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FOSCA RACCONTO DI I. TARCHETTI


AMORE NELL'ARTE TRE RACCONTI DELLO STESSO AUTORE MILANO EDOARDO SONZOGNO, EDITORE 14, Via Pasquirolo. 14 1874. Tipografia Sociale successa alla Cooperativa di Milano - Via S. Radegonda,6. INDICE AL LETTORE Pag. 5 Fosca  » Amore nell'arte - Lorenzo Alviati  » 217 » Riccardo Waitzen . . .  » 261 » Bouvard  » 297 [Dedica autografa] I. U. TARCHETTI FOSCA Proprietà letteraria riservata Commetto io un' indiscrezione nel pubblicare queste Memorie? Credo di no; nè una titubanza più lunga, giustificherebbe ad ogni modo la mia colpa. Colui che le ha scritte è ora troppo indifferente alle cose del mondo , troppo sicuro di sè, perchè abbia a godere dell'elogio o a soffrire del biasimo che può derivargliene. Egli sa per quale strana combinazione questo manoscritto è venuto in mio potere, nè ignora il disegno che s io aveva concepito di pubblicarlo. Gli basterà i che io vi abbia tolte quelle indicazioni che potevano compromettere la fama di persone ancora viventi., e che il segreto della sua vita attuale sia stato rispettato. Se l'autore di queste pagine può ancora trovare nella solitudine e nell'egoismo in cui si è rifuggito, qualche parte di ciò che egli fu un tempo, non gli sarà forse discaro che altri abbiano a versare, nel leggere queste Memorie, quelle lacrime che egli ha certo versato nello scriverle. Milano, 21 gennaio 1869. FOSCA I. Mi sono accinto più volte a scrivere queste mie Memorie, e uno strano sentimento misto di terrore e di angoscia mi ha distolto sempre dal farlo. ena prifonda sfiducia si è impadronita di me. Temo immiserire il valore e l'aspetto delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perchè ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri l'eco delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo - ma dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri dolori, è cómpito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di non poter essere nel vero. Ho pensato spesso con gioja alla rovina che il tempo va facendo nelle mie Memorie; più spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è rinunciare a quell'unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al passato. Chè se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l'oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita. Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perchè ci fa fede dell'accorciarsi progressivo dell'esistenza. Un'avidità febbrile di morire affatica inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un'ora, un minuto, un istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato che si ha orrore di rinnovare. Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo. Vi fu un tempo in cui avrei voluto fare un libro delle cose che sto per raccontare: un'inclinazione che i casi della mia vita avevano combattuto per tanti anni, ma nè dominata nè vinta, mi aveva trabalzato già tardi, già vecchio d'ingegno e di cuore, nel mondo della pubblicità e delle lettere. Io non vi aveva potuto portare che le memorie di una gioventù ricca di molte passioni, di una vita lungamente e orribilmente angosciata. Ove avesse trovato in me valore pari alla grandezza del soggetto, il racconto che mi accingeva a scrivere mi avrebbe forse procurato un successo clamoroso. Nondimeno me ne astenni. Gettare nel fango della pubblicità il segreto de' miei dolori, sacrificarlo alle vuote soddisfazioni della fama sarebbe stata debolezza indegna del mio passato. , Io scrivo ora per me medesimo. Non avrei mai osato violare la sola religione che è sopravvissuta alla rovina , della mia fede, la religione delle mie memorie. Su questo vecchio quaderno su cui ho tentato già tante volte d'incominciare il mio racconto, vi sono molte cancellature che non posso più decifrare. Temo che il tempo abbia pure cancellate dalla mia anima non poche delle sue rimembranze. Questi fogli su cui la mia mano si è arrestata tante volte, trattenuta da un terrore che non poteva vincere, mi accompagnano già da cinc, le anni nelle mie faticose peregrinazioni. Sulla maggior parte di essi vi è scritto nulla; pure sembra che il mio pensiero vi abbia tracciato delle cifre misteriose e solenni, tanto vi ho meditato sopra, guardandoli. E li svolgo nell'ansietà di leggerli, e osservo con melanconia i piccoli acari della carta che fuggono lungo le loro pieghe ingiallite. Sì, sono oramai cinque anni! Le cause del mio terrore non hanno cessato di esistere, perchè il mio cuore non è di quelli che dimenticano, ma, comunque sia, questo terrore è dissipato. Mi sento ora il coraggio di ricordare e di scrivere. Ora che tutto dev'essere finito! Mi guardo spesso d'intorno come fossi rimasto solo nel mondo, come se le illusioni che mi avevano accompagnato sin qui fossero state cose vive e sensibili, come dovessi rivederle al mio fianco. Era venuto innanzi solo nella vita, e non mi era accorto mai di esser solo. Ma ora! Ho provato la solitudine della società, e l'ho spesso cercata con ardore, l'ho cercata anzi sempre; quella è nulla. È la solitudine delle passioni che è orribile! Non so se gli altri uomini abbiano subito un passaggio cosi rapido e cosi violento come- il mio, dal periodo della fede a quello della disperanza ; se sieno passati ad un tratte; dalla vita operosa della gioventù, alla vita inerte e sconsolata della vecchiezza. Credo nondimeno che molti vi sieno entrati con calma, quelli che amarono serenamente e con calma. Io era nato con passioni eccezionali. Io non avrei mai saputo nè odiare nè amare a metà; non avrei potuto abbassare i miei affetti fino al livello di quelli degli altri uomini. La natura mi aveva reso ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni. &a dunque giusto che anche le mie passioni avessero cause, modi, svolgi: menti, fini eccezionali. Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventù; è per essi. Scrivendo queste pagine, io non ho altro scopo che di interrogare le mie memorie ancora una volta per non doverle interrogare mai più. Io innalzo questo monumento sulle ceneri del mio passato, come si compone una lapide sul sepolcro di un essere adorato e perduto. Ho presa una grande risoluzione. Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla - isolamento assai più penoso che nelle vaste solitudini della natura — ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perchè non hanno ancora scoperto il loro punto d'equilibrio. Il difficile è trovare il centro della propria anima! Non iscriverò che di un solo di questi amori. Non parlerò dell'altro che pel contrasto spaventoso che ha formato col primo. Quello non è stato che un amore felice. Raccontarlo, sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli affetti, e non v'è creatura che abbia amato sì poco da non conoscerla. O si abbandona, o si è abbandonati — spesso desiderosi, spesso contenti dell'abbandono. Tal cosa è il cuore umano. Più che l'analisi d'un affetto, più che il racconto di una passione d'amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. - Quell'amore io non l'ho sentito, l'ho subito. Non so se vi siano al mondo altri uomini che al biano superato una prova come quella, e nelle circo- stanze in cui io l'ho superata; non so se vi sarebbero Rnpravvissuti. Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo: « Come, in che guisa vi sono io sopravvissuto? » Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa : io non ho più cognizione di tempo, non ho più ordine nelle mie idee, non ho più lucidità nelle mie memorie. Questi cinque anni sono passati come un istante e come un'eternità, inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di epoche. Quelle feste, quegli anniversarii che formavano le gioje più pure della mia vita quand'era fanciullo, sono essi ritornati ogni anno? E come non li ho avvertiti? Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? Perchè non ho più amato?... Non so più pensare, non so più fermarmi lungamente sopra un'idea, non vedo più le linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. E là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. Quando avrò scritto la storia di questo amore, dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni che vi sono succeduti; sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un'altra più terribile ancora; sarebbe la storia delle mie visioni, il racconto dei sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo. Radunerò qui i documenti, le lettere, le note che ho conservato. Ricostruirò questo edificio colle sue stesse rovine. Ora sono ben calmo e tranquillo; ora che ho incominciato a non diffidare più di me medesimo. La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio entusiasmo sono esaurite. Una cosa mi conforta e mi inor- goglisce, il sentimento della mia freddezza - perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo. Spero e pur temo dimenticare. Una notte triste ed oscura ha incominciato distendersi sul mio passato. Le onde che la virtù del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d'oro, ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell'aria, ricadono come lacrime della natura. Quando il fuoco della gioventù si è spento, svanisce a poco a poco anche il tepore delle ceneri; esse rimangono là ad attestare dove la fiamma ha un giorno avvampato, fino a che il soffio gelato del tempo non viene( anch'esso a disperderle. Sarebbe inutile riandare sugli anni che hanno preceduto gli avvenimenti che sto per raccontare. Io non voglio afferrare che un punto della mia vita, non voglio metterne in luce che un istante. Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza, spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne tutta la storia? La mia gioventù trascorse piena, ricca, feconda. La fortuna, a dir vero, non m'era stata assai prodiga dei suoi favori; ma che cale alla gioventù della fortuna? Quella è l'età della forza, del coraggio, della baldanza; è allora che si raccolgono a piene mani i frutti che maturano nel giardino della vita, che si accosta alle labbra la coppa inebbriante della felicità: a quell'età si fruisce di un bene che non si conosce e non si esperimenta mai più nell'avvenire, mai più - la mite e affettuosa indulgenza degli uomini. Non ho mai potuto indovinare se la mia natura fosse piuttosto incompleta che esuberante; ma in qualunque modo, egli era ben certo che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. La ripugnanza che ho sentito, e che sento ancora per tutto ciò che è convenzionale, per tutto ciò che è metodico, non proveniva già dalla mia educazione, ma da una disposizione speciale del mio carattere. Non mi importava di essere da più o da meno degli altri uomini, mi bastava di esserne diverso. In tutta la mia vita ho operato come ho pensato — convulsivamente. Dicono che i leoni si trovano in uno stato di febbre continuo. Ignoro quale medico abbia potuto accertarsi di questo fenomeno, come avrebbe fatto al capezzale di un infermo; ma sia ciò vero o non vero, sia la mia natura debole o forte, non vi è dubbio che io ho provato sempre una specie di agitazione febbrile e convulsa simile a quella. Io mi sono divorato la vita. Io non potrei misurare la mia età colla stregua ordinaria del tempo. Aveva ventotto anni allorché successero gli avvenimenti che sto per raccontare. La rivoluzione mi aveva trascinato già da tempo nelle sue file, quasi mio malgrado. Deviato da' miei studii, combattuto nelle mie inclinazioni, mi era ridotto a rimanere nell'esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale. Io vi militava da cinque anni, allorché, colpito da una grave malattia di cuore, dovetti chiedere una lunga licenza e ritirarmi nel mio villaggio natale. Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che coll'essere inscritto nei ruoli d'un reggimento e far pompa del mio costume di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava spesso di quell'inazione ricompensata si largamente. Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato. Non parlerò adesso dei dolori che avevano provocata quella mia malattia. Essi appartengono ad un'altr ep della mia vita; furono il frutto d'una passione che, ove non mi fosse stata inspirata dal più nobile dei sentimenti, avrebbe coperto di onta il mio passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non ebbero il potere di uccidermi, è perchè tal potere è spesso negato al dolore. In capo ad un anno aveva richiesta l'attività, non già che la mia salute fosse migliorata, ma perchè mi sarebbe stato impossibile rimanere più a lungo nel mio paese natale. Quella vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito coll'uccidermi. Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può più adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri d'ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà, che si pongono tra le ruote del suo carro. Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra, Pietroburgo, Parigi, Roma, Berlino, il quesito, la cui soluzione affatica da secoli l'umanità, sarebbe risolto all'istante. Né la monotonia di quella vita era il meno doloroso de' miei tormenti. Io conosceva tutte le vie di quel paese, tutte le case, tutti gli abitanti — viuzze strette e fangose, catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e cocciuti. Mi dava pena il vederli, più pena il sentirli. La stessa natura non aveva che attrattive assai deboli. Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea, soffre d'impotenza e di rachitismo; si direbbe che le manchi qualche cosa, come la forza e il profumo. I boschi di Boulogne, di Volksgarten, di Thiergarten non si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a Berlino. L'uomo risente, come le piante, l'influsso dell'atmosfera in cui vive. Io mi vedeva isterilire, immiserire, deperire. Fosse effetto della malattia, fosse influenza di quel soggiorno triste ed uggioso, io mi era interamente e miseramente trasformato. Una malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e di scetticismo si erano impadronite di me. Non sentiva più alcun rammarico del passato, nè alcuna trepidanza dell'avvenire. Questo avvenire lo aveva in certa guisa prevenuto. Me ne era formato l'imagine la più triste, la più nera, la più desolante; aveva forzato la mia anima ad accettarlo senza lagnarsene, e cosi m'era posto in pace con l'unico oggetto che avesse potuto ancora atterrirmi, col fantasma sconosciuto di questo avvenire. Ho pensato spesso, durante questi anni, a quei giorni pieni di desolazione e di sconforto, a quel lungo inverno di cinque mesi trascorso tra le pareti di poche stanze, senza vedere altro volto d'uomo che il mio. Mi sono ricordato ancora di tutto ciò che aveva allora colpito in qualche modo i miei sensi : le larghe finestre a vetrate coperte di ragnateli, il pigolio dei passeri che beccavano nei canali delle gronde, lo stillare delle nevi che si scioglievano, il rumore degli zoccoli ferrati dei contadini sul selciato fangoso della via - uniche sensazioni, uniche voci che mi avvertivano come vi erano esseri che vivevano d'intorno a me, come io stesso viveva in mezzo ad esseri vivi e sensibili. Ho conservato memoria di quei giorni in un diario scritto sotto l'impressione di quei dolori segreti di cuore, ma che non giova ora qui riportare. Allorchò mi allontanai da quel luogo, e sostato nella prima città che incontrai nel mio viaggio, confrontai il mio volto con quello di altri uomini, mi chiesi con ispavento se io era ancora lo stesso di un tempo, se era diventato dissimile da loro, se sarei sopravvissuto a quel giorno. Aveva imparato a disperare troppo precocemente. Allora non prevedeva l'aurora luminosa che doveva sorgere ancora sulla mia gioventù, e che doveva tramontare si presto l Ho parlato del mio paese natale. Mi duole che queste pagine non sieno destinate a venire alla luce, per poter render pubblico un odio che conservo da lunghi anni nel cuore, l'unico che il tempo e la riflessione non abbiano fatto che avvalorare ed accrescere. Io amo la terra, questa gran madre, questa gran patria comune; io l'amo tutta senza distinzione di suoli e di climi; l'amo come una parte di me, io che non sono che una porzione minima di lei stessa. lo ho sentito spesso le sue attrazioni, l'appello che ella fa a' suoi atomi, le sue creature; agli uomini, le sue particelle animate. A primavera, quando il sole la dardeggia de' suoi raggi; in quel periodo di febbre, di ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie degli insetti e delle erbe, quando ella sorride d'un sorriso pieno d'incanti e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di rientrare nel suo seno; io mi sono prosteso per abbracciarla; ho, sentito che essa mi chiamava, e ho gridato: « Tu mi vuoi, tu mi chiami, - io vengo, io vengo. » Si, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e di radici ; ma vi è in essa un punto che io odio, ed è quell'angolo freddo ed uggioso dove son nato. E di là che ho incominciato a gettare uno sguardo sul mondo, e a vederlo triste ed ingrato; è là che non ho potuto aver mai nè una nobile gioia, nè un nobile dolore; è là che conobbi gli uomini che mi hanno insegnato ad odiare gli uomini; è là, finalmente, che non ho potuto amare. Avrei voluto levarne le ceneri de' miei cari, perché l'ultimo anello che mi congiungeva alla mia patria fosse anche spezzato. Fui torturato lungo tempo da un'idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perché, io stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborrite. IV. Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa risoluzione, perché non aveva più alcuna forza di volontà quando vi venni. Era sul finire d'aprile, e mi ricordo di aver fatto a piedi attraverso la campagna un tratto di strada assai lungo. Due allodole gorgheggiavano nel cielo che mi sembrava alto, sereno, sconfinato più di quanto non mi fosse mai parso dapprima. Esse si erano tanto innalzate che il mio occhio non arrivava a vederle, erano lontane l'una dall'altra, e a giudicarne dal canto, parevano immobili - Si sarebbe detto che avespero trovato lassù dove posarsi. Il loro gorgeggio aveva qualche cosa di affettuosamente intimo, pareva una serie di domande e di risposte; ed era si melodioso, si calmo, si limpido che mi ricordo d'averlo udito ancora ad una grande distanza dal luogo ove l'aveva sentito la prima volta. Certo perché calmo e limpido, non perché vigoroso. Vi è uno strano mistero di luce in quel canto. Il mio orecchio poteva forse udirlo per la stessa ragione che il nostro occhio discerne il letto algoso di un lago attraverso le sue acque alte e tranquille, e non vede quello del torrente, le cui onde basse ed impetuose, ma torbide, scorrono con impeto al mare. Aveva anche raccolto lungo la strada un mazzetto di tussillaggini gialle - gli unici fiori che abbelliscono quei vigneti sterili e desolati - e lo conservo tuttora nella mia scatola di fiori disseccati. Ho segnato tutti i periodi solenni della mia vita con dei fiori. Ne conservo una quantità di mazzetti che sono come le pietre miliarie del cammino percorso nella mia esistenza, e li porto meco come l'unico tesoro che io possieda al mondo. Ho sempre sentito una specie di rispetto per queste piccole e fragili creature di un giorno, anche una specie di fede. Un anno a Milano, in un'ora di profondo sconforto, una donna che passeggiava meco al mio fianco tenendo in mano una rosa, pii precedette di alcuni passi, e sfogliandola, e gettandone i petali dinanzi a me, mi disse scherzosamente: « Spargo dei fiori sul vostro cammino. All'indomani un avvenimento inatteso mi restituiva la gioia e la pace. Allorché giunsi in quella città, io non aveva nè progetti, nè idee, nè speranze di giorni migliori. Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente. Sapeva che fra due mesi sarei stato richiamato al reggimento e che di là avrei meglio potuto sollecitare questo richiamo. Forse era stato tale il movente del mio viaggio. Appena arrivatovi, cercai con ansietà di un amico che certa comunanza di sventure mi aveva reso da tempo assai caro. Egli abitava in una casa signorile e assai vasta, dove era però quasi sconosciuto. Bisognava chiedere di lui. Battei perciò ad un uscio del primo piano, e venne ad aprirmi una donna giovane e bella. Mi parve che rimanesse colpita in modo singolare dal mio aspetto; né io lo fui forse meno del contrasto che formavo col suo. Essa era sí serena, sí giovane, sí fiorita; e il mondo pareva dover essere stato fino allora cosí benigno con lei, che io la guardai un istante senza parlare, compreso d'una meraviglia dolce e profonda. - Di chi cercate, in grazia? Profferii il nome del mio amico. - Al secondo piano. Avrei giurato di aver sentito già piú volte quella voce, di averla sentita bambino, ne' miei sogni... La guardai come si fa a persona che parci di conoscere. Nell'allontanarmi sentii che un lembo del mio soprabito era stato chiuso tra le due imposte dell'uscio. Ella se ne avvide e fu sollecita a riaprire. - Perdonate. M'inchinai. Non risposi nulla, ma tornai ad affissarla sí stranamente, che essa mi guardò quasi spaventata. Sentii quello sguardo penetrarmi penosamente nell'anima. «Sí felice, sí florida, sí bella!» esclamai tra me stesso salendo la scala; «oh dolce creatura! se tu mi porgessi quella tazza che l'età e gli affanni hanno allontanato forse per sempre dalle mie labbra, come potrei rifiorire anch'io, anch'io, e sorridere ancora alla vita! Ma la gioventú è dei giovani, e le gioie non sono che dei felici!» Giunto sul pianerottolo, mi rivolsi, e vidi ch'ella era rimasta immota sull'uscio, e mi accompagnava dello sguardo, e pareva commossa e pensosa. Aveva ella compreso che io era sventurato, e aveva sentito il bisogno di confortarmi del suo affetto e della sua compassione? Dirò cosa antica come l'amore. Bastarono quello sguardo e quella mestizia. Da quel momento le nostre sorti furono gettate. Io l'aveva vinta con l'unica attrattiva che vi era in me, - quella da cui le donne sono prese assai raramente, ma cui, ove lo sieno, inorgogliscono spesso di cedere senza resistere, perché comprendono di mettersi cosí sulla via di una missione che le santifica - l'attrattiva della sventura. Trovai il mio amico, e mi installai nel suo appartamento. Ebbi da lui notizie di quella donna. Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in un'amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara: quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava nel cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo a' suoi vasi di fuxie e di gerani; suonava anche il pianoforte e cantava. Passai quella prima notte in una specie di delirio; lessi l'epistolario di Foscolo - l'uomo antico - e rividi in un'allucinazione le scene passate della mia vita. Mi pareva che tutto fosse finito lí, con quel giorno, con quella fuga, coll'incontro di quella donna; travedeva non so quali gioie nell'avvenire. Fui riscosso per tempo dal suono di un piano-forte che veniva dal piano sottostante. Apersi la finestra e mi affacciai dal mio balcone. Era un mattino lucido, caldo, sereno, il sole si versava sulla via che brulicava di passeggieri affaccendati. Le carriuole dei lattivendoli stridevano sulle loro ruote malferme, i vetturini facevano scoppiettare le loro fruste, gruppi di fanciulli s'inseguivano schiamazzando; ogni cosa era vita, luce, moto, allegrezza. Da lungo tempo non aveva assistito a quello spettacolo del ridestarsi di una gran città. Abbassando lo sguardo sul balcone di sotto, vi scorsi Clara che mi stava guardando. Essa era seduta in mezzo a' suoi vasi in un abito semplice e negletto; ma le sue fuxie non erano ancora in germe, e non v'era altro di fiorito intorno a lei che alcune pianticelle di primule e di azzalee. L'amore, la piú complessa e la piú potente di tutte le passioni, è ad un tempo la piú facile e la piú semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano - e basta. Da che cosa era egli stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori incominciarono con uno sguardo. Rientrai nella stanza ebbro. Non di amore, no; non amava ancora, non ne sperava; ma assetato di conforti, di compianto, di lacrime. Avrei desiderato una donna, non per chiederle le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L'uomo è piú profondo nell'amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul seno di una donna. Non so se gli altri uomini abbiano súbiti abbandoni, súbiti impeti, súbite risoluzioni come ho io. In me vi è nulla di lento, di ordinato, di normale. La mia è una natura a molle, a sbalzi; una natura sempre alterata. Le scrissi, e le gettai dal balcone un biglietto contenente queste sole parole: «Io sono infelice, io sono malato, io soffro». Il biglietto cadde a' suoi piedi. Essa lo vide, esito' un istante, poi si curvò, lo raccolse, e fuggí nella sua camera. Non ricomparve piú lungo il giorno. Alla sera la vidi un istante sul balcone, e osservai che aveva gli occhi soffusi di lacrime. Da quel momento la mia illusione non ebbe piú freno. Essa aveva pianto per me, essa aveva accettato in certo modo il compito che io le aveva chiesto di consolarmi. Fui assalito da una smania febbrile di vederla, di sentire la sua voce, di averla vicino a me, di gettarmi a' suoi piedi, di dirle lacrimando tutta la povera storia della mia vita. Avessi avuto un oggetto toccato da lei, portato da lei, un suo nastro, un suo abito, avrei passato la notte guardandolo, me ne sarei sentito meno diviso. Cosí fu in ogni tempo della mia anima. Passai sempre dall'apatia all'adorazione senza soffermarmi sull'amore. Perché riposarsi a metà? Perché non mirare agli ultimi limiti? Le grandi cose sono estreme - le grandi anime adorano o odiano. Erano cominciate allora le pioggie lente e monotone della primavera; pioveva tutto il giorno, e le finestre del suo balcone erano chiuse. Io la sentiva suonare e cantare sotto di me. Era caso, era divinazione? Essa ripeteva sempre alcune arie che mi erano care, e che mi rammentavano le scene piú dolci della mia vita. Non uscivo piú di casa per non allontanarmi da lei. Là, in quella stanza, le ero vicino; non la vedevo, ma sapevo di esserle vicino. E poi, la sentiva! Le scrivevo tutto il giorno, le scrivevo cose strane, immense, inaudite. Ero spaventato di me medesimo. Spesso la notte balzava dal letto e mi gettava sul pavimento come per tenderle le braccia, come per esserle piú d'appresso. La mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda. Se la sua pietà non fosse venuta a salvarmi, io mi sarei divorato il cuore. La rividi. Il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva. Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle - fiori umani - scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l'inno all'amore era cantato. Un giorno nel salire la scala, vidi le sue stanze aperte, essa era sola; corsi verso di lei, e mi precipitai alle sue ginocchia. Essa fece atto di fuggire; io rimasi immobile col volto celato tra le mani. Mi si appressò piangendo, si curvò verso di me, e mi disse singhiozzando: - Abbiate pietà, andate, lasciatemi. - No, io morirò qui, io soffro. - Oh mio Dio! povero giovine! - Mi odiate? Essa mi strinse al suo seno, e mi coprí di baci e di lacrime. - Vi amo, vi amo, ma lasciatemi. Fuggii come un demente. Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci dei sogni puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai visto; mia madre, piú giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale, ed era vestita di un abito grigio che io l'aveva veduta portare da bambino. Allo indomani era malato. Le riscrissi: «Io sono malato, io non guarirò se non vi vedo, venite». E essa venne. Venne per due lunghe settimane, ogni giorno, dissimulando, come poteva, il suo segreto; divisa tra l'angoscia del mio stato e il rossore dell'inganno che le costava la sua pietà. Fu la sua pietà, che la condusse all'amore; in quei giorni le nostre anime si unirono. Piú tardi io le scriveva ancora: «Oh mia vita! Vieni a confortarmi. Vieni qui, lontano da cotesta casa dove non possiamo essere felici. Ho affittato una cameretta chiara, solitaria, serena, piena di sole. La riempirò tutta di fiori per te. Ma vieni. I nostri cuori hanno bisogno di palpitare l'uno sull'altro. Cosí si muore». E essa venne ancora. La pietà l'aveva condotta all'amore; fu l'amore che la condusse alla colpa. In quei giorni si unirono le nostre vite.

V

Fummo felici, ineffabilmente felici. Passammo attraverso una serie di sensazioni nuove, ardenti, vertiginose. Mai due anime avevano combaciato cosí pienamente, mai due nature si erano congiunte, fuse, identificate in una sola come le nostre. Clara aveva indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai piú affettuosa, piú dolce, piú arrendevole, piú accarezzevole, piú eminentemente donna. Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. serena. Scopersi piú tardi il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato sopra di me. Essa rassomigliava a mia madre. Mia madre poteva aver avuto la stessa bellezza e la stessa età quando io nacqui. Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla nostra passione; non avemmo piú limiti; ella pure era tal natura da non conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli. Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l'uno all'altra. Cosí eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!... Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l'uno nell'altra senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell'affetto, adorava suo figlio. In quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice. Come tutte le donne veramente ingenue s'era data a me senza fingere, senza esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: - Sono cosí felice che ho paura di morire. Il suo rimpianto piú acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si doleva dell'avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l'uno dall'altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventú che non avevamo potuto trascorrere assieme. - Oh, s'io t'avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventú, tutta la mia freschezza - giovinetta, anch'io era bella!... Come tu avresti saputo formare il mio cuore, come t'avrei amato, come t'avrei ubbidito! Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare a me le prime e le piú pure memorie della sua esistenza. Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte, lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non era piú quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta piú alta, piú gentile, piú flessibile; la vedeva come fosse stata un'immagine di se stessa. Spesso essa mi diceva scherzosamente: - Ho voluto essere il tuo medico, e ho trascurato un po' troppo me medesima. - Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto. L'amore fa spesso di tali miracoli. Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro, essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime, piú che la nostra stessa gioventú, ci avevano condotti alla passione. Ella a venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi di illusione e di fede - e la felicità e la grandezza di un tale amore non possono essere raccontati.

VI

Perché noi ci amavamo diversamente da tutti gli altri. I nostri piaceri piú ardenti consistevano spesso in alcune fanciullaggini senza nome, in alcune puerilità che ci avrebbero fatto sorridere se non ci fossimo amati sí ciecamente. Una delle sue soddisfazioni piú vive era di far colazione con me, di mangiare con me dei confetti, di mangiarne molti, e tutti metà per uno; di ravviarmi i capelli, di guardare, come i bambini, la sua immagine riflessa nelle mie pupille. Conoscevamo tutti i piú piccoli sentieri di queste praterie tristi e monotone. Vi facevamo delle lunghe passeggiate; quando si toglieva la mantiglia e il cappello, ne piantava gli spilli in qualche foglia d'ellera abbarbicata ad un salice, e nelle nostre scorrerie venture andavamo poi a cercarli. Non sono piú di pochi mesi che sono riuscito ancora, dopo quattro anni, a trovarne due irrugginiti dalle pioggie e dal tempo. Ci sedevamo spesso lungo i ruscelli a veder scorrere l'acqua; e strappavamo alcuni steli di erba che avevano in fondo una cannuccia tenera di sapore quasi dolce, e ce ne offrivamo a vicenda, dicendoci scherzevolmente: - Assaggia questo. - Oh, il mio è molto piú saporito! - Questo è eccellente. - Eccone uno che è squisitissimo. E ridevamo, ed esclamavamo di noi stessi: «che fanciulli!» Fuori di Porta Magenta, vi è dal lato destro della via un bel torrente, e un ponticello di tavole non piú largo di due spanne. Le piaceva di andare su e giú di quel ponte. Lí vicino avevamo anche trovato una capanna disabitata, il cui uscio era aperto; e vi passavamo volontieri alcune ore benché fosse piena di topi e di lucertole. La chiamavamo il nostro tabernacolo. Tutti i contadini ci conoscevano e ci facevano mille dispetti. Alcuni fanciulli ci gridavano dietro: - oh gli amorosi! gli amorosi! Una domenica, vistici sedere in un prato, alzarono una tavola che chiudeva lo sbocco d'un canale d'irrigazione. - Mi pare d'esser tutta in un bagno! - Ed io! Prima che fossimo balzati in piedi, il prato era interamente allagato; le sue sottane, il suo scialle erano immollati; salvai a stento il suo cappello e i suoi guanti che galleggiavano. Essa ne rideva come una pazza. Quante volte ci siamo ricordati di quell'avvenimento! Quella donna sí forte, sí ricca di buon senso, in alcune cose sí seria, aveva tutte le velleità, tutti i gusti pazzi e bizzarri di una bambina. - La mia non è che una rivendicazione; - diceva ella qualche volta mezzo tra il serio e il faceto - non mi hanno lasciato il tempo di essere una fanciulla, e me ne rivendico adesso. Meglio esserlo a venticinque anni che mai! E lo era in fatto, e me ne dava tutte le prove possibili. La mia stanza era divenuta un caos, piena di uccelli, di fiori, di nastri, di frastagli di carta, di cartocci di confetti, di scatole. Essa vi metteva tutto a soqquadro. Chiudeva di giorno le imposte, e vi accendeva tutte le candele. Spesso diceva sentire il bisogno di gridare, di gridar forte, di urlare, - non posso fare a meno, mi sento una cosa nel petto, qui - ; e gridava, e si turava la bocca colle mani. Mi portava delle farfalle, e mi mandava a regalare delle nidiate d'uccelli che era obbligato ad allevare per non dispiacerle. Nell'ultimo inverno che ci conobbimo, mi portò ella stessa un gattino bianco nel manicotto. Tutto ciò mi pareva allora assai puerile; pure ho pensato soventi a queste cose, anche in anni nei quali aveva già conosciuto piú positivamente e piú spaventosamente la vita, e ho dovuto sempre esclamare: - Felici coloro che amarono a questo modo!

VII

In quell'abisso di felicità, in quell'ebbrezza che s'era impossessata delle nostre anime, io mi era quasi dimenticato di me stesso. Non erano che due mesi che ci amavamo, allorché ricevetti dal comandante del mio reggimento un ordine cosí concepito: «Siete stato richiamato in attività, e per un riguardo allo stato cagionevole della vostra salute, applicato allo stato maggiore del quarto dipartimento. È necessario che raggiungiate fra dieci giorni la vostra destinazione». Rimasi come colpito dalla folgore.

