un rimprovero, fatto a me in presenza alla vecchia signora, avrebbe fatto capire meglio l'idea inurbana, che avevo implicitamente espressa: «Mi annoio mortalmente in sua compagnia.» Ma la baronessa non aveva bisogno che le si mettessero i punti sugli i. Si alzò a stento, prese le mani della mia mamma nelle sue, e disse: - Sì; va, povera Nina. Anche tu devi annoiarti, così giovane e bella, a passare tanto tempo con una vecchia; sono egoista quando ti prego di venire. Perdonami, cara la mia figliola; sono inferma e sola. Ma non ho più molto da vivere; avrò presto finito di annoiarti. Ed il suo povero volto, tanto rugoso, si raggrinzava, e le tremavano le labbra e la voce. Piangeva! La mia mamma non rispose, aveva gli occhi gonfi. La baciò, le strinse la mano, ed uscì tutta rossa e mortificata, come se quella villania l'avesse fatta lei. Non mi disse nulla. Non una parola di rimprovero. Capì che ero già castigata. Oh se lo ero! Pochi giorni dopo si disponeva ad uscire, senza avermi detto nulla. - Non mi vuoi con te, mamma? le domandai. - No, vado dalla baronessa. Chinai il capo avvilita. Era la mia punizione. Venivo espulsa dalla casa di quella venerabile amica di mia madre. La baronessa morì pochi mesi dopo, senza che l'avessi più riveduta. Ma passarono gli anni, mi feci donna, e non ho mai dimenticata quella scena dolorosa. Ed anche ora, quando ci penso, sento al cuore la stretta di un rimorso. Non si affligge impunemente una vecchia buona! D'allora non mi accadde mai piú di dimostrare la noia che provavo in compagnia. Tuttavia, debbo confessare che la risentivo ancora e spesso. Ma per evitare alla mia buona mamma un dispiacere, come quello che le avevo dato una volta, cercavo di non farmi scorgere. Quando mi trovavo con parecchi altri ragazzi, si aveva l'abitudine di raccontar fole. Si ripetevano quelle udite altrove, o se ne inventava, se ci pareva di poterci mettere un po' di costrutto. Per lo più era un'illusione dell'amor proprio; ma infine.... Mi venne l'idea di scacciar la noia de' lunghi silenzi miei, e dei lunghi discorsi degli altri che non comprendevo durante le visite, preparandomi in mente le fole che dovevo dire. La prima volta che mi provai, fui stupita quando la mamma si alzò per uscire. Mi pareva d'esser rimasta pochissimo in quella casa, e la fola era tutt'altro che finita. Consiglio questo rimedio contro la noia, ai miei piccoli lettori. Oltre il vantaggio di non offendere nessuno, s'impara a fantasticare ed a far castelli in aria, e questa è una ginnastica che sviluppa l'immaginazione, ed avvezza alla solitudine, ed al silenzio. Mi ricordo d'aver fatti da bambina dei castelli in aria, che, interrotti e ripresi, hanno durato parecchi giorni; e ne serbo ancora memoria come di cari avvenimenti. Li creavo a modo mio. Il mio spirito non poteva esserne contrariato, e vi si manteneva sereno. E la serenità di spirito dà la pace al cuore e rende buoni. Ed il mio volto esprimeva la soddisfazione interna; e quelle persone, se fossi stata ad ascoltarle, coi loro discorsi m'avrebbero dato noia, credevano d'aver parte alla mia soddisfazione, e ne erano contente, ed io più di loro. Sovente da tutte quelle contentezze risultava l'offerta di qualche chicca, la quale certo non poteva che aumentarle. Quando vien fatto ad un ragazzo un invito perchè rimanga a pranzo, o a cena, o a passare qualche giorno in campagna presso una famiglia che non è la sua, non deve mai scusarsi con quei complimenti comuni e convenzionali: - Non vorrei dar disturbo; - Grazie! non posso accettare; - Sarebbe indiscrezione se accettassi, ecc. Il bambino non è padrone di sè. Non può disporre da sè, se accetterà o no l'invito; e però, è inutile che si dia l'aria di rifiutarlo. Dovrà limitarsi a mostrarsi molto lusingato dell'invito, rimettendosi al genitori, o a chi per loro, perchè decidano in proposito. Sia che accetti o rifiuti, non deve mai, nè colle persone che lo hanno invitato, nè coi ragazzi della famiglia ripetere le discussioni avvenute in casa, circa l'invito; nè le osservazioni, nè i commenti uditi. Può darsi che la mamma dica:

  • No. In quella casa non si avvezzano abbastanza bene i ragazzi. Non voglio che i miei si vizino al cattivo esempio.

Questo lo dirà nell'intimità, col proprio marito, e, di comune accordo, troveranno una scusa plausibile per non accettare l'invito senza offendere le persone, cortesi ed ospitali, che l'hanno fatto. Ma guai se un ragazzo indiscreto avesse il cattivo pensiero di ripetere a' suoi piccoli anici quell'osservazione! Basterebbe a far nascere un diavolìo, a mettere la discordia fra due famiglie, a screditare sè stesso e l'educazione che ha ricevuta. Quand'anche dal ripetere una parola udita, non dovessero risultare altri danni che quello di fare un po' ridicolo il piccolo relatore, sarebbe sempre abbastanza per consigliarle a non ripetere mai, se non i discorsi sui quali ha potuto acquistare la certezza che le stesse persone, da cui li udì, non esiterebbero a farli dove lui li ripete. Anche a questo proposito l'infanzia della piccola Gemma mi offre un esempio. Usciva coll'istitutrice per andar in una famiglia dove spessissimo la trattenevano a pranzo. - Se invitano Gemma a pranzo, posso lasciarla? domandò l'istitutrice prima di uscire, al babbo della bambina. Il babbo che s'annoiava di non averla a tavola, rispose: - Se le fanno molte istanze, la lasci, altrimenti veda di ricondurla. Infatti la signora che andavano a visitare, disse alla bimba: - Mi fai il regalo di rimanere a pranzo, Gemmolina? - Il babbo ha detto che se mi fanno molte istanze posso restare, ripetè quella pettegolina, senza saper neppure cosa volesse dire fare delle istanze. Le istanze reclamate a quel modo le furono fatte; sfido io! Ma l'istitutrice rimase male, ed il babbo pure quando lo seppe, al vedere rivelato così, che in famiglia s'era quasi contato su quell'invito, e si erano prese anticipatamente delle disposizioni in proposito. Sono cose che tutti fanno, ma non si dicono mai.

Rimanendo ospite in casa d'altri, un bambino educato dovrà mettersi in ischiera coi bambini della famiglia, obbedire come loro, alzarsi, coricarsi, mangiare, studiare, giocare, passeggiare, alle ore fissate pe' suoi piccoli compagni. Soltanto, se quelli si permettono qualche indisciplinatezza o qualche capriccio, allora si guarderà bene dall'imitarli. Andando in giardino, si ricorderà sempre che i frutti ed i fiori non sono proprietà della sua famiglia, e però non gli è permesso toccarli. Trovando qualche mammola, qualche ciclamino, o fragole selvatiche, o altre cose che, siccome vengono naturalmente dalla terra, non si considerano proprietà esclusiva di nessuno, le potrà cogliere ed offrire alla mamma, alla sorella, alla zia, all'istitutrice de' suoi ospiti. Ma deve ricordarsi pure che le persone educate e gentili, accolgono con aria soddisfatta e ringraziamenti anche una cosa di cui non sanno che farne, per puro riguardo a chi l'offre loro. Per cui si guarderà bene dall'insistere sulla stessa offerta, com'è pur troppo una noiosa abitudine dei bambini, che, se vedono una signora gradire un fiore, seguitano a portargliene piene le mani, pieno il grembiulino, obbligandola a caricarsi d'un fascio di fieno. A tavola poi dovranno osservare le stesse regole che ho indicate pel pranzo in casa propria; ed anche con maggior scrupolo, perchè una sconvenienza commessa in casa d'altri, acquista maggior gravità. Fuori dalla loro famiglia, se appena non sono più piccolissimi, non saranno serviti nel piatto dalla mamma nè da altri. Passerà il piatto di mezzo davanti a loro come davanti agli altri commensali, e dovranno servirsi da sè. Prendano un po' di tutto, accettando il pezzo che vien più comodo, e non istiano a fare una scelta accurata da piccoli ghiotti, facendo aspettare il vicino. E si servano sempre con misura, in modo da non lasciare avanzi sul piatto. Dimentichino addirittura le parole: "Non mi piace" come se non esistessero, perchè, con quelle, sembra che vogliano fare un rimprovero ai padroni di casa d'aver fatto servire una cosa che non ha la fortuna d'incontrare il loro gusto. Se vi sono bambini di casa, i piccoli invitati si ritireranno da tavola quando si ritirano loro, altrimenti aspetteranno di riceverne un ordine diretto. Uscendo da una casa dove sono stati a pranzo, i bambini, come tutti gli invitati, sono tenuti ad un ringraziamento ai padroni di casa. Ma sono caldamente pregati di non cercare di fornir complimenti imitati da qualche signore o signora, per far il ragazzo di spirito ed attirar l'attenzione. Riescirebbero soltanto ad apparir pedanti, pretenziosi e ridicoli. Si limitano a dire: Tante grazie e buona sera, o qualche cosa di simile; ma molto simile, perchè i bambini, nuovi al mondo, non si rendono ben conto del valore delle parole, non sanno quello che va detto, e quello che non va, e facilmente sbagliano. Conosco un ragazzino di sette anni e mezzo che, uscendo da una casa dove era stato a pranzo, disse al padrone di casa, coll'aria di un giudice supremo che decreta un'assolutoria: - Votre dîner a été bon. Je vous remercie. - Aveva l’ abitudine di parlar francese anche in compagnia. Tutti ridemmo di quello strano complimento, e lui si credette il bambino più spiritoso dei due mondi, mentre l'ilarità generale era nata dalla grottesca figura che faceva erigendosi lui, così piccino, a giudice culinario; e dichiarando implicitamente, che non avrebbe ringraziato se il pranzo non gli fosse sembrato buono.

Alla scuola, in collegio, gli stessi doveri che si praticano in casa verso i genitori si debbono praticare verso i maestri; agli stessi obblighi di civiltà a cui si è tenuti in società verso i conoscenti, si è tenuti verso i compagni. Nulla è più scortese che quel saluto gettato là dall'uscio della classe, con una cadenza da lezione obbligatoria, che è purtroppo il saluto generale degli scolari ai maestri: - Stia bene, signora maestra! E si va in fretta a far quel saluto, e si grida tutte in coro, qualche volta tra piccoli scoppii di risa soffocate, e poi, via correndo, come se si dicesse - Là! anche questa è fatta.

"J'étais enfant; j'étais petit; j'étais cruel;" Tout homme sur la terre, où l'âme erre asservie, Peut commencer ainsi le récit de sa vie.

Così dice quel grande de' grandi che è Victor Hugo. E dice il vero. Se sapessero i ragazzi quanto sono crudeli verso quel maestro dal quale fuggono così, senza una parola affettuosa! Egli vive per loro. Oh! se si voltassero indietro a vedere com'è triste, quell'essere solo in una scuola deserta! Il saluto al maestro deve essere fatto con calma, accostandosi alla cattedra. Non si deve però sporgere la mano, nè domandare un bacio. Una scuola si compone di trenta o quaranta scolari, spesso di più; sarebbe indiscrezione e da stupido imporre ad una persona quaranta strette di mano o quaranta baci. Nulla è più villano che il mettere in caricatura i propri maestri, anche quando non se ne possono avvedere. Io aveva questa pessima abitudine. Quando mi riusciva d'impadronirmi della cuffia e della tabacchiera d'una vecchia maestra di disciplina, e d'imitarne il portamento ed i modi, le mie compagne si divertivano straordinariamente. E che applausi! Che ammirazioni! Io credeva di fare qualche cosa di molto spiritoso, ed una volta non seppi resistere al desiderio di mettere a parte la mia famiglia di quel mio talento peregrino, e dei miei trionfi. - Ebbene, di che cosa ridete? domandò la mamma. - Ma della signora maestra. - E che cosa ha di ridicolo la maestra? - È vecchia. - E poi? - E poi.... non altro. - E allora cosa c'è da ridere? Infatti cosa c'era da ridere? Ero stata cattiva, incivile, e stupida per giunta.

Un ragazzo che entra per la prima volta in una scuola, o in un collegio, è dolente per la famiglia lasciata; è timido in quell'ambiente nuovo, ed ha bisogno d'essere consolato, incoraggiato. Invece per lo più, appena esce alla ricreazione, si vede venir incontro due o tre monelli (o monelline), i più impertinenti impertinenti nella scuola, che gli fanno subire un interrogatorio goffo, indiscreto, brutale. - Come ti chiami? I tuoi parenti sono ricchi? Cosa fa il tuo babbo? L'abito di uniforme lo hai già fatto? È fine? Il mio è dei più belli del collegio. E questo era il tuo abito da passeggio? Di seta ne avevi? E di velluto? E via di questo passo un piccolo inventario della guardaroba sua e della sua mamma, poi delle abitudini di famiglia; se si va in campagna, e se la campagna è bella, ed un mondo di calcoli insulsi e volgari, a cui i bambini non dovrebbero nemmanco pensare. E, quel che è peggio, l'accoglienza che gli si fa è misurata sul grado dell'agiatezza della famiglia, che si desume dalle risposte del ragazzo. Per poco che un ragazzo sia perspicace, sente l'intenzione dei piccoli inquisitori, e, se il suo animo non è più che leale e candido, s'induce a mentire per evitare delle umiliazioni. Ho conosciuta una bambina, figlia di un mercante di mobili, che si fece passare, durante i tre anni di collegio, per figlia di un possidente. Otto anni dopo la rividi; eravamo due giovinette. Sua madre pregò il mio babbo di lasciarmi andare a passar alcuni giorni a Vercelli con sua figlia. La poveretta si fece di brace e non appoggiò l'invito. Mio padre non accettò. Pochi giorni dopo mi scrisse confessandomi d'aver mentito la sua. Dopo otto anni duravano ancora le funeste conseguenze di una volgare abitudine da collegiali.

Io li amo i bambini. Li adoro. se badassi ai suggerimenti dei miei pensieri o del cuore, tirerei via ancora per chi sa quante pagine ad occuparmi di loro. li guiderei in chiesa, ai divertimenti, nelle ricreazioni, ai piccoli balli, alle cerimonie solenni... Tutto codesto è impossibile. Sento dire che il mio lavoro non è destinato specialmente ai bambini. Tutt'alpiù, è permesso loro di occupare le poche pagine che ho scritte fin, qui nel libro scritto per le loro sorelle, le loro mamme, ed anche un poco pei loro babbi. Che farei, miei piccoli amici? Per ora dobbiamo lasciarci. Ma lo faccio con rincrescimento. È vero, le loro mamme li guideranno assai meglio di me. Ma ciò non toglie che avrei voluto farlo un po' più lungamente anch'io. Non ne ho forse il diritto, io la bisnonna centenaria di parecchie generazioni? Forse un giorno riprenderò questo lavoro, lo amplierò, lo completerò, e ne farò un volume a parte, dedicato unicamente all'infanzia, ai volti rosei, alle testine bionde, che Dio le benedica! Intanto, quando, parlando alle mamme, avrò ancora, per inciso a parlar di loro, saranno le ore meno faticose, le più care di questo lavoro, arduo per me, e forse seccante per chi lo legge. Purchè non riesca inutile affatto, sarà già qualche cosa. PARTE SECONDA LUCE ED OMBRE CAPITOLO PRIMO. La signorina.

In casa * Visite * In compagnia * In viaggio * In villa ed ai bagni * Corrispondenza.

Quando penso che questo capitolo, tutto freschezza, tutto azzurro, tutto luce, debbo cominciarlo brontolando, m'indispettisco contro me stessa. Sono dunque tanto decrepita, da non saper più sorridere ai vent'anni sereni e biondi? Ebbene no. Non voglio brontolare. C'è sempre modo di dire con garbo anche le cose più dispiacevoli. È una scoperta che hanno fatto i farmacisti quando hanno inventato di inargentare le pillole. Io non posso inargentare la mia vecchia persona. Ma mi riparerò all'ombra d'un poeta moderno e simpatico. Traverso l'azzurro della sua leggenda, apparirà meno uggiosa la tinta grigia de'miei consigli. - Sono state al teatro a sentire la Partita a scacchi, signorine? - Il babbo dice che le signorine non debbono andare alla commedia. - È vero. Allora l'avranno letta? Neppure? Ebbene, in quella Partita a scacchi c'è una fanciulla giovane come loro, bella come loro, bionda come le visioni dei poeti, placida come l'innocenza, serena come un lembo di cielo. Si chiama Jolanda. È una figlia unica, ricca come una miniera, nobile come una regina. Ed elegante poi! N'hanno voglia loro, mie giovani lettrici, di studiare abbigliature e di mutarle? Jolanda non avrebbe che a comparire, per ecclissarle tutte. Portava in casa un abito lungo a strascico, di raso azzurro, guarnito d'ermellino, rialzato da un lato sopra una gonna di velluto; ed aveva le treccie cadenti; due lunghe treccie bionde, morbide, lucenti.... Oh le belle treccie di Jolanda! Non c'era partito così splendido, che fosse superiore a quella ricchezza di treccie. E Jolanda viveva solitaria col suo babbo in un vecchio castello, dove i giorni erano tutti uguali, dove non c'era mai ricevimento, punto feste, punto teatri, e se capitava una visita, era un avvenimento. Loro pensano di certo: - Come si sarà annoiata, poverina! No, vedano, signorine mie. E qui sta tutto il merito di Jolanda. Sapeva amare la sua casa, sapeva starci. È appunto l'argomento su cui ero disposta a brontolare in principio di questo capitolo. Via. Una mano alla coscienza, belle fanciulle. Nella situazione di Jolanda, in un completo isolamento dove, se un poeta non gliel'avesse condotto, non sarebbe capitato forse mai un giovine per apprezzare la sua bellezza, come sarebbero state tristi loro! Come avrebbero deplorata la loro miseria, e pensato giorno e notte al pericolo tremendo di rimaner zitellone! Ed il povero babbo, invece d'una compagna gioconda e serena, si sarebbe visto accanto un viso allungato, una fronte accigliata; ed in ogni atto della sua figliola avrebbe indovinata la noia della sua casa, della sua compagnia, ed il desiderio crudele d'essere altrove. Eppure Jolanda non era insensibile nè senza aspirazioni. Lei stessa diceva una sera al suo babbo:

       "Anch'io,

Quando mi trovo sola meco stessa e con Dio, Sogno talora i gaudi dell'amore, e mi sento Addormentarmi l'anima tutta in un rapimento." A quei tempi le signorine educate parlavano in versi. Ora però si può anche farne a meno.

E fingo che il mio fato conduca un forte e bello A superar la fossa del mio patrio castello. Lo ascolto in tuon sommesso mormorarmi parole Più ardenti e più feconde che la luce del sole, E lo sguardo negli occhi che divampano fuoco E mi cullo in visioni celesti... e a poco a poco Mi risveglio... e le sale del mio patrio castello Non suonan mai dei passi di questo forte e bello.

Ebbene, che perciò? Il forte e bello non compariva, e Jolanda era sempre lieta ugualmente come un raggio di sole. Non parlava mai di quando sarebbe maritata; il babbo le diceva: - Bada, Jolanda, non si vive isolati. Se non accetti qualche partito fra quelli che ti sono offerti, corri il rischio di rimanere zitellona. Provvedi al tuo avvenire. Jolanda rispondeva celiando:

"Sì, fonderò un convento per farmene badessa." E discorreva del tempo, dei boscaioli, delle vecchie piante che finiscono nel focolare, e s'interessava ai racconti del babbo, che le ripeteva le sue gesta giovanili o le narrava una certa fiaba di Aroldo e il suo corsiero; in fine stava là in quelle antiche stanze solitarie come un augello nel suo nido, il quale vi si trova bene, e vi si adagia come se dovesse rimanervi tutta l'eternità, salvo a volarne via l'indomani s'intende. Loro invece, signorine... scusino, bisogna pur venirci a questa conclusione; le favole sarebbero pur belle se non avessero la morale in fondo, ma, poichè ce l'hanno inventata, lascino che io la metta come si faceva ai miei tempi. Loro dunque, non s'adagiano punto nella loro casa, nè come l'augello nel nido, nè come nessun'altra immagine di cosa adagiata. Ci stanno, salvo il rispetto, rispetto, come il diavolo in una ampolla. Sono irrequiete, impensierite. La loro mente non è lì. Ogni giorno si meravigliano, si impazientano di esserci ancora, come se la casa paterna fosse un albergo, o un ponte gettato tra il collegio e la casa coniugale, e da traversarsi in fretta, per paura che si rompa sotto i piedi. Non saranno tutte così; ne convengo, almeno lo spero. Ma conobbi molte, moltissime fanciulle; ed, eccettuate ben poche, tutte dimostravano una tale impazienza di maritarsi, da dar ragione al signor Achille Torelli, nel ritratto poco lusinghiero che ha fatto della Fanciulla. Sovente ho udito una giovinetta dire: - Quando sarò a casa mia, farò questo o quell'altro; ed intendeva: quando sarò maritata. Che impressione doveva fare al babbo, alla mamma, l'udire che la loro figliola non si sentiva a casa sua, in mezzo a loro e nella loro casa! Se si tratta d'andare in campagna, dove non c'è altra compagnia che le persone di casa, si mostrano disgustate e non mancano di parlare di quella loro miseria, come vestali che stiano per essere sepolte vive. Ma i loro genitori cosa sono? Per riguardo a loro, e per il rispetto a quel dolore che dovranno provare, staccandosi dalla loro figliola per darla ad uno sposo, una signorina educata non dovrà mai dimostrare che desidera appunto di dar loro quel dolore, e non lo divide. Lo sposo stesso, che un giorno la piglierà, è già implicitamente offeso da quella smania di maritarsi, che gli dice anticipatamente: - Badi, ch'io lo sposo perchè non vedo l'ora di diventare una signora, e non per lei. Se un altro fosse capitato prima, avrei preso quello. Senza contare poi il ridicolo che matura sul capo di quelle che, poverette, non trovano marito. Si sente ogni giorno dire dall'una o dall'altra: - La signorina tale ha già trentacinque anni. E non ha ancora marito! - Poveretta, dopo averlo desiderato tanto - Si ricorda lei? Diceva sempre: Quando sarò maritata.... - Ed il corredo che preparava? - E quando si ricamava quella bella pezzuola, quante volte ha detto: "Per ora non lo porto; servirà per quando sarò, maritata." - Ora può servirsene per asciugar le lagrime ogni volta che si marita qualcun'altra. Una signorina non dovrebbe mai dire: "quando sarò maritata" se non dopo essere fidanzata. Allora è un fatto che si prepara; non è più una supposizione nè una speranza, e potrà parlarne liberamente. Prima no. E se taluno le dicesse quella parola, dovrebbe rispondere: - Io non so se mi mariterò. Non ci penso. Sto tanto bene in casa mia.... E debbono procurare di starci bene davvero, e di buon umore come si conviene alla loro età. Credano a me, il mostrarsi desiderose di marito, annoiate della propria casa e della propria famiglia, ha fatto invecchiar nubili tante belle ragazze. E la giocondità, la pace, l'amore del nido paterno, non ha mai impedito ad un augello di scioglierne il volo, nè ad una bella Jolanda di udirsi dire da un paggio innamorato, davanti a testimoni però:

  "Ti guardavo negli occhi, che sono tanto belli."

Qualche volta i babbi, i nonni sono molto vecchi; e, si sa, i vecchi sono spesso noiosi. Ho io bisogno di dir loro, signorine mie, che sarebbe oltremodo scortese il lasciar trasparire, da un atto, dalla fisonomia, da un momento di distrazione, il tedio che ispirano? L'ho detto ai bambini, perchè, poverini, non sanno ancora cosa sia mondo. Ma loro, signorine, ad educazione finita, possono aver bisogno di questi insegnamenti? Mio Dio! So bene che non si dimeneranno sulla sedia, nè si divertiranno a sciupare i nastri e le frangie dei vestiti per trastullarsi, mentre gli altri parlano di cose che non le interessano; però talora, me lo lascino dire, si permettono il ripiego che ho suggerito ai bambini: si distraggono. L'ho suggerito ai bambini, non per evitare i discorsi noiosi che vengono fatti direttamente a loro; ma pel caso in cui altri parlasse, loro presenti, di cose che non li riguardano e che non capiscono. Invece accade spesso che un vecchio parente fa un lungo racconto ad una figlia, ad una nipote; il racconto della sua giornata, o di qualche suo malanno. Ed intanto la signorina pensa a quel forte e bello di là da venire, al quale Jolanda pensava soltanto quand'era sola con sè stessa e con Dio; ed il narratore domanda: _ Che te ne pare? Come ti regoleresti tu? _ Lo sposerei... Ah! scusi; sa, zio? ero distratta. Per una signorina gentile, una simile confessione scortese ad un vecchio dev'essere talmente umiliante e penosa, da farle ascoltare con attenzione inalterata tutte le lamentazioni di Geremia, lasciando al piagnoloso profeta l'illusione di essere il più ameno narratore della repubblica letteraria.

A' miei tempi, tempi delle vecchie mamme, delle nonne, delle bisnonne, le donne non ricevevano l'istruzione che si dà ora alle fanciulle. Allora era generale l'opinione che Molière fa esprimere al suo Arnolphe circa le donne:

"C'est assez pour elle, à vous en bien parler, De savoir prier Dieu, m'aimer, coudre et filer."

Ora le giovinette escono dalle scuole dotte come tanti piccoli professori. Guardano il mondo dall'alto della loro dottrina geografica, senza mai scambiare un punto per un altro. Sanno perchè il Vesuvio erutta vampe e lava, e perchè la luna splende d'una luce scialba; ed il sole abbaglia coi suoi raggi; e dove scalda più e dove meno; ed un mondo di cose alle quali, ai miei tempi, non si pensava nemmanco. E non hanno paura a parlar di storia, nè di letteratura, e neppur d'algebra. E se non parlano di politica, è perchè sanno che è cosa uggiosa; l'hanno imparato studiando gli uomini. E, per un vezzo grazioso, tutto femminile, dicono ad ogni tratto: _ Voi altri che sapete di politica.... Oh, io di politica non ne capisco nulla!... C'è ancora il sultano di Turchia?... Ed a San Marino hanno sempre la Repubblica? Ma chi ci crede? Se volessero, con quelle piccole menti intelligenti ed erudite, terrebbero testa agli uomini anche in politica. Fanno bene a non tentarlo, del resto. Ma dov'eravamo? Ah sì! All'uscir della scuola. Le signorine con quel po' di coltura, non hanno difficoltà a trovare i lati deboli dell'istruzione delle mamme. Quanta delicatezza ci vuole per non mostrare di trovarli, e per fare che lei stessa, la buona mamma, non si avveda della superiorità intellettuale della figliola! Ho conosciuto una signora allevata in provincia, maritata a sedici anni, e subito divenuta madre di bambini che aveva allattati tutti lei stessa, dal primo all'ottavo. Prima di maritarsi aveva fatte due classi elementari, e poi non ci aveva pensato più. Poco aveva trovato tempo di leggere con quel po' di maternità. Per cui di rado imbroccava, quando voleva fare un discorso, altrimenti che nel dialetto lombardo al quale era avvezza. Un giorno, dopo aver letto non so che cronaca di giornale, disse: - Si fabbrica una casa sul Corso che ha da essere una meraviglia. L'articolo che ne parlava cominciava: È delizia. Un'altra volta lesse le notizie del parto della Principessa Margherita, in cui, naturalmente, si parlava del neonato; ella credette che fosse un titolo regale, ed osservò:

- Ecco i principi! Appena nati sono già neonati.