VIII

Rinuncio a descrivere lo strazio della nostra separazione. Il nostro dolore fu grande quanto lo erano state le nostre gioie; vero, profondo, ineffabile come lo era stata la nostra felicità. Ricopio qui testualmente la prima lettera che io diressi a Clara un giorno dopo la mia partenza, e che può darmi anche oggi la misura del mio amore e delle mie lacrime: «Oh, mia vita! Eccoci separati, eccoci lontani l'uno dall'altra. Ieri ancora io era tra le tue braccia, oggi sono solo, lontano, misero, sconsolato, perduto. Che dirti? Come esprimerti il mio dolore? Tu sola, tu che mi ami cogli stessi trasporti disperati, tu puoi sapere dalle tue lacrime l'amarezza e la frequenza delle mie. Mi pare di trovarmi sotto l'incubo di un sogno orrendo da cui non posso svegliarmi; non posso credere alla realtà di una sciagura cosí grande. Mi pare che ad ogni istante io debba riscuotermi da questo vaneggiamento angoscioso, e rivedermi di nuovo vicino a te. In tutti i miei grandi dolori ho provato questa specie di pietosa incredulità che me li rendeva meno terribili. Allora, come adesso, mi domandava: "È egli vero? è ciò realmente accaduto?" E lo sapeva, e lo so che ciò è vero, che ciò è accaduto. Oh tu mi conforti santamente! Ho compreso, sai, lo sforzo che tu facevi ieri per nascondermi le tue lacrime. Povera Clara! Tu non volevi che io piangessi, e non sai quanto ho pianto stanotte. Sí, ho pianto dirottamente, dirottamente, e ho ringraziato Iddio di questo conforto. Non è debolezza il piangere, ed anche ove lo fosse, è una debolezza dolce e divina che non umilia l'uomo forte. Tu non sai quanto io sono superbo di soffrire per te, per noi, pel nostro amore. Come dev'essere dolce il poter dire alla donna che si ama: "Tu mi costi un sacrificio, un dolore, una viltà; per te ho sacrificato le mie ricchezze, la mia fama, la mia vita". Ho compreso come si possa commettere anche un delitto per ingigantire nella nostra coscienza questo sentimento, per accrescerne il valore; ho capito come si possa scendere fino alla degradazione la piú umiliante. È lo stesso sentimento che a voi, donne, fa spesso sacrificare - quasi volonterose, quasi superbe del sacrificio - la fama di oneste all'affetto dell'uomo che amate. E credi, o Clara, credi che è questa sola - sia pur ella deplorabile - la misura dell'amore che unisce l'uomo alla donna. Non nascondermi dunque le tue lacrime, e non volere che io ti nasconda le mie. Le tue lacrime! Ah, io le sento, sí le sento, esse ripiombano qui sul mio cuore; chi sa quante tu ne hai versate oggi, ora, in questo istante. Povera anima! Ti scrivo quattro ore dopo esser giunto in questa città; non avrei potuto farlo prima. Dio lo sa come sono partito, come sono arrivato qui, come mi trovo in questa stanza di albergo. Mi sono gettato sul letto, e ho dormito quattro ore di un sonno pesante e affannoso. Ora mi sono alzato, mi sono affacciato alla finestra, ho guardato i tuoi ritratti, le tue lettere, tutto ciò che ho portato meco di te, e ho cominciato a comprendere qualche cosa della mia nuova posizione. Dio mio! Dio mio! Io non so come potrò sopravvivere a questa prova! Eravamo troppo felici, o Clara, non era possibile che quello stato durasse; la nostra felicità stessa ci spaventava, sentivamo qualche cosa nel cuore che ci diceva che essa doveva finire. Non ti atterrire di questa parola "finire", no, la nostra felicità non è finita, tu lo sai, tu senti al pari di me che un amore come il nostro non può finire che colla morte, ma saremo felici in altro modo, con altra misura, con altro prezzo. Non ti vedrò piú tutti i giorni, non saprò piú cosa tu fai a tutte le ore, non riceverò piú i tuoi fiori, non vedrò piú il tuo balcone, non sentirò piú la tua voce adorata, lo strascico del tuo abito, i tuoi passi, il tuo respiro; la mia povera stanza resterà solitaria per lungo tempo, non echeggierà piú delle nostre grida; pure queste nostre gioie non ci saranno vietate interamente né per sempre. Esse erano troppo dolci perché potessimo gustarle ogni giorno; il nostro amore è troppo grande perché possiamo rinunciarci per tutta la vita. E non sono già quelle gioie che mi allettano, che mi rendono cosí terribile la tua lontananza, non è la tua persona, la tua bellezza, la tua gioventú, le tue grazie: sei tu, mio angelo, tu sola; il tuo nobile cuore, la tua anima pia e delicata, il tuo spirito vergine e colto. È la donna-anima che ho amato in te, essa sola; e sono superbo di affermare anche nella solennità di questo istante, la purezza del sentimento che ci ha congiunti. Perché tu conosci la mia vita, tu hai letto nelle piú ascose profondità del mio cuore; io era degno di te, io lo sono ancora, io lo sarò sempre. Senza questa coscienza, non avrei osato pretendere alla santa fraternità delle nostre anime; non oserei ora sfidare senza fremere questo avvenire misterioso che ci attende. Riposo tranquillo sul tuo amore, poiché esso non è di quelli che passano; riposa tu tranquilla sul mio. Ti assicuri il mio giuramento. Oh, Clara, io sarò sempre degno di te! Vi è un pensiero che mi affanna, la certezza del tuo dolore: non di quello che senti ora, ma di quello che sentirai quind'innanzi. Io comprendo, piú che tu non pensi, lo stato della tua anima. Tu ti sei data a me per pietà; la mia gratitudine ti ha mostrato un cuore che non hai potuto non amare perché era troppo simile al tuo; la tua gaiezza, la tua gioventú, hanno gettato sui nostri abbandoni un velo che ce ne nascondeva il lato colpevole; finché io era vicino a te, tu potevi essere felice, ma ora... Oh, mia vita, non pensare a te stessa; che la solitudine non ti faccia adoperare per evocare delle ricordanze quella forza che tu ponevi a dimenticare, che essa non ti tragga a pensare a dei legami che ti farebbero infrangere quelli che ti uniscono a me! Abbi pietà ancora, ancora, fino a che l'edificio innalzato dal tuo amore non sia interamente compiuto. Ecco, o cara, lo sgomento incessante che viene ad aggiungersi a questo dolore già immenso. Non è la fede in te che mi manchi, ma quella nell'avvenire; diffido non di te, ma della forza delle cose, del tempo. Confortami, costringimi a credere, non a sperare. In un amore come il nostro bisogna credere; lo sperare è nulla. Voleva dirti... Vi è negli affetti, come in tutto, un linguaggio convenzionale, delle frasi troppo ripetute perché abbiano ancora un valore, pure, come esprimersi diversamente? Voleva dirti che io morrei perdendoti. Lo sento in me, ne ho la certezza profonda, fredda, calma, incrollabile; e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo. Non so se ti ho detto abbastanza che ti amo, come ti amo, sino a qual punto ti amo. Ti ricordi? Ci disperavamo spesso tutti e due di questa impotenza, ma ora è ben altra cosa. In quei giorni non potevamo dircelo, ma potevamo in qualche modo provarcelo. Tu leggevi in me, ma adesso?... È ora che io sento piú che mai il bisogno di aprirti il mio cuore, di dirti tutto ciò che vi è nell'anima mia. Io ti amo, o Clara, io t'amo fino all'adorazione, fino alla follia, fino a quel punto estremo delle nostre facoltà, oltre il quale vi sarebbe la morte, la cessazione, il nulla. Come non amarti cosí? Sei tu che mi hai ridonato alla vita; tu che mi hai restituito la salute, la forza, la gioia, la gioventú, il coraggio. Tutto ciò che io sarò, lo dovrò a te, senza di te io sarei stato piú nulla. Tu mi hai tenuto luogo di madre, di sorella, di amica, di patria - sí, anche di patria, poiché è per amor tuo che adoro cotesto angolo di terra; - tu sei stata, tu sei ancora il mio mondo, tu lo sarai sempre. Dovessi tu ripudiarmi, respingermi, io sento che non potrei mai disconoscere questo debito, né ribellarmi alla santità di questa memoria. E ti dico ciò perché tu sappia fino a qual punto puoi calcolare sul mio affetto, fino a qual punto sulla mia gratitudine. Ascolta ora il mio giuramento. Io non vivrò che di te, che per te; dimenticherò che vi sono al mondo altre creature, sarò onesto per essere degno del tuo amore. Eleverò questo affetto fino al culto di una religione. Ogni sera mi raccoglierò per pensare a te, ogni quindici giorni verrò a vederti. La distanza che ci separa non è sí grande da rendermelo impossibile. Il nostro santuario - quella stanzetta ove fummo tanto felici - è ancor nostro, ne ho meco le chiavi: non vi saranno piú i nostri fiori, i nostri uccelli che ho lasciato volar via; ma vi ritroveremo ancora noi stessi, le nostre gioie, la nostra felicità, il nostro entusiasmo, i nostri cuori ardenti e immutabili. Potremo essere ancora felici, o mia buona Clara, potremo essere ancora felici! Ed ora, addio. Non por mente al disordine delle mie idee, perché la mia testa è quasi perduta. Ti scrivo come in un sogno, e mi porto spesso le mani al cuore per comprimerne i battiti. Oh potessi essere vicino a te, o mio angelo, vicino a te, e morire a' tuoi piedi!» IX. Oh Clara, perché mi hai tu abbandonato ! Eccomi solo, più solo ancora di prima, giacché non ho nemmeno più meco le illusioni che prima di conoscerti mi rendevano cara la speranza. Io ho sopravvissuto al nostro amore, alla tua perdita, alla rovina della mia fede, a tutto, io che credeva di morire pel tuo abbandono. Con te sarei passato nella vita, buono, amato, pio, dolcemente mesto, indulgente; non avrei lasciato forse dei fiori sul mio sentiero, ma lo avrei cosparso di benedizioni e di lacrime. La fortuna mi ti ha negato- fu un lampo- i primi passi della mia esistenza erano sbagliati; io doveva correre rovinosamente fin verso il suo termine. Ho bevuto un sorso della coppa, e basta; ora è finito. Finito! L'amore muore. Ecco il grido terribile che si innalza da quel sepolcro nel quale ho composto per sempre le ceneri del mio passato. Perché non rimpiango te sola, ma la mia fede, quella fede che non potrò trovare mai più; e senza la quale dovrò passare nel mondo senza attaccarmi più a nulla, e irridere a quelle cose che ho creduto un tempo le sole sante e nobili della vita. Nondimeno non ti condanno, nè la mia voce si alzerà mai contro di te; il mio cuore, tu non lo sai, ma il mio cuore ti benediée in segreto. Ti ho incontrata sulla mia via, in un'epoca in cui la mia anima dolorava e i miei piedi sanguinavano per l'asprezza del cammino, e tu mi hai preso per mano, e mi hai condotto in un sentiero fiorito e delizioso. E perché non dovrei benedirti? Tu non avevi contratto un debito di amore eterno con me; la società, la natura stessa lo vietavano. Mi avevi amato per pietà, avevi voluto rifarmi uomo, ridonarmi la forza e l'ingegno, ritemprarmi al fuoco di una gran passione; ebbene, il tuo mandato era compiuto, tu dovevi abbandonarmi, era giusto. Altri doveri ti richiamavano sulla via dalla quale io ti aveva allontanata. Tuo marito, tuo figlio! Indago il mondo vorrebbe farmiti credere disprezzevale, indarno lo vorresti tu stessa. Tu sapevi che io non avrei cessato di adorarti finché ti avessi stimata, e tentasti mostrarmi il tuo cuore nudo di ogni virtù, indicarmi la condanna disonorante che pendeva sulla tua condotta. No, Clara, io non ti apprezzerò meno per questo. Io non farò caso delle leggi degli uomini, perché so che il cielo ha donato all'amore delle leggi più generose, più salde, più ragionevoli. Ciò che noi consideriamo come la più gran colpa possibile nella donna l'adulterio - non è spesso che una rivendicazione dei diritti più sacri che le ha dato la natura, e che la società le ha conculcato. Nel tuo caso era ancora di più; era un sacrificio grande e sublime. Io solo posso saperlo. No, non temere.° Clara, vi è nell'amore una solidarietà che non si smentisce. Fossi tu le mille volte colpevole, io ti amerei ancora doppiamente perché so che lo saresti per amor mio. Ogni qualvolta ripenso a te, mi corrono alle labbra le miti parole di Cristo: « Ti sarà molto perdonato, perché hai molto amato. » Ho voluto accennare brevemente a questa passione d'amore che fu la più vera e la più grande della mia vita, per mettere in maggior luce il contrasto di idee e di sentimenti che quell'affetto doveva produrre nella mia anima, in seguito ai fatti che imprendo a raccontare. Durante lo svolgimento di questi fatti l'amore di Clara perdurò vivo e ardentissimo; e non fu che alla 'vigilia della loro catastrofe terribile che ne fui abbandonato. È nelle leggi della Provvidenza che l'unione dell'uomo e della donna debba essere passeggiera, e la nostra separazione non fu che una conseguenza di questo decreto inesorabile della natura; chè se le leggi umane hanno potuto imporre a questa associazione una durabilità a vita, l'esperienza ci mostra che le leggi del cuore e le leggi provvidenziali ne trionfano sempre segretamente. Il matrimonio è l'unione di due creature che si tollerano e si amano qualche volta di amicizia, mai l'unione di due anime che si amano perennemente di amore. Questa eternità dell' amore è una aspirazione degli uomini che si sono quasi illusi di conseguirla imponendosene le apparenze. Se l'amore fosse durevole, la felicità sarebbe ricondotta in un mondo da cui fu forse bandita per sempre. Da cinque mila anni l'umanità pialige sulla caducità dell'amore. XI. Allorché io giunsi a ***, non ostante il dolore di quella separazione improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritto a Clara non era che una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori più belli nella corona della gioventù, la sola età dell'esistenza in cui si sappia veramente amare e soffrire. La piccola città di ***-ne taccio il nome perché potrei smarrire queste pagine', e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere - è una città angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una steppa o in una savana, piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Nè gli uomini vi erano allora più cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola città, per la cui posizione strategica vi s'era posta la sede di un Dipartimento militare. Alzatomi, e scritta quella lettera a Clara, consumai il resto di quel primo giorno a girovagare per le vie e ad osservare i dintorni monotoni di quel paese. Benché scoprissi in quel deserto una specie di oasi, un vecchio giardino incantevole, doppiamente incantevole perché abbandonato da anni all'opera distruttrice del tempo e a quella liberamente riparatrice della natura, fui liéto dell'esito di quell'esame, che, come ho detto, era non poco sconfortante. Una città fragorosa mi avrebbe distolto da quella passione per cui aveva d'uopo di raccoglimento e di pace; una natura più ricca mi avrebbe fatto senWre con maggiore intensità il dolore della sua lontananza; giacche le più belle memorie del nostro affetto si legavano in qualche modo alla natura. Fui lieto di poter raccogliere e versare in me stesso tutta la mia fiamma, di alimentarla col suo fuoco medesimo, di non poter perdere né menomare alcuna delle sensazioni che avrebbe' risvegliata in me l'opera assiduamente attiva di quel pensiero. Chiúdermi in una stanza e popolarla dei fantasmi del mio amore - era il mio voto. Vivere a me e a lei. Vivere solo. Io comprendeva che le sarei stata tanto più dappresso, quanto più mi sarei trovato lontano da ogni altra creatura. Allora era ancora capace di creare intorno a me dei mondi. XII. All'indomani mi recai a visitare il colonnello, capo del servizio a cui era stato destinato. Egli era uomo di circa sessant'anni, esile e piccolo di statura ; il suo carattere aveva in sè nulla di forte e di maschio, ma l'abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un'impronta francamente energica e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell'assenza di forza era compensata da molta dolcezza d'animo e da una specie d'ingenuità che rasentava quasi l'ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell'età e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d'uomini, doppiami straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto. Un'avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con una strana temerità, e l'aveva avuta salva in modo singolarissimo- avventura troppo impressa nelle mie memorie, perchè mi giovi l'affermarla ora su queste pagine- mi aveva creato nel- l'esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona. Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell'accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello. - Noi ci troviamo qui, diss'egli dopo avermi parlato a lungo di molte cose, come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente. - Sono tuttora all'albergo, io dissi. - All'albergo l! E come vi avete mangiato? - Non so...; parmi pessimamente. Il colonnello sembrò un poco meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo orologio, e riprese: - Non mancano che pochi minuti alle cinque. Vi in• vito a pranzare con me, in mia casa, accettate? - Accetto, risposi io inchinandomi. Dopo qualche istante uscimmo. - Noi facciamo una piccola mensa in famiglia, continuò egli lungo la via. Propriamente parlando, non posso dire di aver f amiglia, ma ho meco una mia parente che ne tiene le veci, benché la poveretta sia di salute così cagionevole da darmi più pensieri che non me ne tolga. È una mensa abbastanza modesta. Qui non i sono che pessimi elementi di cucina, la verdura sopratutto è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete... Già, alla mia età, il bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della compagnia; vi vengono due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento, due medici borghesi; siamo in otto in tutto. I medici poi, riprese egli, affluiscono a casa mia come in un ospitale. Mia cugina è la malattia personificata, l'isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, come si espresse ultimamente un dottore che l'ha visitata. Ve la farò conoscere. Avrei potuto mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne avrebbe avuto gran cura, giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so separarmene; a sessant'anni si vive di abitudini; e poi quest'aria morta le giova, e anche questo paese di Pellirosse non le dispiace. Giungemmo in breve alla sua abitazione. Il pranzo fu allegro, eccellente, condito di molta maldicenza, di frizzi, e di quelle frasi equivoche e poco castigate che s'ascoltano per solito tra militari. Vicino a me era un coperto intatto, e ne feci l'osservazione. - È il posto della signora Fosca, mi disse uno dei commensali. - Di mia cugina, aggiunse il colonnello; essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che non l'abbiate veduta, è della voracità di una mosca. Allorchè ci fummo alzati da tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe sparate e colle mani incrociate dietro la schiena, e mi chiese: - E così, come avete pranzato? - Ottimamente. - Davvero? - Diamine, a meraviglia ! - E che ve ne pare di questo locale? - Magnifico. - Di questa nostra società? - Ne sono lusingato, diss'io. - Francamente, senza complimenti, da amici, riprese egli drizzandosi e riunendo le sue gambe colla vivacità dello scatto di una molla"; e levandosi la mano destra di dietro la schiena e porgendomela, aggiunse: - Se volete far parte della nostra mensa, se volete aggregarvi a noi... non avete a temere per la vostra bort, la base fondamentale della nostra associazione è l'economia. Già... È un sentimento di carità che mi consiglia a farvi questa proposta... E anche di simpatia, continuò porgendomi l'altra mano. Pensateci bene, noi vi parliamo per esperienza... in questo paese di Pellirosse... Era un'offerta che non poteva in alcun modo declinare. Accettai, benchè a malincuore. XIII. Conobbi però assai presto che non aveva che a rallegrarmi di questa specie di legame da cui, a primo aspetto, era stato messo un poco in pensiero. I compensi erano maggiori dei danni, la più schietta cordialità vi temperava le soggezioni della disciplina; e d'altronde il paese offriva realmente nulla. I miei commensali poi erano tutta gente dabbene, un poco millantatori, un poco fatui - difetti di soldato - ma in fondo in fondo onesti e leali. Se v'era cosa atta a lusingarmi era questa, che tutti erano pieni di benevolenza per me e gareggiavano nel rendermi qualche servigio. Un medico di reggimento, in ispecial modo, m'aveva posto non poca simpatia e mi voleva seco assai spesso. Era uomo maturo d'anni e di senno, ma giovine di cuore; in alcune cose, come tutti gli uomini un po' più che mediocri, fanciullo; in fatto di principii, virtù rara tra medici, credente. Non tardai a mettergli affetto io pure; e fu la sola persona che richiedessi e ripagassi d'amicizia in quel luogo. La cugina del colonnello non s'era ancor fatta vedere. La malattia continuava a trattenerla nelle sue stanze. Io m'era avvezzato già da parecchi giorni a chiederne notizie a suo cugino, e a ripetergli alcune frasi di condoglianza che erano ben lungi dall'esprimere un dispiacimento sentito, giacché era naturale che non potessi molto dolermi de' suoi mali, non conoscendola; ma l'etichetta ha spesso esigenze ancora più ridicole. Il suo posto rimaneva costantemente vuoto, ma nondimeno il suo coperto era sempre apparecchiato; in uno de' suoi bicchieri v'era tutti i giorni un fiore fresco; e, cosa che mi preoccupava non poco, benché non sapessi immaginare le ragioni -. e non ve n'erano - quel posto vacante rimaneva sempre vicino al mio, ora da un lato, ora dall'altro, ma sempre vicino. Ciò mi metteva in pensiero, mi pareva che mi mancasse qualche cosa, non mi trovava a mio agio, mi sembrava che essa avrebbe dovuto entrare da un istante all'altro per venirsi a sedere al mio fianco. Questa preoccupazione era però esclusivamente mia, i miei commensali non si davano alcun pensiero di quell'ammalata, e parevano considerare quello stato di cose come naturalissimo. Tutto al più si limitavano a dire a fin di tavola: - Anche oggi la signora ci ha lasciati soli ! Per me trovava strano che ogni giorno si apparecchiasse per lei, e ogni giorno la si aspettasse, come se la sua malattia fosse stata cosa da poterla abbandonare da un'ora all'altra ; nè avrei osato chiederne spiegazioni al medico, col quale, come ho detto, era già entrato in qualche intimità, se un avvenimento inatteso non mi avesse quasi posto nell'obbligo di farlo. Un giorno, durante il pranzo, fui colpito da urla acute e strazianti che provenivano dalle stanze della signora. Quelle grida echeggiarono si fortemente e sì improvvisamente nella nostra camera, che io trasalii, e quasi per istinto feci atto di alzarmi e di voler accorrere in suo aiuto. Il colonnello, sorridendo un po' tristamente e stringendomi la mano come per ringraziarmi di quell'intenzione, mi prevenne e mi disse: - Non vi sgomentate, è mia cugina, essa patisce di convulsioni nervose, è cosa da nulla, fra pochi minuti le saranno cessate. Uno dei medici si alzò da tavola un po' a malincuore, e senza mostrare di darsene molto pensiero, entrò nell'appartamento di Fosca. Le sue cameriere non avevano dimostrato maggior premura di lui. Degli altri commensali nessuno si era mosso, o aveva dato il menomo segno di meraviglia. A me era stato impossibile frenare la mia emozione. Non solo quelle grida erano orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate, ma io non aveva immaginato mai che vi potesse essere qualche cosa di simile nella voce umana; o essendovi, non mi pareva possibile che l'uomo da cui era uscito una volta un tal grido potesse vivere ancora. Ho esperimentato, prima e dopo quel giorno, fino a qual limite possa giungere il dolore nella natura umana, e ne ho intese tutte le rivelazioni vocali possibili, ma non mi avvenne mai di sentirlo manifestare con un linguaggio Così orrendamente spaventoso come quello. Oggi ancora, dopo cinque anni, io risento ne' miei sogni l'eco di quelle grida terribili. - Vedo che siete un poco preoccupato da quell'avvenimento, mi disse il medico allorché fumino usciti assieme da quella casa. Confessate... - Voi prevenite la mia domanda, interruppi io ansiosamente. Ne fui commosso nel più profbndo dell'anima; perché dovrei nascondervelo? Non so come non si potesse esserne commossi. Ma che malattia ha dunque quella donna? - Tutte. - Tutte ! Spiegatevi. - È una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili. La nostra scienza vien meno nel definirli. Possiamo afferrare un sintomo, un effetto, un risultato particolare, non l'assieme de' suoi mali, non il loro carattere complessivo, nè la loro base. Possiamo curarla come empirici, ma non come medici. È una malattia che è fuori della scienza; l'azione dei nostri rimedi è paralizzata da una serie di fenomeni e di complicazioni che l'arte non può prevedere. E l'arte medica, voi lo sapete, non è che una povera cosa - si va innanzi per induzioni. - Ma quelle grida? io dissi. - Ciò è il meno, convulsioni isteriche. Già... il fondamento de' suoi mali è l'isterismo, un male di moda nella donna, un'infermità viziosa che ha il doppio vantaggio di provocare e di giustificare. Quella creatura è d'una irritabilità portentosa, ha i nervi scoperti (Mi ricordo di questa espressione: " i nervi scoperti "). La menoma contrarietà, il menomo urto bastano a provocare quella catastrofe che oggi vi ha tanto spaventato. Del resto è cosa di tutti i giorni. Fu caso che, non sia più avvenuta da qualche tempo in quell'ora. - Suo cugino non sembra però molto impensierito da questo stato di cose. -È naturale. Non vi è rimedio. - Ella vi soccomberà dunque presto? - Non credo, la sua macchina è sì debole che non ha forza di produrre una malattia mortale. - Strano ! - Ne abbiamo esempi ogni giorno; ogni trionfo è l'effetto di una lotta; occorrono elementi atti a lottare; in un corpo come quello non vi è lotta; tutti 'quei mali si paralizzano; i forti e i robusti giuocano sempre una partita assai seria colla infermità, i deboli se ne schermiscono. Con una salute come quella si vive spesso fino a ottant'anni. - È una teoria consolante pei deboli, io dissi; ma come ha potuto buscarsi tutti quei mali? - Nessuno lo sa. - Il suo passato ? - Lo ignoro. - È giovine ? - Venticinque anni. - (L'età di Clara !) È bella? Il mio amico sorrise con aria di mistero, e si portò un dito alle labbra come per impormi il silenzio. - Non credete che essa sia l'amante del colonnello ? - Non credo, diss'egli. E sorrise da capo e píù vivacemente. In quell'istante eravamo giunti alla porta della sua casa. Conveniva separarsi. - La vedrete fra poco, continuò egli, giudicherete voi stesso della sua bellezza. Bisognerà che vi mettiate sulle difese. E nell'allontanarsi mi ripetè con aria scherzevole: - Badate al vostro cuore: tenetevi in guardia Perché un tale avvertimento, e perché offerto in tal guisa? Non sapeva comprendere il vero significato di quelle parole. XIV. Era però curiosissimo di conoscere quella donna. Al domani, il colonnello mi aveva detto : - Mia cugina ha bisogno di voi. Avreste per lei qualche libro di lettura amena, non scientifico:, qualche romanzo? - Vedrò di procurargliene alcuni. - Quella donna divora i libri, è un tarlo da libri, legge come noi fumiamo. Io non so più a chi raccomandarmi, qui non v'è nemmeno un gabinetto di lettura; in questo paese di Tartari, di Pellirosse... Gli portai la Nuova Eloisa di Rosseau, l'Uomo singolare e le Confessioni alla tomba di Lafontaine. Mi rimandò subito quest'ultimo, dicendosi spaventata del titolo. Poco dopo ebbi anche gli altri. Nella Nuova Eloisa trovai molti passi controsegnati in margine con matita, e una striscia di carta postavi per segnacolo, su cui era scritto da un lato Sursum, e dall'altro Excelsior. I passi controsegnati rivelavano, assieme alla natura, intima dei suoi patimenti, una intelligenza robusta, fin.. perspicace. Quella donna aveva dell'ingegno. Ella non poteva essere poco infelice, giacche era capace di conoscere la propria infelicità. Gli infelici ignoranti fruiscono - di una specie di beatitudine, in confronto dei dottamente infelici. Era naturale che desiderassi ancora più vivamente di conoscerla. In tutta la mia vita - fosse caso, fosse attrazione non fui mai circondato che da sventurati; sull'orizzonte della mia gioventù i miei occhi non hanno mai incontrato altro spettacolo che quello desolante della miseria; io stesso non mi sono nutrito che de' suoi frutti più amari, e spesso ho dovuto divorarmi il cuore perchè non aveva nemmeno quelli; pure non ho mai saputo ribellarmi a questo sentimento di simpatia irresistibile che la natura mi ha posto nell'anima per tutti gli infelici. Ho trovato sempre un buono in ogni sventurato, un perverso in ogni prospero. In questo dolore immeritato di tanti uomini, ho veduto sempre un segreto di predilezione per parte della Provvidenza, delle fila misteriose che uscivano fuori della vita e si perdevano nell'eternità e nell'ignoto. Tutti lo hanno veduto, tutti lo hanno sentito. Se vi è qualche cosa oltre la vita, è pegli infe- lici. Cristo Io ha detto: « Beati coloro che piangono perchè saranno consolati ». XV. Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un'ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare un'idea, cosi vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Nè tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, - chè anzi erano in parte regolari, - quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d'immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l'esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne' suoi occhi, che erano nerissimi, grandi, velati - occhi d'una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v'era ancora qualche cosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano cosi naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall'educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso. Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tàle da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d'altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifizii, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d'un uomo. Me le era presentato da me stesso nell'entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza: - Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po' prima. Ma come fare? Sono sempre cosi malata! Fui colpito dalla soavità della sua voce, più ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza. - Ora mi sembrate però guarita, risposi io. - Guarita! esclamò ella sorridendo; mi pare di no. L'infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo, converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; lo attraversato un periodo di profonda malinconia. Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle. - Non sapete, riprese ella dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce, che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata`? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott'occhi alcuni sunti, ma non l'aveva mai letto. - Avete avuto troppa premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato. - È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa. - Parmi anzi utile. - Utile sì, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per... me. Vi sono delle letture che mi fanno male. - Voi sapete, io dissi per tenermi da capo sulle generali, che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi? Essa mostrò di non aver compreso quell'artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: « Altro è l'uomo, altro le sue opere », e riprese: - Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che un solo, e questo fosse tale da instillarci principii retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacche ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non' ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce al suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L'obbiettivo d'ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia - non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina - ma l'immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l'ebbrezza dell'immaginazione? - Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri sieno innocenti? - O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell'immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatorii; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni. - Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero, io dissi; ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura. - Sorvolo sui libri, rispose ella mestamente, come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore, la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; cosi è di tutte le cose; cosi è della vita. Non leggo nè per imparare, nè per pensare - ah-borro i libri di morale e di metafisica - leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell'esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete, aggiunse ella con aria di mesta ironia, il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi. - E perché? risposi io confuso e commosso da quelle parole. Se siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai intime che nè gli uomini, nè le sventure ci possono togliere - il piacere di beneficare. - Beneficare! interruppe essa : ho provato. Ho gettato i miei gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. È dolce, ma non basta. L'esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore passivo, amore morto. - È però sempre un aspetto dell'amore, io dissi, nè lo possiamo credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine. - Credo più presto alla gratitudine dell'amore che a quella del beneficio, rispose ella. Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto - o volesse ella vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d'esservisi lasciata andare - proruppe in uno scroscio di risa, e disse : - Sono pazza io ! In che discorso vi ho mai trascinato! Capisco che con me si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo... È molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace? - Da pochi giorni... e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di vostro cugino... - Un paese di Barberia? - E di Pellirosse ! Sorridemmo tutti e due, e credo l'una e l'altro per cortesia. - Siete stato al giardino? - Una volta. - E al castello. - Vi è un castello? - Diamine! Avete visitato il paese ad occhi chiusi. Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l'onore di accompagnarci... - Molto volontieri, ve ne ringrazio - e diceva la più solenne menzogna del mondo. - Dacché ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il più rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un'ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un fiore; io che vo' pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto... Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare. Quell'atto mi sorprese e mi turbò nel più profondo dell'anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s'avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d'imbarazzo : - Anch'io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne ; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi loro profumi. Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa. E vedendo che m'era alzato e aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta : - Guardate, abbiamo li, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di cardenie... Così dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario. Ella lo vide, impallidì, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento. Le sue cameriere accorsero e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni più violente. Io uscii da quella casa quasi insensato. XVI. Credeva che questo avvenimento le avrebbe impedito d'uscire, e ne sarei stato lieto, giacché avevo ricevuto in quel giorno una lettera di Clara, e mi sentiva l'anima tutta ripiena in lei. Avrei bensì desiderato di recarmi in quel giardino, ma avrei voluto andarvi solo; aveva bisogno di pensare, di ricordare, di fantasticare a mio talento. In quel momento la compagnia stessa di Clara mi sarebbe forse stata meno piacevole della sua memoria. Più volte a Milano aveva cercato qualche pretesto onde allontanarmi da lei, allo scopo di ritirarmi nella mia stanza e pensarci liberamente. L'amore ha spesso bisogno di ripiegarsi su se medesimo. In quel giorno Fosca venne invece a sedersi a tavola vicino a me; e benché apparisse estremamente sofferente, si adoprò a tenerci lieti, e a rinfocare la conversazione con mille artifizii ingegnosissimi ogni qualvolta mostrava di languire. Il suo spirito non era superficiale, la sua intelligenza era assai più profonda di quanto non lo sia ordinariamente un'intelligenza di donna: essa aveva del talento, e una distinzione di modi affatto speciale. Non poteva però indovinare se quel suo dissimulare tali virtù, quel- l'aria di non avvertirle, fosse vera inconsapevolezza, o artifizio. Uscimmo come s'era convenuto. Il colonnello avendo incontrato per via un suo amico, si accompagnò con esso, e mi disse: - Siete un cattivo cavaliere; mia cugina non è troppo sicura delle sue gambe, datele il braccio. Così rimasi solo can essa. Dacchè aveva lasciato Clara non aveva più dato il braccio ad una donna; ed erano parecchi anni che, lei toltane, non m'era trovato in questa specie di contatto con una di loro. Camminammo per qualche tempo senza parlare. Fosca era assai mesta. - Stamattina vi ho forse spaventato, mi diss'ella con dolcezza, ne fui afflitta per voi, molto afflitta; ma cbt l'avrebbe preveduto? Fu una sorpresa così triste! Non. ho molta paura di morire, ve lo giuro, benchè sappia che non ho più gran tempo a vivere; ma ho paura di tutto ciò che accompagna e segue la morte: quel vedersi chiusi tra quattro tavole, quel sentirsi buttare la terra addosso, quel disfarsi... tutto ciò è troppo orribile? Se si potesse morire improvvisamente, nella pienezza della gioventù e della salute, e se la morte fosse un annichilimento istantaneo, io l'avrei implorata di già come una benedizione! - Ma questi pensieri vi fanno male, io le risposi. Perchè pensare a queste cose? Non vedo nella vostra salute motivo di tanta apprensione - e anche qui sapeva di mentire. - Mi avete fatto pena, è vero, ma non mi avete spaventato, perchè sapeva che non v'era in ciò . alcun pericolo. - Ve l'avevano già detto? - Sì. - Mi avevate già sentita ? - Si. - Eppure... S'interruppe, e tacque. Continuammo a camminare in silenzio. Io era tutto immerso nell'egoismo del mio amore. Pensava a Clara, non poteva distaccarne il mio pensiero. L'aver una donna al mio fianco, una donna vestita con eleganza, che posava il suo braccio sul mio - un braccio fino, esile, leggiero - che mi toccava collo strascico del suo abito; e camminare con essa in un luogo solitario, sotto gli alberi, era cosa che accresceva del doppio la mia illusione. Non solo io non poteva arrestare il mio pensiero su Fosca, ma la mia mente si valeva di lei come di una guida in quella ricerca smaniosa delle sue memorie. Che quella donna fosse poi brutta, orribilmente brutta, non ci pensava. Sapeva tanto illudermi da dimenticarlo. Una cosa sopratutto contribuiva a tenermi saldo nella mia illusione, una specie di profumo delicato, molle, voluttuoso che emanava dalla sua persona, e che aveva spesso sentito vicino a Clara. Oli abiti di seta riscaldati dal sole esalano questa fragranza elettrizzante. Coloro che hanno passeggiato in giorni estivi con un'amante lo sanno; essi non passeranno mai dappresso ad una donna vestita di seta senza sentire quel profumo e senza ricordarsi di quei giorni. Oltre a ciò le donne hanno un profumo a sè - non so come la scienza non abbia avvertito questo fenomeno che non sfugge all'amore - tutto ciò che esse toccano è profumato, tutti i luoghi per cui passano ritengono qualche poco della loro fraganza. Non ho mai potuto ricordarmi bene di mia madre, che perdetti fanciullo, se non baciando un fazzoletto che mi è rimasto di lei, e che ritiene ancora, dopo tanti anni, le reliquie del suo profumo di santa. Era troppo tardi per recarci a visitare il castello; entrammo nel giardino. Non aveva veduto mai prima di quel giorno un luogo cosi incantevole, così pieno di maestosa orribilità. In quelle mie prime escursioni non ne aveva visitate che alcune parti. Non v'erano nè aiuole, né fiori, ma spalliere gigantesche di carpini, viali ampii e lunghissimi fiancheggiati da ippocastani secolari, e gruppi di olmi cadenti per vecchiezza l'uno sull'altro. Nel mezzo vi era un lago estesissimo, la cui acqua corrotta dal ristagno e dalle foglie che vi s'erano infracidite, non aveva più alcuna trasparenza; a quando a quando il vento vi faceva cadere dagli alberi i rami secchi, schiantati dal turbine, e appena ne sollevavano le onde, tanto erano dense ed immobili. Piccoli serpentelli d'acqua scivolavano in mezzo alle foglie delle ninfee. Dappertutto statue mutilate, annerite dalle pioggie, coperte di museo e di ace- 3 tose; cippi e basi di colonne sepolte in mezzo alle ellere; avanzi di aquedotti, tra le cui screpolature crescevano ranuncoli e capelveneri. Da un lato v'erano pure le rovine d'un tempio pagano, sulla cui sommità aveva posto radice un ulivo; grosse lucertole uscivano e entravano dalle fessure delle pareti smattonate. L'umidità e l'ombra vi erano sì costanti che in pieno agosto vi fiorivano le viole; ed erano tante che il suolo pareva coperto di un tappeto azzurro, se non che non avevano profumo. Non si sentiva che il canto d'una sola specie di uccelli (non vi intesi mai altro uccello a cantare, nè ne vidi d'altra sorta in tutte le volte che mi recai a passeggiarvi), ed erano certi scriccioli non più grandi d'una farfalla. Il loro canto era un fischio lamentevole e pieno di malinconia. Gli uccelli più piccoli di quel paese ne abitavano gli alberi più grandi. In quel momento il sole era presso a tramontare, e vi gettava orizzontalmente alcuni de'.suoi raggi. Le sommità delle piante erano talmente ampie, e avevano talmente intrecciato i loro rami che vi raccoglievano e vi trattenevano quasi tutta quella luce, come sotto un padiglione di verzura impenetrabile. Quegli effetti di sole erano meravigliosi. La mia anima era rapita da quello spettacolo. Se Clara fosse stata con me !... Le ultime parole che mi aveva detto Fosca risuonavano ancora al mio orecchio come un eco, aveva ancora nel cuore qualche cosa della sensazione che ne aveva ricevuto. -Come ! proruppi io improvvisamente quasi per rispondere a me stesso e a' suoi dubbii sconfortanti, come si può pensare a morire quando tutto ciò che ci circonda è cosi pieno di vita, è così bello; quando vi è ancora tanta parte di esistenza innanzi a noi? Guardate questi alberi, questo tappeto di viole, questo orizzonte... Non vi pare che la sola sensazione dell'esistere, il vedere, il sentire, il toccare, il muoversi, il respirare in questo luogo sia tal cosa che debba renderci allettante la vita? - Perché non avete aggiunto, pensare ? - I pensieri che nascono dalla contemplazione della natura non possono non essere che sereni. - Voi non conoscete tutti gli abissi del pensiero. - Forse... - Nè le sue torture. - Queste si, conosco però anche le sue dolcezze. - Io non le ho mai conosciute. - Vorrei dirvi ingiusta. Sono convinto che non vi è assoluta infelicità, nè felicità assoluta. L'eredità di beni e di mali che ci ha legato la natura, può eccedere o difettare nella misura di questi o di quelli, ma ciascun uomo ne ha una parte - piccola o grande, ne ha una non vi è esistenza così misera che non sia stata letificata un istante da un baleno di fugace felicità... Poc'anzi Mi parlavate dei piaceri della fantasia. - Altro è immaginare, illudersi; altro è aver coscienza e sentimento di un bene reale. Vi fu un tempo in cui avrei accettato qualunque miseria, qualunque spasimo, a patto di sognare tutte le notti, di sognar sempre, di non vivere che di questa vita di illusioni. Allora non era ancora malata. I miei stessi mali mi hanno ora esaudita; la mia infermità mi procura ogni notte sonni convulsivi, periodi di assopimento febbrile, nei quali ripassano innanzi a me tutte le scene, tutte le visioni, tutte, le complicazioni possibili di questo mondo sterminato dei sogni. Ebbene, lo credereste? Non ne ho più alcuna gioia, spesso anzi mi disgustano, mi tediano. Noi viviamo in un mondo reale, dobbiamo afferrare il reale, il concreto. - Esso è sempre inferiore all'ideale. - Non importa. Chi non preferirebbe all'immagine di un bene smisurato, il possesso di un bene anche minimo? -Tutto ciò è relativo, io dissi; gli aspetti e le sorgenti della felicità sono molteplici, chi si reputa avventurato in una maniera, chi in un'altra; la maggior parte degli uomini lo sono in modi opposti o diversissimi. Non vi è che un mezzo comune, facile, sicuro di essere felici. - Quale? - Amare. Essa tacque, e sentii il suo braccio pesare con maggior abbandono sul mio. - Amare! ripetè ella dopo qualche istante. Che cosa avete inteso di dire? Spiegatevi. - Credeva di essermi giovato di una parola assai semplice, dissi io. Se non ne comprendete il valore, le mie spiegazioni non avrebbero alcun frutto. Ella sorrise a fior di labbra, e riprese: - Intendete di escludere le piccole simpatie, le ami- cizie, gli affetti domestici? Amare è una parola assai generica. - Assai esclusiva all'età vostra. Non escludo gli affetti che voi dite; ma non li considero che come una sfumatura, come una eccedenza, come la cornice del quadro. Forse anzi m'inganno, essi hanno natura oppostissima. Dicendo amore intendo amore. E ripresi col pensiero rivolto a Clara: - Intendo l'amore che sentiamo alla nostra età, noi, giovani, ardenti, immaginosi; quell'amore che è superiore a tutto, che sflida tutto, che é tutto; quella fusione piena di due anime che fa vivere la stessa vita, pensare gli stessi pensieri,volere le stesse volontà, desiderare gli stessi desiderii; quel periodo di accecamento e di ebbrezza in cui tutto è bello, tutto è nobile e puro, tutto è felice; giacchè l'amore non è che un grande accecamento ed una grande ebbrezza ! - Ah, si! esclamò ella sommessamente e come parlasse a sè stessa, quello è l'amore. - E credete, continuai io senza avvedermi del male che le facevano le mie parole, credete che la vita avrebbe qualche attrattiva se vuota di questo sentimento che la occupa tutta.; nella fanciullezza col desiderio, nella gioventù colla fruizione, nella vecchiezza colle memorie? Credete che questo mondo ci parrebbe sì bello e sì buono se non avesse questa luce e questo profumo? Che questo stesso luogo ove siamo ora mi sembrerebbe così incantevole se non lo vedessi attraverso questo prisma abbagliante? - Voi ! esclamò ella, voi lo vedete... E s'interruppe di nuovo angosciosamente. Eravamo arrivati in quel punto nel mezzo di una crociera ove sorgeva un monumento di marmo. Sopra una fronte di esso, rimasta intatta, erano scritte a matita molti nomi che il tempo aveva in parte cancellati: due righe sole parevano recenti e dicevano: 22 agosto 1863. Giulio e Teresa - amanti e sposi felici. Mentre Fosca me le indicava col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. Non era effetto di voluttà, ma prostrazione, abbattimento improvviso. Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito più intimamente: la mia situazione era tale da sentire più al vivo quel richiamo: « amanti e sposi, » noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremmo stati sposi mai; il npstro stesso amore non era che una colpa, che una vio0zione di quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. Essi erano stati in quell'eliso quattro soli giorni prima di noi - era allora il ventisei agosto, me ne ricordo bene - come dovevano esservisi sentiti felici! Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi, sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di ammalarsi, di morire... prima io; no, prima io... assieme... » E mi veniva in mente che guai! tro giorni prima era stato un bel giorno quieto, fresco, sereno, e il sole doveva essere tramontato, come allora, in un oceano di raggi infuocati, e quel luogo doveva essere stato bello, severo, incantevole come in quel momento. L'immagine di quella felicità era venuta a colpirmi nella pienezza della mia baldanza. Non invidiava quelle due creature, ma mi faceva male il pensare che v'erano al mondo esseri tanto più felici di me. Avvenne una reazione istantanea nelle mie idee; mi riebbi subito da quella specie di allucinazione che mi aveva - dominato fino allora, pensai al discorso tenuto con Fosca, e ne sentii pentimento. Meditava sul modo di dirglielo opportunamente, allorché essendo stati raggiunti da suo cugino che discuteva forte col suo amico intorno ad un quesito di strategia, essa gli disse: - Mi sento male, torniamo a casa. Il colonnello si rivolse senza risponderle, tutto infervorato come era nella sua discussione. - Vi sentite male? le chiesi io con dolcezza. Mio Dio forse le mie parole..., i discorsi insensati che abbiamo tenuto finora... - Voi siete ben crudele, diss'ella. E parve che non potesse continuare. - Crudele, esclamai io, e perchò? Non vi comprendo. - Voi non sapete quanto mi avete fatto soffrire. O siete incredibilmente ingenuo, o incredibilmente cattivo. Parlarmi d'amore, di felicità, parlarmene in tal guisa... (E si calò il velo del cappello, non so se per nascondere la sua emozione, o per celarmi la sua bruttezza in un momento in cui stava per trionfare della mia pietà). Non comprendevate quanto mi dovevano far male quelle parole? - Perdonate, io dissi con accento commosso, vi giuro che era ben lungi dal sospettarlo: mi avviene spesso di parlare inconsideratamente... E avrei voluto aggiungere: « Voi mi avete però provocato. » Ma me ne astenni. - Sentite, diss'ella cercando la mia mano colla mano del braccio che aveva fatto passare nel mio - una mano secca, lunga, leggiera - e stringendola a intervalli convulsivamente. Qualche giorno vi farò delle confidenze, vi racconterò la mia vita; voi me lo permetterete, non è vero? Ho bisogno del vostro compianto. Avete un'aria così dolce, così buona. Ve lo confesserò: io vi ho veduto fino dal primo momento che siete venuto in nostra casa, vi vedeva tutti i giorni, e non usciva mai dalla mia stanza perchè aveva vergogna di voi, temeva di dispiacervi, sono così brutta ! Mio cugino non è cattivo, mi vuol bene, ma non mi sa comprendere; gli altri sono gente grossolana, buoni, ma rozzi - soldati l Non vi siete che voi che possa capirmi, sopportarmi senza umiliarmi, compiangermi. Perchè non v'ha alcuno tra essi che non mi rispetti, è vero, ma in segreto mi deridono, ne sono ben certa, lo sento. / Dicono che sono dispettosa, volubile, ironica, spesso cattiva. Son essi, è il mondo che mi ha fatta diventare così, mi conoscerete. Ho bisogno di essere conosciuta, capita. Voi non potete immaginare come questi uomini che dicono di saper tante cose, che sembrano conoscere il mondo sì bene, e ne ridono, sieno poi tanto ignoranti, tanto superficiali nella scienza del cuore umano. S'illudono perchè si conoscono tra loro, e si conoscono tra loro perchè sono tutti eguali! Voi siete diverso, voi; mi è bastato vedervi per comprenderlo. Non vi domando che la vostra protezione, la vostra tolleranza. Ho qui nel cuore tante cose che mi fanno male, perchè non le posso mai dire; e poi lo vedete, sono malata, sono anche brutta, assai brutta, dovete aver compassione di me... quella compassione amorevole, generosa, sincera che non ho trovato mai, mai, e di cui sento tanto bisogno. Non mi rifiuterete la vostra pietà, ditelo, non me la rifiuterete ! - Buona creatura, esclamai io profondamente commosso, si, avrete tutta la mia amicizia, tutta la mia confidenza; avrò anch'io tante cose a dirvi; sarò felice di avere un'amica... E trovandomi imbarazzato a continuare, strinsi calorosamente la mano che ella aveva posto nella mia. - La vostra mano è ardente. - Ho la febbre, l'ho sempre. - Sentite, riprese ella dopo qualche istante, ho bi- sogno di giustificarmi con voi, sento che ne ho il diritto e il dovere. Se oggi stesso, il primo giorno in oui vi ho veduto, ho osato tenere con voi alcuni discorsi che nessun'altra donna avrebbe tenuto, e ho voluto quasi provocarli, l'ho fatto perché la mia bruttezza mi garantiva contro tutti i pericoli di una simile discussione, e anche contro il sospetto di essermivi abbandonata per uno scopo biasimevole. La mia deformità ha almeno questo vantaggio. Ora, prosegui Fosca vedendo che non eravamo più che a pochi passi dalla sua casa, dovete promettere di perdonarmi la prima colpa che ho commesso a vostro riguardo. - Quale! una colpa! - Promettetelo prima. - Con tutta l'anima. - Quella di avervi fatto uscire con me. È una ferita che ho recato al vostro amor proprio.; e so quanto ciò vi possa essere dispiaciuto. Non tentate di farmi credere il contrario. -Non lo farò, io le dissi (giacché mi vedeva posto nel caso di dire una nuova menzogna), non lo farò perché me lo proibite, ma... Essa mi guardò e sorrise tristamente, come avesse voluto dirmi: -È vero, perciò non lo fate. In quel momento avevamo raggiunto il colonnello ed il suo amico che si erano fermati alla porta ad aspettarci. -Sapreste dirmi, mi chiese il colonnello col volto arrossato dalla discussione avuta col suo compagno, se fu De-Fauchée l'inventore delle capsule a secco, o piuttosto se non fu lui che le ha perfezionate? -Egli ne fu l'inventore. Lo sapete positivamente? - Positivamente. - Al diavolo ! disse il suo amico. - Benissimo? esclamò il colonnello fregandosi le mani, sei bottiglie di madera guadagnate XVII. Mi ritirai nella mia stanza tristissimo; era assai malcontento di me, e sentiva che aveva il dovere di indagare severamente la mia condotta. Il risultato di quell'esame non poteva che mettermi in maggior ira contro me medesimo; mi era contenuto come un ragazzo, come un collegiale. Fosca aveva avuto ragione ad approfittare della mia semplicità; essa non aveva fatto che cedere alle mie provocazioni. Se il mio contegno era stato tale con lei di cui avrei abborrito l'affetto, quale sarebbe stato con una donna avvenente, il cui amore avrebbe lusingato la mia vanità? Come mi sentiva colpevole verso Clara? Come era umiliato della mia debolezza ! Un altro pensiero metteva a tortura l'anima mia. Quella donna era realmente buona, realmente ingenua? O non era che un essere infinto, astuto, corrotto? Aveva ella voluto abusare della mia semplicità, sorprendermi, condurmi all'amore per la via della compassione; o le sue intenzioni erano pure, e questa mia stessa semplicità l'aveva invogliata della mia amicizia, della mia sola amicizia? Infelice lo era, e assai : le miserie sue dovevano essere infinite; nè era strano che ella potesse desiderare un'anima in cui versarsi; desiderarla con tale intensità di desiderio e invocai ne la pietà con tale abbandono. Oltre a ciò Fosca non era una donna comune. Il suo spirito era assai colto, la sua intelligenza assai vasta; e la sua stessa infermità, la sua bruttezza erano tali circostanze che concorrevano a formarne un'eccezione. Le sue passioni, i suoi sentimenti, le sue idee dovevano anche essere eccezionali; ed era forse