Quella sera c'era presente sua figlia, uscita allora allora di collegio; ed all'osservazione di sua madre, esclamò ridendo: - Chi sa perchè le mamme, quando non parlano di cose casalinghe, dicono sempre spropositi? Era una fanciulla di spirito. Non abbiano mai dello spirito a questo prezzo, mie gentili lettrici: la mamma diceva spropositi, ma la figlia ha fatto lo sproposito più grave che potesse fare; ha mancato di rispetto a sua madre e l'ha umiliata. Se la mamma non sa parlare perfettamente in buona lingua, la figlia deve sempre parlare il dialetto quand'è presente lei, per evitare che sia messa nella necessità di dir qualche sproposito. E, se ci casca, la figlia deve mutar discorso, affinchè la sua serietà ed il suo rispetto, impediscano di ridere ed impongano il rispetto anche agli altri. Ma difficilmente si è a questi estremi. Le signore anche attempate, in generale, parlano bene, e suppliscono col buon senso naturale, a quella mancanza di coltura che è una conseguenza del tempo in cui furono educate. Basterà che la figliola eviti di mettere il discorso su argomenti astrusi, li tronchi se altri li ha intavolati, o non vi prenda parte; e la mamma non sarà costretta ad astenersi da una conversazione alla quale prende parte sua figlia o a fare cattiva figura. E badino che, quando dico conversazione, non intendo soltanto le conversazioni con estranei: ma anche quelle del focolare, dove importa più che mai di mantenere il prestigio della mamma presso i fratellini, e di frenare i figli giovinotti sulla via sdrucciola dell'irriverenza, sulla quale si avviano tanto presto ai nostri giorni. Non posso credere che esista nel mondo incivilito una signorina che sieda al suo posto a tavola, prima che siano seduti il babbo e la mamma, e le altre persone vecchie, e signore maritate che fanno parte della famiglia. Ma dato il caso, tutto è possibile a questo mondo, che fra le mie lettrici vi fosse una piccola ostrogota, la quale si trovi una simile macchia sulla coscienza, non lo dica a nessuno per carità; e si sorvegli bene per l'avvenire. In nessuna circostanza, in nessuna età della vita, bisogna lasciar andare il proprio contegno sulle massime volgari ed egoistiche: - In famiglia ci si deve trattare in confidenza. In famiglia non si fanno complimenti. È in famiglia che passiamo la massima parte della nostra vita, ed è là, più che altrove, che bisogna serbare inalterata quella reciprocità di riguardi, quella cortesia squisita di modi, che sono fra le migliori espressioni dell'affetto, e senza di cui non c'è gentilezza d'animo possibile. Ho conosciuto una signorina bella come un amore, (io non ne ho mai visti di veri, ma parlo di quelli dipinti), intelligente, onestissima. Ma aveva modi, se non affatto aspri, asciutti. Di rado diceva una parola espansiva; si alzava, si coricava, usciva di casa, rientrava, senza mai gettare le braccia al collo ai suoi parenti, nè dar loro un bacio; colle amiche era fredda, aveva l'aria di diffidarne, di star sempre in guardia. Malgrado la sua bellezza non ispirò mai nessuna simpatia, rimase senza marito, fece il vuoto intorno a sè. Gentilezza continua, inalterata, colla propria famiglia; espansione, cordialità con tutti, sono le doti essenziali d'una signora, la vera base della civiltà; e sopratutto deve saper interessarsi anche delle cose che non la riguardano personalmente, delle occupazioni, delle gioie e dei dolori degli altri.

Vi sono paesi dove le signorine non prendono parte alle visite che riceve o che fa la loro mamma. Da noi quest'ostracismo per le fanciulle non è ammesso, e credo sia meglio. Dall'oggi al domani una signorina si marita: se è affatto nuova alle visite, come potrà disimpegnarsene? In Francia le signorine prendono parte alle visite, ma non parlano mai, se non sono interrogate, ed anche allora si limitano ad una risposta. Tutto questo è artificioso, forzato, e starei per dire che rasenta l'ipocrisia. Fra persone educate non si tengono mai, presente una signorina, discorsi che lei non possa ascoltare e comprendere senza arrossire. Sarebbe una sconvenienza senza nome, e nessuna padrona di casa potrebbe tollerarla. Quale è dunque la ragione per cui una signorina non potrebbe prender parte alla conversazione? Proprio non la vedo. Conosco molte signorine che discorrono, con moderazione, soltanto delle cose di cui sanno di poter parlare; d'arte, di letteratura, di balli, di nuove della città; senza mai scendere a pettegolezzi nè darsi arie dottorali, colla schiettezza e la giocondità che sono proprie della giovinezza, colla sua fede ed i suoi entusiasmi; e le trovo adorabili, e vedo che tutte le simpatie si raccolgono intorno ad esse. Codesto non vuol dire che una signorina possa intavolare lei un discorso, dove ci sono delle signore per farlo. Se però fra le visitatrici vi sono altre fanciulle o qualche signora giovane di sua confidenza, potrà benissimo la signorina di casa prendere l'iniziativa d'un discorso: - Sei stata al tale spettacolo? - Hai già udito il nuovo pezzo di musica del tale maestro? - Ieri andai colla mamma a vedere quella povera signora B. che ha perduto il marito, ecc. Ricevendo visite in casa sua una giovinetta non prende mai posto nè sul divano, nè ai lati del camino. Si alzerà ad incontrare tutte le signore, e si collocherà accanto a loro all'ultimo posto; se c'è una signorina le starà accosto; se sono più d'una, siederà in mezzo a loro. Quando una signora, o anche un visitatore, si alza per uscire, se la casa non è abbastanza ricca perchè vi sia sempre qualche servitore in anticamera, la signorina suonerà il campanello perchè una persona di servizio vi si trovi ad aprire l'uscio. Trattandosi d'un uomo però, dovrà lasciarsi salutare prima da seduta, e non alzarsi per suonare il campanello, se non quando lui sarà per uscir dalla sala.Una signorina non dovrà mai osservare che una visita è stata breve, nè insistere insistere perchè si prolunghi. Questo riguarda sua madre. Non deve mai domandar conto alle visitatrici dei loro figli, dei fratelli, dei cognati, quando sono giovanotti. Il suo interessamento deve limitarsi alle signore, ai vecchi, ai mariti ed ai bambini. È una affettazione ipocrita, ed io non l'approvo. Ma l'uso ne ha fatta una legge. Andando a far visite una signorina, sia a piedi che in carrozza, lascierà la destra alla mamma. Se è col babbo, accetterà lei la destra, se le è offerta. Non avrà carte da visita, s'intende. Se è figlia unica, può avere un biglietto collettivo colla mamma: Signora e signorina tale. È però un'usanza imitata affatto dai Francesi. Da noi nessuno si chiama signora nè signorina sulla carta di visita, come nessuno direbbe: - io sono la signora o la signorina tale; -e la figlia scrive a matita il proprio nome sotto quello della madre. Entrando in una sala siederà accanto alla sua mamma, o accanto alla signorina di casa, se c'è. Se la padrona di casa le accenna un posto, anche al suo fianco, lo accetterà senza complimenti, in atto d'obbedienza. Questo genere di complimenti indicano un sentimento di eguaglianza, che una giovinetta non può arrogarsi con una signora. Cederà poi quel posto d'onore alla prima signora che entrerà. In tal caso dovrà evitare di impegnare una questione noiosa. Dovrà alzarsi, ed accennando in atto di offerta il sedile abbandonato, andar subito a sedere presso sua madre. È affatto provinciale l'usanza di certe signorine, di offrire alle figlie delle visitatrici di passare nel loro gabinetto, o di andare con esse al balcone. Questo fa supporre discorsi segreti, che offendono le mamme, e fanno torto alle signorine. L'uscire sul balcone poi, perchè sono signorine, mentre le signore rimangono in sala, vuol dire: - Dacchè non abbiamo ancora trovato un compratore, andiamo a metterci in mostra; chi sa? - Se la signora di casa è una di quelle adorabili persone attempate, che amano la gioventù, ed hanno quell'aria di dolce protezione che invita l'affetto, una signorina farà bene a porgere il volto in atto di domandare un bacio nel congedarsi. Altrimenti cercherà, nello stringerle la mano, di accentuar molto l'inchino, in modo di escludere quel che c'è di confidenziale in quell'atto. Se una signorina non ha madre, e fa o riceve visite colla istitutrice, deve lasciare a lei il posto alla destra del camino o del divano, con quella deferenza che è sempre dovuta da una giovinetta ai superiori. Però sarà lei che osserverà che la visita fu breve quando una signora si alza per congedarsi, e che insisterà presso le persone intime, perchè si trattengano più a lungo. In tali circostanze, se c'è qualche invito affatto privato e confidenziale (non potrebbero essere differenti, perchè in una famiglia senza signore non si fanno inviti), toccherà alla signorina il farlo. Potrà benissimo pregare un'amica di rimanere a pranzo, o a passare la sera; o di andare in campagna con lei. Ma non mancherà mai di dire che farà molto piacere anche al babbo ed all'istitutrice; e pregherà questa di unire le sue insistenze alle proprie, affinchè la povera signora, condannata dalle circostanze a vivere in una casa che non è la sua, non se ne senta troppo estranea, e messa da parte. Gli stessi riguardi dovrà usare ad una zia, o ad una parente qualsiasi che vivesse con lei.

Una signorina potrà accettare di pranzare da un'amica, e rimanerci, anche sola, sotto la custodia della signora di casa. Ma ad un pranzo d'invito non andrà se non accompagnata da una signora. Tutto quanto è bello, grazioso, rasserena lo spirito; e se c'è momento in cui tutti desideriamo di essere di buon umore, e di veder tutti allegri e contenti, è quando sediamo a tavola. Per questa ragione io non finirò mai di ammirare l'abitudine degli Inglesi, che, anche in famiglia, non mancano mai di far toeletta per andare a pranzo. E' pure per questa ragione che le toelette da pranzo, parlo dei pranzi d'invito, anche tra noi si usa farle più ardite ed eleganti da quella da visita e da passeggio. Le signorine dovranno scegliere fra i loro vestiti della stagione il più fresco e gaio. O, se si appigliano all'abito di seta nera, che è (se mi è permesso il paragone) il frac paré delle signorine, lo rallegreranno con fiocchi di nastri azzurri, rosei o rossi o di quel colore che la moda favorisce, in modo da far iscomparire la triste severità del nero. Non dovrei supporre che una padrona di casa, dando un pranzo, possa commettere la sconvenienza di collocare una signorina accanto ad un giovinotto. Ma siccome:

"Tutto è possibile sotto il sole" - ed "Errare humanum est" - ed "Error non è frode" - ed "Il giusto cade sette volte al giorno"

e mille altri proverbi, che non ripeto, perchè il dirne parecchi è una inciviltà condannata dai vecchi galatei, potrebbe darsi che una padrona di casa un po' inesperta cadesse in quell'errore, tanto per dimostrare ancora una volta che "non tutte le ciambelle riescono col buco." Per carità, signorine mie, se codesto accadesse, si guardino bene dal fare la menoma osservazione e neppure un segno di meraviglia. Sarebbe rivolgere un rimprovero crudele alla signora che le ha collocate così. Quando io era giovane, in temporibus illis, fui invitata ad una sagra di villaggio in una famiglia di ricchi proprietarii. Dopo il pranzo e le feste del giorno, si doveva ballare, per cui c'erano invitate molte signorine e molti giovinotti. Quella buona padrona di casa provinciale, avvezza alla semplice verità della natura in mezzo alla quale viveva, doveva aver fatto questo ragionamento: - Se fra due ore i giovinotti e le fanciulle che ho invitati dovranno prendersi per le mani, abbraccíarsi, e circolare appaíati a due a due come colombelle, non ci può essere una ragione al mondo perchè si formalizzino di trovarsi seduti accanto a tavola. - Era una logica da dar dei punti ad Aristotile. Ed ella agì come aveva pensato e collocò a tavola ogni signorina accanto ad un giovinotto. Tutte fecero "a mauvais jeu bonne mine", e molte mi confessarono che non l'avevano trovato un troppo mauvais jeu. Ma una, una sola, una signorina di villaggio, che era uscita per l'appunto di collegio, cominciò a guardarsi intorno impaurita, come se i due che aveva ai lati fossero due leoni pronti a farla a brani, o due Don Giovanni venuti là per rapirla. Uno, che non era punto Don Giovanni, ed ancora meno lion, si sentì tutto confuso, si fece rosso, e tirò in là la sedia, come se temesse di sporcare quella signorina; ma l'altro fece le viste di nulla, le offrì da bere, e tutti i piccoli servigi che un uomo non manca mai di offrire ad una vicina di tavola. Bisognava vedere l'aria diffidente e l'esagerazione di riserbo di cui s'armò quella poveretta! Non parlava che per monosillabi. Ricusava tutto, era tutta sulle difese, pareva che fino i fiocchi della sua mtoeletta appuntassero le nocche ed i capi come armi difensive. Il suo babbo, dall'altro lato della tavola, fremeva, Finalmente, vedendo che era giunta al dessert ricusando tutto, e stava per ricusare anche i frutti che il suo vicino le porgeva, le gridò:- Via, accetta una volta! Non è veleno. - Ah! era di questo che aveva paura, signorina? ed io che mi lusingavo che avesse paura di me! le disse il suo vicino. La lezione era meritata. È appunto in tali circostanze eccezionali, che una signorina può mostrare di sapersi condurre dignitosamente senza darsi quell'aria di noli me tangere, che la rende antipatica, e senza incoraggiare una confidenzialità sconveniente. Altre volte era di rigore che le signorine mangiassero pochissimo, e non bevessero vino affatto. Per cui riescivano commensali punto piacevoli. In qualunque modo si volesse interpretarla, quella continenza cenobitica, era una sciocchezza. Le fanciulle intendevano con quel mezzo di atteggiarsi ad un sentimentalismo ideale, non d'altro nudrito che di poesia e di sogni. Era un'idea da précieuses ridicules. Le mamme incoraggiavano quella manìa, ed all'occorrenza l'imponevano, volendo con quel mezzo dire ai giovinotti: - Vedano come mangia pochino la mia figliola. E non beve punto. La sposino, via. Non costa nulla a mantenerla. - Era un calcolo da arpagone. Ora, se Dio vuole, il sentimentalismo è passato di moda. E, non fosse che per quest'unica riforma, benedetto il realismo! Le giovinette sono tornate ad esser loro stesse, col loro appetito giovanile: ed a tavola lavorano coi loro dentini, che è una benedizione, un'allegrezza guardarle. Se qualcuna delle mie lettrici era rimasta in arretrato, ora lo sa. La civiltà vieta soltanto di trasmodare. Ma vieta altrettanto severamente di rifiutare ogni cosa, di mangiare a fior di labbra, di lasciare la roba nel piatto, di rifuggire dai vini, quasi si volesse dire ai padroni di casa: - Io non so che farmene di tutto questo. - Il vostro pranzo mi solleva lo stomaco.- Quando si è a questi estremi bisogna ricusare l'invito. Se sapessero come è bella e come piace la gioventù robusta, e francamente allegra, che Dio la benedica! Se la padrona di casa fa posare dal servitore il vassoio del caffè, dopo che i convitati sono passati in sala, ed offre lei stessa le tazze, le signorine debbono subito accorrere ad aiutarla. Dovranno però servire soltanto le signore ed i vecchi. Una signorina non porge mai la tazza ad un giovine, a meno che sia suo fratello. Ed ancora ha l'aria d'uno scherzo. Dopo aver assistito ad un pranzo, una signorina è tenuta ad accompagnare la madre nella visita che questa rende, entro gli otto giorni, alla famiglia da cui ebbe l'invito: e dovrà anche lei lodare la compagnia che vi ha trovata, la disposizione della tavola, i fiori, l'allegrezza che si è goduta, infine quel che c'era da lodare.... ed anche un po' quel che non c'era

In teatro una signorina non va mai scollata. Se l'abito ha lo scollo, deve portare un soggolo di tulle. È verissimo che ora molte giovinette vanno scollate come le signore; ma la questione è dì sapere se fanno bene. Ad ogni modo non sono in regola colle convenienze. Una signorina mi osserva a questo proposito che: - È meglio errar con molti che esser savio solo. Ma io rispondo con un altro proverbio che : - L'uso serve di tetto a molti abusi. - E con un altro ancora: - Cosa rara è la più cara. Così, punto scollature. Pochissimi gioielli. I Francesi dicono: Les diamants sont faits pour les têtes brunes; les fleurs sont faites pour les têtes blondes. Ma, finchè sono teste da fanciulla, anche le teste più brune debbono accontentarsi dei fiori. Per portare i diamanti ci vuole il permesso della Chiesa, ed anche del Municipio. Ma credano a me, signorine, non ci perdono nulla. Il diamante ha un pregio convenzionale: il fiore è una cosa bella davvero. Le arti belle hanno sempre imitati i fiori. Ma soltanto il commercio, speculante sulla vanità, che ha imitato i brillanti. Neppure la catenella dell'orologio è concessa ad una signorina che vuole osservare tutte le regole di convenienza. Ed infatti, dacchè quello è il primo dono che le deve offrire lo sposo, se l'ha già portata fin allora, non le fa più quell'impressione nuova; non è più un simbolo. Quando si domanda: - Ma è ben sicuro che la signorina tale sia sposa? Altri risponde: - Pensi! Ha già la catena! La toeletta d'una giovinetta dev'essere semplice. Ma badino certe signorine e certe mamme che hanno l'abitudine di prender le parole a rigor di lettera, che semplice, in gergo da toeletta, vuol dire appunto d'una stoffa di poco valore, adatta per signorina, senza pizzi, senza ornamenti costosi. Ma la semplicità d'una toeletta non ne esclude i volanti, i nodi, le sciarpe ed i fiori; non esclude l'eleganza ed il gusto. Tornando al teatro, la signorina, non scollata - insisto - cederà sempre alla signora che l'accompagna, il posto d'onore che è quello di fronte al palco scenico. Le signorine si trovano contentissime di questa combinazione, perchè, voltando il dorso al palco scenico, guardano meglio nella platea e nei palchi, e sono più in vista. - Vedono ch'io sono addentro nei loro piccoli segreti. - Ebbene, credano a me che sono vecchia: non guardino mai fisso nessun giovine, checchè ne dica loro la simpatia. Non c'è cosa più sconveniente di quell'ostentare in pubblico una preferenza, che una fanciulla dovrebbe appena confessare, arrossendo, alla propria madre. Per gl'indifferenti poi, sta la legge generale di elementare decoro, che una fanciulla non deve mai fissare in volto un uomo col quale non sta discorrendo. Quelle che se ne emancipano appunto in teatro, dove cento occhi sono là per constatare la sconvenienza, e cento bocche per ripeterla, mi fanno ricordare un ladro che l'estate scorsa rubò il soprabito di un avvocato nel tribunal criminale, mentre l'avvocato stesso stava perorando la causa d'un ladro. Aveva scelto male il posto per farla in barba alla Questura. Una signorina non porge mai la mano agli uomini che entrano a far visita in palco, e non dimostra mai di prestare più attenzione agli spettatori che allo spettacolo. Certi atteggiamenti indifferenti ed annoiati, che affettano molte signorine sono di cattivo gusto. - Oltre all'offendere offendere le persone che stanno con loro, le fanno apparire disilluse e già incapaci di divertirsi. Oh giovinezza! Si può non divertirsi a vent'anni? All'atto di ritirarsi le signorine debbono mettersi la sortita da sole, o farsi aìutare da una persona della famiglia; non mai da un giovine. E scendendo le scale, daranno il braccio al loro babbo, ad un fratello, oppure rimarranno accanto alla mamma. Così è, signorine mie; i cavalieri serventi sono come i diamanti. Non li hanno che le signore. È ancora una privazione di cui non posso compiangerle. I diamanti hanno almeno un pregio convenzionale. Sono rarissimi e costano cari, quando sono veri brillanti. I cavalieri serventi, invece, spesseggiano come le mosche, e sovente, non valgono di più. Di brillantì poi, ce n'è uno su mille.

Ed ora, signorine mie, le conduco in un luogo dove non sono mai state. Ed anche ora non vi possono entrare che in ispirito, e sotto la mia seria tutela di nonna centenaria: in un circolo di giovinotti. Ben inteso che, entrando in ispirito, loro non sono vedute: per cui non s'interromperanno i discorsi incominciati.... Oh! non s'inquietino, signore mamme; so press'a poco di cosa si parla; ed anzi, ci conduco le loro figliole per questo; è il domani d'un ballo, di che s'ha a discorrere? Per quanto meritino poco di essere elevati a questa dignità, i giudici delle signorine, alle feste da ballo, sono i giovinotti. È vero che, in compenso, i giudici dei giovinotti sono le signorine; ma questo è un giurì non troppo accreditato perchè pecca d'indulgenza. Per ora ascoltiamo l'altro che non ha queste debolezze. - Non era male la signorina Tizia, nel suoabito azzurro - sentenzia un piccolo Giove Ansuro, con l'esperienza de' suoi diciott'anni. - Non era male? osserva un più esperto conoscitore . Ma hai a dire che era una bellezza addirittura. Soltanto che è una bambola a meccanismo. Una ruota ed una cordicella per ogni monosillabo, o bisillabo. La mamma l'aveva caricata prima d'uscire, ed ella da brava bambola ne ha articolato uno per ogni domanda, che faceva da cordicella: - Sì. No. Grazie. Basta. Poco. - E così via., - Doveva avere delle rotelle anche ai piedi, perchè ballava diritta, stecchita come un fantoccio. - Bambola, bambola. - E le signorine Sempronie? entra a dire un terzo. - Ah! quelle sono due berte. Non sanno tacere un minuto. E che arie confidenziali pigliano discorrendo col ballerino! Un vecchio gentiluomo mi disse: - Quelle signorine devono avere una famiglia numerosissima. - Perchè? domandai compiacentemente per fargli finire il suo motto. - Perchè tutti i giovanotti con cui ballano mi sembrano loro fratelli. - Infatti andavano da una sala all'altra, ed al buffet con questo e con quello, e senza la loro mamma, e si dice che ballassero anche con qualcheduno che non era stato presentato. - A te piaceva la signorina Caia, che ti si abbandonava mollemente nelle braccia, come se fosse al quarto atto d'un melodramma.... Avevi sulla spalla dell'abito la cipria delle sue guancie. - Il color della dama. Mi piaceva per una sera, però. Non la vorrei fra le concorrenti, quando mi decidessi a gettare il mio fazzoletto per trovare una sposa. - Io ho fatto un giro colla signorina Ipsilonne, che, ad ogni complimento che le facevo, me ne rispondeva un altro, come se si giocasse di scherma. - Pazienza, era ingenua.... Tu avessi udita la signorina Zeta, che per far la spiritosa, canzonava le tolette ed i modi delle altre signorine e dei giovinotti! - Ah! dev'essere stata curiosa. Cosa t'ha detto di me? - E di me? - E di me? - Ha detto che le pareva d'essere una tazza di miele, perchè si vedeva svolazzare intorno tanti mosconi. - Oh Dio! Che barba! - Caro quel miele! - I mosconi volano anche intorno.... Via; la porta è chiusa e non si ode altro. Ma credo che basti. Vedono, signorine mie, che ogni medaglia ha il suo rovescio; ogni festa il suo dimani.

"Ahi gioie umane, d'amarezza asperse!"

La civiltà francese fa della fanciulla una bambola, muta, compassata, insignificante, tutta artificio. Le inglesi sono severe, fredde, vaporose. Le americane sono emancipate. Le tedesche sono libere. Loro sono italiane; hanno lo spirito vivace, l'immaginazione pronta; sono entusiaste ed espansive. Volerle ridurre come automi modellati su figurine straniere, sarebbe una profanazione, una finzione. Siano loro stesse. Ma sappiano contenersi in modo da non meritarsi le censure che hanno udite. Si può essere amabili, schiette, allegre, anche senza staccarsi da quella dignità di contegno che s'addice ad una signorina. Il buon senso naturale, ed il naturale decoro, devono guidarle. Io domando che di scrivere sul loro taccuino una massima di Victor Cherbullier. La leggano sempre prima di andare ad un ballo, dove la loro mamma non può udire tutte le parole che scambiano coi ballerini:

"Rien ne rafraîchit plus le sang, que le souvenir d'une sottise que l'on n'a pas dite."

- "Mi ricordo quand'ero fanciulla" - come la vecchia Pipelet di gioconda memoria - e nel carnovale, la mia zia, la quale mi teneva il posto della povera mamma che avevo perduta, invitava una mia cugina a tenermi compagnia. Cara quella compagnia! Aveva l'abilità di sacrificarmi completamente. Non sapeva pettinarsi da sè; bisognava che ogni mattina la cameriera di casa perdesse ad acconciarle il capo un tempo tanto più prezioso, in ragione di quell'aumento di personale in famiglia. Noi si faceva colazione per solito alle nove, ma la Teresina era alla toletta a quell'ora, oppure veniva a tavola spettinata ed in abito da camera. E guai se la zia osservava, che le signorine non debbono farsi vedere in abito da camera: che è permesso appena appena di portarlo nella loro stanza. Diceva che a quell'ora era materialmente impossibile d'essere in ordine. E bisognava che noi s'avesse pazienza e si differisse la colazione. Tutte le lezioni, che prendevamo insieme, dovevano pure spostarsi per fare il suo comodo; ed i miei maestri non le piacevano mai. Erano un branco di ignoranti. E tutti i mobili della casa avevano qualche difetto o erano mal collocati. E le mie amiche le erano antipatiche. S'io doveva far delle visite, ella non poteva decidersi a venire da quelle signorine pedanti, nè da quelle altre sguaiate. Quando s'andava in teatro o in compagnia, ipotecava addirittura la cameriera, per vestirla e la zia ed io dovevamo aiutarci a vicenda. In palco, poi, si metteva al posto di contro alla zia, ed io era relegata tutta la sera sullo sgabello in mezzo. Non c'era caso che mi offrisse una volta di cambiar posto. E, per ospitalità, non potevo domandarglielo, nè farle osservazioni. Bisognava che le offrissi i fiori da scegliere prima. Ed ella se li provava tanto in capo, sul petto, e si serviva così bene, che a me non rimanevano che degli avanzi appassiti. In carrozza pure, prendeva posto accanto alla zia, senza che occorresse neppure dirglielo. Qualche volta le mie povere tolette si sciupavano tutte, strette così, accanto al babbo sulla panchetta dinanzi. Ma Teresina si stendeva a suo agio, seppelliva la zia sotto le sue gonne e arrivava fresca come una rosa. In casa, poi si prendeva l'incarico di studiare tutti i caratteri, come se ci fosse venuta con quella missione. Io avevo quel difetto, e quella qualità; e la zia era placida, e troppo indulgente; ed il babbo era avaro; e le persone di servizio ci derubavano come tanti briganti. - Come! Voi spendete tanto per la carne? E tanto per le ova? E questo pollo è costato tanto? Ma buona gente! A casa mia si mangia meglio assai, e si spende la metà. Quel pollo è magro, tiglioso. Si può avere per trenta soldi. Il resto se l'è tenuto la cuoca. Io non so come la sopportiate. Non sa cucinare. A casa mia le bistecche sono tutt'altro: queste sembrano suole di scarpe. Ed ogni giorno aveva fatta una scoperta nuova sull'ordine della nostra casa, ed erano sempre indiscrezioni. Quando poi veniva in campagna all'autunno, era un raddoppiamento di biasimo. Si trovava addirittura ad un bivacco. Tutto era incomodo, tutto rozzo. Quasi quasi si meravigliava che nei sentieri del giardino non si stendessero tappeti per farla camminare sul liscio. Ed organizzava lei le gite, i pic-nics. E si famigliarizzava coi vicini di villa, prima e più di noi; e passeggiava cogli altri ospiti, anche s'erano giovinotti, sola con loro per delle ore in giardino, ed usciva quando noi si stava in casa; e stava in casa quando noi s'usciva. Mie giovani lettrici, se sono ospiti in casa altrui, badino, le prego, di non lasciarvi le tristi memorie che m'ha lasciato Teresina. La persona ospitata deve fare una completa abnegazione della propria volontà, delle proprie abitudini, dei proprii gusti. È necessaria questa rinuncia assoluta, per bilanciare l'immensa deferenza della famiglia che la ospita, e metterci un limite, affinchè non abbia a diventare un sacrificio di tutte le ore. E qui mi viene a proposito di avvertirle, che nulla è più scortese di quell'abitudine tanto generale, pur troppo, di far esaurire tutte le formole di preghiere inventate da Adamo in poi, prima di aderire a suonare o cantare, in compagnia. La padrona di casa, che per quella sera le ospita, è messa in grave imbarazzo. Deve unire le sue insistenze alle altre, ed aver l'aria di imporre un sacrificio? O deve astenersene, e dimostrare che non desidera di ascoltarle? Difficile alternativa.

Non ho mai compreso perchè le signorine, che debbono rimanere sotto gelosa custodia nella loro città, dove sono note loro e la famiglia, ed hanno un mondo di amici e conoscenti intorno, debbano poi godere una libertà relativa, ma sicuramente soverchia, quando si trovano in viaggio o alle bagnature, ignote fra gl'ignoti; dove potrebbero anche essere prese in fallo. Il nuoto è uno degli esercizi prediletti dagli Inglesi e dagli Americani. Ma non credo necessario, per adottare la loro abitudine delle bagnature, adottarne pure la flirtation insidiosa e sconveniente. To flirt, Coqueter, sono parole che in italiano non hanno riscontro. Le traduciamo: flirteggiare, civettare; ma le parole sono barbarismi nella nostra lingua, come la cosa è un barbarismo nei nostri costumi. Noi, espansivi e schietti, ci pieghiamo male a quella meschina scherma di parole, che giocano su sentimenti frivoli; e, quando riesciamo a scimiottare le signore straniere, non lo facciamo che a scapito del nostro carattere. Credano a me, signorine, non si lascino attirare da quello scoppiettìo di parole, leggere, brillanti e fuggevoli come fuochi d'artificio. Quando si disperdono e svaniscono nell'aria, portano sempre con sè qualche bricciola del loro decoro. Bricciole appena visibili, atomi, ma che importa?

"Gutta cavat lapidem." In campagna come in città, ai bagni come altrove, una giovinetta non deve mai uscir sola. Nel contrarre nuove relazioni deve usare la massima prudenza, e lasciarsi dirigere completamente da' suoi genitori. Alla tavola d'albergo, se non ha due persone della famiglia fra le quali sedere, ed il caso le colloca da un lato uno sconosciuto, non deve scambiare con lui che le parole strettamente necessarie, finchè non sia stato presentato alla signora che l'accompagna, e questa gli abbia accordata la sua relazione. L'unico punto su cui, in campagna ed ai bagni le signorine possono permettersi qualche libertà, è la toletta. Colori più vivaci, foggie più ardite, un cappellino un po' bizzarro o un po' sull'orecchio, fori naturali in capo a tutte le ore, ed anche passeggiare a capo scoperto... Tutto questo è concesso; ma quanto al contegno, deve essere tanto più riserbato in quanto che sono meno conosciute, e chi le osserva deve giudicare dall'apparenza.

Se una signorina è stata ospite in una casa, appena ritornata in famiglia, dovrà scrivere una lettera espansiva alla signora od alla signorina che l'ha ospitata, ringraziandola delle cortesie ricevute. Non scrivano a molte persone, signorine mie. Oltre le lettere di dovere ai parenti vecchi, alle maestre, possono tener corrispondenza con qualche amica. Ma siano vere amiche, di quelle a cui si scrive non per fare dello stile epistolare, ma per vero affetto, e col linguaggio dell'intimità. Non occorre dire che, in tutta la loro corrispondenza non ci deve essere una parola che la mamma non possa leggere. Quanto a formole, non s'aspettino ch'io ne dia. Le lettere tengono luogo di discorsi. Scrivano come discorrerebbero e basta. L'introduzione, la chiusa, sono storie del tempo trapassato remoto. La lettera comincia con quello che s'ha a dire, e finisce quando non s'ha più nulla a dire. Ecco la sola regola ch'io ammetto. Non si firmino mai serva, perchè le signore non sono mai serve di nessuno. Non facciano litanie di saluti in fine, nè sfoggio di aggettivi sulla soprascritta, a tutto beneficio del portalettere e dei portinai. Non usino carta cifrata, come non usano carte da visita; siano semplici, schiette; se hanno dello spirito, non ne privino le loro corrispondenti, e lascino andare i loro giovani pensieri come

"L'hirondelle au printemps et la priére au ciel".

CAPITOLO SECONDO. La signorina matura.

Pur troppo tutto matura sotto il sole. Gli uomini E le piante, le mele rosee e le spighe dorate; e col tempo e colla paglia, lo dice il proverbio, anche le sorbe e la canaglia. I bocciuoli diventano rose, i quindici anni diventano venticinque. La maturanza è un pregio. È il massimo grado di perfezione a cui può giungere una cosa creata. Una fanciulla matura è più completa, più perfezionata che una giovinetta. Ma è necessario che tutto sia maturato in lei in proporzione cogli anni. Si cerca spesso di dissimulare il grado di maturanza del frutto, mantenendo verdi il gambo e le frasche, al regime dell'acqua pura. Si vUOL dissimulare i venticinque anni della fede di nascita, colla finta acerbità dell'ingenua. Perchè? Basta così poco a serbare una fanciulla di venticinque anni in tutto il suo prestigio. Lasci maturare il suo giudizio come la sua persona. Sanno, mie signore, qual è la stregua a cui si conosce se un giudizio di fanciulla è maturo? Quando accetta l'età che le dà il suo passato, senza false vergogne, e meschine dissimulazioni. A conti fatti, in quell'accettazione una signorina ha tutto da guadagnare. Non potrà ancora uscire di casa sola: ma potrà uscire con un fratello, con uno zio. Potrà andare alla commedia, interdetta alle giovinette. Vestirà con più ricchezza; non sarà esclusa da nessun ricevimento, da nessuna cerimonia, neppure dalle nozze e dai battesimi, dove le sue sorelline non vanno. Potrà tenere a battesimo il figlio d'un'amica o d'una sorella. Potrà essere madrina di cresima; semprechè, anche a quelle cerimonie, vada accompagnata da sua madre, o da un'altra signora. Ai balli porterà i grandi scolli come una signora; in campagna potrà uscire sola con una compagna, o anche accompagnare una giovinetta. Potrà scrivere con maggior libertà; leggere una quantità di cose che pochi anni prima le erano proibite. Eppure la maggior parte delle signorine mature rinunciano a tali vantaggi, per non confessare di esserlo. Ma chi possono illudere? Mi ricordo d'una famiglia in cui c'erano tre sorelle. La maggiore aveva ventinove anni. La più giovane ne aveva diciasette. Si fece sposa per intromissione del mio babbo, mentre era uscita provvisoriamente di collegio per curare un'oftalmia. La seconda era rimasta in collegio. Quando si fecero le nozze, la sorella di ventinove anni venne in casa nostra a passare una settimana, perchè, come signorina, non poteva assistere a nozze. Si tirò addosso un ridicolo da cui non potè più liberarsi. Una signorina che, a venticinque anni, si desse l'aria bambina di dire che non può andare alla commedia, perchè la sua ingenuità ne sarebbe scandalezzata, farebbe ridere. Se vestisse come la sua sorellina uscita appena dall'adolescenza, sarebbe una caricatura. Ma accetti francamente la sua età, la sua posizione; vesta e si comporti come lo richiedono lo sviluppo della sua persona, la sua maggior serietà, la sua esperienza, e sarà una giovine interessante, amabile, e potrà ecclissare tutto un collegio di giovinette. CAPITOLO TERZO. La zitellona. Coraggio della sua posizione - Cerimonie di battesimo e cresima - Toletta - Divertimenti.

"E qui comincian le dolenti note!" Nessuna vorrebbe essere una zitellona. È un nome che fa orrore. Perchè? Non l'ho capito mai. Forse perché le zitellone sono ridicole... Ma prima di tutto non sono tutte ridicole, tutt'altro. Io ne conosco di adorabili, la cui compagnia mi ha fatto passare dei giorni deliziosi, mi ha resa amena la solitudine d'una campagna isolata, mi ha lasciata una dolcissima memoria, ed un profondo desiderio di sè. Tu lo comprendi, Emilia, che parlo di te, il cui spirito superiore non rifugge dalla posizione che la sorte ti ha fatto, che l'accetti con coraggio e serenità, e puoi servire di modello alle altre signore, che una circostanza qualunque ha obbligate a rinunciare alla benedizione della famiglia. Lascia che guardi te, che m'ispiri a te, per insegnare come debbono contenersi le altre. A trentacinque anni, una signorina deve assolutamente rinunciare a tutti i riserbi esagerati di cui si debbono circondare le fanciulle; deve adottare, nella misura delle sue finanze, la toletta, le abitudini, il contegno, il linguaggio d'una signora maritata; uscir sola, ricevere e far le sue visite e le sue commissioni, viaggiare sola se non ha la necessità, avere le sue carte da visita. Ciò non toglie che, se Dio le conserva i suoi parenti, abbia da far vita a parte. Goda finchè può la benedizione di dar il braccio alla sua mamma. Ma lo faccia per gioire di quella compagnia dolcissima, non per farsene guidare e proteggere come una tortorella insidiata. La mia Emilia ha goduto a lungo la fortuna di avere la sua mamma. E le ha consacrato tutte le sue ore; i giorni e le notti; non s'è mai staccata da lei, senza un'estrema un'estrema necessità. L'ha amata con entusiasmo, l'ha pianta con passione. E malgrado ciò ha saputo farsi, più presto ancora del tempo, una personalità seria, rispettabile, indipendente, senza ardimenti e senza emancipazione. Che una zitellona si comporti così, e sfido tutti gli umoristi del mondo a farle passare sul capo neppur l'ombra del ridicolo. Se vive in famiglia, qualunque sia la sua età, una signora nubile non ha rappresentanza; per cui dovrà astenersi dal fare inviti lasciando questa briga ai capi di casa; e, nei ricevimenti, dovrà assumere una parte secondaria, non avanzarsi al saluto che quando le persone della famiglia hanno accolto i loro ospiti, non offrire mai nulla di propria iniziativa, ma appoggiare con garbo le offerte che hanno fatte i padroni di casa. Si asterrà assolutamente dalla danza sotto pena di ridicolo. Si adatterà ad imparare i giochi più in uso per potere all'occorrenza far il quarto in una partita, e per non restar sola e spostata in un circolo giovanile, dove avrà sempre la scappatoia di sedere al gioco colle persone serie. Se in famiglia vi sono persone a pranzo, si collocherà in modo da non darsi nessuna importanza, senza affettar tuttavia di prender l'ultimo posto, nè atteggiarsi da vittima.

Se una zitellona haun censo sufficiente per fare casa da sè, perduti i genitori, si comporterà precisamente come una vedova: potrà ricevere, far inviti a pranzo, tenere una serata fissa ogni settimana per dare il tè, accogliere ospiti in campagna. In Francia si usa chiamare Mademoiselle una zitellona fino all'ultima vecchiaia. Noi abbiamo la fortuna di poter evitare il ridicolo di quell'appellativo comune colle giovinette. Una zitellona si fa chiamare - Signora - dalle sue persone di servizio, e tutte le persone di tatto eviteranno sempre di chiamarla signorina; sarebbe una canzonatura. Soltanto in Piemonte si ha l'abitudine francese, e si dice Tota anche ad una donna di ottant'anni quando non ha marito; è un piccolo ridicolo che non si può evitare, e che fa molta impressione a chi non è del paese. Mi ricordo d'esser giunta una volta a Torino per fare un lungo soggiorno in una famiglia, composta di un babbo, d'una bambina, e d'uno zio prete che la istruiva. Il babbo era sempre fuori, la bimba passava molte ore collo zio allo studio. Per cui temevano ch'io dovessi annoiarmi di rimanere parecchio sola, e mi dissero fin dal primo momento: - Si annoierà forse un poco, ma c'è un'altra Tota che viene ogni sera da noi e le farà compagnia. Era nel cuor di gennaio. Faceva quel freddo orribile degli inverni di Torino. Si abitava assai lontani dal centro, e poco mi sorrideva l'idea di uscir di casa. Per cui ero senza speranza di procurarmi la compagnia di altre signore. La prospettiva di quella Tota (signorina) che verrebbe ogni sera a vegliare con me, mi rallegrò il cuore. Le fanciulle hanno tanta esuberanza di vita, tanta serenità, tante speranze nel cuore! Mi figuravo le più liete serate. Aspettai con impazienza che il giorno finisse. Quando Dio volle s'udì un campanello, e la cameriera annunciò: - Ai' è tota Gin - (È qui la signorina Gin - un diminutivo che può servire per Teresa, Lucia, Luigia ed altri nomi.) Io saltai in piedi e corsi fino all'uscio del salotto per incontrarla... Per poco non caddi come corpo morto cade. Vidi entrare una figura lunga, lunga, lunga, come una guglia, ed allampata; con un volto di pergamena; tutta coperta d'un involucro di panno color tonaca da frate; con uno di quei cappelli secolari che si vedono nelle vignette dei romanzi inglesi; armata d'una gran borsa di lana dalla quale uscivano minacciose le otto punte di quattro ferri da calza. Era una buona signora, ed abbastanza amena in compagnia. Ma quel maledetto appellativo di Tota l'aveva demolita coll'immagine primaverile che me ne aveva suggerita, e le raddoppiava a' miei occhi tutti gli anni che aveva in più, di quei tanti di meno che le avevo dati. Se è ammissibile un consiglio contrario agli usi del paese dove si vive, io consiglio le zitelloni piemontesi a non permettere mai che le chiamino Tote.


La posizione d'una signora sola, e senza impegni di famiglia, la mette più spesso d'un'altra nella circostanza di far da madrina di battesimo o di cresima, ai figli delle parenti ed amiche. E però, giacché ci sono, parlerò qui di queste cerimonie, che sono le stesse per le signore, per le zitellone, e per le signorine. Se una signora è pregata a tener un bambino a battesimo, ed una considerazione quallunque le impedisce d'accettare, deve esprimere il suo rifiuto con tutta la cortesia di modi possibile, adducendouna scusa accettabile, che non abbia l'apparenza di un pretesto. Che se invece è disposta a far quell'atto d'amicizia, farà bene a muoverne ella stessa l'offerta, evitando ad altri l'imbarazzo di domandarlo. Per lo più la famiglia del nascituro lascia alla madrina la scelta del padrino. Una signorina non sceglierà mai un giovanotto, a meno che fosse suo fratello; e, per non escludere tutti i giovani parenti del suo futuro figlioccio, si ricuserà risolutamente a quella scelta, accettando il padrino che la famiglia del nascituro le presenterà. Le signore, e le zitellone accetteranno il diritto di scelta, e daranno la preferenza a quel padrino che potrà, a loro credere, esser più utile al bambino, e più accetto ai parenti; sempre però nella cerchia di persone che le verranno indicate come disposte ad accetar quell'incarico. La madrina è in dovere di offrire al figlioccio una medaglia d'oro o in argento, con un bel nastro, al momento del battesimo. Dopo tre mesi dovrà regalargli un intero costume, il suo primo costume da passeggio ; e più tardi il denteruolo (scusi signor Fanfani, nel suo vocabolario non ho trovato di meglio) d'avorio montato in argento o in oro, col nastro per portarlo al collo. Volendo essere più generosa, potrà, colla medaglia, offrire anche l'abito da battesimo, ed il porte-enfant. Ma questo non si fa che in parentela o nella massima intimità. Ed in tal caso, tutto sarà in bianco, guernito in nastri color di rosa per una bimba, azzurri per un maschio. Non essendo in molta intimità, e volendo abbondare nei doni darà al bambino la scodellina in argento col cucchiarino ed il piatto, tutto il servizietto minuscolo delle sue pappe future. La madrina non ha obbligo di doni verso la partoriente; ma, ricevuto la notizia del parto. deve mandarle subito un mazzo di fiori in bulgaro. Il padrino deve regalare alla partoriente una scodella colla sottocoppa ed il cucchiaio, ed un ovaruolo col cucchiarino da ova; il tutto in metallo più o meno prezioso, o in porcellana, a seconda dei suoi mezzi e della sua generosità ; l'ovaruolo sarà con vantaggio mutato in un intero servizio da ova al latte. La scodella dev'essere sola. In parentela e nell'intimità si può mutare arbitrariamente il dono, tanto più se si tratta d'una madre di famiglia, che ha già ricevute tante scodelle quanti sono i suoi figli, e non può essere che mediocremente lieta di veder aumentarsi quella inutile collezione. In tal caso si può offrirle una cuffietta in vero pizzo antico o moderno, per le visite dei quaranta giorni che si ricevono in cuffia, oppure un gioiello colla data del giorno in cui è nato il bimbo. In alcuni paesi il padrino fa un dono alla madrina, ed allora la madrina o chi per essa, dà un pranzo d'invito in onore del padrino, e questi prende posto, a tavola, alla destra della signora, che gli ha fiitto l'onore di tenere un battesimo con lui. Il dono del padrino deve limitarsi ad una scatola di dolci , che può essere tanto una bomboniera di cartone e raso, come un oggetto d'arte inapprezzabile, o un cofanetto in metallo prezioso. Ad un battesimo, come ad un matrimonio, una signora non deve mai presentarsi vestita di nero. Il padrino, uscendo di chiesa, dà una mancia al sagrestano; e, rientrando in casa, dice qualche parola alla nutrice o alla bambinaia raccomandandole il suo figlioccio, e le pone in mano un dono in denaro. Lo stesso farà salutando la levatrice. Prima d'andare alla cerimonia, tanto il padrino che la madrina debbono imparar bene le risposte da dare al sacerdote, le formole di rinuncia da farsi a nome del bimbo, gli atti, le imposizioni delle mani. E' scortese verso i parenti, e dimostra di prestarsi di mala voglia, chi va ad una cerimonia senz' esservi preparato. Pel padrino e madrina di cresima non c'è altro obbligo che quello di fare un dono al bimbo od alla bimba il giorno stesso della cerimonia. Per lo più si sceglie per la bimba un ventaglio, pel maschio alcuni libri di lettura: sempre con accompagnamento di dolci. Il cresimato dev'essere invitato a pranzo per quel giorno colla sua famiglia in casa del padrino o della madrina.

La toletta d'una signora nubile (la parola zitellona, che ho usata qui in omaggio alla chiarezza, non dovrebbe mai sonare sulle labbra di una persona educata), la toletta d'una signora nubile, dev'essere, come già dissi, quello stesso di una signora maritata. Soltanto dovrà evitare tutte le eccentricità della moda, i colori primaverili, le fioriture brillanti che sono concesse alle signori giovani, anche quando non lo sono più di lei. deve vestire alla moda, con eleganza; ma con una certa serietà. Potrà portare le pelliccie di martora, lo scialle turco, i diamanti e i pizzi. E, finchè l'età ed il grado di conservazione della sua figura figura glielo permettono, nulla osta a che vada in teatro con abiti scollati come un'altra signora.

Il teatro e la conversazione sono i divertimenti che le si addicono meglio. Al ballo non ci dovrebbe andare, perchè vi sarebbe spostata, a meno che vi dovesse accompagnare una giovinetta. Ed in tal caso il suo contegno dovrebbe essere, a seconda della sua età, quello d'una sorella maritata o d'una madre. Ai bagni di Viareggio, pochi anni sono, c'era una signora nubile, che accompagnava una nipotina di diciotto anni. La zia ne aveva trentanove. Aveva certi occhi, certi capelli neri, certi denti, da far invidia ad una giovinetta. Vestiva con grande eleganza, ma sempre in nero. Discorreva benissimo in francese coi francesi, in inglese cogli inglesi, in tedesco coi tedeschi, in spagnolo con una vecchia dama spagnuola. Ho desiderato parecchie volte un turco ed un cinese, per udire la zitellona parlare quelle due lingue. Era una lombarda. Aveva fatto molte relazioni; ma il suo contegno era perfetto. Accompagnava sempre la nipote al ballo, ma non ballava mai. Ne era pregatissima; e tuttavia non l'ho mai udita rispondere, come fanno molte in simili circostanza, quel: - Non posso, faccio la mamma - accompagnato da smorfiette e sorrisi, che vuol dire: rinuncio ai divertimenti della mia età, per fare una parte da vecchia.- Perfettamente ridicolo! Ella diceva francamente: - Ma che le pare; alla mia età! Un giorno mi confidò, – mi piaceva tanto che me l'era fatta amica – che un signore, il quale faceva pensare e sospirare molte belle bagnanti, dimostrava di essere innamorato di sua nipote. Era quello che si suol dire un brillante partito. Ricchissimo; godeva d'una magnifica posizione, aveva riputazione di uomo d'ingegno, e forse lomera; ad ogni modo aveva molto spirito, era perfetto gentiluomo, e, per giunta, bell'uomo. Ma aveva trentasei anni, giusto il doppio della ragazza. La zia era preoccupata da questa circostanza; ma la fanciulla lasciava indovinare, nella semplicità del suo cuore, una notevole preferenza per quel bel signore. Quando giunse il babbo della ragazza la zia gli presentò il nuovo conoscente, di cui aveva prese informazioni e studiato il carattere, e gli narrò le sue assiduità, l'accompagnarle al passeggio, l'intrattenersi tutta la sera con loro, ecc., ecc. Il babbo lo conosceva di riputazione, ne fu soddisfatto, e, coll'accoglienza cordialissima, gli dimostrò che non sarebbe ricusato. Il giorno dopo, con un biglietto da vero innamorato, il gentiluomo gli scrisse domandandogli la mano.... di sua sorella. La zitellona! PARTE TERZA UN LEMBO DI CIELO CAPITOLO PRIMO. La fidanzata. Domanda di matrimonio - Contegno coi parenti - Colle amiche - Col fidanzato.

- Signorina, il signor padrone la prega di favorire nel suo studio perchè deve parlarle. È così che, per bocca d'una cameriera o d'un servitore, hanno principio la massima parte dei fidanzamenti regolari. La signorina, che è educata a saper morire sulla breccia anzichè commettere l'ombra d'una sconvenienza, si comprime vivamente il cuore per rischiuderne le orecchiette curiose, che vorrebbero interrogare la cameriera su quel ch'ella pensi di quella chiamata insolita, e su quel che ne dicano gli usci di casa, che, nella sua qualità di cameriera completa, deve aver ascoltati; e si limita a rispondere che andrà subito, e la congeda. Però i cuori delle signorine sono meno ingenui di quanto si crede. Quel signore che fu presentato alcune sere prima in palco, accompagnato dal babbo, o dallo zio o dal fratello maggiore, come un bimbo che si presenta alle scuole elementari, non è passato inosservato a quel cuoricino di fanciulla. Essa ha veduto che il signore accompagnato la guardava con certi occhi che parevano due punti interrogativi interrogativi incaricati di domandarle - Sì! o no? - Ed ha veduto pure che gli occhi del signore accompagnante sembravano due unità di misura, intente a registrare quanto lei fosse lunga e larga; e quale fosse il suo peso specifico; e quali le proporzioni esatte dei gas che componevano la sua graziosa personcina, e se il peso specifico della sua dote fosse sufficiente a bilanciare le irregolarità risultanti dall'inventario. Ma la signorina, educata con quella perfezione che non viene mai meno anche nelle circostanze solenni, ha fatto come se non avesse veduto nulla, e si è sempre mostrata intenta ai trasporti melodiosi di quel tenore innamorato, ed alle disperazioni di quella infelicissima prima donna - i tenori sono tutti innamorati, e le prime donne sono tutte infelici - come se quei due individui fossero la sola preoccupazione della sua anima giovinetta, e se alla possibilità d'una certa domanda, non ci pensasse di più che all'eredità dell'Imperatore della China. Così si comportano le signorine per bene. Ma ciò, non toglie che il giorno del grande invito, dato uno sguardo rapido alla propria coscienza per assicurarsi che non hanno commesso nessun errore da provocare quell'ambasciata paterna, vi accorrono perfettamente informate di quanto stanno per udire. - Senti, bimba - dice il capo della famiglia. - Ora hai finita la tua educazione. Gli abiti non ti si accorciano più ad ogni stagione. Il dente del giudizio ce l'hai; fa un po' vedere. Sì, è già completamente cresciuto. Sei una donna e bisogna pensare a collocarti. Qualunque sia la sua opinione in proposito, una signorina per bene si ricorderà che i genitori ci penano a mandarla fuori di casa; e non mancherà di dar loro una dimostrazione d'affetto, assicurandoli che si trova tanto bene con loro, che è felice, e non desidera punto punto di maritarsi, e sarebbe dispiacentissima di lasciarli. - Hai veduto quel signore che venne in palco l'altra sera? - Riprende il capo di casa. Oh! se l'ha veduto! Ma ad ogni modo si limita a rispondere freddamente di sì, che lo ricorda. - E che ne dici? Ti piace? Quel signore ti converrebbe perfettamente dal lato dell'interesse e delle qualità morali, e ti fa l'onore di domandare la tua mano. Le alternative sono tre. Il signore può piacere; può dispiacere; e può essere indifferente. La signorina deve esprimere francamente in quale di questi tre casi si trova. E se le piace, deve dirlo senza enfasi. E, se le dispiace, senza disprezzo, e sopra tutto senza fare mai la caricatura d'un suo difetto o della sua posizione. Uscendo dallo studio del babbo, dopo avere ricusata una domanda di matrimonio, deve fare come se la memoria di quel fatto non avesse passata con lei la soglia dello studio, e non deve tenerne parola con anima viva, neppure colla più intima amica. Incontrandosi con quel signore dovrà trattarlo come qualunque altro che le sia stato presentato; non attingere nessuna falsa vanità della sua domanda, e non attribuirgli la menoma umiliazione pel rifiuto subìto. Sono tanto vecchia, ho tanto vissuto, che per ogni circostanza, mi torna a mente un avvenimento che calza appuntino. Era una fanciulla di provincia, che non aveva genitori. Non era abbastanza agiata per avere una istitutrice addetta alla sua persona. Viveva sola con uno zio vecchio e severo. Per una delle tante licenze poetiche rigorosamente vietate da tutti i codici delle convenienze, s'era fidanzata di sua testa con un compagno d'infanzia; e con un coraggio degno di miglior causa, ed una fede idem, ricusava tutte le proposte di matrimonio per aspettare che quel suo fidanzato minuscolo raggiungesse una posizione non ancora determinata, che si smarriva nel più lontano avvenire. Un giorno una sua conoscente di fuori città le mandò un bel giovine; un vero giovane con baffi e basette, munito d'una lettera di presentazione. Andava a stabilirsi in quella provincia, e la signora, amica della madre di lui, voleva procurargli qualche conoscenza. Un'altra sconvenienza. Alle signorine senza mamma non si presentano giovinotti. Ma quella signora sperava di veder combinarsi un matrimonio, ed aveva presa la sola via che le era aperta. I due giovani si rividero in società, in teatro, e - per farla breve, perchè mi accorgo d'essermi impegnata in una storia lunga - s'innamorarono come due eroi da romanzo, malgrado quel fidanzatino più da romanzo ancora. Un bel giorno il giovine si presentò in casa della signorina portandole una lettera in mano, dicendo di essere stato a Torino, e d'averla avuta per lei dalla signora che gli aveva già fatto l'onore di presentarglielo. Lasciò la lettera ed uscì. Lo zio era presente, ma udendo che si trattava semplicemente d'un'epistola da signora, si risparmiò la briga di leggerla. Era quello appunto su cui il giovine aveva contato. La lettera era sua, e, confessando quello che i suoi occhi ed il suo contegno avevano già tradito, offriva la sua mano ed il suo cuore, e domandava alla signorina il consenso per chiederla in isposa allo zio. Precisamente il contrario di quello che avrebbe dovuto fare. Ma erano eroi da romanzo e dovevano passare di sconvenienza in sconvenienza. Infatti, la fanciulla non ne disse nulla allo zio, e, lottando col proprio cuore, innamorato del bel giovinotto coi baffi, e stemperandosi in lacrime, rispose segretamente nella prossima visita, che era fidanzata, e spinse l'eroismo donchisciottesco, fino a dirsi innamorata di quell'ombra di fidanzatino con cui aveva giocato alla sposa. Il bel giovane fu desolato, pianse, prese atteggiamenti sentimentali, e si fece sposo con un'altra. Ma la signorina, che aveva fatto del vero eroismo per ricusarlo, essendone innamorata, pensò che l'eroismo di cui nessuno è informato non ottiene il compenso d'ammirazione che gli è dovuto. E narrò la sua grande azione ad un'amica in tutta confidenza, tanto che vi fosse almeno una voce al mondo, per rimandare ai posteri la notizia di quel gran sacrifizio che si era compiuto in quel piccolo cuore. Il segreto fu così ben custodito che si seppe in anticamera ed anche in cucina. Uno di quei casi, che sembrano fatti apposta per gli eroi da romanzo, portò poco tempo dopo una cameriera che era allora in casa della signorina, a servire la nuova sposa del giovinotto. E però, appena lo ebbe visto, profittò di quanto sapeva per informare la sposa, del precedente amore, della precedente domanda e del precedente rifiuto, tacendo, con malizia crudele, le lacrime che quel rifiuto aveva costato, e che erano a tutta gloria del giovane. Narrata così, la cosa era d'una trivialità.... La povera sposa si vide nel pericolo di accettare un uomo ricusato, disprezzato da un'altra. (Oh! disprezzato!) E, con quell'amor proprio che distingue, o per dir meglio accomuna tutti gli esseri umani, dichiarò che: visto e considerato che il tale giorno del tale anno, nella casa tale, il signorino aveva subito un rifiuto, la sua dignità la obbligava a dargliene un altro. Ma i parenti della sposa non potevano lasciar andare a rotoli un matrimonio ben assortito, per quella freddura; si misero intorno al povero giovane, e lo indussero a scrivere alla infelice eroina del gran rifiuto, invitandola a dichiarare per iscritto, che lui non le aveva mai fatto domanda formale di matrimonio. - Da ciò, egli scriveva, dipende per me una questione vitale. La domanda da lui fatta in realtà era tutt'altro che formale, ma era una domanda di matrimonio bella e buona. Ad ogni modo però, quella povera fanciulla aveva troppo decoro, malgrado il suo curioso fidanzamento, per non mostrare di aver dimenticata tutta l'importanza che egli aveva dato a quel passo extra-legale. E dichiarò che mai in eterno lui aveva pensato a lei, che la conosceva appena, ecc. Ed il matrimonio si fece. Morale. Una parola imprudente, suggerita dalla vanità di farsi vedere desiderata, può offendere l'amor proprio d'un uomo e far nascere un ginepraio di guai, in cui la meno umiliata e ferita non è certo la signorina imprudente.

Se invece il partito proposto riesce simpatico, la risposta è favorevole; e si fissa un giorno per presentare il pretendente sotto questo aspetto. Quello è il momento più difficile della vita d'una donna. Non sa che viso fare, nè che contegno tenere. Il mostrarsi allegra e contenta è sconveniente. Il mostrarsi dolente è assurdo, perchè è lei che l'ha voluto. Il mostrarsi indifferente è scortese. Ma tutte le difficoltà scompaiono, quando una signorina si rassegna a non curarsi affatto del come deve mostrarsi, ed a lasciarsi vedere nello stato in cui si trova realmente: commossa, confusa, intimidita. Così è naturalmente, e così dev'essere. Tutto quello che può far per dissimulare il suo imbarazzo riescirà artificioso e sguaiato. Allora sì, è il caso di non parlare se non è interrogata. E se lo sposo è un po' ardito, e si fa coraggio a dirle: - Spero di non averla afflitta colla mia richiesta - oppure: - Mi lusingo che non sarà pentita del favore che mi ha accordato, - o qualunque altra domanda di questo genere, la sposa non deve mai tornire una frase da commedia per rispondere in modo lusinghiero. Un monosillabo, una breve risposta. - Ma no. - Sa pure di no, - e con questo la sua confusione, il suo rossore, i suoi occhi che non osano guardarlo, sono più lusinghieri di qualunque discorso. Da quel momento lo sposo ottiene l'accesso in casa, e, se è assente, è autorizzato a scrivere ogni giorno alla sposa, che è pure autorizzata a rispondergli ogni due giorni Molte volte, invece d'essere simpatico, lo sposo è indifferente. E tuttavia, per qualche considerazione, che qui non è il caso di discutere, viene accettato. Questa sfumatura di sentimento però non cambia nulla al seguito delle cose. E, dopo il consenso della signorina, i due fidanzati, che ieri non si conoscevano affatto, sono tenuti a vedersi o scriversi periodicamente, e con intimità. Quasi tutte le signorine si credono obbligate da quel momento a dimostrare una passione da Desdemona, ed a persuadere anche l'infelice, accettato per cento ragioni che non hanno nulla a che fare col cuore, che l'adorano addirittura,

"Fra quanti figli della terra il sole Veggon, e il cielo degli Dei stellato."