sotto questo aspetto che bisognava giudicarne. Nondimeno quell'aprirmi subito l'anima sua; quell'abbandonarsi così a me nel primo giorno che mi vedeva, quel richiedermi disperatamente della mia amicizia... Diffidavo dell'amicizia di una donna, e mi doleva non poco di aver accettato quella di lei. Io sapeva che noi non possiamo sottrarci mai agli istinti, e che tra un uomo ed una donna giovani, che vogliono violentare la natura amandosi di amicizia, non può esistere che un affetto monco, artificiale, violento, spesso ridicolo, perchè non conduce che ad un amore già nudo d'ogni illusione e d'ogni attrattiva. L'amicizia ci ha già fatto veder tutto l'indiscretezza della sua intimità, ci ha già spogliati di ogni velo; non si può più essere nè amici veri, nè amanti veri; ed è cosi che la natura si vendica spesso dell'oltraggio che ha ricevuto. Avrei dato un anno della mia vita per potermi sottrarre a quella promessa, per poter infrangere quel legame. Se tutto ciò non fosse avvenuto ! Prevedeva che quella donna si sarebbe posta fra me e la mia felicità, avrebbe attraversato il mio avvenire. Non sapeva immaginare le ragioni di questo timore, ma il cuore me lo diceva, nè il mio cuore mi aveva mai ingannato. Cercai in quella notte di prendere una risoluzione pronta ed efficace, di fuggirla, di essere crudele. Ma Dio mio! Come poteva io essere crudele? Io non era mai stato .nella mia vita che semplice, che affettuoso, che buono ! XVIII. V'era però un mezzo ben certo di rendere impossibile ogni altro legame e di distruggere quello che avevamo già contratto - evitare di trovarmi solo con lei. Fuggirla era follia; l'avessi pur potuto, non l'avrei dovuto; tale estremo era inopportuno, né ella il meritava, nè suo cugino ci sarebbe passato sopra senza volerne sapere le cause. Ella avrebbe potuto leggere nell'anima mia il pentimento che io sentiva di quel primo abbandono e la risoluzione decisa di dimenticarlo; il mio contegno doveva essere sufficiente a ciò, nè il suo orgoglio le avrebbe permesso di chiedermene una spiegazione. Riuscii per alcuni giorni ad evitare di trovarci soli cosa che non ebbe a costarmi poca fatica, perché ella, dal canto suo, poneva in opera ogni strattagemma possibile per ottenere uno scopo contrario. Aveva ella indovinato le mie intenzioni? Non lo lasciava apparire. Forse ad arte, giacche in tal caso il suo amor proprio le avrebbe dovuto imporre la stessa severità di contegno a mio riguardo. Non era più stata malata, nè aveva lasciato passare una sola occasione per vedermi. All'indomani di quella passeggiata, ciascun commensale aveva trovato un fiore sul suo coperto; inutile dire 'che il mio era il più bello. Tutte le cure, tutte le preferenze possibili erano per me. Ella sapeva porre tant'arte in dissimulare questa predilezione, che nessuno se n'era avveduto, ma era tal cosa che a me non poteva sfuggire. Ne era commosso, ma me ne doleva amaramente. Da principio mi era sembrato tollerasse quella mia apatia con animo indifferente, in seguito mi avvidi che incominciava ad immalinconire, e ne soffriva. Una sera in cui eravamo seduti dappresso - fosse caso, fosse disegno - accostò tanto il suo braccio al mio da toccarlo e da premerlo; io mi ritrassi un poco: bastò quest'atto a cagionarle una crisi nervosa delle più violente. Che poteva io fare? Sentiva pietà di lei, vedeva il suo cuore e ne soffriva; ma l'egoismo del mio amore, la mia felicità, la natura stessa facevano tacere in me quel sentimento. Io era divenuto più fermo che mai nel disegno di respingere quell'affezione. Una sera il colonnello mi aveva detto: - Domani usciremo in carrozza assieme, vi farò vedere una pariglia che non avete ancora veduto, andremo al castello. - Volontieri. All'indomani rimasi penosamente sorpreso nel veder Fosca apparecchiata ad accompagnarci. Eravamo soltanto noi tre, e aspettavamo che ci si annunciasse che la vettura era pronta. Indugiando i domestici in ciò, il colonnello sali sulle furie, e discese egli stesso nel cortile. Rimanemmo soli, in piedi, l'uno di fronte all'altra. Nessuno di noi osava rompere quel silenzio angoscioso. Ad un tratto, Fosca afferrò con atto disperato le mie mani che io teneva riunite sul petto, e vi nascose il volto esclamando con voce supplichevole: - Oh Giorgio, oh Giorgio ! Finsi di essere sorpreso, di non comprendere. - Che avete? le chiesi io con freddezza, vi sentite forse male? Che ò avvenuto? - Ah! gridò ella respingendo le mie mani con violenza e guardandomi con espressione di affettuoso ran- core. E prorompendo in lacrime fuggi nella sua camera. Suo cugino fu assai sorpreso di questo incidente. -Che hai? Che accadde? -Nulla , un'emicrania improvvisa, insoffribile : sto male, non uscirò più, sono disperata. Vorrei morire, morire ! -Morire! Sei pazza! esclamò il colonnello. E avvicinandosi a me che ero rimasto immoto mi disse: -Abbiate pazienza, mio caro, voi vedete che mia cugina sta male; non ho cuore a lasciarla sola; andremo un altro giorno a visitare quel castello. XIX. Quella situazione non poteva durare. Al domani, Mentre ci trovavamo a tavola, dissi a suo cugino: -Ho ricevuto lettere da Milano che rendono indispensabile una mia gita in quella città; vi sarei obbligato se poteste concedermi una licenza di tre giorni. -Accordato, rispose il colonnello. Se me ne aveste fatto domanda in ufficio, vi avrei forse risposto di no, ma a tavola! Come fare ! Voi conoscete il mio debole e ne approfittate. Fate conto di partire domani? E con qual convoglio? -Con quello delle quattro. -Bisognerà far anticipare il vostro pranzo. -Non occorre, pranzerò alla locanda. -Che diavolo! esclamò il colonnello. Perché alla locanda? Non ne vedo la necessità. E diede ordine che si apparecchiasse alle tre per me gbio. Avevo fatto quella domanda per riabbracciar Clara, anzi tutto; poi per aver tempo a riflettere sopra una risoluzione più fruttuosa, e fors'anche a consigliarmi con lei. Se avessi veduto modo di abbandonare quella casa, tutto sarebbe stato finito; ma la mia mente non giungeva a trovare per ciò un pretesto ragionevole. Al domani, come aveva preveduto, trovai Fosca che mi aspettava nella sala da pranzo. Essa vi s'era fatto portare un suo piccolo tavolino d'ebano, e vi stava lavorando di ricamo. Quella sua costanza, quel difetto di amor proprio che mi pareva scorgere nel suo carattere, quell'ostinazione a volermi imporre il suo affetto, fecero sì che io la vedessi sotto un aspetto ancora più triste di quanto non me .'avesse già fatta vedere la sua bruttezza. Ne fui offeso e disgustato. Se non era che in quell'istante il pensiero della mia felicità mi rendeva lieto e indulgente, ' sarei stato veramente cattivo con lei. Ma come si può essere cattivi quando si ama? Se tutti gli uomini amassero, se l'esistenza fosse una giovinezza perenne, la questione del bene e del male sarebbe risolta, il trionfo della virtù sarebbe assicurato: noi non spiccheremmo più dall'albero della vita che i dolci frutti del bene. Mi contenni nondimeno con molta freddezza. Fosca non parlò mai; io divorava in -silenzio. Di quando in quando alzavo gli occhi e la guardavo. Era facile accorgersi che ella soffriva orribilmente, e faceva violenza a sè stessa per contenersi. Vedeva in lei come qualche cosa che stesse per prorompere, come una fiamma che stesse per avvampare; non mi tenevo affatto sicuro di poter uscire da quella casa senza subire le spiegazioni che tanto temeva. L'orologio suonò le ore. - Tre e mezza, io dissi, non ho tempo a perdere. Ella alzò gli occhi, e mi chiese: -Andate a Milano? -Sì. -Vi divertirete? -Spero. -Mi sembrate molto contento. -- Non ho motivo di esser triste. -Quando ritornerete! -Fra tre giorni. -Vi ricorderete di me? -Perché no! Ricordandomi di questa città, di vostro cugino... mi ricorderò anche di voi... Essa chinò il capo. Io mi alzai e presi il mio cappello. Fosca fece atto di volermi accompagnare nell'anticamera. -Restate, io le dissi, non lo permetto. E stesi la mano quasi per impedirlo. Essa la strinse tra le sue sì fortemente che ne senti' quasi dolore. Se la portò al cuore e se la premette sal petto con atto convulsivo; poi, prima che io avessi potuto rimettermi da quella sorpresa, abbandonò la mia mano, mi gettò le braccia al collo e mi coperse il volto de' suoi baci, il cui ribrezzo mi fece restare agghiacciato ed immobile. -Cessate, io le dissi, sciogliendomi con dolcezza da quell'abbracciamento, cessate per carità; vi vedranno, pensate... -No, no, interruppe ella, mi vedessero, e che monta? Oh Giorgio! pietà di me, pietà di me! Io vi adoro. Si gettò a terra con atto disperato, e mi abbracciò le ginocchia. Il suo volto era tutto pieno di lacrime. -Mi disprezzerete? Ebbene, non importa; purché mi soffriate, purché mi permettiate di vedervi, di dirvi il mio amore, di raccontarvi i miei patimenti, di piangere con voi. Se non ve l'avessi confessato io che vi amava, voi non me l'avreste detto mai, nessuno me l'avrebbe detto perchè hanno tutti orrore di me. Oh, abbiate 'compassione I amatemi, amatemi; si ama un cane, una bestia... e perchè non amerete me che sono una creatura come voi ?... (Mi ricordo ancora di queste parole terribili: « si ama un cane, una bestia... ») -Alzatevi, alzatevi, io le dissi con voce tremante. Le vostre parole mi turbano, mi straziano il cuore. Calmatevi, ricomponetevi. Ora, lo vedete, io debbo partir subito, non posso dirvi tutto ciò che vorrei. Il vostro affetto mi commuove, la vostra simpatia mi lusinga ... veramente... ma ora... Vi scriverò da Milano, vi scriverò lungamente, subito... vi dirò tante cose; datemi un inlirizzo, un nome... -Il mio nome di ragazza? Av'ete marito ? -L'ebbi. -(Mio Dio!) Mi diede un indirizzo. -Mi scriverete davvero? diss'ella col volto raggiante di gioia, davvero? mi scriverete? Oh grazie, grazie ! -Non ne dubitate, domani stesso. Ora restate qui, siete agitata, potrebbero indovinare... Mi accompagnò fino alla soglia dell'uscio, mi guardò con tenerezza ineffabile, mi stese le mani, mi baciò un lembo dell'abito, tornò a ripetere: -Grazie, grazie della vostra pietà! Pregherò per voi. Siate benedetto ! siate benedetto ! Uscii col cuore lacerato. XX. « Come sono belle le campagne che corrono di là a Milano I Le ho attraversate come in un sogno. Quando si viaggiava in carrozza, a giornate, si vedeva un lembo di terra alla volta, ora la nostra vista può abbracciarne in poche ore estensioni smisurate. L'uomo si affanna sempre più a conquistare la terra. « Le pianure della Lombardia sono serene come il suo cielo, liete e fiorenti come le sue donne; quel cielo è fatto a posta per quelle campagne, non sta bene che lì, con un altro suolo non armonizzerebbe. Non so parche mi piacciano adesso le pianure, a me cui non sono pin cinte mai, a me nato e cresciuto tra le montagne. Ma chi non amerebbe i luoghi dove è stato felice e dove lo può essere ancora? La Lombardia è all'Italia ciò che sono le Praterie all'America, - gli Elisi, i Campi felici. « Ha passato sei ore in una specie di dolce rapimento, colla testa fuori dello sportello, coll'anima perduta nella natura. Un viaggio in ferrovia è una corsa attraverso la natura: si provano le stesse vertigini del volare. Dopo che la scienza ha creato questo mezzo di locomozione si può quasi dire che l'uomo ha delle ali. « Che bella fantasmagoria di alberi, di fiumi, di case, di paesaggi! Come l'orizzonte pareva girare intorno a me, quasi mi fossi trovato in un circolo magico ! Ho veduto su nell'alto, nell'alto, una lunga fila di gru che erano appena visibili. Dove andavano? Chi dirigeva la loro corsa? Chi lo sa dire ! - Dove va a finire il corso della mia vita ? « Ho viaggiato con alcune fanciulle e con due vecchi che non mi levavano mai gli occhi d'addosso. Essi comprendevano senza dubbio che vi era in me qualche cosa di straordinario, Paspettaziome di una grande felicità. Mi sentiva voglia di voltarmi e di dir loro : « Signori, non sapete che io sono molto felice'? » Ma ho avuto pietà della loro vecchiezza! « Eccomi di nuovo in questo piccolo santuario. Esso è ancora tutto ripieno di lei, vi è ancora tutto il suo profumo. Se mi avessero condotto qui ad occhi chiusi, avrei gridato subito : « Clara, Clara t » perché avrei sentito la sua presenza. « Ho trovato un suo capello, e ho baciato e ribaciato il guanciale che riteneva ancora l'impronta della sua testa. Quanti ragnateli t Ho visto un millepiedi sulla parete. Il micio del vicino ha veduto l'uscio aperto ed è entrato ad accarezzarmi le gambe colla coda, l'ho riveduto come un vecchio amico. Quell'ellera che veste la parete esternamente si è abbarbicata alla persiana, e ha cacciato dentro, per le gretole, alcuni rami coperti di fogliuzze quasi bianche, perché non avevano luce. È una pianta sempre viva, e ne ho tratto un presagio lusinghiero. « Sono le quattro dopo mezzanotte: passeggio, piango e sorrido. Ripeto spesso, protendendo le braccia :« Oh Clara, vieni, vieni t » « Non posso coricarmi: ancora otto ore, - a domani: ancora otto ore t « Ho aperto le finestre; il cielo è chiaro e sereno. Che scintillio di stelle ! che silenzio ! Oh mio Dio, come siete buono ! Oh mio Dio, come siete grande  » Tale è un brano delle Memorie che io scrissi in quella mia prima gita a Milano, e che ricopio ora dal mio giornale. XXI. Aggiungo qui la lettera che diressi in quella notte a Fosca : « Vi scrivo appena arrivato qui. Siete il mio primo pensiero, benché il più doloroso. Vi scrivo col cuore lacerato. Se il sagrifizio di dieci anni della mia vita potesse evitare a me il dolore di mandarvi questa lettera, e a voi quello di riceverla, vi giuro che accetterei questo rimedio con gioia. Procurate di ascoltare con calma ciò che sto per dirvi. « Io non posso amarvi perché il mio cuore non è più mio; non posso ingannarvi perché nè io ne sono capace, nè voi lo meritate. Il rispetto che ho per voi è più potente della pietà che mi domandate, e m'impone di essere sincero. Un inganno vi umilierebbe, umilierebbe me stesso. Io amo perdutamente, io sono perdutamente riamato. Se aggiungessi parole a descrivervi la mia felicità, apparirei troppo crudele verso di voi; nondimeno è necessario che vi facciate un'idea dell'intensità del mio amore per averne una dell'imponenza de' miei doveri. Sappiate soltanto che il mio amore non ha, come il suo, nè limite, nè nome, nè esempio; giudicate di ciò ch'io debbo a lei, di ciò che ella deve a me, di ciò che noi dobbiamo al nostro affetto e a noi stessi. « Prima di confessarmi il vostro amore, mi avevate richiesto della mia amicizia; ora che io debbo respingere questo secondo legame, reclamerete ancora i diritti di quella, prima offerta? Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi, come non lo è mai tra un uomo ed una donna giovani. Essa non farebbe che rendere la no• stra posizione più imbarazzante, più equivoca, più pericolosa. È necessario che noi ci separiamo interamente. Consideriamo la nostra conoscenza come una sventura; tentiamo di sopportarla con forza e di rimediarvi con coraggio. « Voi avete avuto marito, mi diceste; voi sapete dunque che cosa è un dovere, lasciate che io lo compia. Voi sapete anche che cosa è la felicità, lasciate che provi anch'io ad essere felice - non lo sono mai stato « La ragione vi offre un mezzo assai facile per riconciliarvi col mio rifiuto. Supponete che la donna che io amo foste voi, come giudichereste il mio abbandono? Una viltà, una bassezza, un delitto. Mi disprezzereste. Ora, dareste voi il vostro amore ad un uomo cui aveste dato il vostro disprezzo? La necessità della nostra separazione è evidente, altrettanto che inesorabile. « Comprenderete che se ho insistito per avere un vostro indirizzo e per scrivervi, era allo scopo di farvi conoscere il più presto possibile questi miei sentimenti e di sottrarmi ad una situazione piena di pericoli. Se questa mia promessa ha creato in voi delle illusioni che ho dovuto togliervi, perdonatemi, perchè non avrei potuto fare altrimenti. « Sentite, - e chiamo il cielo in testimonio della veracità delle mie parole - se il mio cuore fosse stato libero, non vi avrei forse amata di tutto il mio amore, perchè credo che la natura non abbia posto delle leggi di simpatia assai tenaci tra noi, ma vi avrei nondimeno amata. Il vostro cuore e il vostro talento mi vi avrebbero resa assai cara, più ancora le vostre sventure. Avrei accettato con gioia il mandato di proteggervi e di confortare la vostra esistenza di qualche piacere. Ora è troppo tardi; io non appartengo più a me stesso. Debbo essere crudele per essere giusto; e voi non potete disconoscerlo. « Siete anzi voi che mi dovete secondare in un'opera così difficile. È necessario che io conservi la mia stima, voi la vostra pace, ella le sue illu;ioni. Faccio appello alla vostra generosità, al vostro cuore. Non vi è miglior mezzo di guarire dell'amore che amando. Non mi dovete odiare, perchè non l'ho meritato. Il bene chiama il bene: stimandomi, avrete cara' la mia stima, 6 vi adoprerete a meritarla. « Io non posso cessare di frequentare la vostra casa, lo sapete; la mia lontananza creerebbe dei sospetti pericolosi alla vostra tranquillità: Fate che io non vi debba essere motivo di afflizioni, che possa .vedervi con sicurezza e stringervi la mano senza timore. Ogni 'altro rap- porto tra noi è impossibile. . « Se questa lettera vi pare fredda; è .segno che sono riuscito a nascondervi il dolore che mi lacera il cuore. Si è ingrati di tutto' al mondo, mai però di un affetto, perchè è il solo beneficio che non ci umilia e che lusinga la nostra vanità. Potete dunque calcolare sulla mia gratitudine. « Voi avete pronunciato, nel lasciarmi, delle parole che mi hanno fatto piangere, perchè mi hanno fatto conoscere il vostro cuore. Lasciate che io le ripeta ora per voi: Siate benedetta, siate benedetta! » Uscii io stesso dopo la mezzanotte ad impostare quella lettera. Sentiva che era stato ben crudele nella mia stessa pietà. Affrettarmi tanto a disingannarla I... I sentimenti che aveva espressi in quelle pagine erano sinceri, ma io li aveva attinti dal mio egoismo più che dalla mia compassione. Ciò che mi stava a cuore era la mia felicità, era togliere di mezzo quell'ostacolo che ne aveva minacciate le dolcezze. Non so se la felicità abbia potere di renderci egoisti, o se l'egoismo sia uua condizione assoluta della felicità. Ma come mi sentiva