È un errore che una signorina di tatto deve evitare. Le sue lettere ed i suoi discorsi devono intrattenersi d'altro che d'amore. Notizie di famiglia, de' suoi preparativi, dei conoscenti. Progetti d'avvenire ecc.Ma la parte dell'amore è ancora da lasciare ai monosillabi, alle parole sott'intese, alle reticenze, - non fino al punto, beninteso, di sembrar fredda ed indifferente. La fidanzata non accetta nessun dono, e tutt'al più, se i parenti si tengono sicuri che tutto procederà bene, possono permettere fra i due giovani lo scambio delle fotografie. E la gioia di poter vedere il fidanzato in casa sua, una signorina dovrà pagarla con una rinuncia assoluta ai balli, ai teatri, alle conversazioni numerose. Ben inteso che non si lagnerà mai di questa privazione. Non sarebbe più quella signorina educata che s'è mostrata sempre, se facesse sentire al fidanzato il sacrifizio che egli le costa. E quello è il minore degli atti d'eroismo che la perfetta convenienza richiede dal suo giovane cuore. Un giorno la mamma è fuori di casa, oppure non si sente bene, ed è rimasta a letto. Ed il fidanzato ha prevenuto che a quell'ora farebbe la sua visita. (Un fidanzato ammodo previene sempre, e non arriva, come una tegola sul capo, quando meno s'aspetta). Eccolo. La signorina conosce il suo modo di sonare. È lui. La cameriera lo annuncia. Quel povero cuoricino cuoricino balza di gioia. Avrebbe una cosa da dirgli, proprio a lui solo, e tornerebbe tanto a proposito cogliere quell'occasione... Ebbene no. Deve avere il coraggio di rinunciarvi. Una signorina non deve ricevere il fidanzato sola. - Marietta, digli che la mamma non c'è; non posso riceverlo. E quando lo rivede le pare di volergli più bene dopo quella privazione che gli ha imposta. Poveretto, come deve averne sofferto! Vorrebbe compensarlo con un po' d'espansione, chiamarlo semplicemente col suo nome. E neppure questo le è concesso, dicono le regole di convenienza. Il loro modo di trattarsi dev'essere affettuoso, amichevole, ma non mai famigliare. Bisogna darsi del lei; e non anticipare le espansioni reciproche, nè i nomi di parentela alle future suocere, ai cognati. Un matrimonio può andar a monte, ed allora tutte quelle famigliarità anticipate rendono più difficile la situazione. Come si fa ad incontrare come un indifferente, senza arrossire, senza confondersi, un uomo a cui si è dato del tu? Non anticipi nulla, signorina. Lasci che il tempo maturi gli avvenimenti. I frutti acerbi hanno sempre un fondo di asprezza, mentre sono tanto buoni e dolci i frutti maturi.

CAPITOLO SECONDO. La sposa. Annuncio delle promesse - Visite - Corredo - Doni nuziali La sera del contratto - Circolari ed inviti - Al municipio - Colazione In chiesa - Viaggio di nozze.

Ecco; il tempo ha già mutate le circostanze. Omai i babbi hanno finito di parlamentare a lungo in segreto col notaio. Sono perfettamente d'accordo su tutti i punti. Il contratto è tutto steso come si dovrà leggere a suo tempo; ed il matrimonio è fissato a due mesi di data. Non si va ancora a teatri nè a feste. Ma la vita è tutta una festa. Ormai il matrimonio non è più un segreto per nessuno. Si mandano agli amici ed ai conoscenti de' bei cartoncini levigati sui quali è litografato in caratteri inglesi:

Elisa Elisei - Bernardo Bernardi Promessi sposi.

Un poema! E lo sposo ha già offerto alla sua futura compagna un ricordo; di poco valore ma tanto caro! E dietro l'invio di quegli annunci è venuta in casa una pioggia di carte da visita su cui è scritto P. C. che vuol dire per congratulazioni, profondamente sentite come profondamente espresse. Ma che importa? La sposa ha tanta esuberanza di gioia, d'affetto nel cuore, che può metterne dove mancano. E tutti quelli che incontra, tutti i visitatori si rallegrano con lei, e le fanno auguri, e si mostrano così contenti, che finisce col persuadersi che col suo matrimonio ha fatto la felicità di mezzo un paese. E scrive la grande notizia alle amiche lontane; e tra lettera e lettera vi sono i mazzi di fiori, e le scatole di dolci che porta lo sposo, e che essa può accettare ormai liberamente. E la mamma tratto tratto ha una piccola faccenduola, che la chiama nella stanza vicina; è lì, coll'uscio aperto, senza dubbio; ma è tanto presto fatto dirsi una parola: - Non è pentita della sua promessa? - Pensi! - Mi dia la mano. Dica, mi vuole un po' di bene? - Stia zitto. Viene la mamma. - Soltanto una parola, dica? - Lo sa bene. Tutte le dichiarazioni da commedia, non riesciranno mai a ritrarre la poesia di quelle paroline esitanti e misteriose. E tutto questo una sposa lo può fare, senza la menoma sconvenienza. Intanto la sarta le prepara una bella toletta nuova, da signorina, ma più elegante di quelle che ha portato fin allora. E, tutta ornata di quella nuova acconciatura e della nuova gioia, va colla mamma e lo sposo a presentarlo ai parenti ed agli amici più intimi. E si fanno i progetti pel viaggio; si può parlarne liberamente: - Andremo qua, e là, e poi là. Staremo fuori tanto tempo; vedremo questo e quell'altro. Ed il corredo? La sposa ne ha stesa la lista, ha assistito colla mamma a tutte le compere. Ha scelti lei tutti i modelli, le tele, le guarnizioni. E, man mano che ne giunge una parte, è lei che la riceve dalle mani delle operaie, ed esamina accuratamente oggetto per oggetto, prima di accettarlo. Sarebbe trascurata una sposa che non facesse tutto questo. È una dolce occupazione, continuamente interrotta da dolci sorprese. Tutti i suoi parenti le mandano, o le portano un dono. Ella non ha che ad accettare, ringraziare, esser contenta, e, ad ogni visita dello sposo, rendergli conto di tutte quelle novità, ed esser contenti in due. Ma la gioia delle gioie l'aspetta la mattina del giorno fissato pel contratto. Lo sposo le manda una scatola, un cofanetto, un tavolino da lavoro, un oggetto a sua scelta, che, qualunque ne sia la forma, è sempre una cornucopia della fortuna, da cui escono ogni sorta di meraviglie. Sono i doni nuziali, che, per regola generale, debbono rappresentare un valore tra il cinque ed il dieci per cento della dote della sposa. Ma una sposa per bene non fa questi calcoli: o se ha il cattivo pensiero di farli, deve avere il buon gusto di non esprimerli, neppure colla propria famiglia. In quel cofanetto trova l'abito bianco sacramentale pel giorno delle nozze, alcuni altri abiti; uno o più scialli turchi, e cachemires. Se lo sposo possiededei pizzi di famiglia, la loro tinta giallognola apparirà tra i freschi colori delle stoffe moderne. Altrimenti saranno due guarnizioni di pizzi nuovi che ne faranno le veci; per lo più una di Bruxelles ed una di Chantilly. E finalmente una schiera di buste di velluto, colle iniziali del nuovo nome che la sposa sta per assumere; il suo nome ed il cognome dello sposo. Sono: i brillanti, ereditari o nuovi, che lo sposo può offrirle; un finimento completo in oro e pietre; parecchi anelli; infine dei gioielli a seconda della ricchezza e generosità dello sposo, fra i quali primeggerà la famosa catena coll'orologio, che la sposa porterà quella sera stessa al contratto. Alcuni sposi usano presentare in persona i doni; ma è sconveniente. Obbliga la sposa e la sua famiglia a fare meraviglie e ringraziamenti ripetuti, per ogni oggetto, a misura che li osservano; e mettono sè stesso nella posizione imbarazzante, di stare ad attendere ad una ad una, quelle esplosioni di riconoscenza, e di rispondere a ciascuna con un complimento, che, per l'identica uniformità del caso, può avere ben poche varianti. Gli sposi ammodo mandano i doni il mattino, e ne accolgono i ringraziamenti tutti in una volta, più tardi quando si presentano. I doni vengono esposti col corredo nella camera della sposa, e, dopo la lettura del contratto, tutti gli invitati sono condotti ad ammirarli. Pei doni la cosa è gentile; lusinga l'amor proprio dei donatori; ed offre alla sposa un'occasione di rinnovare i suoi ringraziamenti. Ma il corredo.... via, proprio non so approvare che venga messo in mostra così. È un fatto indiscutibile che si usa. La signorina Rotschild, che si maritò ultimamente, ed ebbe un corredo di duecentocinquantamila lire in biancheria, aveva consacrato parecchie camere all'esposizione delle sue camicie, delle sue gonnelle, de' suoi calzoni. I giornali ne fecero minute descrizioni. Ma, dopo aver adempito al mio debito accennando questo uso, sento il bisogno di aggiungere, a titolo di consiglio, che sarebbe meglio non seguirlo. Mi sembra che quelle biancherie, tanto intimamente personali, debbono avere il loro pudore, o piuttosto, che facciano parte del nostro. Una giovinetta non può a meno di arrossire, mostrando ad un uomo le sue camicie. Io conosco una bella sposina, maritata da parecchi anni. La vigilia delle sue nozze, un giovinotto, che ne frequentava la casa, mi descrisse il corredo, poi soggiunse: - Mi ha fatto veder tutto. Fino le calze che metterà domani. Non ho mai potuto dimenticare quella circostanza. La confidenza, fatta ad un giovine, delle proprie calze, mi ha spoetizzata. Ancora adesso, quando incontro per via quella bella donnina, qualunque sia la sua toletta, traverso il velluto, il raso, la seta, un'illusione ottica mi fa vedere le sue calze. E sarei pronta a scommettere che quel giovinotto prova la stessa illusione. Che ne penserebbe la bella signora se lo sapesse? E, sopratutto, che ne penserebbe suo marito? Coi doni dello sposo saranno pure esposti quelli che egli avrà mandati per le sorelle ed i fratelli non maritati della sposa; e quelli che i parenti di lui avranno offerto alla futura parente. Quella sera la sposa regalerà i suoi gioielli da signorina alle sue amiche più intime. Nè la sposa, nè la sua famiglia, debbono far doni allo sposo. Però vi sono paesi in cui la futura moglie suole offrire al futuro marito uno spillo di brillanti, in segno di unione. Là non debbano conoscere il proverbio: "Dono che punge, l'amor disgiunge." Ad ogni modo, in questa, come in tutte le circostanze, in cui vi sono formalità convenzionali da compiere, la perfetta perfetta convenienza sta nell'uniformarsi agli usi del paese, in cui si vive, e non a quelli del paese proprio, quando se ne vive lontani; poichè nulla è più indelicato ed egoistico, che il respingere i costumi della città dove siamo ospitati. Il contratto nuziale dev'essere letto dal notaio, ad alta voce e per intero, alle persone invitate, e, dopo la lettura, lo sposo sarà il primo a firmarlo. Egli porgerà poi la penna alla sposa; in seguito firmeranno i parenti, ed ultimi gl'invitati, cominciando dalle persone più ragguardevoli per età e posizione. Tutte le persone che firmano il contratto, se non lo hanno fatto prima, sono in dovere di mandare un ricordo alla sposa.

Otto giorni prima del matrimonio, si mandano le circolari alle persone che si vogliono invitare, indicando l'ora in cui si andrà al municipio, alla chiesa, ecc. L'invito deve essere su cartoncino lucido, diviso per metà da una linea verticale. Alla destra, sarà stampato l'invito a nome dei parenti della sposa, a sinistra quello dei parenti dello sposo. Le signorine attempate, che vivono sole, faranno l'invito a nome proprio; ed in tal caso lo sposo, anche avendo i genitori, dovrà fare altrettanto.

Nell'epoca di positivismo in cui viviamo, si usa fare prima il matrimonio civile, e dopo l'ecclesiastico; prima il contratto, poi la cerimonia; prima la prosa, poi la poesia. Per recarsi al municipio la sposa fa una toletta, elegante quanto vuole, ma sempre una toletta da visita, col cappellino assortito. La sposa siede a destra nella prima carrozza, avendo a sinistra sua madre o quella parente che ne fa le veci. Sulla panchina dinanzi siedono, in faccia alla sposa, il suo babbo, in faccia alla madre, il testimonio della sposa. Nella seconda carrozza si mette lo sposo co' suoi genitori, o se non li ha, quel parente che li ha suppliti nella domanda di matrimonio, e la signora che l'ha assistito nella compera dei doni, e nell'allestimento della casa; con essi deve entrare il testimonio dello sposo. Nelle altre carrozze si collocano i parenti e gli invitati. Tutto il corteggio parte dalla casa della sposa. Per lo più, tornando dal municipio, si offre agli invitati una colazione, che devono fare i parenti della sposa in casa loro. Dopo la colazione la sposa cambia toeletta. Si veste di bianco col velo ed i fiori d'arancio; oppure toglie solamente il cappello e si mette il velo bianco. Ed all'ora stabilita, coll'ordine di prima si parte pel matrimonio ecclesiastico. La sposa entra in chiesa dando il braccio a suo padre, e ne esce dando il braccio al padre dello sposo. Lo sposo entra accompagnando la sua mamma, ed esce accompagnando la suocera. Il babbo, che rimane libero, dà il braccio alla mamma che rimane libera in tutti e due i casi. E nel ritorno, la sposa entra in carrozza colla suocera, ma non prende più la destra. La cerimonia è compiuta, passata. Ella cessa d'essere nella posizione eccezionale, di sposa: è una giovine signora, e deve alla suocera, ed alla vecchia signora, il riguardo di cederle la destra in carrozza. Il suocero si colloca in faccia alla sposa; lo sposo in faccia alla propria madre. In molti casi si differisce il matrimonio ecclesiastico fino alla sera o al mattino seguente, ed allora invece d'una colazione, la famiglia della sposa offre un pranzo. Le signorine che hanno passato i venticinque anni non si vestono in bianco. Molte signorine giovani, che vogliono evitare le pompe, soppriono anch'esse quel costume leggendario. Non posso a meno di dire che fanno male. Capisco le prime. La loro età richiede una serietà maggiore. Ma una giovine sposa perchè toglierebbe una parte di solennità solennità a quella festa che è la più importante della sua vita? Ho conosciuto una signorina, che, per una serie di circostanze troppo lunghe a ripetersi, dovette maritarsi sull'alto d'una montagna, dove possedeva un villino, e nel cuore dell'inverno. Il suo villino non aveva cappella, e c'erano due miglia di strada, impraticabile alle carrozze, per scendere ad una chiesuola del villaggio. E tuttavia si vestì di bianco, e fece, in quel gelido costume, la lunga strada sulla neve, per inginocchiarsi in abito nuziale accanto al suo sposo, che anche lui era rigorosamente in abito nero. Confesso che, quando mi narrò questo particolare delicato, ne fui profondamente commossa. Le signorine mature, per lo più, semplificano la cerimonia andando prima al municipio, e di là direttamente alla chiesa in completo costume da viaggio. Vanno alla colazione così, e partono senza cambiar toletta. Le vedove che si maritano devono pure contenersi così. Nel matrimonio d'una vedova, qualunque pompa è della massima sconvenienza. In chiesa una vedova deve fare il matrimonio a porte chiuse; non deve mandare prima delle nozze la partecipazione della promessa; non fa inviti. Dopo il matrimonio, entro otto giorni, si mandano le circolari coll'annuncio che il matrimonio ha avuto luogo. Nei matrimoni delle signorine che vivonmo sole, le partecipazioni debbono essere redatte a nome degli stessi sposi. Le partecipazioni dopo le nozze sono di primissima necessità, e si deve essere larghi nel distribuirle anche alle lontane conoscenze. È un riguardo che lo sposo deve a sua moglie, per non esporla ad incontrarsi, essendo al suo braccio, con qualche compagno di gioventù di lui, che la prenda in fallo, o con qualche signora che esiti a salutarla. Tutte le relazioni di lui debbono essere informate del cambiamento avvenuto nella sua posizione, ed aspettarsi d'incontrarlo colla sposa, per essere pronti a salutarla come tale. Per questo riguardo, anche le vedove debbono mandare le partecipazioni del matrimonio compiuto. Tutte le spese del matrimonio, comprese le carrozze, se le rimesse delle famiglie non le forniscono, sono a carico dello sposo.

Una volta era d'obbligo che la sposa si sciogliesse in lagrime per andare all'altare. Gli occhi umidi ed accesi, le labbra tumide, il naso rosso come una ciriegia, facevano parte della tenuta di rigore per una sposina ammodo. Lo sposo, se non altro per amore di simmetria, non doveva mostrarsi lieto in faccia a tanto dolore; si atteggiava al più profondo compianto, dinanzi alla lagrimevole situazione della fanciulla. Il sacerdote, compreso della necessità di mettersi all'unissono, recitava un predicozzo straziante ai due sventurati giovani, e tutte le signore lagrimavano nei fazzoletti ricamati. Se un indiano fosse entrato in una chiesa durante la cerimonia nuziale, al vedere il pubblico, e specialmente la sposa, in quello stato di desolazione, l'avrebbe creduta una suttie, da ardere sul rogo del marito. La prima sposa giovane che ho visto maritarsi senza piangere fu la principessa Margherita. Tutti sanno che a Torino vi sono quattro signorine di famiglie aristocratiche, le quali hanno il gentile diritto di andare a marito portando in capo gli stessi fiori che ha portati la principessa. Ereditandone i fiori, ne ereditarono naturalmente il diritto di non piangere. Ed infatti se ne sposarono già tre, e fui assicurata che non si presentarono cogli occhi gonfi e col naso rosso. D'allora le lagrime furono messe da banda, a grande soddisfazione degli sposi, che s'accomodavano male di quelle scene in cui facevano la parte di necrofori, seppellitori di Vestali. Codesto non vuol dire che le signorine amino meno loro famiglia, e ne sentano meno il distacco. Esse si sono fatte più coraggiose e ragionevoli; hanno compreso che le loro lagrime non potrebbero che affliggere maggiormente i loro cari, e che infine, per un matrimonio accettato da loro, e con pieno aggradimento, quell'atteggiarsi da vittime sarebbe un'incoerenza. Al momento poi di dire addio al babbo, alla mamma, alla casa paterna, di entrare in carrozza e di partire, se il pianto fa gruppo alla gola, se le lagrime fanno violenza alle ciglia, lascino che il loro cuore si sfoghi: non è che un momento. I cavalli scalpitano, i bauli sono già alla stazione; fra pochi momenti il fischio della macchina a vapore dirà alla mamma commossa, che la portiera del coupè s'è chiusa sui due viaggiatori, e che il primo bacio di sposa ha cancellato quelle ultime lagrime di fanciulla.

Nota dell'autrice. - Nel correggere le bozze mi accorgo che il periodo seguente non ha nulla a che fare colle leggi di convenienza. A scarico di coscienza ne prevengo lealmente le lettrici. Se, come credo, non si curano punto delle mie opinioni personali sul viaggio di nozze, possono saltare queste pagine senza offendere nè me, né il mio libro. LA MARCHESA COLOMBI.

Ho udito alcuni sentimentalisti vaporosi esclamare che il viaggio di nozze è una profanazione; che si vanno disseminando le più care memorie nelle camere d'albergo! Essi vorrebbero la villetta isolata, e rinchiudervisi. - Solo con sola Dido Enea ridotto. - E ripetersi giorno e notte: - Amoris tui solum et dives sum satis; e quando se ne vanno pei fatti loro, le più care memorie, rinchiuderle tutte là sotto chiave. Sono spiriti unilaterali, e non comprendono che una felicità unilaterale. La felicità del viaggio di nozze invece è un prisma. Gli sposi vi si studiano, vi si conoscono, vi si apprezzano sotto mille aspetti diversi. Si domandano: - Come saprà adattarsi agli inconvenienti del viaggio questa persona che ha vissuto sempre fra le agiatezze? Saprà resistere alle fatiche delle lunghe corse, delle tolette mattutine, delle visite assidue alle chiese, ai musei? Ed i suoi gusti artistici? Cosa dirà di quel quadro? Di quella statua? Che impressione le farà quella musica, quel dramma? Come parlerà nell'espansione della vita intima? Oh, le delizie del viaggio di nozze! Avere innanzi a sè una lunga serie di giorni, completamente liberi da qualunque preoccupazione, all'infuori del loro amore e delleloro gioie. Andar incontro all'ignoto che si annuncia con tinte color di rosa, come il sole col crepuscolo! E sentirsi nell'anima la convinzione che inebria e riposa, d'avere un essere sulla terra pel quale siamo il primo pensiero, il primo affetto ed anche il primo dovere. E con quest'essere amante e caro, prendersi allegramente a braccetto, ed affrettarsi per le strade, unendo il passo e parlandosi con abbandono; e poter ripetere a se stessi: Abbiamo diritto d'amarci! Lo neghino pure i romanzieri, ma il diritto di amarsi alla luce del sole, senza menzogne, senza rossori, sarà sempre la poesia dell'amore. Ed a poco a poco si comprende che quelle ore di espansione e di delizia non sono più misurate dalla durata d'una visita; che si ripetono senza interrompersi, e si ripeteranno sempre, per un tempo lungo, infinito. L'ora del pranzo, l'ora del riposo non li separa più. Oh la dolce prosa della vita materiale! "Chi l'avria detto mai, che l'uno all'altro Tanto incogniti pria, poi tanto cari" siederebbero di fronte ad una mensa d'albergo, interrogandosi a vicenda sui propri gusti, confessando di aver appetito, mangiando allegramente - à la guerre comme à la guerre -dandosi del tu presente una quantità di persone, pagando il conto colla borsa comune! Tutto il resto può parere un sogno poetico da menti innamorate; ma il primo pranzo all'albergo è pretta realtà. Dopo il primo pranzo soltanto, sentono che quella felicità è vera, positiva, che le loro esistenze si sono congiunte per la vita vera, con tutto il suo corredo di spirito e di materia, di poesia e di prosa. E poi vi sono le ore in cui non si è soli: al teatro, al caffè. E nella piena libertà del viaggio da nozze, si rigusta il mistero d'una stretta al braccio, d'una mano presa furtivamente, del lungo sguardo appassionato che narra un'illiade di desideri, dello sguardo fuggevole e lampeggiante, che dà il fremito e l'ebbrezza d'un bacio. A traverso quel turbine di godimenti, in quel sogno di delizie, vedono azzurreggiare in un prossimo avvenire, la placida promessa d'una casetta tranquilla, dove saranno padroni e soli, e dove si vedranno sotto un aspetto nuovo, nell'uniformità della vita casalinga... È un'altra serie d'incanti, che promette loro quel dolce riposo dopo tanto movimento. I sentimentalisti che, pel culto delle memorie, hanno cominciato dalla fine e si sono isolati, hanno sacrificato tutte quelle immense dolcezze; e non le ritroveranno più tardi, perchè il viaggio di nozze è un frutto che fuori stagione non si gusta più. È vero ch'essi non hanno disperse le memorie care negli alberghi, e le hanno gelosamente rinchiuse; ma son ben certi che, a lungo andare, non ci sia entrata la sazietà o la noia, a metterle in fuga come una nidiata di passeri? Per quell'affetto che m'ispirano le mie lettrici, io le consiglio, qualunque sia la loro età, la loro posizione, non rinuncino al viaggio di nozze, anche a costo di qualche sacrifizio d'interesse, di qualche privazione. Tutte le felicità che potrà dar loro l'avvenire, non le compenseranno mai di quella immensa gioia perduta. PARTE QUARTA A MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA VITA CAPITOLO PRIMO. La Signora.

Ritorno dal viaggio - In famiglia - Visite - Pranzi

- Ma, marchesa, io non ci sono giunta ancora a mezzo del cammin di nostra vita. - Scusi, ha marito? - Sissignora, ma non ho che diciasette anni. - Non importa. Se ha marito, questa parte del mio libro la riguarda. Ella s'è maritata assai presto. Ma ciò non toglie che, dal giorno in cui è diventata una signora, la parte ingenua, ridente, spensierata della sua esistenza è passata. Non vadano in collera, signori mariti; non protestino. Non intendo dire che il matrimonio non abbia le sue grandi gioie, che il loro affetto di sposi non dia alle loro compagne soddisfazioni forse, e senza forse, maggiori di quelle vaporose e inconscie che ebbero da fanciulle. Ma loro sanno che una signora maritata, qualunque sia la sua età, assume il governo della casa, riceve il grave deposito di un nome di cui è responsabile, risponde dell'onore di esso, e del decoro della famiglia. I misteri che ha scoperti, hanno sfrondate molte delle sue illusioni e le hanno insegnate delle verità dolci e tremende. D'allora la spensieratezza non le è più possibile. È entrata nel periodo serio della sua esistenza, ed avesse pure quindici anni soltanto, ha acquistate tutte le responsabilità, tutti i doveri d'una persona che è giunta

"A mezzo del cammin di nostra vita"

L'età concede dei privilegi straordinari. Io mi valgo della mia cuffia e de' miei occhiali, per introdurmi nel nido della sposa appena tornata dal viaggio, ed assicurarmi coi miei occhi, se sa essere una signora, com'è stata una signorina, veramente ammodo. Verifichiamo prima di tutto gli arretrati. - Ha scritto ogni giorno alla suocera ed alla mamma durante il viaggio di nozze? - Un giorno a Firenze, ero stata a San Miniato.... ero così stanca; non ho proprio potuto. Ed un'altra volta a Livorno.... - Ebbene, bisognerà farne delle scuse, e riconoscere d'aver mancato ad un dovere, verso la suocera; quanto alla mamma.... - Oh! alla mamma ho scritto sempre. Me lo figuravo. Eppure là l'indulgenza era sicura, l'affetto non correva pericolo. Quella che va trattata sempre in modo da guadagnarne il cuore è la suocera, sono i parenti del marito, che nutrono sempre una vaga ostilità contro quella giovine, la quale, arrivata ultima, s'è fatto il posto più largo nell'animo del loro figliolo, se lo è accaparrato, l'ha fatto suo, e d'un balzo ha messo tutti gli altri affetti al secondo posto; ed a che distanza anche! La mamma è già venuta lei nevvero? Era alla stazione ad incontrarla? Oh le mamme! Ebbene, la sua prima visita, ora, ha da essere per la suocera. - Vediamo i bauli. Ci sono i doni per la famiglia del marito? Benissimo. Bisogna mandarli subito, ed al tempo stesso annunciare alla suocera che andranno a salutarla in giornata. È venuto un fascio, una pioggia di carte da visita, in risposta alle partecipazioni. Si deve fare una scelta, d'accordo col marito. Una scelta accurata delle famiglie colle quali si vuol mantenersi in relazione. A quelle non si manda una carta, ma ci si va in persona col marito. Alle altre, l'invio d'una semplice carta dei due sposi, dice urbanamente, che si è grati della loro memoria, ma non s'intende continuare le visite. Quelle sono le così dette relazioni di saluto. Si conoscono, s'inchinano per via, si scambiano parole scontrandole in compagnia; ma tutto finisce lì.