mutato dacchè era felice ! XXII. Vorrei aggiungere qui alcune altre pagine del mio giornale, su cui ho voluto ricordare le gioie del mio primo incontro con Clara. Ma perchè ritornare su quella parte del mio passato? Esso è sepolto assai profondamente. E poi, io non amo più quelle gioie, io le odio. Seno esse che mi hanno ingannato sulla natura e sui fini della vita. Una vita tutta di dolori mi avrebbe conservato pio, severo, inflessibile; avrebbe almeno riempiuto d'orgoglio questo cuore, che ora è ripieno di nulla. Quelle gioie ne hanno invece oscurate le virtù, perché una esistenza virtuosa non può essere altro che una serie di sacrificii non interrotta. Le dolcezze del mondo son bandite da una vita veramente utile e veramente benefica. Gli alberi che danno frutti hanno fiori modesti e spesso,inodori; i grandi fiori, quelli ricchi di petali e di profumi, non sbucciano quasi mai che sulle piante sterili e velenose. La virtù non ha fiori, ma ha frutti. XXIII. La felicità di cui aveva goduto in quei tre giorni aveva infuso in me - ordinariamente sì timido - un poco di quella baldanza, di quella fiduda di sè stessi che hanno tutti gli uomini prosperi. Sapevo che all'indomani del mio arrivo non avrei potuto evitare di trovarmi solo con Fosca, e me le presentai con coraggio. Adesso non so dire come ella fosse mutata, ma allora lo comprendeva. Il pallore e la magrezza del suo volto erano già tali che parevano non poter aumentare, pure in quel giorno mi colpirono più vivamente del solito. Gli occhi -- la sola beltà di quel viso - erano come arrossati dal piangere e dal vegliare, un e cerchio orribilmente livido pareva ingrandirne le orbite. Le labbra quasi pavonazze aggiungevano qualche cosa di spaventevole alla sua fisionomia. Del resto non v'era alcun disordine nel suo acconciamento, che era, come sempre, elegante e accurato. Le sue fattezze arano riposate e quasi sorridenti. - Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio, mi disse ella con calma. E porgendomi la destra, aggiunse: - Spero che mi sarà almeno lecito di stringervi la mano. - Diamine l Non abbiamo cessato di essere amici, e poi... - Oh, interruppe ella sorridendo, voi vi dimenticate già di ciò che mi avete scritto: « Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi... » - Allora si trattava d'altra cosa. Ora... Io intendo l'amicizia nel senso convenzionale della parola; un legame che non ha diritto ad alcuna intimità, e si limita a pochi rapporti superficiali. - In questo senso, va bene. - Accettereste dunque sinceramente questa specie di amicizia? - Sinceramente. - Grazie - Semprechè, riprese ella dopo qualche momento, non aveste a mutar consiglio da oggi a domani, e ad evitare di trovarvi solo con me, come avete fatto dopo il nostro primo abboccamento. Anche allora mi avevate fatto una promessa simile a questa. -Era un'altra questione, io dissi. Comprenderete che lo non prevedeva allora ciò che è successe, e che quel contegno non aveva altro scopo che di evitarlo. -Voi non sapete come ne sono mortificata. - Di che? -Di ciò che è successo. -Perché? Non ne è il caso. La vostra simpatia mi onora, e la vostra sensibilità non forma che l'elogio del vostro cuore. -Quanto siete indulgente! diss'ella con un sorriso pieno di ironia. Era disgustato di quella freddezza. Comprendeva che essa voleva mostrarsi indifferente al mio rifiuto, e che il suo amor proprio umiliato gliene dava tutti i diritti; pure, mi faceva pena il vederla irridere a quell'affetto che aveva creduto si serio e sì veemente. -Vi siete divertito a Milano? -Assai. E lo dissi a posta con enfasi. -Confessate che quella donna, lei... la mia rivale, riprese essa marcando queste prole con un sorriso, abita a Milano, e che vi siete andato per rivederla. -Era facile indovinarlo. Non è cosa che indichi in voi una penetrazione molto profonda. -Sono sì ingenua sul conto vostro ! E vi tornerete ? -Prestissimo. -Se ne avrete licenza. -S'inteade. -Ah! ah! esclamò ella sorridendo, dirò io una pa- rola a mio cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno dell'opera mia. -Signora ! io dissi vivacemente, non comprendo le intenzioni che vi consigliano a farmi quest'offerta, e mi astengo dal rispondervi. -Rifiutereste perfino la mia mediazione? -Non vi avrei creduta capace di offrirmela! -Siete geloso della mia dignità t Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna ? -Ve l'ho detto, alla follia. -È bella? -Un angelo. -È buona? -Un angelo. -Perchè non la sposate? -Ha marito. -Ah! E la stimate? -La stima è una condizione dell'amore. -Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice? - - Tanto che temo morirne. -Sono contenta, diss'ella. Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l'estremità di un fazzolettino di garza che s'era annodata al collo, e guardava fisso a terra senza batter palpebra. -Sentite, le dissi io dopo qualche momento, io soglio porre in tutte le mie azioni una franchezza cón cui mi vanto di non aver mai avuto la debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo ferirsi scambievolmente non è nè leale, nè onesto, sopratutto è indegno di noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo più su questo argomento. - È ciò che io desiderava. - Ne sono felice. Spero che non avremo più motivo di parlare di noi. Potete anche sperare che non ci vedremo più. - Sia, diss'io esitando, sarebbe affliggente, ma utile. Ella si alzò, s'inchinò freddamente, ed uscì senza guar- darmi. Non l'avrei io realmente più veduta ? Ne dubitava. XXIV. Però, ripensandoci, era lieto di queste spiegazioni. Esse mi davano almeno il diritto di dimenticarla, e mi scioglievano da quel debito di pietà che mi pareva aver contratto verso di lei. Buona, mite, soffrente, l'avrei avuta cara e compianta; fredda, ironica, sprezzante, non avrei più sentito per essa che dell'indifferenza. Ciò che mi teneva in pensiero era l'impossibilità di darmi ragione della mutabilità del suo contegno, dell'incoerenza della sua condotta. Per quanto mi arrovellassi non poteva comprendere la natura di quel carattere, non riusciva a metterlo bene in luce. Fino a quel momento era stato incerto tra l'ammirazione e il disprezzo - gli estremi della sua condotta esigevano apprezzamenti estremi - dopo quel dialogo, freddo, caustico, artificioso, non sentiva nemmeno più il bisogno di giudicarla - essa mi era perfettamente indifferente. Perciò alla sera, quando mi fu detto che ella era ammalata, ascoltai quella notizia con freddezza, e l'abitudine di non vederla più per molti giorni fu causa che me ne dimenticassi interamente. Avrebbe ella serbato la sua promessa? Incominciava a crederlo. A tavola non si apparecchiava nemmeno più per lei, e nessuno ne riparlava. Il suo posto era stato occupato da un nuovo commensale. Ella era andata ad abitare un altro appartamento lontano dalla sala da pranzo; e siccome non vedevamo più, come prima, entrarne ed uscirne i medici e le cameriere, non V'era più nulla che potesse richiamarla al nostro pensiero, e ciascuno di noi se ne era facilmente dimenticato. Confesso qui di aver nutrito per essa un sentimento che mi sono rimproverato assai spesso. Io odiava quasi quella donna. Allora ne attribuiva la cagione a ciò, che mi pareva che ella avesse voluto farsi giuoco della mia sensibilità; più tardi compresi che le cause ne erano differenti. Vi è nulla di più ridicolo di una emozione non divisa. Nulla è più atto a renderci inamabile una persona che non possiamo amare che il vederla usare a nostro riguardo i modi e il linguaggio di un amore appassionato. La nostra ripugnanza cresce in proporzione dello zelo che ella pone a superarla. Nessuna legge in natura è più inesorabile di quelle che reggono le simpatie e le antipatie. Non è vero che l'amore sia una questione di sentimenti, esso non è che una questione di nervi, di fluidi, di armonie animali : l'identità dei caratteri, la stima lo fortificano, non lo creano. Noi siamo spesso ingannati da queste cause apparenti, perché l'identità del carattere non è che un effetto dell'identità della cóstituzione. Chi non vorrebbe dare all'amore un'origine più spirituale e più nobile? Ma non è possibile ! Bensì egli può essere un impulso ad azioni nobili. L'amicizia gli è superiore, perché non é esclusiva. Io, come qualunque altro uomo, fui qualche volta preferito da donne giovani e avvenenti che non ho potuto riamare, nemmeno d'amor fisico; aveva ripugnanza per ciò che avrebbe formato l'altrui felicità, e ne soffriva. Avrei potuto strapparmi il cuore, ma non avrei potuto sentir nulla per esse. Così era di Fosca - se non che la sua bruttezza la poneva anche fuori di questa legge. XXV. Un giorno - ne erano trascorsi più di venti dacchè l'aveva veduta l'ultima volta -suo cugino non comparve a tavola - tutta la casa era in disordine e camerieri ci avvertirono che Fosca, peggiorata improvvisamente, à trovava in pericolo di vita; ci fossimo perciò accontentati di un pranzo improvvisato alla meglio. Quella notizia mi giungeva così inattesa, e mi trovava così disarmato da quella lunga dimenticanza, che mi sentii colto da un subito terrore, quasi avessi dovuto essere io la causa della sua morte. La mia debolezza m'induceva a credermi colpevole, e mi creava dei rimorsi che non avrei dovuto sentire. Sarebbe ella morta per me? Questo pensiero mi trapassava il cuore come una lama di coltello. XXVI. Nella sera di quel giorno medesimo ricevetti una visita del dottore che aveva conosciuto in sua casa. - Devo parlarvi premurosamente d'una cosa che vi riguarda, diss'egli entrando e sedendosi. Vi prego anzitutto a non tacciarmi d'indiscrezione se, mio malgrado, sono venuto a conoscenza d'un segreto del vostro cuore - dico del vostro cuore tanto per modo di esprimermi - e se ho voluto accettare un mandato che in altre circostanze avrei rifiutato volontieri , comprenderete fra poco che era mio dovere di farlo. - Dite, dite, esclamai io ansiosamente. - Ecco, mi spiegherò con poche parole, abbiamo il tempo misurato. L. signora Fosca, la cui salvezza è in questo momento assai dubbia, mi ha raccontato ieri quanto è successo tra lei e voi - è una confidenza che ella mi ha fatto spontaneamente. Voi avete respinto il suo affetto - nè ciò mi fa meraviglia, nè credo che io avrei fatto diversamente --iure questo rifiuto ha bastato a dare uno sviluppo decisivo alla sua infermità. Quella donna si lascia morire per voi, e... - Per me interruppi io, e si lascia morire... Non si tratta dunque d'una malattia ? - Ma sì, diss'egli impazientemente, di una cosa e dell'altra. La sua vita è a ttaccatà ad tu filo, la sua salute è cosi cagionevole che basterebbe un lieve sforzo di volontà ad ucciderla, come ne basterebbe uno contrario a salvarla. Non posso farmi comprendere di più da voi, non siete medico, e d'altronde questo caso è quasi anche fenomenale in medicina. Vorrei che mi credeste ciecamente. Quella donna non aveva certo una vita assai lunga dinanzi a sè - si tràtta d'un male inguaribile - ma, se tranquilla, se calma, avrebbe potuto vivere forse ancora qualche anno. La passione che ha concepito per voi, il dolore e l'umiliazione del vostro rifiuto saranno fo-rse sufficienti a cagionarle la morte. Vediamo talora le stesse cause produrre effetti ancora più pronti in costituzioni sane e robuste. - Le stesse cause I ripetei io; ma credeee realmente che ella abbia sentito per me una di queste passioni serie e inguaribili? Credete che un amore appena concéplto, appena confessato, non corrisposto, possa elevarsi in un attimo a questo grado di passione? Egli è che io non ho potuto comprender nulla del carattere di quella donna. Non riesco a spiegarmi la stia condotta, mi trovo di fronte a lei come di fronte ad un mito. - Che cosa Verreste capire del carattere di una creatura che vive continuamente sotto l'influenza di una malattia nervosa, la più complicata, la più .assoluta, la più fehomenale? bisognerebbe Che conviveste con lei dieci anni per afferrare, nei pochi e rarissimi momenti di calma , il fondo vero e naturale del suo carattere. Sapreste dirmi come è fatto il letto di un fiume che scorre sempre torbido e gonfio? La sua arditezza' vi sarà sembrata strana, la sua prontezza ad amarvi incomprensibile, lo capisco facilmente; pure io vi dico che l'onestà di quella donna malata vale per lo meno l'onestà di cento donne sane. E la malattia dell'amore, è l'irritabilità elevata all'ultima potenza. Voi altri spiritualisti vivete costantemente 111 un mondo' pieno di ubbìe, non capite nulla delta natura umana ; avete fatto dell'onestà ): della donna una questione di virtù e di carattere, mentre nOn é quasi mai che una questione di nervi e di temperamento. Se Lucrezia avesse avuto una costituzione ramo linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d'isterismo, credete che la mollarci& dei Tarquinii?... - Via, diss'io interrompendolo, sapete che abborró 11, da queste teorie materialistiche, che Non le voglio accettare, per quanto la ragione si ostini a ripetermi che sono le vere. Mi avete detto che il nostro tempo è limitato, sentiamo cosa posso fare per quella donna. - Una cosa semplicissima. - Cioè? - Venire da lei. - Da lei! Quando? - Subito. - E come ? - Sapete che io abito nella stessa casa; l'appartamento di Fosca comunica col mio mediante un uscio che è chiuso, ma che mi sarà facile aprire, ancorchè non ne abbia la chiave. Ella lo sa; le ho parlato di questo progetto, è lei che mi ha pregato a comunicarvelo. Basterà che io dia ordine di lasciarla sola perchè anche suo cugino si astenga dal venirci. Credo che non vi sia altro mezzo di salvarla, e immagino che non vorrete astenervi dall'usarne. - Ma, e poi? - Quando la sua malattia sarà tornata allo stato normale, vedremo. Intanto... - Dovrò prometterle di amarla?... - S'intende, e con quanta maggior dolcezza potrete. - È una cosa terribile. - Lo immagino, diss'egli prendendo il suo cappello. Ve ne aveva avvertito io, ve ne. ricordate? - E perchè me ne avevate avvertito? Forse che ella ha fatto altrettanto con altri? Come avevate fatto a prevedere?... - La sua condotta è irreprensibile, diss'egli, ed è ciò che forma il mio stupore; io solo posso comprendere ciò che le costa questa condotta! Ma in quanto a ciò che è successo con voi lo aveva immaginato. Noi siamo gente rozza, tipi grossolani, non ne era il caso, ci vogliono altre donne per noi. Essa ha mente colta, una spirito delicato e romantico ; voi eravate l'uomo fatto a posta; l'ho detto a me stesso appena vi ho veduto: ecco l'uomo! Figuratevi, conosco quella donna da cinque anni. Voi siete un bel giovine, e la bellezza è cosa che si sconta quasi altrettanto come la bontà. Buoni . e belli! Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia (li questo peccato originale! Me ne era accorto, prosegui egli intanto che io mi apparecchiava ad uscire; ma siccome non me ne dicevate nulla, non voleva forzarvi a farmi questa confidenza. Capiva che non era cosa da far venire il ruzzo di contarla. Quella volta che andaste a Milano ella stette assai male, credeva che la morisse; ebbe un assalto di nervi terribile, poi si riebbe subito nel giorno che ritornaste. Ma spicciatevi, aggiunse il dottore guardando il suo orologio, se farà d'uopo attenderete nella mia camera. Uscimmo assieme. Dio sa in quale stato d'animo io mi trovava ! XXVII. Mi convenne attendere due ore nelle stanze del medico, e per maggior cautela in un buio perfetto. Se non era che la luna era in quella notte piena e chiarissima, non avrei potuto distinguere certi ossicini e certi teschi di cui il dottore aveva ornato simmetricamente il suo caminetto, come di altrettanti ninnoli; e che in quel momento, e visti cosi in quella penombra, non erano ciò che vi fosse di più adatto a mettere in calma il mio spirito e a prepararmi a quello strano appuntamento. Sentiva di là la voce fioca e dolce dell'inferma, e il cicalare sommesso del medico con suo cugino. Era vicina la mezzanotte, allorchè intesi Fosca dire alla sua cameriera: - Mi sento bene, e ho bisogno di dormire e di essere sola; va pure, e non venire se non ti chiamo. La cameriera se ne andò, lietissinia di quella concessione. Il medico si accomiatò dal colonnello, dicendogli: -Riverrò domattina per tempo, occorre anzi tutto che non la si disturbi, son certo ché passerà una notte quieta. Non si diinentiehi di Prendere la taleriana. Buona sera -Buona sera! E l'udii aprir l'ùscio ed tiscire. Vi fu un breve momento di silenzio. -Buona notte, le disse per ultimo suo cugino, me ne vado perché tu possa dormire: Appena alzato verrò a vederti, e se non ti sentissi bene fammi chiamare; non avere riguardi, diavolo ... -Sta certo, addio. -Addio. E usci egli pure. Il medico risalì l'altro braccio della scala e rientrò nella stanza. - Siamo a tempo, diss'egli, attendiamo però qualche minuto per maggior sicurezza. Intanto... Prese uno scalpello di cui si serviva per le sezioni anatomiche, e svitò con destrezza le viti della serratura. L'uscio fu subito aperto. -Ecco i miei amici, diss'egli mostrandomi i teschi che erano sul caminetto e faeendovi passare dinanzi la fiamma della candela. Essi vi faranno compagnia, intanto che io resterò fuori a giuocare la mia partita di tarocchi ; non vi daranno disturbo, sono gente quieta. Aspettate qualche momento ad entrare; e abbiate giudizio - aggiunse mezzo tra il serio e il faceto - io sarò di ritorno fra un paio d'ore. Rimasi solo, in preda ad una tristezza inesprimibile. Mi pareva che la fortuna si prendesse giuoco di me (e dico la fortuna, poiché mi ha ripugnato sempre il riferire i miei mali alla Provvidenza, come a cosa che mi è dolce reputar equa e benefica), tante e tanto stranamente dolorose erano le circostanze in cui allora mi trovava. Lontano dalla donna che amava più della mia vita, che non avrei riveduta forse mai più, il cui amore aveva ritemprato la mia fede e il mio ingegno; adorato da lei, buona, bella, simile in tutto a me, riflesso dell'anima mia, doveva darmi ad una creatura che quasi abborriva, usare con lei i modi dell'affetto, ripeterle le stesse espressioni che aveva dette a Clara, versare in essa la piena del mio cuore tumultuante!... Oh se fosse stato per Clara che io mi trovava lì, in quella camera, se fosse stata essa che io stava per riabbracciare, di quanta felicità sarebbe stata innondata la mia anima! E pensava ai primi giorni