Alcuni anni sono ricevetti una lettera da uno de' miei molti nipoti, nella quale mi diceva dopo tante belle cose: "....e ti confesso che il mio secondo anno di nozze fu assai meno beato del primo. E sì, che ci ho Ninì, il dolce amorino biondo e color di rosa, che comincia a dire bab...bo. Nelle mie ore di noia ho fatto una scoperta che non può essere senza importanza per la società. Ho trovata la vera causa della poca devozione degli uomini pel settimo sacramento. È una specie di malattia nervosa, che si sviluppa dopo la luna di miele, nelle facoltà visive del marito, e gli fa apparire tutte le mogli degli altri più attraenti della propria. Se tu trovassi un buon oculista, che volesse occuparsi di questa oftalmia maritale...." Partii immediatamente per Torino, senza medico s'intende. Sotto il melanconico umorismo di mio nipote, c'era qualche cosa di amaro, che mi fece temere per la felicità avvenire di quella famiglia. Tuttavia avevo un vago presentimento che, a guarire la malattia di Primo, basterebbe la mia vecchia esperienza. Giunsi inaspettata. Primo era fuori. - La signora è rientrata or ora dalle visite; si sta mettendo in libertà, mi disse la cameriera. Mettersi in libertà! Era la chiave del mistero; la prima causa della malattia del marito. Guai alle mogli che si credono in diritto di mettersi in libertà quando sono in casa. Ordinai alla cameriera di lasciarla fare, di non annunciarmi; passai ad aspettarla in sala da pranzo, dov'era già apparecchiata la tavola. L'Emma entrò poco dopo. Era in abito da camera e pianelle. Aveva un abito da camera di cachemire azzurro, con un bordo di velluto color di rosa, una grazia di abito da camera; ma era un abito da camera. Le pianelle di raso azzurro, ricamate di perline rosee, sembravano quelle di Cenerentola, che avessero finito collo scontrarsi per fare il paio. Ma erano pianelle. E quella toletta mattinale, calzata in fretta senza goletto nè polsini , era mal completata da un foulard bianco annodato intorno al collo. - Tuo marito non viene a pranzo? le domandai. - Sì, verrà a momenti. - E ti metti a tavola così? - Scusi, nonna; non prevedevo la fortuna della sua visita; e, sa, in casa.... siamo soltanto noi.... -In casa!... soltanto noi! soltanto! quando siete tu e tuo marito? Ma la tua casa è il tuo regno; ma tuo marito è il tuo mondo. Cosa ci guadagni se le persone a cui hai fatto visita, e quelle che ti hanno scontrata per via ti trovano bella? Nulla. Ma se ti trova bella tuo marito; se gli piaci, è il suo amore che guadagni; è la felicità della tua vita. Una lettrice: - Ah Marchesa! Questa è la storia d'uno dei sette peccati capitali di Eugenio Sue; La…. - Ho capito. Non occorre dirne il titolo. Il mio libro lo possono leggere anche le signorine. È per questo che cercavo di dare un'altra forma alla tesi di quel racconto, ma non voglio che mi si accusi di plagio. Ho dato all'Emma quel romanzo, ed ella v'imparò che una signora ammodo non deve mai trascurare la propria toletta davanti al marito. Deve tenere i suoi abiti da camera anche i più ricchi per le ore mattutine; ma durante il giorno deve portare abiti attillati, eleganti nella loro casalinga semplicità, e messi con tutti quegli accessori, stivaletti, polsini, goletto, cravatta, ecc. che costituiscono l'ordine. È così ch'egli è avvezzo a vedere le mogli degli altri, e se la sua è meno accurata, ne viene di conseguenza quella tale malattia agli occhi, per cui si vedono tutte le donne più attraenti della propria. L'accuratezza, l'eleganza bene intesa, sono una specie di nobiltà individuale. Ad una persona che vediamo trascurata e dimessa, finiamo per attribuire una specie d'inferiorità; ed al confronto delle altre, la trattiamo con quella stessa noncuranza con cui si tratta ella stessa. Vi sono molte signore che, come hanno abbigliature di casa, e delle abbigliature per uscire, hanno pure un tono di voce, delle maniere, un'educazione di casa; ed altre di gala. E pur troppo quelle di casa sono rozze ed elementari come una vera tenuta di fatica. - Vuoi bere? domanda il marito a tavola. - Sì. No. Oppure porge il bicchiere in silenzio. - Dio! quanto mi dà sui nervi quel rumore che hai fatto colla forchetta sul tondo. - Oh che noioso! - risponde la signora, la quale avrebbe a' suoi ordini tutto un frasario di scuse, se, invece che a suo marito, avesse urtato i nervi ad un primo venuto qualunque. E sorbisce la minestra con un rumore da tromba aspirante. E, dimenticando completamente la regola severa del collegio di masticar sempre a bocca chiusa, lascia sonare quei mcia mcia pastosi, che rivoltano lo stomaco a chiunque ha la disgrazia di mangiar con lei. Se avrà invitati, o se andrà a pranzo fuori non lo farà; ma in famiglia! Alla famiglia s'ha diritto di rivoltar le budella, pur di fare i proprii comodi. Sono codeste signore che hanno inventata la frase volgare: -In famiglia non si fanno complimenti. Perchè non se n'hanno a fare? Non è in famiglia che si deve amare più e meglio, che fra semplici conoscenti? Ed i complimenti non sono espressioni di sentimenti gentili ed affettuosi? Eppure quelle stesse signore non rifiniscono di curare la propria camera, di ammonticchiar materassa sul loro letto, e dicono: - Si può soffrire un cattivo letto in un albergo, perchè ci si sta qualche notte di passaggio. Ma dove s'ha da dormire tutta la vita, si vuole che sia comodo. Ebbene; i loro conoscenti le vedono soltanto di passaggio; ma è il marito che s'ha da sedere a mensa con loro per tutta la vita e per tutta la vita deve tenersele al fianco, e render loro mille piccoli servigi. Perchè non cercano di rendergli morbide le loro maniere, di appianare le asprezze del carattere, di addolcire la voce per lui, colla stessa cura con cui ammorbidiscono il letto a se stesse? Dipende da loro che il matrimonio riesca un letto di piume, o un letto di Procuste. Se sapessero come le ingentiliscono quelle paroline di cortesia: - Grazie; scusa; quanto sei gentile; non disturbarti, ecc., ecc. Senza contare che gli uomini, meno graziosi per natura, inclinano sempre ad esagerare per proprio conto il grado di emancipazione dalla civiltà, che la moglie si accorda. E se ella riceve un favore senza ringraziarlo, e va a colazione spettinata, lui si crederà autorizzato a passeggiare per la casa in mutande ed a fumarle sul naso con una pipa di gesso; troppo fortunata ancora, se l'età o la calvizie non gli suggerisce di beatificarsi la giornata colle delizie d'un berretto da notte. Una moglie non deve mai affidare ad una cameriera nè ad altri la cura di provvedere e mantenere la guardaroba di suo marito. Sarebbe dimostrargli un'indifferenza scortese. S'egli le offre un divertimento qualunque, una serata, un viaggio, l'accoglierlo con freddezza, il mostrarvisi indifferente per far pompa di gusti casalinghi, è una mancanza di tatto, che tende a deprezzare l'offerta ed umilia chi la fa. Qualche volta il marito approfitta del Natale, del capo d'anno, dell'onomastico, d'una festa di famiglia, per offrire in dono alla sposa un oggetto che avrebbe dovuto provvederle. Il farne l'osservazione sarebbe addirittura villano, come pure il calcolare sul prezzo della cosa offerta, e considerare quella spesa nel bilancio di famiglia. Un dono si accetta sempre come un dono, con elogi, ringraziamenti, e si mostra alle persone intime, e si ripete, che è una gentilezza del marito, precisamente come fosse d'un'altra persona. Al marito ed ai suoceri si deve il riguardo di aspettare sempre prima di mettersi a tavola, e non si deve spiegare il tovagliolo che quando essi sono seduti. La moglie, alla tavola di famiglia, tiene sempre la destra del marito; ma se c'è una suocera, le cede il diritto di servirsi per la prima, e le risparmia tutte le brighe del servizio, il tagliare, il mescere, ecc. Gli stessi riguardi deve pure accennare di usarli anche al suocero, per deferenza alla sua età, ma non insistere se, come uomo, rifiuta d'accettarli. Infine una signora educata non deve ammettere altra differenza tra il contegno che usa in società, e quello che tiene in casa fuorchè un grado maggiore di espansione.

Il giorno fisso per ricevere è ormai ammesso nei nostri usi. A miei tempi sarebbe stata un'impertinenza. Non erano che i principi e le autorità, che potevano fissare un giorno alle persone a cui volevano far l'onore di riceverle. Ma i semplici privati dovevano mostrarsi sempre pronti ad accogliere accogliere in qualunque giorno i loro eguali, che avevano la gentilezza di andarli a visitare. Accadeva però, che, mostrandosi sempre pronti ad accoglierli, erano sempre fuori, e non li accoglievano mai. Per cui si dovette adattarsi a dare alle visite quella specie di regolamento burocratico che è il giorno fisso. Parlando ad un'altra signora, si potrà domandare in che giorno riceve. Ma parlando di noi stessi bisogna dire: - Sto in casa il tal giorno- per non darsi l'aria importante d'una piccola potenza. Una signora che riceve non deve mettersi in gran toletta; ma neppure può tenere un abito da casa, fosse pure attillatissimo ed elegante. Deve scegliere una toletta semplice, ma una toletta da visita, per mostrare a' suoi visitatori che ha pensato a loro, che era preparata ad accoglierli. Le persone di buon gusto hanno abolito l'usanza di far annunciare le visite dai servitori. Che Dio le benedica! È la cosa più inurbana che si possa immaginare per mettere una signora nell'imbarazzo. Entrare in una casa, e trovare un servitore che ci domanda il nostro nome come un avvocato fiscale che deve istituire un processo! E dover rispondere a quella potenza d'anticamera, che la guarda con meraviglia, se si permette di fargli pronunciare un nome qualunque, senza un po' di marchesa o di contessa davanti! ed entrare in una sala presentata da un servitore! Fu un pensiero gentile che fece dire alle padrone di casa moderne: - Le persone che vengono a vedermi il giorno in cui sto in casa, sono invitate da mio marito o da me, e però sono gente ammodo. Entrino dunque senza trovare inquisizioni per via, e sarò io stessa che dirò il loro nome agli altri visitatori, senza obbligarle a declinarmelo prima. Tuttavia vi sono ancora famiglie, che per fare una grandezza, continuano a far annunciare. In tal caso una visitatrice, entrando nell'antisala, dovrà dire spontaneamente il proprio cognome senza nessun titolo, prima che il servitore sia costretto, per adempire al suo incarico, di rivolgerle la parola. La destra del camino, o del divano, è riservata alla padrona di casa. E, per regola generale, non la cede mai. Ma non deve dimenticare che non vi sono regole senza eccezioni. Un giorno parlando d'una signora io dissi: È molto giovane. Credo che non abbia ancora vent'anni. - Davvero? mi osservò un vecchio signore. Avrei creduto che ne avesse almeno settantuno. Lo sproposito era così grande, che lo presi per uno scherzo e lo pregai che mi spiegasse il perchè di quell'unità su tante decine. - Perchè non ha ceduto la destra del camino a mia moglie che ne ha settanta. Vi sono poi certe superiorità d'età, di posizione, di meriti, così incontestabili, davanti a cui anche una signora deve inchinarsi. Una mia amica, di un tatto squisito, incapace di commettere neppure l'ombra d'una sconvenienza, mi confessava d'essersi alzata in piedi nel suo palco, quando le fu presentato Paolo Ferrari, alla prima rappresentazione del Cantoniere. - Che vuoi? mi diceva; quella sera era la figura principale del teatro. Ci dominava tutti. Ci alziamo pure quando entra il re. Egli rimase imbarazzato sai; ma io no. Ed aveva ragione. Era un'irregolarità, ma una bella irregolarità; felix culpa; e provava che lei possedeva meglio di tutte il sentimento dell'arte; che il suo animo era più gentile. Dopo aver presentata l'ultima venuta alle altre persone che sono in sala, una padrona di casa deve rivolgerle la parola direttamente, per far cessare la confusione che la presentazione ha potuto ispirarle e, soltanto dopo averla fatta parlare un momento, riprenderà il discorso interrotto dalla sua venuta, avendo cura di metternela a parte. Per congedarsi dalle signore, la padrona di casa si alza, e le accompagna fino alla porta della sala, e là ripete la stretta di mano e l'inchino, senza fermarsi in complimenti che la terrebbero troppo a lungo lontana dagli altri visitatori. Credo di non dover aggiungere che non deve mai dir nulla fuorchè bene delle persone che sono uscite. Questa è la civiltà più elementare. Se agisse altrimenti, autorizzerebbe chi l'ascolta a domandarle: - E perchè riceve, e ci espone a trovarci al contatto di persone, che non meritano la sua stima?

"Souvenez vous toujours dans le cours de la vie, Qu'un diner sans façon est une perfidie".

Assolutamente una perfidia, non voglio ammetterlo; non arrivo fin là. Ma credano pure, signore mie, che il prender troppo sul serio la preghiera degli amici intimi di dar loro il pranzo di famiglia, non è il favore più grande che possano fare ai loro convitati. Il pranzo di famiglia, sia; ma con qualche aggiunta. Un buon antipasto; il piatto del compenso, ed il piatto del complimento, ed una bottiglia con tanto di polvere; ed allora pazienza, il pranzo di famiglia sarà bene accetto. Altrimenti si corre il pericolo di ricevere la lezione che si ebbe un certo avaro, il quale invitò parecchi amici a pranzo e fece servire: una minestra di riso al brodo, un lesso di manzo, un piatto di spinacci, formaggio e pere. Dopo pranzo disse ai convitati: - Vedono che proprio non ho fatto complimenti. - Via, rispose uno di quegli infelici, se n'avesse fatto un pochino non ci sarebbe stato gran male. Del resto, per questi pranzi d'amici intimi basta ricordare quanto diceva Brillat-Savarin, gastronomo di grande rinomanza: "Invitare una persona, equivale ad assumere l'incarico della sua felicità, per tutto il tempo che deve passare in casa nostra." Ci si metta cordialità ed affetto, e basta. Ma dove si richiede tutta l'intelligenza d'una buona padrona di casa, è ai pranzi più o meno di gala. Lo stesso Brillat-Savarin diceva che, perchè un pranzo riesca bene, i commensali debbono essere non meno delle Grazie, e non più delle Muse. Per verità io credo che, senza uscire dalla mitologia, si possa salire fino al numero delle Ore, senza inconvenienti. Purchè sia proporzionato il numero degli uomini e delle signore. Una vicina gentile, che potrebbe agitarsi, ed anche cadere svenuta se nascesse una discussione, basterà sempre ad impedire ad un uomo educato di impegnarsi in quei discorsi di politica, di religione, che fanno bollire il sangue facilmente. Bisogna calcolare il numero di persone che possono stare alla tavola, a tutt'agio con uno spazio non minore ai sessanta e non maggiore di settanta centimetri per ciascuna. Così non saranno nè strette nè isolate. E sopra tutto, per tutti i santi del paradiso, che non sieno tredici! Lei, mia signora, non ha questi pregiudizi; suo marito neppure. Ma qualcuno de' commensali potrebbe averli; e quello là sarà infelice, non per quel giorno soltanto, ma per tutto un anno, in capo al quale dev'essere morto il più vecchio o il più giovine della triste compagnia. Aggiunga ch'egli conterà spietatamente gli anni in viso a tutti i suoi invitati, non escluse le signore; e se gli resta il dubbio d'essere lui stesso uno dei due in pericolo, sarà capace di correre il domani alle dodici parocchie a prendere la fede di nascita di tutti i commensali, per rassicurarsi. E ci penserà tanto e se ne cruccerà tanto, che non sarà meraviglia se entro l'anno finirà per morirne proprio egli stesso. Non si deve mai, per vincere un pregiudizio, compromettere la pace d'un nostro simile. Se, per una circostanza imprevista, il giorno stesso del pranzo manca un invitato su quattordici, si corre a pregare un amico intimo di supplirlo. Dev'essere molto intimo, e soprattutto molto amico per non offendersi di quella parte da comodino. E se l'amico manca, si prega il primo venuto, il lustra-scarpe della via, uno spazzacamino, ma non si condannano i nostri ospiti a sedere a tavola in tredici. Un giovinotto che, da vero lion, era avvezzo a pranzare tardissimo, passeggiava una sera verso le sei in cerca d'appetito, e forse di qualche bella crestaina che tornando dal lavoro consentisse a fargli compagnia, quando vide un signore ammodo passargli accanto, guardarlo, riguardarlo con occhio d'amore, gironzargli intorno, fargli la corte come avrebbe fatto lui stesso con quella tale crestaina, se l'avesse trovata. - Che mi prenda per una donna americana, di quelle che portano i calzoni? - pensava il giovinotto; e si carezzava le basette per metterle in evidenza. Ma l'altro non si scoraggiava per così poco. Anzi parve farsi più ardito a quell'atto, tanto che gli si fece accosto, e, salutandolo con uno sguardo che avrebbe sedotta una vestale, gli disse: - Signore; non si offenda, per amor del cielo. Debbo farle una proposta indiscreta, impertinente addirittura.... Il giovinotto si pose una mano sull' orologio, un'altra sul portamonete, e rispose: - Se non può farne a meno... parli. - Se lei vedesse un uomo in pericolo di annegarsi, si getterebbe in acqua per salvarlo, nevvero? - Mi faccio l'onore di crederlo. - Ebbene, io sto per annegare in un mare di guai. Ho invitato degli amici a pranzo. Dovevamo essere quattordici, ed uno è mancato. Ho una zia, una zia tremenda che ha paura del numero tredici. È capace d'andarsene, di non perdonarmi più. Un uomo che si getterebbe nell'acqua per salvare un altro, non potrebbe spingere l'eroismo fino a gettarsi alla mia povera tavola? Il giovane rideva tanto di cuore, che non seppe ricusare. Quella povera tavola era sontuosa; e per giunta quel signore aveva una bella figliola, che piacque a prima vista al fortunato giovinotto. Due mesi dopo le faceva il primo dono da sposo; un braccialettino di kniell su cui era inciso il proverbio:

"È meglio imbattersi che cercarsi apposta."

Stabilito il numero delle persone che si vogliono invitare, si mandano gli inviti, stampati se è un pranzo di lusso, scritti se non ci si vuol dare troppa importanza. Oppure si fa l'invito verbalmente. Ben inteso che, volendo pregare un superiore di favorirci alla nostra mensa, dobbiamo andare in persona ad invitarlo; perchè gli inviti scritti o stampati non si fanno che tra eguali. A meno che si tratti d'un pranzo tra persone intime, l'invito dev'essere fatto otto giorni prima del pranzo. Se qualcuno risponde che non può accettare, e si vuol supplirlo, bisogna affrettarsi a pregare un conoscente, e se è possibile non fargli sapere che riempie un vuoto. Però, se altri ne è informato, e se c'è il pericolo che anche l'invitato per via di discorso venga a saperlo più tardi, è meglio dirgli la cosa francamente. La tavola dev'essere coperta da un grosso tappeto sotto la tovaglia, per evitare ogni rumore nel deporvi le posate ed i piatti. Il tappeto però dev'essere corto e non s'ha da vedere affatto. Alla destra d'ogni convitato si mettono il coltello ed il cucchiaio; a sinistra la forchetta. Davanti ci debbono essere almeno quattro bicchieri. Uno grande pel vino da pasto; uno pei vini vecchi; uno per lo sciampagna, ed uno pei vini da dessert. La salvietta si piega semplicemente a quadrilungo colla cifra nel mezzo. Tutti gli artifici di piegatura sono volgarità volgarità da locanda. La tovaglia pure deve avere la cifra in mezzo. Le sottocoppe, pel quarto d'ora, si usano non più in metallo, ma di tela di Fiandra eguale alla tovaglia, rotonde o quadrate colla cifra nel mezzo. Il servizio deve portare la cifra del capo di casa. E' di buon gusto averla anche sul servizio in cristallo per le bevande. ma è cosa moderna, e chi ha cristalli antichi di valore, non sfigurerà affatto usandoli anche senza cifra. Ho veduto giorni sono un servizio nuovo di corte; è di vetro opalizzato a bordi dorati, collo stemma reale in colori. Se credono, signore mie.... La padrona di casa stabilisce i posti tenendo conto delle simpatie, delle analogie di posizione, ecc., de' suoi convitati; scrive il nome di ciascuno sul cartoncino apposito, e lo fa collocare sulla salvietta. Accanto alla posata di ciascun uomo si usa collocare la noticina dei piatti che saranno serviti. Badino, che dico si usa, ma non dico che sia bello. Ha un'aria da osteria; mi pare sempre che, giunti in fondo, si debba tirar la somma e pagare il conto. Quelli che sono molto devoti al culto dello stomaco però, sono entusiasti di questa moda, che permette loro di prendere le debite misure, e di far il posto più largo ai piatti che preferiscono. Il padrone e la padrona di casa stanno nel centro della tavola, ai due lati, uno in faccia all'altro. Alla destra della moglie si mette l'uomo che si vuol onorare di più; ed alla destra del marito la signora di maggior riguardo: i due posti alla loro sinistra sono ancora posti d'onore. Sotto la tavola vanno messi gli scaldapiedi per le signore freddolose. Gli sgabelli per le eroine che sfidano il gelo. La camera dev'essere stata ben riscaldata prima; e durante il pranzo si lascia spegnere la stufa per non rialzar troppo la temperatura. Nella sala da pranzo si prepara un buffet e sovr'esso una quantità di posate, avendo cura che vi siano quelle di forma apposita pel pesce, quelle pei legumi, per la frutta, ecc.; più i piatti pel servizio e le bottiglie dei vini scelti. L'illuminazione sarà splendida. Che i cristalli e l'argenteria scintillino allegramente. In mezzo alla tavola si mettono soltanto i dolci ed i frutti, ornati di fiori. La padrona di casa fa una toletta elegante, scollata o no, a seconda che il suo pranzo è più o meno di gala, e riceve gli invitati in sala. In Francia si usa far annunciare: - Madame est servie. - Da noi il servitore apre la porta e dice: - È servito- sottinteso il pranzo. In molte famiglie adottano la formola francese. L'una e l'altra sono ammesse. La padrona di casa si rivolgerà ella stessa al signore che deve stare alla sua destra, e lo inviterà ad accompagnarla in sala da pranzo. Se però fosse un sacerdote - e tengano bene a mente che, se s'invita un prete, bisogna dargli il posto d'onore, altrimenti bisogna far a meno d'invitarlo - se è un sacerdote, la signora non lo inviterà ad accompagnarla, e si limiterà a metterglisi accanto, ed a discorrere con lui, per fargli capire che egli dev'essere il suo vicino di destra. Il padrone di casa darà il braccio alla signora che deve stargli vicina, e s'incamminerà pel primo. Dietro lui seguiranno gli invitati, tutti gli uomini accompagnando le signore, ed evitando i complimenti alla porta, per non far attendere la padrona di casa, che deve rimaner l'ultima. Se la signora che dà il pranzo è vedova, o nubile, in faccia a lei metterà un vecchio parente od amico. Mai un giovinotto, a meno che ella fosse francamente vecchia. È soltanto nei pranzi di gran confidenza che si può tagliare in tavola; ed allora è il padrone di casa che si assume quell'incarico. Del resto i piatti vengono recati interi, e sono tagliati dal servitore ad hoc sopra una tavola tavola a parte, e portati in giro ai commensali. Il primo giro comincia dalla signora che è a destra del padrone di casa. Il secondodal signore a destra della padrona. I giri seguenti cominciano man mano dalle signore che vengono di seguito, in modo che ciascuno alla sua volta sia primo a servirsi. Il vino di pasto si mette in tavola ed è servito dagli uomini alle loro vicine. Gli altri vini li mesce il servitore, o la cameriera che serve tavola. Nel servizio alla francese, è il padrone di casa che taglia e manda a ciascun commensale, dal servitore, il piatto servito. Non faccio che accennarlo e raccomandare caldamente di non adottarlo mai. Sono gli osti che servono a porzioni; quanto a noi, non dobbiamo farle che sui piatti dei servitori. Ma ai nostri ospiti dobbiamo lasciare almeno la libertà di servirsi da sè. Gli scaldavivande in tavola sono affatto fuori di moda; e non occorre spender parole a descrivere quel genere di servizio strano, che dava il mal di capo e la nausea a tutti i convitati. Va pure passando di moda l'uso stomachevole di servire i vasi d'acqua tiepida per lavare la bocca. Doveva avere uno stomaco a prova di bomba quegli che ha imaginato di offrirsi quello spettacolo d'una dozzina di persone che gargarizzano e rivomitano l'acqua nella scodella, appunto al momento di finire il pranzo e cominciare la digestione. Certe cose è inconcepibile che si osi farle in pubblico. Non è più civile il risciacquarsi la bocca, che il fare un pediluvio alla presenza della gente. Cosa ne penserebbe il povero Monsignor della Casa, la cui suscettività era tale, che non poteva soffrire neppure che altri tenesse in bocca lo stuzzicadenti "come l'uccello che va a fare il suo nido?" E, le prego, signore mie, non infilzino un interminabile rosario di piatti. Non è il numero, ma la squisitezza delle vivande, che fa il lusso ed il pregio del trattamento. Io penso ancora con raccapriccio a certi pranzi di provincia, in cui ebbi il supplizio di vedermi sfilare davanti trenta, trentacinque e fin quaranta piatti. Si stava a tavola tre, quattro ore; venivano i granchi alle gambe, e si provava una smania, una frenesia di prendere un capo della tovaglia e di buttar tutto all'aria, e danzare sulle rovine per isgranchirsi. Durante il pranzo i discorsi debbono essere alternati in modo che ciascuno possa collocarvi la sua parola, e fare la sua figura. A questo deve vegliare la padrona di casa. E se un argomento prende il campo e minaccia di non cessare finchè se n'è visto il fondo, o se nasce una discussione, la padrona di casa deve avere abbastanza spirito per troncarli. Basterà una parola: - Signori miei, non sanno che noi signore, della loro politica non ci divertiamo punto?... - Badiamo che non s'avessero a sfidare in casa mia.... Non cerchino dei ripieghi. Non gioverebbero a nulla. Una signora aveva letto in un galateo moderno pubblicato alcuni anni fa, non so che bislacca storia d'una contessa, che, per far cessare una discussione politica molto animata, aveva trovato il sublime ripiego di rompere un tondo. Quella poveretta l'aveva presa sul serio, e vedendo due signori riscaldarsi in una questione alla sua tavola, s'affrettò a gettare in terra una magnifica salsiera di porcellana. Sciupò il suo abito, i calzoni del vicino; ma era troppo educata per dar importanza a quel disastro. - Via non ci badino; è cosa da nulla, disse. Ed i due oratori ripresero il discorso al punto, preciso dov'era rimasto: - E come le dicevo, la Prussia è una nazione che pensa; una nazione filosofica... - Ma lasci stare! La Francia è la prima nazione del mondo.... Un momento dopo erano più animati di prima, e la signora si credette in obbligo di rompere una fruttiera, e più tardi una tazza da caffè senza ottener altro risultato, che l'interruzione di un momento. Se avesse detto schiettamente: - Ma sanno che le signore non si divertono punto dei loroprussiani e dei loro francesi? - lo scherzo non avrebbe offeso nessuno, e la questione sarebbe finita senza lasciare sul campo la ruina di due servizi. All'opposto, bisogna aver grande cura noi stessi, e raccomandare caldamente ai servitori, di evitare, per amor del cielo, quei disgustosissimi incidenti, di rovesciamenti, di rotture, che obbligano sempre una persona a fare un atto eroico, per dimostrare contre fortune bon coeur, davanti ad un servizio guasto od un abito sciupato. Alzandosi da tavola la padrona di casa dà il braccio al suo vicino di sinistra, e s'avvia per la prima alla sala dove si deve prendere il caffè, che deve servire in persona aiutata dalle signorine. Gli invitati la seguono ed in ultimo viene il padrone di casa colla sua vicina.

Se una signora riceve un invito a pranzo, risponde subito ringraziandoed accettando. E, se deve rifiutarlo, adduce una scusa plausibile, senza frappor tempo in mezzo, affinchè si possa, volendo, offrire il suo posto in tempo ad un'altra persona. E, sia che abbia accettato o no, dovrà entro otto giorni fare una visita alla signora che l'ha invitata. Regolerà la sua toletta da pranzo sulla forma dell'invito. Se è stampato, farà una toletta di gala. Se è manoscritto, un po' meno. Giungerà all'ora indicata, nè prima nè dopo: e piuttosto prima che dopo. Il quarto legale è una concessione di chi invita, ma l'invitato non deve farsene un diritto. Gli antichi Romani non pagavano i loro servi. E quando davano un pranzo li facevano porre schierati ai due lati della porta, affinchè i commensali, uscendo, porgessero man mano a ciascuno una mancia. Era un onore non indifferente. È vero però che ne erano compensati da un uso strambo, il quale dava diritto a ciascun invitato di togliere tre pietanze dalla mensa e mandarle in dono ai propri amici. Supposto che s'avessero dieci commensali, si dovevano preparare trenta pietanze di troppo affinchè si potessero togliere, senza che il pranzo ne patisse. Noi non usiamo portar via nulla dalla casa che ci ospita. Ma non affettiamo neppure, con una mancia ai servitori, di volerci sdebitare del pranzo ricevuto. Sarebbe un'impertinenza. Per dare la mancia alla servitù d'una casa che non è la nostra, bisogna averci passato almeno una notte. Tuttavia, se in una casa si va a pranzo sovente, o a passar la sera con assiduità, il giorno di capo d'anno si darà una mancia alle persone di servizio, che si trovano in anticamera, senza mai cercare di quelle che sono assenti, il che parrebbe un mezzo di far conoscere ai padroni che si vuol fare una generosità. Per quanto meschino, strano, assurdo possa essere il servizio d'un pranzo, una signora ammodo si guarderà bene dal censurarlo, o dal metterlo in caricatura. Gli anfitrioni soltanto debbono avere in mente i due versi che ho messi per epigrafe a questo periodo; gli invitati invece debbono ricordarsi che l'ospitalità non consiste nell'offrir molto, ma nell'offrire quello che si ha.

Ricevendo di sera, se la conversazione è numerosa, è indispensabile di far annunciare alla porta le persone che entrano, perchè la padrona di casa non potrebbe, dopo aver presentato un nuovo venuto, ripetergli tutta la litania dei nomi dei suoi ospiti, e ricominciare la medesima seccatura ad ogni persona che entra. Allora le presentazioni saranno parziali, ed il tatto soltanto dovrà dirigerle, regolandosi sui rapporti di gusti, di professione, d'età, in modo che le persone che ha presentate le une alle altre, si trovino bene insieme. Sa che una signora ha grande ammirazione per un poeta? presenterà quel poeta all'ammiratrice. Due persone che hanno viaggiato molto le saranno grate se le riunirà per discorrere delle loro impressioni. Tutti i melomani saranno lusingati d'essere presentati alle notabilità musicali. Fuorchè nel caso in cui si balli, non presenterà mai un giovinotto ad una signorina. Gian Giacomo Rousseau ha detto:

"A la manière dont les gens du monde passent leur temps, on dirait qu'ils ont peur de n'être pas assez bêtes."

Quando una padrona di casa non sa condur bene la conversazione, mi accade sempre di ricordarmi quel motto. Domina un'atmosfera di soggezione. Ogni persona che parla, sembra affrettata di finire, perchè si sgomenta d'udirvi echeggiare la propria voce. Poi succedono quei minuti di silenzio imbarazzante, e quell'infelice che deve romperlo, prova l'impressione di slanciarsi sopra un lago di ghiaccio per spezzarne la crosta. Oppure un argomento domina tutta la sera, e le persone che non vi si interessano sono ridotte al silenzio. Lascerò allo stesso Gian Giacomo Rousseau che ha condannato il modo d'agire delle persone del gran mondo, la cura d'insegnare come debbono comportarsi. Non c'è miglior medico, per curare un male, di quello che l'ha scoperto: "Una conversazione ben intesa - egli dice - dev'essere scorrevole, naturale. Nè pesante nè frivola; dotta senza pedanteria, allegra senza tumulto, civile senz'affettazione, galante senza sguaiatezza, faceta senza equivoco. Non si fanno nè dissertazioni, nè epigrammi; vi si ragiona senza argomentare; vi si scherza senza freddure; vi si associa con arte lo spirito e la ragione, le massime e le arguzie, i motti ingegnosi, e la morale austera. "Vi si parla di tutto, affinchè ciascuno possa dire qualche cosa. "Non si approfondiscono le questioni per non annoiare; si propongono di volo, si trattano rapidamente; dalla precisione risulta l'eleganza. Ognuno, dice il suo parere, e l'afferma con poche parole. Nessuno si oppone vivamente al parere di un altro, nessuno difende con ostinazione il proprio; si discute per imparare; ma non bisogna spingere troppo la discussione. Tutti s'istruiscono; tutti si divertono; tutti se ne vanno contenti; ed anche il savio può raccogliere in quei trattenimenti, degli argomenti degni d'esser meditati in silenzio." Lo spirito è il dono più pericoloso che la sorte possa fare ad una signora. È come quei talenti della parabola che eran tanto difficili ad impiegar bene. Bisogna possedere un'abnegazione eroica, per saper sacrificare lo spirito alla cortesia. Viene alle labbra un motto; è un motto assassino; quella persona ne soffrirà: ma quell'altra lo apprezzerà: lo andrà ripetendo. La convenienza è in lotta colla vanità, ma pur troppo è questa che vince. E' nota la conseguenza fatale d'un motto di Danton. Egli disse di Saint-Just, il quale camminava diritto tutto d'un pezzo come camminerebbe, se camminasse, un turco impalato: Il porte sa tête comme le Saint-Sacrement. Saint-Just, lo seppe, e rispose: - Je lui ferais porter la sienne comme Saint-Denis. Tutti sanno che S. Dionigi decapitato, fece il miracolo di passeggiare colla propria testa in mano. Danton non fece il miracolo, ma fu decapitato per opera di Saint-Just. Certo erano nemici politici, e non fu per quel motto che Danton fu condannato. Ma è certo altresì, che quel motto ha posto la sua goccia di fiele in quell'odio implacabile. Ho udito io stessa un motto che non ebbe conseguenze tragiche, ma fece nascere un'iliade di guai. Una signorina di spirito era fidanzata con un giovinotto che amava con passione; ma non doveva sposarlo che fra un anno; però, volendo tenere segreta la cosa, non si erano stabilite relazioni d'amicizia tra le due famiglie, ed i fidanzati andavano in società e si trattavano come semplici conoscenti. Una sera la fidanzata si trovò ad una riunione danzante accanto ad una signora, la quale aveva una paura così orribile dei trent'anni, che, sebbene fosse prossima alla quarantina, si ostinava di rimaner alla porta della terza decina senza entrarvi mai. E, come tutte le persone in simili disposizioni di spirito.... e di fede di nascita, parlava sempre della sua età per informare il pubblico di quella che voleva avere.

- Non danza? - le disse un suo conoscente.

- Che le pare! Alla mia età! Presto presto avrò compito i trent'anni. - Tarda bene a compirli! - disse la fidanzata al suo ballerino, abbastanza forte perchè tutti i vicini l'udissero, compresa la signora, la quale si fece di bragia. Poco dopo venne suo fratello a prenderla. Era il fidanzato della signora di spirito. Ella non conosceva neppure di vista quella futura cognata, maritata fuori di Milano, e giunta pochi giorni prima per passare un po' di tempo coi parenti. Da quella sera, i parenti del giovine misero tanti bastoni nelle ruote, che il matrimonio non si fece più fin dopo la loro morte. Le due cognate non si vedono ancora. Boccaccio ha detto: - Il motto deve mordere come la pecora, non come il cane.

Perchè una serata riesca gradevole bisogna provvedere in modo che tutti possano divertirsi alla loro maniera. La conversazione è ottima per chi ama conversare: ma non basta. Ci dev'essere un pianoforte pei dilettanti di musica. Delle tavole da gioco pei giocatori seri di scacchi, dama, tarocchi. Qualche altro gioco meno serio per la gioventù. I pedanti nutrono un profondo orrore per le signore e signorine, che non rifuggono dalle tavole da gioco, come il diavolo dall'acqua santa. - Vi si provano commozioni pericolose - esclamano; e consigliano ancora e sempre i giochi innocenti. Ebbene, confesso che sono del parer contrario dei signori pedanti, e non è la prima volta. Io non mi sgomento affatto al veder una signorina o una signora esposta alla terribile emozione di perdere o di guadagnare qualche soldo, o anche qualche lira. Ma mi mortifica, mi affligge il vederle impegnate in quei giuochi pieni d'equivoci che sembrano inventati apposta per farle arrossire. Mi ricordo una sera in cui si faceva quello stupido gioco degli spropositi. S'erano date le domande: Dove? Quando? Perchè? Quali saranno le conseguenze? Le risposte furono scritte a caso senza saper le domande. Una signora maritata senza figli, supponendo le domande frequentissime: Che cosa desiderate? Chi è più bello? Qual'è la cosa più gentile? ecc., rispose: Un bambino. Si posero nell'urna le domande e le risposte. Si appaiarono a caso, ed aperti i biglietti risultò: - Dove? - ­Nell'ombra. - Quando? - A piacere. - Perchè? - Debolezze umane! - Quali saranno le conseguenze? - Un bambino. Quella che leggeva era una giovinetta. Via, confessino, signore mie, che sarebbero state meno pericolose le emozioni d'una partita di tresette o di tombola; credo che in tutta la sua vita quella giovine non avrà più occasione di arrossire come in quel gioco innocente.

Il trattamento da offrire in una serata è arbitrario. Il più generalmente adottato è il te; ma è altresì il più economico, ed il meno accetto. Non è ancora abbastanza entrato nelle nostre abitudini, ed una grande quantità di persone non possono prenderlo senza soffrirne una veglia nervosa. Una padrona di casa non può offrire una seconda sera il te ad una persona che l'ha ricusato la prima per questa ragione. Lo zabaione, la cioccolata, il vino brulé, il punch, i vini forastieri, i liquori dolci, sono tutte bevande che si possono offrire. Col te, le paste più adatte sono i pic-nics, i muffins, le sugar-wafers, e soltanto col tè e coi vini si accoppiano bene i sandwiches. Col punch e col vino brulé vanno egregiamente la brioches ed il babà. Cogli altri servizi tutte le paste dolci, non escluso il panettone, - e che Dio, il signor Fanfani ed il signor Riguttini mi perdonino il linguaggio ostrogoto di questi particolari gastronomici. Per quanto la mia ignoranza mi consigli ad aggrapparmi al detto di Voltaire: Le puriste est toujours pauvre d'idées, non posso farmi l'illusione che il valore di queste idee ghiotte sia tale, da farmi perdonare la barbarie della nomenclatura. Se un artista di professione, uomo o donna, ha fatto ad una signora la gentilezza di cantare o sonare alla sua serata, la padrona di casa deve mandare un dono a titolo di ringraziamento.

Se la serata offerta è un ballo, si debbono mandare gli inviti almeno otto giorni prima, per dar tempo alle signore di preparare le tolette. Oltre le sale sgombre di mobili, ornate di fiori ed illuminate per la danza, ci dev'essere un salotto ben riscaldato, dove si accoglieranno i primi invitati, e dove potranno ripararsi dal gelo le signore che non danzano, qualche sala da gioco; e, se si vuole, un gabinetto pei fumatori; una moda un po' soldatesca, ma di cui gli uomini tengono gran conto; e serbano riconoscenza alla padrona di casa. Non bisogna trascurare di mettere un ordine scrupoloso nel regolamento della guardaroba, affinchè ognuno possa con sicurezza deporre il pastrano ed il cappello, i mantelli ed i cappucci delle sue signore, ricevere uno scontrino numerizzato, e riavere tutte le cose sue quando lo ripresenterà nell'uscire. Gli immensi strascichi, e la leggerezza degli abiti da ballo, i movimenti vivaci della danza, danno luogo ad una quantità d'inconvenienti, per cui si dovrà destinare una camera alla toletta delle signore dove rimanga tutta la notte una cameriera munita di aghi, spilli, sete d'ogni colore, per accomodare gli abiti lacerati, rimettere a posto i fiori caduti, rifare le pettinature. Sarei ben meravigliata se una signora uscisse di là, senza aver cercato collo sguardo una scatola da cipria; e consiglio la padrona di casa a non lasciar mancare quell'oggetto, che le signore considerano di prima necessità. Se durante la notte si dà una cena, tutto deve essere apparecchiato sopra una tavola a cui siederanno soltanto le signore, nel caso che non ci fosse posto per tutti, lasciando gli uomini a mangiare in piedi. essi saranno i soli incaricati di servire le signore. Non si servono che cibi freddi. Ho letto in un romanzo del padre Bresciani, d'un giovanotto innamorato, che profittò di quell'occasione per mettersi in tasca, a titolo di ricordo, i torsoli, i noccioli e le bucce della frutta che la sua bella aveva mangiate. Non posso consigliar le signore d'ingoiare quelle reliquie, per non correre il rischio di trovarne il profumo e le tracce succulente sugli abiti del loro ballerino. E non mi sembra neppure il caso d'incoraggiarle a nasconderle, dove Rebecca nascose i suoi idoli alle ricerche di Labano. Ma se sanno d'avere un adoratore capace di spingere la devozione a tali estremi, non si lascino servire che da un fratello, o dal proprio marito. Sgraziatamente vi sono troppo spesso nelle adunanze numerose dei raccoglitori, che tendono a compromettere non le signore ma il buffet, empiendosi le tasche di tutt'altro che di torsoli. Per costoro ogni parola sarebbe superflua. Sono troppo teneri dei loro gusti per cercare nel mio libro insegnamenti che li combattano. Ma una signora che, per disgrazia, avesse un marito di quel genere, dovrà astenersi assolutamente dal farsi accompagnare in qualsiasi luogo, dove possa scontrarsi in una tentazione. Quanto alla padrona di casa, dovrà imporre silenzio alla delicatezza de' suoi gusti, oltraggiata da tanta volgarità, e non dimostrare menomamente la ripugnanza che prova per l'individuo sconveniente ed esoso, salvo ben inteso, a non invitarlo mai più. Se non si vuole apprestare nè una cena, nè un buffet si faranno portare in giro le stesse cose che si offrirebbero ad una semplice serata, ripetendole parecchie volte; e tra l'una e l'altra non si cesserà di far offrire acque sciroppate e gelati. E' un'indiscrezione il contare sulla compiacenza dei dilettanti per la musica. Questa parte tanto importante d'una festa da ballo è troppo sovente trascurata dai padroni di casa. Una signora che voglia fare le cose bene, si rivolgerà al suo maestro di pianoforte, e lo pregherà di procurarle dei buoni suonatori. E li accoglierà con quella cordialità con cui le persone educate e di buon gusto accolgono sempre gli artisti. Haydn ha suonato tante volte per far danzare; e che povera gente anche! Una signora, che lo avesse trattato con alterezza, sarebbe stata ridotta più tardi a piangere di vergogna. Lesinare sul compenso che è loro dovuto, limitarne i rinfreschi, farli cenare alla tavola di servizio, sono volgarità da villani rifatti. Debbono avere una tavola a parte ed un trattamento uguale a quello degli invitati. Se i sonatori fossero i maestri della padrona di casa, di suo marito o de' suoi figli, nulla può dispensarla dal farli sedere a cena alla sua stessa tavola e dal rivolger loro la parola spesso durante la notte. La padrona di casa, se è giovane apre il ballo con una quadriglia, nella quale deve avere in faccia suo marito.Altrimenti sceglie una signora giovane e la prega di supplirla. Durante il ballo ella non accetterà mai di danzare quando rimangono altre ballerine sedute, e procurerà di mandar loro dei ballerini. Non occorre dire ch'ella deve incaricarsi, unitamente a suo marito, delle presentazioni. Il dare un ballo in casa propria non è che un lungo e penoso sacrifizio. È vero che si semina per raccogliere. Ma la seminagione è laboriosa, difficile; il raccolto incerto, e non sempre proporzionato a quanto ha costato.

E, poichè ci siamo, parliamo di quel raccolto, che consiste in un ricambio d'inviti, ai quali, s'accettino o no, si risponde sempre con una carta di visita, unita a quella del marito. È affatto inutile d'affrettarsi per giungere ad un ballo; si arriva sempre a tempo. È parimenti superfluo il mostrarsi preoccupata della propria toletta, rialzar lo strascico, assicurarsi tratto tratto se i gioielli sono al loro posto. Ogni signora procuri di esser vestita bene e solidamente, - ed alla grazia di Dio! E se l'abito si lacera, passi a farlo accomodare, senza fermarsi a gemer doglianze ed a verificare i danni. E se un vezzo di brillanti si spezza lo lasci spezzare, e riponga la parte staccata senz' altri discorsi. Nulla è più plateale di quella continua preoccupazione dei proprii averi. Una vera signora deve saperli portare con nobile indifferenza. Sarebbe un malcreato chiunque pregasse una signora di accordargli un ballo, senza esserle stato presentato; ma se il malcreato ci fosse, la signora dovrebbe ricusargli il favore. Volendo passare dalla sala da ballo al buffet bisogna farsi accompagnare dal proprio marito, e le signore vedove e nubili ci andranno col babbo, lo zio, o il marito della signora colla quale si sono accompagnate. Le dimenticanze, i doppi impegni, i rifiuti non giustificati, le preferenze evidenti, tutto quanto può far nascere questioni, dissapori o commenti, è sconvenientissimo da parte d'una signora, e dà una idea meschina della sua educazione. Se una signora che non ama il ballo, è afflitta dalla disgrazia suprema d'un marito maniaco per la danza, si sacrifichi a Tersicore, e balli anche lei ad ogni costo. Il più grottesco di tutti i ridicoli che brulicano sotto il sole, è il marito danzante d'una signora che non balla. In Francia nella casa in cui si dà un ballo si usa fermare tutti gli orologi. Non si contano le ore alla gioia. Si è là per passare il tempo allegramente, non per misurarlo. Cotesta precauzione non serve a nulla, perchè ogni ballerino ha un orologio in tasca. (A' miei tempi ne avevano due). Ma.è un pensiero grazioso.

In teatro una signora occupa sempre il posto d'onore. Se sono due nello stesso palco, maritate e giovani entrambe, cambieranno posto una volta durante la serata, non di più. Non sono che le provinciali che si credono in obbligo di alternarsi ad ogni atto, per mutar prospettiva, come se facessero parte dello spettacolo. Le signore di provincia non crederebbero d'esser ben equipaggiate pel teatro, se non si munissero di un mazzo di fiori, due o tre cartocci di caramelle, una scatola di pastiglie di menta, un sacchetto di zuccherini e cioccolatta, come se partissero per un lungo viaggio in paesi deserti. Nulla di tutto codesto. - Se il marito, un parente, un amico intimo, ha il gentil pensiero d'offrire qualche fiore o qualche dolce ad una signora, li accetterà in teatro; altrimenti ne faccia a meno; ma non arrivi, per carità, colle sue provvisioni da bocca come un soldato al bivacco. Ricevendo visite in palco, la signora non avrà che a salutare, sostenere la conversazione durante gli intermezzi,, e frenarla durante la rappresentazione, per non esporsi alla vergogna di farsi zittire. Tutti gli uomini educati sanno che entrando debbono occupare l'ultimo posto, ed avanzarsi man mano, per diritto d'anzianità, a misura che un primo venuto si congeda, finchè siano giunti a tenere alla loro volta uno dei posti accanto alla signora. Di tutto questo ella non dovrà occuparsi affatto. Qualunque sia l'entusiasmo che le ferve nel cuore, una signora non applaude mai. - Le dimostrazioni opposte non sono convenienti neppure per gli uomini. Davanti ad una signora poi, non ci potrebbe essere che un mascalzone capace di voler fischiare. Ed i mascalzoni non vanno nei palchi delle signore. E' di buon gusto il non uscir mai dal teatro in un momento in cui lo spettacolo interessa vivamente il pubblico, o almeno di uscire in gran silenzio per non disturbare lo spettacolo. Quando entra in teatro il re, anche le signore si alzano in piedi, e rimangono in piedi finchè il personaggio illustre è seduto. Agire altrimenti sarebbe una dimostrazione ostile.

Cessati i piaceri della città, chiusi i teatri, e le serate divenute tanto brevi che non c'è più tempo alle riunioni, una signora elegante non ha altro di meglio a fare che ammalarsi. Oh! una malattia senza gravità, che non ne alteri la freschezza, che non la obblighi a star in casa, nè a nessun'altra privazione. Un'emicrania periodica, che verrebbe ogni otto giorni.... se venisse. Un prurito nervoso sotto l'unghia del dito mignolo. Un'avversione pronunciatissima a tutti i colori delle tappezzerie di casa. Una lieve difficoltà a digerire peperoni crudi e corteccie di limone. Infine una malattia comoda purchessia, la quale porti con sè la certezza che la sua guarigione sta nelle acque del tal paese, o nei bagni del tal altro. Naturalmente, la civiltà moderna non ammette che esista sulla terra un marito così barbaro, così pelle rossa, così basci-bazouk il quale ricusi di sacrificare tutti i suoi risparmi, alienare se occorre il suo patrimonio, impegnare l'argenteria di casa, vendere fin i ciondoli del suo orologio ed i suoi sigari d'avana, pur di ricuperare la salute pericolante di sua moglie, colla cura delle acque indicate... dalla moda. S'egli non può accompagnarla, non importa. Sua moglie è pronta a sacrificarsi. Andrà sola. Oh le mogli sono d'una generosità!... Le bagnature sono tutte popolate di signore senza mariti e di uomini senza signore. Appena giunte alle bagnature, le donnine più ammodo aprono una nobile gara a chi riuscirà meglio a farsi prender in fallo. Tolette stravaganti; cappellini impossibili; acconciature sguaiate. Tutte approvano il canto del dott. Brown, la marseillaise delle emancipatrici: "Freedom of speech from what we think, And freedom too in dress;" Che io traduco liberamente: "Libero il dir quanto ci passa in testa, Ed alle ortiche la toletta onesta!" Le più modeste ladies, che cadrebbero coscienziosamente svenute se il loro marito osasse chiamare col suo vero nome quella parte del loro vestiario che esse definiscono pudicamente gli inesprimibili, non esitano a mostrarsi sulla spiaggia, succintamente vestite di inesprimibili anch'esse, lasciando tutta all'estremità delle gambe che ne sporgono, la cura di predicare la rinuncia al mondo ed al demonio, com'esse hanno rinunciato alla carne. E si scende a colazione in accappatoio come se si stesse alla sponda, o come direbbe il signor Riguttini, nel corsello del proprio letto. E, con quell'abito svolazzante ed i capelli capelli sciolti, si siede o si passeggia flirteggiando con un ignoto qualunque, di cui è molto se si conosce il nome ed il colore dei guanti; la sera si scende scollate nelle sale di compagnia; o, sole, sissignore; ai bagni è permesso. Fanno tutte così. - Sa cantare, signora? - Un poco.

- Conosce il duetto degli Ugonotti? Di' che m'aaami diii....

- Sissignore. - Vorrebbe cantarlo con me? Chi me? Lui; chiunque; non importa; ai bagni si parla, si balla, si canta con tutti. Freedom of speech. Che meraviglia poi, se, per farsi conoscere meglio, quell'ignoto s'affretta a dimostrare di che misura d'impertinenza lo ha dotato l'educazione moderna? Eppure se la cosa viene ad orecchio al marito, dovrà mettere durlindana al vento, e se occorre, fare col proprio sangue la quietanza all'oltraggio che ha ricevuto sua moglie. Ma! così si usa. Perchè? Per evitare il ridicolo? Già. Però dopo il duello sarà più ridicolo di prima. Oh! la libertà delle signore, che vuole le sue piccole cospirazioni, che suscita i suoi piccoli odi, ed i suoi piccoli amori, e vuole anch'essa le sue guerre in diciottesimo come la libertà dei popoli, piccolo serpente che seduce le pronipoti della vecchia Eva! Dov'è la Madonna che gli schiacci il capo? Si comportano come ho accennato più sopra, mie gentili lettrici, quando vanno alle bagnature? In tal caso hanno sbagliato strada. Smettano un poco il rigore delle presentazioni che si deve serbare in città, se sono col loro marito; ma se sono sole, richiedano più che mai quella guarentigia, prima di entrare in relazione con chicchessia. Cerchino di giungere con una lettera pel proprietario dello stabilimento, e egli avrà cura di presentar loro le persone di cui crederà di poter rispondere. Cogli ignoti scambino le parole di stretta cortesia, e non altro. Appena conoscono qualche signora, si associno con lei per le partite di piacere, le passeggiate, le chiacchiere all'ombra, i giuochi. E non vadan mai sole passeggiando fra le ombre del giardino,

"Ove in disparte bisbigliando errano (Nè patto umano nè destin ferreo L'un dall'altro divelle) I poeti e le belle.

Dove una signora può veramente permettersi una maggior libertà, è in villa. Prima di tutto potrà ricevere degli ospiti per un tempo più o meno lungo. Sono conoscenti di famiglia, e per essere invitati debbono godere un certo grado d'intimità. Ella sa con chi tratta, ed è sicura che le sue parole e le sue azioni non possono venir interpretate malignamente. I vicini di villa, o sono proprietari che tutto il circondario conosce; o sono inquilini le cui informazioni hanno già soddisfatto il proprietario, che ha creduto di potere en tout bien tout honneur affittar loro la sua villa. E sono istallati là per un certo tempo. Non sono la popolazione nomade dei bagni. Si può aspettare alcuni giorni, osservare le loro abitudini, prima di decidere se convenga o no incontrarne la relazione. Ogni villeggiante è tenuta a fare una visita agli ultimi vicini venuti; ben inteso quando vi sono signore. Se è ricambiata con una visita entro otto giorni, vuol dire che la relazione è accettata, ed allora lei ritorna, e si stabiliscono quei rapporti frequenti ed amichevoli che sono uno dei piaceri della campagna. Se riceve invece una carta di visita, deve comprendere che i nuovi venuti desiderano viver soli, ed allora si lasciano in pace. Quando s'invita un ospite, è di buon gusto andarlo ad incontrare al suo arrivo, per mostrargli che è aspettato con impazienza. Se vi sono altri ospiti in casa che possano associarsi a quella passeggiata, la padrona di casa ne farà la proposta. Se invece avesse con sè persone di suggezione o attempate, non le lascerà. Procurerà di mandare suo marito, suo figlio, una sorella maritata, qualcuno della famiglia incontro ai nuovi venuti, che per lo più scendendo allo scalo, ed hanno bisogno d'una carrozza o d'una guida. E se la signora fosse sola manderà la carrozza, se l'ha, colla propria cameriera; oppure un servitore a piedi, ed in mancanza d'ogni altro lusso, un massaio; ed appena i viaggiatori giungeranno in vista della casa, correrà ad incontrarli, ed addurrà le vere cause che le impedirono di andar prima e più lontano, e se ne scuserà. Quando avrà offerti agli ospiti tutti quei rinfreschi di cui possono aver bisogno dopo il viaggio, li condurrà nella camera che avrà destinata per loro. No, per carità, non trascini una persona stanca a far l'inventario di tutta la villa; è un complimento opprimente. Più tardi, domani, quando il suo forastiero sarà riposato, avrà tempo a veder tutto. Ed anche allora lasci che vada da sè. I padroni di casa sono i più incomodi e gravosi fra i ciceroni. Gli altri si pagano uno scudo, e si acquista il diritto di bestemmiare loro sul muso magari che San Pietro in Roma è una chiesuola da villaggio, e che il Mosè di Michelangelo è un fantoccio. Per quello scudo essi abdicano ogni suscettibilità artistica e patriottica. Ma ai padroni di casa si deve un aggettivo ammirativo per ogni cosa che ci mostrano, fortunati ancora noi, se ci fanno grazia del superlativo. L'esposizione della casa dev'essere stupenda e saluberrima. I quattro punti cardinali hanno fatto delle transazioni colla cosmografia, per aggiustarsi in modo che quella casa potesse goderli tutti: - È solida, sapete, questa costruzione, sebbene sul colle Sentite che saldezza di pavimenti. Fate un salto. Così. Un altro! - E salta lui pel primo, e bisogna saltare, e trasecolare per meraviglia di non avere sfondata la casa. - E le mie cantine! Sono fresche come ghiacciai. - Sono persuaso.... si capisce dalla posizione.... dal terreno.... - Ma no, deve vederle. Sentirà che freddo. C'è da pigliarsi un'infreddatura. Il signor Tale che è sceso ieri, oggi ha una tosse!... ed il signor Tal altro ha sternutato otto volte di seguito nell'entrarci. Il meno che possa fare il nuovo venuto è di sternutare dieci volte per cortesia, e prendere una bronchite. - Ed i cavoli dell'orto! Una meraviglia! - Ed i peperoni! Un prodigio. - Per i fiori: - bello, molto bello, bellissimo, stupendo!... guai se vengono meno gli aggettivi. L'amor proprio del padrone di casa è ferito. Doveva essere un triste ospite Voltaire, il quale diceva che - l'aggettivo è il maggior nemico del sostantivo anche quando s'accordano in genere, numero e caso. Dunque, signore mie, risparmino ai loro invitati la via crucis del loro podere accompagnati da loro. Accordino loro la massima libertà d'azioni. Tocca ad essi di non goderne e di associarsi completamente alle abitudini della famiglia. Sel'invitato è un maestro o un dilettante di musica, non gli addossino l'incarico di divertire e far danzare tutto il vicinato. Se è un pittore, non lo condannino a ritrattare tutta la famiglia, dal capo di casa fino al gatto. Accettino le loro offerte; non domandino nulla. Davanti all'opsite, signore massaie, lascino andare tutti i discorsi d'economia. - Sì, il vitto è caro; la carne ha un prezzo esagerato; e la frutta poi, un'immoralità. È verissimo. Tutto questo lo diranno al loro marito, lo scriveranno a me all'indirizzo del giornale, se hanno bisogno di sfogarsi un poco. Ma per chi vive in casa loro, capiranno che certi calcoli si potrebbero tradurre in volgare: - Quanto mi costa ospitarli, signori miei! Mi sono debitori di tanto e tanto.... e poi ancora tanto! Quando un invitato annuncia che vuol partire, dev'essere sempre troppo presto per la padrona di casa. Le sembra che sia giunto allora! Però si guarderà bene da quelle dimostrazioni di amicizia imperiosa ed aggressiva, che nasconde le valigie, manda indietro le sfere degli orologi, fa perdere i treni, violenta gli ospiti in ogni maniera, e li obbliga ad una lotta corpo a corpo per ricuperare la loro libertà. Lo crederebbero, signore mie, che esistono a questo mondo, a questo stesso mondo in cui vivono loro, così educate e gentili, certe padrone di casa che quando i loro invitati hanno voltate le spalle domandano alle persone di servizio quanto hanno dato di mancia? - OOOh!!! Così è. Loro non ne conoscono. Io neppure, se Dio vuole. Ma se mai sentissero dire che la signora Trestelle, o Quattro Asterischi ha questa volgare abitudine, facciano in modo di smarrire questo mio volumetto alla soglia della sua casa. Per quella signora là soltanto, io noto qui che le padrone di casa debbono astenersi assolutamente dall'entrare in certi particolari, e se una persona di servizio troppo famigliare volesse raccontarli, tocca alla signora insegnarle il rispetto che le deve. Sono i padroni di bottega che domandano conto delle mancie; e quelli sono giustificati dalla necessità di ripartirle equamente fra i loro lavoranti.

A misura che l'istruzione delle signore si raffina, la loro corrispondenza si fa più estesa ed importante. In questo anno di grazia, e di scuole superiori, milleottocentosettantasei, sarebbe ridicolo che io mi mettessi ad insegnare alle signore come si scrivono le lettere. Ho detto su questo proposito il mio parere alle signorine e basta. Ne parlo unicamente per la parte che riguarda le convenienze. Una signora deve avere la carta colle sue cifre, e la corona, se l'almanacco di Gota non ci ha nulla in contrario. La forma della carta è soggetta ai capricci della moda, come pure il colore. Costa così poco l'uniformarvisi, ed è tanto bello il vedere che tutto quanto parte da una signora è grazioso, elegante, moderno come lei, che non esito a consigliarle di seguire la moda, se possono. Ma, badino, la carta colla cifra e collo stemma, non si adopera mai per mandar commissioni alla sarta, alla modista, al mercante, al calzolaio. Possono figurarsi, un calzolaio, che riceve una lettera precisamente uguale a quella che manderebbero alla loro più intima amica? Sarebbe come farlo sedere alla loro tavola e questo non si usa. Il più democratico dei deputati di sinistra, un arruffapopolo addirittura, stringerà la mano al suo portinaio, ma non trincherà insieme, e non gli farà di cappello come ad un ministro. La corrispondenza d'una signora è più estesa che quella di una signorina, e le presenta un più vasto campo per far apprezzare il suo spirito, le sue fini osservazioni, la sua originalità d'idee; bisogna avere, come ho la fortuna d'avere io, un'immensa corrispondenza colle signore, per farsi un'idea del gusto, della grazia, dell'eleganza che ci mettono. Nella loro modestia, alcune di quelle lettere sono piccoli capolavori. Ed i pedanti ed i puristi vanno dicendo che in Italia non si sa scrivere! Chi non sa scrivere? Loro; e noi, letterati e letteratucoli - mi metto fra questi - che, a forza di studiare parole nei vocabolari, perdiamo il filo delle idee, e diventiamo imbecilli. Ma torniamo a bomba, - come dicono i letterati. Le lettere di dovere per una signora si suppliscono, volendo, con una carta da visita. E di queste avrà una larga distribuzione da fare. Avrà cura di esserne sempre ben provvista. Al capo d'anno, dopo aver scritto ai parenti lontani, e visitate personalmente quelle persone, verso cui i riguardi di posizione e d'età non le permettono di disimpegnarsi con una semplice carta, manderà la carta da visita alle sue conoscenti. Una delle sue, ed una del marito bastano per una vedova, per una signora sola, per una madre con una o più signorine. Per due sorelle o due cognate, vedove o attempate entrambe, manderà due carte proprie e due del marito. Per una signora maritataci vuole una sola carta della signora, e due del marito, il quale deve far augurio all'amica della moglie, ed al marito di lei. In una casa in cui vi fossero oltre al marito colla moglie (i figli non contano), uno suocero, una suocera, una cognata, ecc., la signora manderà tante carte quante sono le signore in famiglia; il marito tante carte quanto sono gli uomini, più una per la padrona di casa. Dato che una famiglia sia molto numerosa, il moltiplicare esattamente le carte di visita che vi si devono mandare, sarebbe una pedanteria. Allora si mandano soltanto ai coniugi che sono capi di casa. Ricevendo un annuncio di matrimonio, si risponde con una carta dei due coniugi ai genitori della sposa, ed una pure d'entrambi ai genitori dello sposo. Se si ha assistito ad un matrimonio, subito dopo si manda le carte da visita, una della signora e due del marito, ai nuovi sposi. Ricevendo l'annuncio d'un battesimo o d'una morte, si risponde colle proprie carte alla famiglia. In entrambi i casi, come pure per nozze, molti usano le lettere P. C. Vuol dire ugualmente per condoglianza, e per congratulazione. Mio nipote le ha fatte incidere addirittura sulle sue carte. Dice che sono un tesoro quelle due iniziali, perchè sanno interpretare tutti i sentimenti. Secondo lui, in caso di morte, i superstiti che hanno ereditato non mancano mai di leggere per congratulazione; e, sempre secondo lui, gli sposi, che possono averle soltanto tornando dal viaggio, leggono quasi sempre per condoglianza. Se s'ha avuta una disgrazia in famiglia, si risponde a tutte le carte da visita ricevute con le carte dei capi di casa, o quelle della vedova su cui si scrive P R (per ringraziamenti) . Non debbono mai essere le persone dolenti che si incaricano personalmente di questa grande bisogna. Sarebbe dimostrar che la loro afflizione le preoccupa ben poco, se lascia loro testa da pensare a tanta gente. Assentandosi dal paese dove si abita, o dove s'è passato qualche tempo si mandano ai conoscenti le carte di visita colle iniziali p p c (per prender congedo). Tornando dalla campagna o da un viaggio, si manda la carta di visita senza iniziali. In questo caso aggiungere quella del marito sarebbe ridicolo; perchè la carta è incaricata di dire che la signora è pronta a ricevere e non è ammesso che un uomo possa dare la stessa notizia, senza essere un principe; ed i principi sono dispensati da questa formalità verso i semplici mortali. In tutte le circostanze una signora non rende mai la carta ai giovani soli, a meno di essere francamente vecchia. Ad un figlio che ha perduto il padre o la madre, anche una signora giovane manda la sua carta; ma vi aggiunge due parole di condoglianza. Oh Dio! Anche in quel momento solenne si diffida di lui! Potrebbe abusare della carta di una signora! Le condoglianze scritte non sono condoglianze, sono una guarentigia che non potrà farsi bello di quell'invio, senza che esso si giustifichi da se stesso con quelle parole. Oh mondo pessimista! Oh mondo pedante! Un figlio che ha perduta sua madre! Ma inginocchiatevi dinnanzi a lui per consolarlo. È alla sua cara morta il vostro omaggio; e egli è sacro. Non ne dubitiamo, per carità. Non dubitiamo dell'amore dei figli. In che cosa crederemo più, allora? No, non voglio dubitarne; è triste il pessimismo e spoetizza il cuore. Parliamo d'altro. In Francia le carte di visita di una signora non portano mai il suo nome di battesimo. Si usa dire la signora Emilio di Girardin; la signora Vittorio, e la signora Carlo Hugo. I galatei si espandono in ammirazione dinnanzi a questa trovata; secondo loro è l'ultima espressione del decoro, perchè il nome di battesimo di una signora non deve esporsi ad esser conosciuto dai profani: - Non debbono saperlo, - lessi in uno di quei galatei formalisti, - che suo marito, il suo babbo o suo fratello. Confesso d'aver visto in Italia, scritte in italiano alcune carte di visita con quella combinazione bislacca di nome maschile e titolo femminile. Ma, se Dio vuole, non è ammesso dai nostri costumi. È un oltraggio al buon senso, affatto inutile. Che torto può fare ad una signora che si sappia il suo nome? Lucrezia romana, la moglie modello, Susanna, la casta tra le caste, la vergine Maria, hanno serbata una riputazione immacolata, malgrado tanti popoli e tante generazioni in possesso del loro nome Ma i Francesi non ci credono; e per dimostrare il loro rispetto alla Madonna, sentono il bisogno di chiamarla Notre Dame.

CAPITOLO SECONDO. La madre. Annuncio della nascita d'un bimbo - Battesimo - Ricevimento - Ai pranzi Presentazione dei bimbi ai conoscenti - Civiltà verso i maestri dei figli Verso i loro amici - Lutto - Casi riservati.


"Oggi ci è nato un parvolo Ci fu largito un figlio.."

Ed ha trovato tutto in punto per l'inaugurazione della sua vita, il piccolo amore? Non vorrei che avesse a mancare mancare nè un nastrino ad una cuffietta, nè un bottone ad un bavaglino. Sarebbe una trascuratezza da parte delle mamme, a cui il Padre Eterno, nella sua provvidenza infinita, ha lasciato nove mesi di tempo per la cucitura del corredino. Gli annunci no, non vanno preparati. Quello è il compito del babbo. Ma lui è sempre cosí assorto negli affari, che non si occupa affatto di simili formalità; e, giunto il momento, si troverebbe intricato come un pulcino nella stoppa, se la sua sposa non avesse pensato prima ad istruirlo, che il giorno stesso in cui la gioia della paternità fa sussultare il suo cuore, dovrà informarne i conoscenti con una circolare. Altre volte agiva per conto proprio e della moglie. Erano essi che comunicavano la notizia della nascita del loro bimbo. Ma ora anche i bambini s'emancipano. Sono loro, che annunciano la propria venuta in hac lacrymarum valle. Il babbo non è che il loro incaricato d'affari. Egli provvede i cartoncini lucidi col contorno dorato, e vi fa incidere p. es.:

Guerrino Meschino Saluta col suo primo vagito gli amici della mamma e del babbo. "Tal paese, giorno tale, anno tale, ore tante. oppure: Il babbo e la mamma m'incaricano di dirle, signore (o signora), ch' io son venuto al mondo ieri, ed ho bisogno della loro amicizia. Guerrino Meschino, e la data. Soltanto alle persone che si vogliono invitare al battesimo si manda una parola d'invito manoscritta, a nome del babbo e della mamma. Ma prima di parlar del battesimo, mi lascino dire, signore mie, che dà una gran buona idea della educazione d'una signora, l'udire dalle persone che ricevono le circolari questi commenti: - Come! quella signora cuciva un corredino? Si faceva scorgere così poco. - Non ne parlava mai. Non so se mi spiego, e non vorrei spiegarmi troppo in questo libro. Ma debbono comprendere, che le noie ed i disturbi che accompagnano le fatiche d'un corredino, non sono argomento interessante nè piacevole in compagnia. Debbono tenerli per sè, come un ammalato deve serbare a sè ed al suo medico le geremiadi delle sue sofferenze. Nulla è più sconveniente di quelle persone sempre discinte, sempre sdraiate, che intrattengono tutti delle loro nausee, delle loro piaghe, e condannano gli amici, ed i figliuoli degli amici, a certi studi fisiologici o patologici, non compresi nel programma della loro educazione.

Il padrino e la madrina di battesimo debbono essere avvertiti da un pezzo; almeno due mesi prima. - Nel capitolo che riguarda le signore sole (zitellone) hanno veduto, signore mie, che oneri accompagnano quell'incarico; epprò si guarderanno bene dall'offrirlo ad altri che ai nonni del pargoletto, o ad altre persone della famiglia. Dovendo ricorrere a semplici conoscenti, o anche ad amici, aspetteranno che si offrano spontaneamente. Il domandarli è addirittura un assalto alla borsa, una grassazione. Un giovinotto, chiamato una volta a quella cerimonia, mi diceva: - Ho tanto speso per rinunciare, in nome di quel piccolo monello, al mondo e alla carne, che mi sono ridotto io stesso, al regime dell'estratto di Liebig. Quando però una persona si offre di fare da padrino o da madrina, a meno d'aver già un impegno precedente, non la si ricusa mai. Generalmente la mamma è ammalata quando si celebra il battesimo, per cui non si invitano che i parenti e le persone di grande intimità affine di evitare i rumori che le riescirebbero fatali. Se il battesimo dev'essere fatto con pompa, si dà l'acqua al bambino, e si differisce la cerimonia fino a che la madre sia abbastanza guarita per assistervi. Però questo non si fa da tutti. Quelle esistenze pargolette sono così fragili, che difficilmente una mamma si mette in pericolo di veder morire il suo bimbolino senza battesimo; sebbene alla crudeltà del limbo le mamme non ci credano, e si tengano sicure, che tutte le porte del paradiso si spalancherebbero dinanzi al piccolo innocente per lasciarvelo svolazzare nella forma idealmente pura d'una testina alata. La mamma non è obbligata a ricevere in camera il padrino stando a letto. Se crede però di farlo, nessun riguardo di convenienza vi si oppone. Ad ogni modo sarà il solo uomo che godrà un tale privilegio, al quale la madrina ha diritto. Dopo il battesimo, il padre del bambino offrirà un rinfresco al padrino, alla madrina ed agli invitati. In alcuni paesi si suol dare un pranzo; ma da noi non si usa prolungare dei complimenti, che terrebbero il marito lontano dalla moglie in momenti, in cui sentono più che mai l'uno e l'altra il bisogno di stare uniti, di comunicarsi le impressioni di quel nuovo amore, che è venuto a vincolare maggiormente le loro esistenze. Oltre all'invito di una carta di visita in risposta all'annunzio, la mamma riceverà una visita dalle persone più intime, fra quelle a cui ha comunicata la felice notizia. Se la sua salute glielo permette comincierà ricevere dopo tre settimane dalla nascita del bambino. Non in sala però, ma in camera da letto, o in un salottino adiacente. La mamma deve avere un abito sciolto ad accappatoio, ed una cuffietta. Nella sua abbigliatura deve dominare l'azzurro se il piccolo angelo che dorme accanto a lei è un bambino; il roseo, se è una bambina. Il personaggio minuscolo dovrà essere in ordine per venir presentato alle visitatrici. Egli però non dovrà darsene alcun pensiero, nè prendersi disturbo di sorta. Basta che, steso tra i merletti della sua culla, si degni di lasciarsi ammirare; del resto può gridare, dormire, e fare il suo comodo in tutta l'estensione del termine. La prima visita della mamma, dopo essere stata in chiesa a rientrare in santo, dev'essere per la madrina. In seguito andrà da tutte le persone che sono state a vederla. E, più tardi, quando il bambino comincerà ad uscire, dovrà andare con esso, portato dalla nutrice, o dalla bambinaia, da tutte le persone che hanno salutato con una visita la sua venuta nel mondo. Per riguardo al bambino, a cui si debbono evitare gli urti dei passeggieri affrettati, la signora, andando a piedi in istrada, cederà sempre la destra alla persona che porta il suo tesoro.

Ed il bimbo cresce; e comincia a balbettare; ed è una delizia averlo a tavola dove mangia un po' di tutto, e discorre.... E tuttavia se si hanno persone a pranzo che non siano di grande intimità, mi duole il dirlo, e confesso che mi duole anche il vederlo fare, e non l'approvo, ma tuttavia è un fatto che i bimbi non si mettono a tavola. Che farci? Vi sono persone intolleranti, a cui tutto dà fastidio. Un bambino, durante un pranzo, fa cadere almeno una dozzina di volte il cucchiarino, il pane, e tutto quello che ha intorno. Vuol pigliare il bicchiere e la sua manina, piccina, unta, inesperta, lo lascia scivolare sulla tovaglia. Se qualche cosa gli dà noia, piange. Se è di buon umore, si dà a galloriare rumorosamente, senza curarsi d'interrompere i discorsi; anzi, più la conversazione è animata più grida anche lui. Per me, tutte queste sono delizie, e non pranzo mai tanto bene, come quando vedo la tavola contornata di testine bionde. Ma pare che sia una mania speciale a me sola, o a ben pochi. La generalità trova che i bambini disturbano, e la convenienza vuole che non si mettano a tavola che in famiglia famiglia o nella massima intimità; e così sia! Si fanno però entrare al dessert.

Ho la disgrazia di conoscere una signora che ha sette figli. La maggiore è una bimba di tredici anni; il più piccino è un baby di tre anni e mezzo. La natura ha dato a tutta quella cara marmaglia una memoria straordinaria, per la massima afflizione degli amici di casa. Si esce col progetto di fare almeno quattro visite. E' sabato. La signora Feconda riceve. Si sale prima da lei. Dopo un quarto d'ora si vorrebbe congedarsi. - No; aspetti un momento. Le faccio vedere Lotto (Carlo, Carlotto, Lotto) e Vevè (Vincenzo, derivazione inesplicabile) che non sono a scuola. I due signorini entrano invariabilmente col naso sporco. - Salutate la signora. Come si dice? Ma non basta, Cosa si fa? Si dà un bacio alla signora. La signora esita un momento. La mamma se ne accorge. - Oh ma che naso avete! - e colla sua pezzuola fa la pulizia di tutti i piccoli nasi, e non transige sul bacio. - Ed ora fatele sentire una poesia. Prima tu, Lotto. - No, - Sì. - No. - Dilla, e la signora ti dà il dolce. - La signora non ha dolci e resta mortificata. Intanto tornano gli altri cinque figli dalla scuola. Un bis di presentazioni, di saluti, di pulitura di nasi; e poi la mamma in possesso di tutta la compagnia, organizza le cose in modo, che, col buon esempio dei grandi destando l'emulazione nei piccini, riesce a far udire alla visitatrice tutto il repertorio delle poesie, da Lotto che diverte balbettando in francese: "Je suis un enfant gâté

 De jolie figure."

fino alla primogenita, che fa addormentare recitando tutta la Passione di Manzoni, di cui non capisce il gran nulla. Intanto sono le cinque; le altre visite sono andate a monte e la visitatrice deve ancora litigare colla signora Feconda, la quale vorrebbe farle sentire che la signorina dice il Natale ancora meglio che la Passione e poi eseguisce una suonata.... e che Vevè, oltre all'Ode all'Italia di Leopardi, che ha declamata, sa tutta La Charité di Victor Hugo in francese. E non la lascia partire che colla promessa di renderle visita accompagnata da tutta la sua dotta prole, per darle una rappresentazione a domicilio. Quod difertur non aufertur. Ah signore mamme! Lo sanno pure quanto noi siamo di difficile contentatura in fatto di recitazione. Io confesso che, prima di decidere se prenderò l'abbonamento al Manzoni, ho bisogno di sapere chi sono tutti gli artisti della compagnia, e non c'è che la signora Marini che mi accontenti. Si figurino se posso divertirmi alle declamazioni delle loro piccole gioie. Io udrò sempre volentieri l'enfant gâté de jolie figure a dirmi: "J'aime les petits pâtés et les confitures, Si vous voulez m'en donner Je saurai bien les manger." Ma lo ripeto, io faccio eccezione. E stiano certe che i loro bimbi saranno tanto più accetti e simpatici a tutti, quanto meno reciteranno, e quanto più brevi saranno le loro permanenze in salotto.

Ed ora le loro bimbe si sono fatte grandi. Sono signorine. Bisogna aver pazienza, signore mamme, e cangiare modo di vivere. L'abbonamento alla commedia, bisogna lasciarlo, le signorine non vanno alla commedia, ed una mamma per bene, non le lascia sole tutta la serata in casa per andarci lei. Può condurla all'opera; ai balli di famiglia, e dopo i sedici anni, anche ai grandi balli. Ma, scusino, mi rincresce dirlo, so che è un sacrifizio; tuttavia.... che farci. Una mamma che accompagna una signorina non deve nè ballare... - Quando è decrepita forse. - Nossignora, anche quando non lo è. - Ma io sono tutt'altro che vecchia.... - Lo so, si figuri! Chi mai è vecchio a questo mondo? Ma ella accompagna una signorina.... - Ma io non ho che trentanove anni, undici mesi e ventinove giorni. - Ma accompagna.... - Una signorina, ho capito; ma, dacchè son giovine anch'io.... - Ma! Del resto possono ballare, se vogliono. Chiunque possiede due gambe, può ballare. Ma allora non mi domandino se è conveniente. Altrimenti sono costretta a dire di no. Una signora che accompagna una signorina non deve ballare. Alle visite di congratulazione dopo un battesimo, una mamma non deve mai condurre la sua signorina; e se gliela domandano per madrina, si offrirà lei invece della figlia. In caso poi che, per circostanze speciali, dovesse proprio permetterle di fare la madrina, essa l'accompagnerà, e la supplirà entrando per lei nella camera della malata, e presentando lei il bimbo abbigliato alla madre, prima di condurlo al battesimo. La signorina comincerà la sua parte da madrina quando il bimbo esce dalla camera materna, e la terminerà alla soglia di quella camera. Una mamma per bene non permette che sua figlia accetti il diritto di scegliere il padrino, e lo sceglie per lei.

I maestri a cui una madre affida l'istruzione ed in parte l'educazione dei suoi figli, debbono godere tutta la stima e la fiducia d'una madre. Ella dovrà dunque accompagnare in persona per la prima volta i fanciulli alla scuola, ed in seguito fare ai maestri quelle visite di dovere, che fa ai vecchi parenti ed ai superiori. Se i professori dei figli sono giovani e la madre pure è ancora giovane, supplirà alle visite di dovere che non può fare, invitandoli alle sue riunioni. Molte signore, che sono pure educate e gentili, hanno l'imprudenza d'incaricare i loro bambini stessi di presentare ai maestri i doni che vogliono offrir loro, in segno di riconoscenza, al capo d'anno o al finire delle scuole. Ed i bambini ne fanno un mondo di piccoli pettegolezzi. - Tu cos'hai portato alla maestra? - Un ventaglio d'avorio. E tu? - Oh, io le ho dato un braccialetto; costa tanto. - Io l'orologio colla catena. Coi maestri bisogna esser generosi se si vuole andare avanti. L'ha detto la mia mamma. Quante cose dicono le mamme, che farebbero assai meglio a tenere per sè! Che i bambini non odano mai discorrere dell'onorario dei maestri, del prezzo delle lezioni, Se v'ha un punto su cui sono inclinata a convenire con Rousseau, nella sua idea che l'uomo nasce con tutti gli istinti buoni, e la società lo corrompe, è l'apprezzamento del denaro. Non so se tutti i bambini sieno come eravamo le mie compagne ed io. Ma noi, mentre nutrivamo un'ammirazione stupida per la ricchezza, come idea astratta e nelle sue manifestazioni di lusso, avevamo una specie di ribrezzo pel denaro. Ci umiliava come un errore, ci faceva arrossire come una vergogna. Una volta andai con altre fanciulle della mia età, ad un breve corso di lezioni di rammendo. Erano otto lezioni. All'ultima la mia mamma, che era sofferente e non poteva uscire, mi diede i denari da consegnare alla maestra. Le mamme delle mie compagne avevano fatto lo stesso colle loro figlie. Quella maestra nomade, uccello di passaggio, autorizzava forse ai loro occhi un tratto meno che delicato. Noi ci consultammo prima della lezione: - Tu glieli dài in mano? - Io no, non oso. - E neppur io. - E neppur io. Ci sembrava di avvilirla. Come fare? La maestra aveva un piccol scrittoio portatile a piano inclinato, che si apriva rialzando la tavoletta disopra. - Se li mettessimo qui dentro? - dissi io. - Li troverebbe da sè, e noi non s'avrebbe la vergogna di darglieli. Tutte d'accordo, mettemmo i denari nel vano dello scrittoio, e non ci pensammo più. Due giorni dopo la maestra, che doveva partire, mandò a tutti i nostri parenti la carta, pregandoli a voler saldare la loro piccola partita. - Cos'era stato? Cos'era avvenuto dei denari? Come! Li avevamo messi là, in un luogo aperto? Alla guardia di Dio? E si era figurato tutti male presso quella maestra, che aveva dovuto domandare il suo compenso....Grande agitazione nei parenti. Il fatto era che la maestra aveva fatto imballare lo scrittoio senza aprirne il cassetto, ed i denari dormivano là dentro al sicuro da ogni pericolo. Ma a noi fece un'impressione punto poetica, il vedere genitori e maestra, in tanta agitazione per quella miserabile questione di dare e d'avere. E, sopportando i loro rimproveri, avevamo un'idea vaga che vi fosse più nobiltà nella nostra sprezzante noncuranza, che nella loro esattezza. I fanciulli non possono farsi un'idea delle necessità materiali dei maestri, che essi vedono vestire e trattarsi come i loro parenti. E, se quell'idea se la facessero, il prestigio dei maestri sarebbe distrutto. Tocca alle mamme il conservarlo intatto, non immischiando mai i loro figli nei rapporti d'interesse coi loro superiori. Se i figlioli sono in collegio fuori di paese, la mamma supplirà con lettere e carte da visita alle cortesie che dovrebbe fare personalmente ai maestri. Le lettere dirette ai figli ed ai maestri non dovranno mai essere chiuse nella stessa busta; e scrivendo ai fanciulli non si accennerà mai ai doni che si può aver fatti ai loro superiori. Oltre l'educazione della scuola e del collegio, le signorine hanno le lezioni di musica, di disegno, di lingue straniere, che prendono a domicilio, e continuano fino a tempo indeterminato. Molte signore, che escluderebbero con orrore dall'amicizia delle loro figliole una signorina, di cui si dicesse che riceve visite di uomini quando sua madre non è in casa, lasciano poi quelle figliuole impeccabili, sole durante un'ora col maestro di pianoforte e di lingua inglese. È troppo spingere la fiducia ed il rispetto, signore mie. I maestri sono uomini come gli altri. Ed una madre per bene non deve mai mancare di assistere alle lezioni delle sue figlie. Se è occupata, se ha una visita, si fa supplire all'assistenza della lezione, o la differisce.

Nei collegi si fanno le conoscenze senza tante formalità, onde accade spesso che due giovinetti o due giovinette stringano una relazione intima sebbene le loro famiglie non si conoscano. In tal caso quando i ragazzi escono di collegio, prese le debite informazioni, toccherà alla madre più attempata, o a quella che occupa una posizione più elevata, a far il primo passo, mandando la carta di visita con qualche parola d'invito all'altra mamma, la quale risponderà subito con una visita; non mai con una carta. Se una signora invita delle signorine a passar qualche tempo in casa sua, dovrà esercitare su di esse la stessa sorveglianza che esercita sulle sue figlie, assistere alle loro lezioni, leggere la loro corrispondenza, accompagnarle; e, se ha dei figli grandi, vigilarne il contegno rigorosamente, in modo che le ospiti non abbiano a trovarsi, neppur un momento, in una falsa posizione. La regola più sicura e migliore, è di non offrire ospitalità a signorine quando si hanno in casa giovinotti, e di non offrire ospitalità a giovinotti quando si hanno in casa signorine. Se poi è sua figlia che accetta l'ospitalità in casa altrui, la mamma deve provvederla di denaro, perchè possa largheggiare di mancie colle persone di servizio. Su questo punto, nessuna economia. Non dimenticherò mai un signore molto ricco, il quale venne a passare dieci giorni in una villa dove ero ospite anch'io. Nel partire avvertì pomposamente la cameriera, in modo che tutti potessero udire, che aveva lasciato in camera qualche cosa per lei. Ed infatti trovò venti centesimi accuratamente avvolti in una carta. La padrona di casa era una persona educatissima, che non si sarebbe mai immischiata di certi particolari. Ma quella volta, via, non seppe resistere. Quando la cameriera, sicura del successo, osò venire nel salotto, dove stavamo lavorando, a dirci quella notizia, vi fu uno scoppio d'ilarità spontanea e generale, in barba alle convenienze. Quell'ospite aveva fatto il primo passo, e le sconvenienze sono come le ciliege, una tira l'altra, e non si sa più dove si va a finire.

"Otez de la vie le cœur qui vous aime, qu'en reste-t-il?"

Che ci resta, mie signore, quando si perde lo sposo a cui eravamo unite per la vita, i genitori che furono il primo dei nostri amori, i figli che furono l'ultimo? Che ci resta? Nulla. Il dolore e null'altro. Eppure si lesina il tempo al lutto de' più prossimi, de' più cari. Il lutto che si usa da noi è scarso. Una vedova, un vedovo, - parlo della Lombardia, - portano il lutto un anno. Un anno! Tutti gli anni del nostro avvenire che gli avevamo promessi, giurati , glieli ritogliamo, perchè la sventura l'ha colpito, perchè non è più qui a pagarceli con altrettanto del suo tempo, del suo amore. Un anno solo! e dopo un anno le vedove possono danzare, i vedovi possono vestire la casacca d'arlecchino. Chi muor muore, e chi vive si fa cuore. Oh! chi mi rende l'eroica poesia del rogo, e le vedove entusiaste che si bruciano sul cadavere del marito? A patto ben inteso, che i vedovi si brucino un pochino anche loro sul rogo delle mogli. Ma per tornare alle convenienze sociali, le vedove che non desiderano di bruciarsi, possono farne a meno senza mancare di civiltà. E, quanto al lutto, possono uniformarsi agli usi del paese dove vivono. Sono libere però di prolungarlo, non di abbreviarlo. In Francia, ed anche un poco in Piemonte, il lutto da vedova è di due anni. Il primo anno tutto in lana nera, con gran velo vedovile che copre quasi tutta la persona. È sempre la toletta del rogo; nobile, pittoresca, solenne, senza gale, senza vetro nero lucente; la tetra divisa del dolore. È così ch'io comprendo la sposa d'un morto. Ma il secondo anno, anche in Francia e dappertutto, comincia un crescendo di luce, di tinte; il velo scompare, le gramaglie cedono il posto alla faille di Lione, al taffetà di Napoli; neri, ma lucidi; e comincia a fremere in fondo un volantino e poi un altro. Poi, dopo sei mesi, compare un goletto bianco, coi relativi polsini: e dopo tre mesi ancora, un abito bigio violetto.... E poi è finito. Ci si mette un anno di più, ma ci si arriva sempre alla casacca d'arlecchino. - Ma cosa pretende, marchesa? Che si vesta di nero tutto il resto dei nostri giorni, perchè s'è avuto la disgrazia.... - Io? chi lo ha detto? Nemmen per sogno. Io non ho opinioni. Cito le regole, e basta. Da noi il lutto da vedova è d'un anno. Si può fare il secondo semestre col mezzo lutto. Ma non è più di moda. Dunque un anno di lutto; e non c'è morto per bene che abbia diritto di lagnarsi della propria moglie. Il lutto pel babbo, la mamma, i nonni è pure d'un anno. Pei fratelli, le sorelle, gli zii, non è che di sei mesi. Pei cugini, i cognati, tre mesi soltanto. Per una persona da cui resta eredi si porta un lutto almeno di tre mesi. La servitù d'una famiglia in lutto, deve pure essere in lutto. E questo si fa, beninteso, a spese dei padroni. - Scusi, marchesa, non ha parlato della somma delle sventure: una madre a cui muore il figlio.... - Ebbene, lo fa seppellire. - Ma il lutto? - Il lutto? Ma che, le pare? Non si usa. Se lei, signora lettrice, dovesse perdere quel suo cherubino biondo, il giorno dopo si vestirebbe come il giorno prima. I selvaggi, gli Esquimesi, ed anche i chimpansé, quando perdono i loro figli si rotolano per terra, si coprono il capo di polvere. Sono i loro segni di lutto, e, da veri barbari, li dànno pei figli come pei padri. Ma noi, gente civile, abbiam trovato il pelo nell'ovo. Noi sappiamo che i genitori sono superiori ai loro figli, ed i superiori non portano il lutto per gli inferiori. Superiori? Inferiori? Davanti ad un morto? Ed una madre potrà pensar questo? E non si coprirà tutta di nero! e non si circonderà di un lutto rigoroso, lei che ha nel cuore il più grande dei lutti umani, il più grande degli umani dolori?

"Oh mondo bello, tu sei pien d'orror!"

Ma mi perdonino questo hors d'oevre di sentimento. Il mio compito non era che di dire che, le mamme ed i babbi non hanno nessun dovere di portare il lutto pei loro figli; però, se arbitrariamente volessero portarlo, come molti fanno, i codici non hanno pena speciale per quel delitto.

Per le mamme, come pei confessori, vi sono dei casi riservati. Non per tutte, fortunatamente, ma pur troppo per alcune. Cominciano sempre da una scoperta della mamma, a cui tiene dietro la recitazione, a porte chiuse, di pochi versi di Molière:

"La mamma. Le deviez-vous aimer, impertinente? La figliola. . . . . . . . . . . . . . . . . Hélas! Est-ce que j'en puis mais? Lui seul en est la cause Et je n'y songeais pas lorsque se fit la chose."

Ed intanto una letterina della figliola, o magari la sua fotografia, sono nelle mani d'un giovane che potrebbe essere imprudente, e che, ad ogni modo, se non la domanda in isposa, non ha nessuna ragione di tenerle. E la ragazza ci pensa, e ne soffre per quell'implacabile

"Amor che a nullo amato amar perdona."

In tal caso una madre veramente ammodo non ne parla a suo marito per non esporlo a questioni. Non ricorre a terze persone che, per quanto parenti od amiche, sono sempre di troppo in un segreto, in cui è impegnato il decoro di sua figlia

"Io della vita nella dubbia via

 Il peso porterò delle tue pene."

È la santa missione della madre. Tocca a lei sola quel peso. Ella deve scrivere al giovane, parlargli a cuore aperto: - Avete tolta alla mia figliola la pace del cuore. Avete fatto male. E lei pure ha fatto male scrivendovi. Ma voi avete più esperienza di lei. Voi sapete che, senza averla domandata a suo padre, e senza esserle fidanzato non avete diritto a quella corrispondenza. So che non abusereste dell'imprudenza d'una giovinetta per comprometterla; ma una lettera si può perdere, è cosa troppo delicata. Siate generoso. Rendetela a me.... Non bisogna incoraggiarlo (pregarlo sarebbe una enormità) a fare la domanda della fanciulla. Una madre non offre mai sua figlia a nessuno. S'egli ne è innamorato davvero, nel rendere la corrispondenza clandestina alla madre, le scriverà delle scuse, una confessione generale, e le chiederà il permesso di chiedere a suo marito la mano della figlia; o, se la signora è vedova, la domanderà a lei. Se non ne è innamorato, ed ha cercato d'illudere una giovanetta senza scopo e senza passione, è meglio che se ne vada: un uomo sleale non sarebbe mai un buon marito. Ad ogni modo, il passo fatto dalla mamma non può essere infruttuoso, nè compromettente. Ho conosciuto dei giovani che hanno abusato delle lettere d'una signorina. Non ne ho conosciuto mai nessuno, capace di abusare di quella di sua madre. E se un simile essere, per una mostruosa eccezione, esistesse, per fortuna non viviamo tra i barbari; alla prima parola troverebbe un gentiluomo per schiaffeggiarlo. Io stessa ebbi più volta l'occasione di assumere quel penoso incarico per giovanette amiche, prive di madre, e, sia detto a gloria dell'umianità, fui corrisposta sempre con cortesia, lealtà, rispetto. Dopo un fatto simile, dovunque si scontri col giovane imprudente, una signora dovrà essere la prima a fargli comprendere che è disposta a salutarlo. Nel caso in cui un matrimonio si sciogliesse, dopo che la sposa ha già ricevuti i doni, toccherà alla madre il rimandarli, con tutti quelli ch'egli avesse offerti agli altri membri della famiglia, e con un suo biglietto dignitoso, in cui lo dispensa, per riguardi ch'egli deve comprendere, da qualunque visita o saluto. Elli cesserà pure dalle visite alla famiglia ed ai parenti di lui; e non manderà più loro carte, nè annunci in nessuna circostanza, finchè la fanciulla non è maritata; ma, scontrandoli, non eviterà di salutarli. PARTE QUINTA CAPELLI BIANCHI CAPITOLO UNICO. La vecchia.

Invecchiare - Toletta - Suocera - Divertimenti - Ospitalità.

Quando la vecchiezza si annuncia francamente, quando accetta con coraggio i suoi capelli bianchi e le sue rughe, chi non l'ammira? chi non l'ama? chi non le si inginocchia dinanzi, per ripeterle con un poeta gentile:

"Oh lieta casa! Oh nido fortunato Su cui tu stendi l'ali!…"

Sgraziatamente, le signore che sanno invecchiare decorosamente sono così poche.... - Ho i capelli bianchi, è vero; ma sono venuti troppo presto (quei benedetti capelli bianchi non arrivano mai a loro tempo). Un po' di tintura per nasconderli, ed ecco; sono giovane ancora. Quell'altra è più eroica. I capelli bianchi li ha e se li tiene. ma fa delle tolette ridevolmente giovanili, segue le mode, si preoccupa della sua persona come se avesse vent'anni. Mi trovavo una volta dalla mia sarta, quando ci capitò una signora, che aveva varcata la sessantina da un pezzo, pre pregarla di mostrarle un abito color crapaud mourant d'amour. Aveva letto in un giornale grancese che era di moda quel curioso colore, non l'aveva trovato da nessun mercante, e non poteva rassegnarsi a non vestire i colori di quel bàtraco, in quella condizione interessante e speciale. Altre ripetono a tutte le ore che si sono maritate giovani, giovanissime, bambine; se ne ricordano appena, anzi, non se ne ricordano affatto; non farebbe loro meraviglia, se udissero dire che sono nate maritate. E così si diventa mamme all'età di giocare alla bambola, si è donne a vent'anni, e s'invecchia presto. Tutte Nonne scellerate. Quelle ammettono d'esser vecchie, ci si rassegnano, ma a patto di esserlo diventate troppo presto. Non si curano della figura, non hanno il pudore della fede di nascita. Poi vi sono quelle che propongono di non parlar mai dei proprii anni, come se quel silenzio dovesse impedire agli altri di pensarci. E poi quelle che, all'opposto, si scelgono una età primaverile e ne parlano continuamente, persuase che, a forza di sentirla dire, si finirà per crederci. È un risultato che ottengono unicamente sopra se stesse. Quasi sempre riescono a credere davvero di avere l'età che confessano, ed agiscono giovanilmente, e si fanno ridicole. Ho udita non cento volte una signora di settantacinque anni, dire con molte smorfiette graziose: - Eh! non sono più giovine, cara signora. Quando si sta fra i trentacinque e i quaranta...! Aveva spezzata la cifra e vi si era posta in mezzo; ed erano per lo meno dieci anni da che stava in quel bivio, fra i trentacinque ed i quaranta, senza aver il coraggio di riunirli. E, quando fu per morire, chiamò il suo figlio primogenito (aveva dei figli!) e gli espose la sua ultima volontà: - che sulla lapide, sull'epitaffio, sugli annunci funebri non le si attribuissero più di quarantacinque anni. - Povera donna! Davanti alla solennità della morte aveva varcato il Rubicone, aveva accettato un lustro di più.... Ma non aveva potuto andare più in là. Si può morire, ma non invecchiare. Una signora vecchia deve avere il coraggio di confessarsi vecchia, di parlare, di agire come tale. Le mode non sono fatte pei capelli bianchi. Non è necessario che una vecchia si vesta come un figurino antico; no, ma non deve vestire come nessun figurino. Abiti scuri, lisci, lunghi; sempre lunghi. Nulla adatta meglio alla vecchiaia che la maestà dello strascico. Le bizzarrie di rigonfi, di groppe, di cerchi, di toupé, che appaiono tratto tratto, le esagerazioni d'ogni maniera, sono sempre ridicole per una vecchia: la moda non la giustifica di portarle: ella non deve andare alla moda. L'unica moda delle vecchie, sempre uguale, sempre bella è la dignità. Abito liscio e cuffietta in casa. Mantelletto ampio o scialle fuori, e cappello serio. Un cappello di dimensioni giuste, che calzi, che copra gli orecchi. Vogliono crederlo a me, che son vecchia anch'io, che ho più d'un secolo d'osservazione, e che amo e venero la vecchiaia? Ebbene, vestite così sembrano avere dieci anni di meno; e vestite alla moda, grazie al penoso contrasto tra la novità della toletta e l'antichità della persona, acquistano dieci anni di più, ed il ridicolo per giunta

La grande rinomanza di Ruth per l'affetto che seppe ispirare a Noemi, ci prova quanto sieno rare le signore che sanno comprendere bene la loro posizione di suocera. Eppure sarebbe tanto facile. Accettare pienamente la loro parte di maternità verso la nuora. Non altro. Ma la parte di maternità invecchia. L'ostacolo è sempre là. Col proprio figlio non appariva. Un uomo è un'altra cosa. E poi l'amore di madre accomoda tutto. Ma quella signora giovane, che viene a metterle un confronto accanto.... Eppure, una suocera deve accettare dalla nuora tutti quegli atti di deferenza, che si devono dalla gioventù alle persone attempate. La destra a passeggio, sia a piedi che in carrozza, il passo quando si tratta di entrare in qualche luogo, la preminenza del saluto dai visitatori, la destra del camino o del divano nei ricevimenti. La suocera deve astenersi di mettersi in terzo nelle visite, nelle passeggiate, nei divertimenti dei due sposi; ma deve accompagnare la nuora, all'occorrenza, quando è sola, presentarla ai conoscenti a cui non può presentarla il marito. La suocera che vive in casa col figlio ammogliato, cede alla nuora il maneggio di casa, e, dal momento che suo figlio ha moglie, si mette a riposo. Malgrado l'età, malgrado l'anzianità dei diritti, davanti alla società la padrona di casa è la nuora, e la suocera deve saperlo riconoscere, con quella doverosa rinuncia. Agendo altrimenti, usurperebbe un diritto che non le spetta, si arrogherebbe una padronanza in casa del figlio e della nuora, mancherebbe di delicatezza.

I divertimenti delle vecchie signore sono la conversazione ed il teatro. Nella conversazione possono tenere il primato; la loro esperienza e la libertà dei discorsi che l'età concede, rendono piacevole ed interessante la loro compagnia. Possono prender parte ai giochi seri se sanno di farlo bene. Il giocare a caso e male, è un'ingenua inesperienza che alla loro età non si perdona. Dai balli una vecchia signora dovrebbe sempre tenersi lontana. E se ci va per accompagnare una nuora, una figlia, una nipote, dovrà vestire riccamente, ma colla massima serietà; e non mai scollata. Un abito liscio di velluto nero, una cuffietta di tulle nero con qualche nastro di colore, orecchini e spillone di brillanti, è la migliore delle tolette serie. E, se ha qualche acciacco, qualche malanno, lo lasci con Dio, e non rattristi la gioventù con racconti penosi. E si mostri contenta della compagnia che la circonda, indulgente e tollerante; sopratutto tollerante. Lasci stare quel benedetto: - ai miei tempi - che in bocca dei vecchi è un perpetuo rimprovero alle abitudini della generazione nuova. I suoi tempi sono passati e non tornano più. Accetti i tempi moderni. senza rimpianti, senza pedanterie. Creda a me, tutti i tempi hanno avuto la loro porzione, nel gran riparto del bene e del male che debbono consolare ed affliggere l'umanità. Tutte le preminenze che le si accordano per riguardo alla sua età deve accettarle, senza orgoglio, ma senza cerimonie. L'età è una superiorità, e quei riguardi le sono dovuti. In teatro invece, dove i posti d'onore sono fatti per mettersi in evidenza, una signora vecchia li cede sempre alle giovani, fossero pure signorine. Ella può andare al teatro sempre, perchè l'arte si ama a tutte le età. Ma il suo posto è nell'ombra. Ci va per udire e vedere. Non per essere veduta. Una vecchia signora può benissimo tenere ricevimenti, e dare anche feste da ballo, per far divertire la gioventù. Sarà un atto di generosità e di abnegazione, che le guadagnerà tutte le simpatie. Ricevendo ospiti in campagna, toccherà a lei ad organizzare le partite di caccia, le lunghe gite e tutti quei piaceri dai quali i suoi invitati si asterrebbero, perchè ella non può prendervi parte. Deve mostrarsi desiderosa che li godano essi, e limitarsi alla sua parte di vecchia castellana, di fornire tutto l'occorrente, congedare e riaccogliere la comitiva alla soglia della casa, presiedere alla mensa. E le feste solenni portino il dono della nonna ai nepoti, ai figli, alle nuore, alle giovani amiche. E sia accompagnato da parole d'affetto materno, da benedizioni. Quelle benedizioni, quell'affetto le torneranno centuplicati, e faranno un'aureola di serenità alla sua fronte canuta. PARTE SESTA PAROLE AL VENTo CAPITOLO PRIMO. Il Giovane.

Non si mettano sulle difese, signorini. Io non ho la menoma intenzione di dare degli insegnamenti agli uomini sul modo di vivere. Figurarsi! So bene che nel riparto dei doni della Provvidenza, l'intelligenza è toccata tutta a loro. Si sarebbero per caso degnati,

"Annebbiando il cipiglio Tra l'inno e lo sbadiglio,"

di leggere l'epigrafe che ho messa in fronte a questo libretto? È messa là per loro. Una volta, la Viscontessa Giovanna d'Albret, madre di Enrico IV, traviata dalle chiacchere emancipatrici dell'onorevole Salvatore Morelli, ebbe la curiosa idea di salire in pulpito nell'oratorio d'un convento di Limoges a predicare la riforma. Tant'è vero che nulla è nuovo sotto il sole, neppure le signore mitingaie che noi crediamo una nuova produzione del suolo americano. Si figurino l'indignazione di quei frati! Essi bruciarono il pulpito, scomunicato dalla presenza d'una donna; poi scarabocchiarono in un cattivo quadro la caricatura di quella scena di predicazione, e vi scrissero sotto quella massima d'oro:

"Mal sont les gens endoctrinés

Quand par femme sont sermonnés."

Io me la sono mandata a memoria religiosamente, e, come vedono, l'ho posta in fronte a questo lavoruccio, come professione di fede, persuasa che essa sola potrebbe ottenermi la loro indulgenza; perchè so bene che non tutti gli uomini sono frati; ma so altresì che i frati non sono che uomini. Dunque, io non ho punto, ma punto la presunzione di voler insegnar loro la menoma cosa. Soltanto, perchè riconosco ed ammetto l'inferiorità e la debolezza del mio sesso, li prego a voler modificare, per compiacenza verso di noi, la larghezza delle loro idee. Noi siamo ancora invase da un mondo di pregiudizi. - Ci figuriamo, come quella buon'anima del povero Giusti, che un giovinetto debba avere la modestia della sua età, quasichè non fosse nato con tutto lo scibile in testa. Noi altre vecchie poi, avremmo la pretesa di vederci trattare con quei riguardi burleschi, che ci usavano quegli imbecilli dei loro nonni. Ci siamo avvezzate, è vero, a non farci più baciare le mani; ma il voltarci la schiena per parlare con una giovane, lo stenderci le mani dinanzi, e magari urtarci, per invitare le nostre figliole a danzare, il parlare delle ore con esse al nostro fianco, senza rivolgerci la parola, lo sbadigliarci in volto quando discorriamo ; tutte queste disinvolture moderne, cosa vogliono? noi vecchie rimbambite non le sappiamo apprezzare. Ed anche le nostre figliole, allevate da noi, guastate dalle nostre idee antidiluviane, non amano affatto di vedere i loro fratelli uscire di casa e rientrare senza salutare nessuno ; loro son superiori a queste inezie; ma le donne non sanno elevarsi a tanta altezza - Tu udissi, nonna, mio fratello! - mi dice mia nipote - Grida, comanda a tutti : - Non voglio le camicie stirate così; - E questo piatto l'ho detto che non mi piace; non si deve più fare… - Questa è energia di volontà, - osservo io. - Ma delle camicie parlava colla mamma. E quel piatto si faceva perchè piaceva al babbo, - insiste la sciocca ragazza. - Il merito è appunto questo. Affermare la propria eguaglianza con tutti. Non tollerare nessuna autorità. Sì, vadano a farla capire ad un'intelligenza limitata di donna. Vogliono sentirne una curiosa? Una mia giovane amica mi aveva confidato una sua segreta simpatia per un bel petit crevé, che la corteggiava. Era vedova, sola, e si difendeva da quella passione, che minacciava seriamente la sua pace. Una sera mi stava.accanto in un circolo di signore, che leggevano le belle poesie del signor Deamicis dedicate a sua madre, ed ammiravano quella gentile devozione figliale. Il petit crevé profittò di quell' occasione per mostrare la sua superiorità di spirito ; disse che quelle espansioni domestiche erano svenevolezze, affettazioni, e citò - quanto a proposito ! - due versi del signor Carducci: “Edmondo dai languori Il capitan cortese.” Quando il giovanotto uscì, io presi la mano della bella vedova per farle coraggio; ma ella mi disse: - Il pericolo è passato. Ora può corteggiarmi a sua posta. Quel discorso mi ha dato la misura della sua volgarità. Ne conosco altre che non sanno valutare l'onore d'esser fissate con insistenza tutta una serata col cannocchiale, in modo da attirare loro l'attenzione del pubblico; che non gustano affatto la graziosità d'una boccata di fumo nel viso. Le signore emancipate ed emancipatrici, hanno fatto più strada sulla via del progresso, e si accomodano benissimo a questa nuova civiltà degli uomini, e lo dimostrano loro con vigorose strette di mano, e trattando i giovinotti da camerati. Ma noi, signore del vecchio stampo, vorremmo che si degnassero di tener conto dei nostri pregiudizi, e di trattarci come ci si trattava a' miei tempi. Non è dato a tutte di emanciparsi. Il peggio si è che le signore, oltre il disconoscere il merito di certe libertà di modi, si permettono di riderne e di farne la caricatura. Quest'estate ebbi parecchio in villa con me una mia nipote. Quando dovette tornare a Milano l'accompagnai allo scalo, e la misi in carrozza. Suo marito non aveva potuto venire a prenderla, e dovette fare il viaggio sola. Pochi giorni dopo mi scrisse una lettera che terminava così: «Ricorda d'aver visto, rimpetto a me in vagone, Un lion che guardandomi, mangiava un panettone? Dopo quel panettone, venner due veneziane, Poi, come per dessert, mangiò salame e pane; E, visto che il salame era sparito a volo, Egli tirò di lungo mangiando pane solo; E senza cerimonie superflue di bicchiere, Alzava la bottiglia quando voleva bere; Dinanzi a me ! Per altro, pare sia ricevuto, Scuotea su me le bricciole, a titol di saluto. A Vercelli mi chiese, col suo cappello in testa, Se il treno desse tempo di scendere alla lesta; Pensai: Quell'antropofago ha fatto indigestione; Deve scendere a bere un'acqua di limone. Che che! Ritornò tosto, glorioso e trionfante Recando in un Fanfulla mezzo pollo fumante. E daccapo, col suo fortunato appetito, A mangiar, bere, e mettere le ossa sul mio vestito. Farmi scuse? Le pare? Un lion? che si crede? Mi disse un'insolenza, volle schiacciarmi un piede; la costanza e l'amore, che non sono dell'esclusivo dominio delle convenienze. Ma ho ripòrtato quell' opinione d'un uomo d'ingegno, a dimostrare che l'affetto coniugale non ha nulla di ridicolo, nè d'ignobile, per giustificare la cura che prendono i mariti a dissimularlo. Si è tanto detto e scherzato sugli sbadigli dei mariti dopo le nozze, i loro atteggiamenti sguaiati, il leggere mentre la moglie vorrebbe conversare, le lunghe sere d'assenza, la renitenza nell'accompagnarla, che sarebbe inutile il ripetere qui le stesse cose. Un marito che legga il mio libro. fa già un tale atto di deferenza a sua moglie, che me lo dimostra incapace di contenersi grossolanamente con lei. Non sarà quello il marito che si servirà prima della moglie a tavola, o loderà nelle altre signore tutte le qualità ch'ella non possiede, o biasimerà i difetti ch'ella ha. Io conosco un romanziere, uno dei primi romanzieri moderni, che ha una moglie bellina, graziosa, ma piccina. Egli non ha mai fatto ne' suoi romanzi una eroina alta. Tutte le figure simpatiche da lui descritte, sono belle miniaturine come Little Dorrit di Dickens, come sua moglie. E una delicatezza, che tutti gli animi gentili sanno apprezzare. Invece un altro mio conoscente - non è scrittore quello - ha una moglie alta e grossa come una cariatide, e, forse per amor dei contrasti, ha la mania delle donnine piccole; e, quando ne vede una, non finisce di lodarla, con tutti ;i vezzeggiativi più diminutivi della grammatica, e non ha pensato forse mai, quanto debba sentirsene offesa sua moglie. Ed in simile errore cadono moltissimi mariti, che, tuttavia, fuori dalla propria famiglia, non parlerebbero mai di corda in casa d'un appiccato. Ma la casa propria pare che autorizzi tutte le sconvenienze. Là è permesso fare dei rimproveri alla moglie in modo aspro, e magari in presenza dei figlioli, e delle persone di servizio. Pel capo d'anno si mandano biglietti ed auguri a tutti i primi venuti, ma alla moglie, figurarsi ! non ci si pensa. - Ti piace questa mia toletta? — domanda la moglie. - Hai una nuova toletta? Non ci avevo badato. - Non le bada! e se per caso non gli piace non esiterà, a rispondere: - No, non mi piace. Stai male. - E sa che quella spesa è fatta; e quell'abito lo dovrà, portare finchè dura, col cruccio di pensare che non piace a lui, e di ripetere a se stessa, che una volta, le sue tolette gli piacevano sempre, e trovava che ella non poteva star male mai. In faccia al mondo poi. anche alcuni mariti affettuosi si credono in obbligo di affettare una scortese indifferenza per la propria moglie. Entrano in una casa in cui ella li ha preceduti? Saluteranno, daranno la mano a tutti fuorchè a lei. Mi accadde in un cotillon di presentare ad un giovane due signore, di cui una era sua moglie. - Vuole la rosa o la cardenia? domandai. - Vorrei quella che non è mia moglie. - rispose. Erano pochi mesi che era ammogliato, ed era un buon marito. Credeva di far dello spirito. Ai tempi di Monsignor della Casa, ed anche a quelli del Gioia, quegli scrittori di galatei avevano bisogno di raccomandare ai mariti, di non parlare continuamente delle loro mogli, di non tesserne l'elogio ad ogni momento. Povere mogli ! Ora la fortuna ha girata la ruota; è venuta la moda insulsa di affettare l'indifferenza, e bisognerebbe raccomandare precisamente il contrario. A' miei tempi, quando ad un capo di casa veniva fatta domanda di matrimonio per sua figlia, doveva rispondere: - Ne parlerò a mia moglie, ed alla fanciulla. E quando una signora riceveva di sera, il marito non usciva, e faceva con lei gli onori di casa. E quando una signora riceveva di sera, il marito non usciva, e faceva con lei gli onori di casa. E se la moglie doveva andare in viaggio, il marito la accompagnava, e, quando proprio non poteva farlo, la raccomandava a qualcheduno; non c'era nessun marito che le dicesse come certi mariti moderni: - Va sola. Di che hai paura? Non ti ruberanno mica. - Tanto varrebbe dirle addirittura: - Non sei bella, nè giovane abbastanza perchè io sia geloso. Oh! la strangolatura d'Otello piuttosto che tanta indifferenza! Io confesso che conosco molte signore, (tanto gentili che mi perdoneranno di vedersi accennate qui) che vedo da parecchi anni, e non so tuttavia che viso abbiano i loro mariti. Mi scuserà, marchesa, - mi dicono. - Mio marito è un uomo serio ; non fa visite. - Si figurino, se le scuso, poverine! - Ma loro, signori uomini seri, credono veramente che vi sia più serietà nel mancare dei riguardi elementari verso le relazioni delle loro spose, che nel mostrare, - accompagnandole almeno una volta da ogni conoscente, - che le curano abbastanza per voler sapere dove vanno, e con chi trattano? Via; la mano sulla coscienza; lo credono davvero? Così incontrano per la strada delle signore che la loro moglie vede ogni settimana, e tratta col tu, e non le salutano. E quelle signore non dicono mica: -E’ un uomo serio ; è preoccupato di cose troppo gravi ed alte per curarsi di noi. - Punto, signori miei ; me ne duole pel loro amor proprio ; ma le ho udite molte volte a dire, con un sorriso che non era d'ammirazione : - E’ il marito della signora Tale. - Un orso. - Non conosce neppure le relazioni di sua moglie ; poveretta ! Io mi rallegro coi nostri uomini, che non passano la loro giornata metà alla toletta, e l'altra metà in visite galanti, come gli abatini dell'altro secolo. Ma da un eccesso all'altro ci corre; ed almeno una volta all'anno, - come In questo capitolo come in quello della madre, mi proponevo di parlare dei casi riservati. Ma, tutto ben considerato, mi avveggo, che i casi riservati, sia che riguardino la moglie, le figliole o i giovani figli, quando arrivano al punto che il padre di famiglia debba occuparsene, sono tali che non si potrebbero registrare in un libro, in cui c' è un capitolo per tutte le età, non esclusa la giovinezza e l'infanzia. Lascio adunque i casi riservati, che sono piuttosto da contemplarsi nei doveri dell' uomo che nelle convenienze sociali della gente per bene. V’ha tuttavia un caso riservato, riservatissimo, di cui vorrei dire una parola. - Il caso in cui un capo di casa, malgrado i suoi affari e le sue preoccupazioni politiche, qualunque ne sia il colore, mi avesse fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina centocinquantesimaterza del mio libriccino. Se ci ha trovato qualche cosuccia di buono, mi raccomandi alla sua mamma, alla sua sposa, alle sue figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, gliene sarò riconoscente « Finché il sole Risplenderà sulle sciagure umane. » Se al contrario non ci ha trovato nulla, proprio nulla che valga la pena d'esser letto, non lo dica a nessuno; non mi tolga la simpatia delle signore che ne' miei pochi lavori mi sono studiata di guadagnare, e di cui vado superba. Che male ho fatto infine? Un libro inutile? Dappoco ? Una sciocchezza? Ma pensi che se si avessero a punire tutti quelli che hanno scritto delle sciocchezze, più di mezzo mondo ne patirebbe, perchè, come tutti sanno : " Les sots depuis Adatti sont en majorité ". FINE. INDICE Introduzione pag. 1 PARTE PRIMA. Pagine rosee. CAPITOLO I. Il bimbo pag. 5

CAPITOLO II. I fanciulli pag. 8

Coi parenti pag. 8 Feste in famiglia pag. 9 Colle sorelline pag.14 Colle persone di serviziopag.15 A pranzo pag.16 Visite pag. 20 Inviti pag. 26 In casa altrui pag. 27 In iscuola pag. 29

PARTE SECONDA. Luce ed ombre. CAPITOLO I. La signorina pag. 33 In casa pag. 33 Coi vecchipag. 37 Visite pag. 41 Ai pranzi pag. 44 In teatro pag. 48 Balli pag. 50 In casa altrui pag. 52 In viaggio ed ai bagni pag. 55 Corrispondenza pag. 56

CAPITOLO II. La signorina matura pag. 57 CAPITOLO III. La zitellona pag. 59

Coraggio della sua posizione p. 59. Titolo pag. 60 Cerim. dibattesimo e cresima pag. 62 Toeletta pag. 64 Divertimenti pag. 65

PARTE TERZA. Un lembo di cielo. CAPITOLO I. La fidanzata pag. 67

Domanda di matrimonio pag. 67 Contegno coi parenti pag. 68 Colle amiche pag. 69 Col fidanzato pag. 72

CAPITOLO II. La sposa pag. 74

Annuncio della promessa pag. 71 Visite, corredo, doni pag. 76 Esposizione del corredo pag. 77 Contratto nuziale pag. 79 Inviti e toletta pag.79 Partecipazioni pag. 81 In chiesa pag. 82 Viaggio di nozze pag. 83 PARTE QUARTA. A mezzo del cammin di nostra vita. CAPITOLO I. La signora pag. 87

Ritorno dal viaggio pag 87 In famiglia pag. 88 Visite pag. 92 Pranzi pag. 95 Serate pag. 104 Giochi pag. 107 Rinfreschi pag. 108 Balli pag. 109 Ospitalità pag. 110 Teatri pag. 113 Ai bagni pag. 114 In campagna pag. 117 Corrispondenza pag. 120


CAPITOLO II. — La madre pag. 124

Annunci di nascita pag.125 Battesimo pag. 126 Visite pag. 127 Ai pranzi pag. 128 Presentazione dei bimbi pag. 129 Ballo pag. 130 Coi maestri dei figli pag. 131 Coi loro amici pag. 134 Lutto pag. 135 Casi riservati pag. 137

PARTE QUINTA. — Capelli bianchi. CAPITOLO UNICO. — La vecchia pag. 140 Invecchiare pag. 110 Toletta pag. 142 Suocera pag. 142 Divertimenti pag. 143

PARTE SESTA. — Parole al vento. CAPITOLO I. — Il giovane pag. 145

CAPITOLO II. — Il capo di casa pag. 149