del nostro amore, a quella prima volta che l'aveva attesa nel mio stanzino, pazzo, ebbro, delirante; al tremito che aveva provato al contatto della sua mano, al fruscio del suo abito, al suono della sua prima parola... Entusiasmi svaniti per sempre, inganni, errori, illusioni - unico vero, unica grandezza della vita - egli è da gran tempo che io vi ho perduti; nè ritrovo oggi tampoco le traccie delle vostre rovine, o un eco delle vostre gioie per rammentarvi e per piangervi. Se avessi esitato ancora qualche istante ad entrare nella camera di Fosca, non vi sarei andato più; me ne sarebbe venuto meno il coraggio. Vi entrai risoluto. Al lieve rumore dell'uscio trasalì, e rivolse il capo dalla mia parte. -Son io, Giorgio, non temete. -Oh mio Dio ! oh mio Dio! E si coprì il volto con un lembo del lenzuolo. Singhiozzava così coperta e fremeva. Mi sedetti al suo capezzale, e mi guardai dintorno. La stanza era piena di fiori, il letto era bianco come neve, e pareva tutto di pizzo, una lampada posta in un angolo emanava una luce debole, ma chiara e trasparente come luce di notte lunata. L'amore avrebbe trovato là il suo tempio. Si scoperse il volto ad un tratto, mi guardò a lungo con espressione di affetto ineffabile, poi mi disse : -Sapeva che sareste venuto. Vidi lacere una lacrima sui di lei occhi e mi, sforzai a sorriderle. Levò un braccio di sotto le coltri, io le porsi una mano che si portò alle labbra e baciò con- vulsivamente. • -Si fanno tali follie prima di morire, diss'ella. -Non pensate a morire. -Dacchò siete qui non ci penso più, sono guarita. Mi perdonate di avervi pregato di venire ? -Non vi perdono però di averlo fatto si tardi. -Oh Giorgio! esclamò ella con aria di gratitudine e di rimprovero, io leggo nel vostro cuore. Stette un momento silenziosa, poi si animò improvvisamente ed esclamò con entusiasmo: -Io vi adoro. Prese un mazzetto di mughetti che era sul tavolino e lo avvicinò alle mie labbra. -Perchè? -Baciatelo. -Perchè? -Baciate questi bei mughetti. Ubbidii. Si portò subito il mazzolino alle labbra, lo baciò con trasporto e lo riavvicinò alle mie. Compresi il suo desiderio. Mi curvai sopra di lei e la baciai sulle guance. Chiuse gli occhi, e rimase assorta ed immobile. Meravigliai che non mi avesse reso quel bacio. -Dammi del tu, riprese improvvisamente riscuotendosi. -Con tutta l'anima. -Chiamami col mio nome. -Fosca. -Di': Giorgio e Fosca. Lo dissi. -Dimmi: ti amo. -Ti amo. -Baciami. La baciai con finto trasporto. -Oh Giorgio Proruppe in lacrime e si ricoperse il volto colle mani. Passammo quasi una mezz'ora senza parlare. Quello sforzo l'aveva esaurita. Mi guardava in silenzio, io la guardava in silenzio. La notte era si quieta che sentivamo gli oscillamenti gravi e misurati del pendolo di un grosso orologio di una torre che sovrastava alla casa. -Come stai? le chiesi io finalmente. -Bene e male ad un tempo. Tu mi comprendi. Se morissi ora sarei felice: ciò non annullerebbe le angosce di tutta la mia vita, è vero, ma il morire felice sarebbe già per me un bene insperato. -Sarai più felice vivendo. -Mi amerai se vivo? -Non dirlo, non dirlo; cioè, sì, dillo, dillo. Povero giovine ! aggiunse ella prendendo le mie mani, io comprendo l'importanza del sacrificio che ti impongo. Io lo so che tu non puoi sentire per me che della pietà, ma ho caro d'illudermi, e ho caro il sentimento che ti spinge a. far nascere in me queste illusioni. Una volta credeva che la pietà fosse poca cosa, che non si potesse non sentirla,. perchè io aveva pietà di tutto ciò che soffriva, fosse anche stato un povero uccello, un povero cane, una povera bestia qualunque; ma più tardi ho imparato come gli uomini siano avari anche di compassione, perchè la compassione è il riflesso di un dolore altrui, e diventa un dolore proprio. Io so apprezzare la tua pietà, io te ne sono grata perchè sento che in te è ancora più meritoria dell'amore. Volli risponderle; ella mi posò un dito sulle labbra, e riprese sorridendo: -Taci, taci, mi dirai più tardi delle bugie, ti costringerò a dirmene tante Prendi la lampada, mettila qui, voglio vederti bene. Posai la lampada sul tavolino. Ella mi fissò in volto con aria rapita, e mi disse : -Come sei bello, Dio ! come sei bello ! Ella stessa non mi parve in quel momento si brutta, come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza. La sua testa era affondata nel guanciale per modo che non si poteva indovinarne le sproporzioni, i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme; i suoi grandi occhi neri erano inumiditi dalle lacrime, e brillavano stranamente al riflesso della luce della lampada; soltanto la fronte smisuratamente grande e sporgente rompeva l'armonia fantastica delle linee scorrette di quel volto. Mi ricorse al pensiero una Madonna che ho pregato molto da fanciullo, il cui volto di cera bianca, i cui capelli di crine nero, i cui occhi di vetro smerigliato, soliti a mandare strani riverberi alla luce dei ceri della chiesa, la rendevano rassomigliante a Fosca, benché di una rassomiglianza senza vita e senza espressione. Forse ella si avvide dell'effetto che produceva in me quell'esame del suo volto. Si affrettò ad abbassare il paraluce della lampada e a soggiungere : - Non voglio che tu mi veda ! sono sì brutta ! - Non è vero. -Oh non adularmi così. -La bontà ti rende bella. (E in quel momento era forse sincero). -Tu apprezzi questa bellezza? -Più di tutto. -Credi che il mio cuore sia buono? -Se lo credo! -Come battono i cuori buoni? Li sai tu distinguere dai cattivi? Senti il mio. Mi prese una mano e se la posò sul petto. -E il tuo? Oh il tuo cuore -Esso ti ama, Fosca, ti ama. -Come... una sorella? -Sì, come un'affettiroia sorella. -Ah! -Come vuoi. Ti ama come tu vuoi. Dàgli un altro nome, è sempre amore. -Grazie, Giorgio, grazie. Io ti voleva dimenticare, sai, io era ben ingrata, era anche ben sciocca, Credere di poterti dimenticare Voleva morire senza vederti... poi, non ho avuto la forza..., quel giorno fui cosi cattiva con te ! -Non dirlo, son io che fui cattivo. - Tu no, oh no, Giorgio, tu non puoi esserlo. Egli è che la mia malattia mi rende trista ; il sapere che sono brutta, che sono malata, che nessuno mi può amare... Che povera creatura son io ! Non ci hai mai pensato? Non ti venne mai in mente d'immaginare quanto io debba essere infelice! Ci sono dei giorni in cui questo pensiero mi strazia, e dico a me stessa : dunque sarò sempre così sventurata? Dunque non vi sarà mai nulla per me? Mi odieranno tutti? Mi derideranno tutti? Oh Giorgio, mio buon angelo, tu non sai quanto ciò sia terribile per una donna, per me, per un essere sensibile e sventurato come son io ! S'interruppe singhiozzando. -Calmati, non piangere, te ne scongiuro, ciò ti farà male. - Quel giorno pensava a queste cose, e perciò fui cattiva ; lo sembrai ancora di più, perché non lo sono, e mi sforzava di apparirlo. Ma tu mi hai perdonato? -Oh, tu sei si buona! Nulla io ho a perdonarti, nulla! Suonarono le due ore all'orologio. -Come passa presto la notte; il tempo vola quando si è felici, diss'ella. Fino a quando resterai qui? -Fino a quando vorrai. -Fino a domattina? -Sì. -Cosa faremo? -Parleremo, ma forse ciò ti affatica. -Un poco. -Penseremo. -Metti la tua testa qui, così, vicino alla mia, dammi la tua mano. Dormiamo? -Come vuoi. -Sogniamo? -Sì. Tacemmo tutti e due. Ella chiuse gli occhi, e parve raccogliersi e dormire. Passammo così un'ora che mi parve un'eternità. Ogni qualvolta io faceva atto di muovermi, ella trasaliva e stringeva più forte le mie mani. Pareva leggesse nel mio pensiero, tremava ad ogni idea spiacevole che mi passava nella mente, e mormorava il mio nome. Si riscosse al rumore di certi carri che passavano sulla via. -Sei tu, sei tu, mi disse con gioia; non dormiva ma sognava. Mi pareva di essere ancora fanciulla, e che tu fossi il mio angelo custode, quell'angelo che allora pregava tutte le sere, e che immaginava dovesse vegliare la notte al mio capezzale ; mi sembrava che tu avessi delle ali bianche. Ti ricordi quando si era fanciulli? Pensare che allora non ti conosceva, non ti amava! Quando si era fanciulli! - Eri più felice allora ? -Sperava di divenirlo, e perciò lo era. Dio ! Come me ne, ricordo bene in questo momento! Al mattino, quando ci si svegliava per tempo, e si sentivano passare i primi carri come adesso, e abbaiare i cani da lontano, e si vedeva entrare il primo filo di luce per ,la finestra. Che senso singolare misto di paura e di gioia! Hai provato anche tu queste cose? Te ne sovvieni? -Sì, e me ne sovvengo anch'io. -Qualche giorno ti conterò tutta la mia vita sai, voglio che tu conosca il mio passato. Aveva incominciato adesso a scrivere per te alcune memorie, e voleva che ti fossero consegnate dopo la mia morte, ma non ho potuto continuare ; stava cosi male ! Ora non voglio che tu le veda; e poi ora non devo morire. Io sono guarita. Apri le imposte delle finestre, voglio vedere le stelle. Cosi, solleva le cortine. Il cielo era chiaro e sereno ; ma l'aurora aveva già incominciato a spuntare, e non si vedevano che poche stelle pallide e quasi bianche. La brezza del mattino si cacciava innanzi alcune. nubi assai basse, e con tale impeto che la luna, ora velata da esse, ora scoperta, pa'eva correre a precipizio pel cielo. Di lontano si senti-'ano trillare i grilli nelle praterie. -Ritorna vicino a me, mi diss'ella. Siediti ancora. Non lasciarmi così presto. Già giorno? Che bel cielo belle stelle? Credi che sieno tanti mondi ? -Senza dubbio. -E che li abiteremo un giorno? -Ma! Forse! -Che cosa siamo noi! Che cosa è la vita? esclamò ella tristamente. E quasi avesse voluto cercare nella certezza del mio amore un compenso allo sconforto di quel pensiero, aggiunse con impeto : -Oh amami, amami Abbi compassione di me !. Mi ami tu realmente? -Mi amerai sempre? - Sì. -Giuralo. Esitai un istante. -D'un affetto puro... di un affetto fraterno l... diss'ella. -Lo giuro. -Non avrei voluto esigere da te un giuramento diverso: io ne conosco l'importanza, né vorrei legarti cosi a me, quantunque sappia che la mia morte te ne scioglierebbe assai presto. Non voglio che tu sia infelice pel mio egoismo. La natura ha dato a tutti gli uomini un solo mezzo per rendere felici gli altri - amarli - io col mio amore non li posso rendere che più miseri. Ti' ami molto quella donna? mi chiese ella con accento pieno di mestizia. -Non me lo chiedere, Fosca; non me lo chiedere. -E perchè? Non ho io card che tu sia felice? i ama ella? -Lo spero. -È bella? -A me piace. -È alta? -Come te. -Come si chiama? -Clara. -Ebbi un'amica di collegio che si chiamava così. È morta a quattordici anni. Era una bella fanciulla, col nasino aquilino, bruna, rideva sempre... È bruna anch'essa? -Sì... -Ha i capelli come i miei? -Dello stesso colore. -Tanti così? -Non so. -Guarda le mie treccie, diss'ella sciogliendosi i nastri di una cuffietta che ne teneva riunite due dietro la testa, e gettandole giù pel letto con aria di trionfo. -Ti piacciono`? -Sono meravigliose, diss'io, prendendone una tra le mani. E lo erano realmente. Ella sorrise con aria vanitosa, lieta di quella specie di superiorità che era quasi certa di avere su Clara, e disse : -Te ne voglio dar una. Strappala. -Strapparla l -Sì, strappala, strappala, tira, diss'ella con calore agitandosi. -Ma è impossibile. E poi ciò ti ucciderebbe... in questo momento. -Ebbene, strappami un capello, uno soltanto, ciò non mi farà male. -Ma... -Via, è un capriccio, diss'ella, accontentami. Ne strappai uno che mi avvolsi attorno al dito. -Hai ragione, diss'ella. Un capello solo è nulla, ma una treccia sarebbe di triste presagio. Quando gli amanti si regalano i capelli, è segno che l'amore sta per finire. Sono una cosa assai malinconica i capelli. Non ci hai mai pensato? Quando sarò vicina a morire, ti regalerò le mie treccie. Oh mio Dio l esclamò ella dopo qualche momento di silenzio, è già giorno chiaro e bisognerà che tu te ne vada. Riponi la lampada in quell'angolo, là, spegnila. Allo spegnersi della fiammella della lampada, la stanza parve cambiare d'aspetto; molti oggetti che erano in luce rientrarono in una semi-oscurità, e molti che non lo erano apparvero più chiari e più illuminati. Tornai a sedermi vicino a Fosca che mi buttò le braccia al collo piangendo. La luce del giorno me la mostrava adesso in tutta la sua orridezza. -Tu mi lascerai ora, esclamò ella con aria desolata, oh mio buon amico, oh mio povero Giorgio Ti ricorderai tu di me? Oh mio Dio? -Non ti affliggere, non ti affliggere, Fosca, io non ti dimenticherò mai. -Perchè, vedi, non potrò rivederti più finchè non sarò guarita. Cosa ne direbbe il medico? Stanotte era necessario che io ti vedessi, ma dopo Ebbene, ti scriverò, sei contento? -Si, ne sarò felice. -E poi, fra pochi giorni incomincierò ad alzarmi, e ti vedrò quando verrai solo al mattino. Poi guarirò, poi faremo delle passeggiate... -Tu hai sorelle? mi chiese ella sorridendo in mezzo alle sue lacrime. -Si. -E le baci? -Qualche volta. -Baciami come loro. La baciai. -Non così, non cosi, baciami come un'amante Si sollevò un poco sul letto, e mi strinse al suo seno con forza. Mi volse la testa verso la luce, si scostò un poco e mi guardò con entusiasmo. -Voglio vederti ancora... più bene, così, cosi... Oh mio amore? Oh mio bello Mi riabbracciò con delirio, e ricadde spossata sul guanciale. -Addio, le dissi io. -Non partire, non lasciarmi ancora. -Ma è tardi! -Resta, resta. -- Verranno a vederti, ci sorprenderanno. -- Ebbene, parti, ma lasciami qualche cosa di tuo, un àggetto portato da te, il tuo fazzoletto. Glie lo diedi. -Va ora, va, diss'ella. Fuggi, fuggi... Questa emozione mi ha vinta, la malattia mi riassale; dovrò gridare, verranno a vedermi, corri... Non intesi più nulla. Riattraversai fuggendo le stanze del dottore che dormiva vestito sopra un divano, e nei cui teschi mi parve di rivedere riprodotta e moltiplicata l'immagine spaventosa di Fosca. Intendeva ancora dalla via le sue grida acute e terribili. XXVIII. Trovo nel mio giornale questo frammento scritto in quel giorno medesimo: « Sono triste, muto, prostrato, annichilito. Appena oso credere alla realtà di una sciagura così grande. Fu inganno suo? Fu artificio anche cotesto? Io non lo so, io non so altro se non che mi sono legato per sempre a quella donna. Mi sono lagnato col medico, e gli ho espressi i miei dubbii sulla gravità di quella malattia, e sulla indispensabilità di quella visita fatale. Se ne offese, e mi disse che Fosca sarebbe forse già morta se io non ci fossi andato, e che fra pochi giorni sarà invece guarita. «Terribile e strana creatura in tutto « Ho ripensato alle cause della mia felicità presente, mi sono posto ancora di fronte al mio passato. Che cosa era io, or fa un anno? Che cosa sarebbe stato di me se Clara non mi avesse amato ? La deduzione che ne lp tratto è sconfortante, ma giusta; io fui amato per com passione; non ho il debito di amare quella donna per lo stesso motivo ? Sono disgustato della felicità. Se non avessi fatto appello ai miei dolori di un tempo, essa non mi avrebbe mai detto quali sieno i miei dolori verso quella donna. Il dolore è più severo e più giusto. « Non è questa mia felicità che io rimpiango - io l'amo la felicità, è vero, ma l'amo come una donna che si disprezza - rimpiango bensì quella di Clara, il bisogno di ucciderla manifestdndole il vero, o di offenderla segretamente tacendoglielo. Perché le rivelerò io.questa infedeltà forzata? Gliela nasconderò io ? E mi crederà ella? Sarà ella generosa ? Diffido dell'amore, giacché più egli è profondo, e più è mostruosamente egoista. L'amore è la fusione e la conciliazione di due egoismi che si sod-disfano a vicenda. «Non sarei atterrito da questo affetto se credessi alla sua purezza. Avrei anzi accettato volontieri questa missione, per quanto ella sia dolorosa, e non avrei avuto scrupolo di serbarne il segreto, ma così è impossibile. lo vedo le lotte di Fosca ; le sue contraddizioni sono troppo eloquenti, la sua malattia le ha tolto tutte quelle forze che qualche volta ci fanno trionfare delle passioni; il suo amore è amore. « Io rido di coloro che credono la nostra volontà avere un potere illimitato sulle nostre passioni, che asseriscono esistere in noi una forza sempre superiore agli istinti, sempre capace di dominarli. Io non ho esperimentate le passioni perverse ; non oso investigare se la società punisca nei malvagi la. natura o l'uomo; mi limito a compiangerli : ma le passioni non turpi - quelle che sono come un'esuberanza viziosa delle virtù - le ho provate, avrei meglio potuto resistere loro, di quanto lo potrebbe una verruca all'impeto di un'onda dell'oceano. Chi mi mostra la bilancia su cui pesare la potenza della volontà e quella delle passioni? Chi è che ha parlato nell'arbitrio? Chi mi insegnerà a combattere la natura colla natura? me stesso con me stesso? Dov'è questa forza misteriosa di cui ragionano costoro? « Io non la sento. È in me, o è fuori di me? D'onde viene? Ove posso trovarla? Io era nato per amare, e ho amato ; se nato per uccidere, avrei forse ucciso. La responsabilità sarebbe stata uguale. Tutto ciò che avrei potuto fare, è ciò che ho fatto e che faccio - vergognarmi della mia natura! » XXIX. Si, nel segreto del mio cuore io giustificava Fosca. Se volendolo l'avesse potuto, il suo amore sarebbe stato puro. Ella avrebbe voluto amarmi come una sorella; ella comprendeva la sublimità di questo affetto, e soffriva di non poterlo conservar tale. Ciò era tutto, in lei non vi era dunque alcuna colpa. Queste pagine che mi scrisse durante la sua malattia , ne erano la prova più evidente: « Mio Giorgio. Ti scrivo subito oggi benché il medico me l'abbia vietato. Non posso credere alla mia felicità, a me stessa. Poterti scrivere! Avere una persona cui poter dire ciò che si pensa, ciò che si sente, ciò che si soffre ! E sapere che queste sensazioni, questi sentimenti, queste sofferenze sono divisi !... Non l'avrei mai sperato, non l'avrei mai sperato l « Anche prima di esser certa del tuo amore ho voluto illudermi che tu accettassi e avessi care le mie confidenze, ho voluto provare un'ombra di questa gioia, ti ho scritto quasi tutti i giorni ; ma mio Diol sapeva bene che tu non avresti letto quelle pagine, che io mi illudeva, null'altro, che io mi illudeva. Se tu sapessi cosa vuol dire avere il cuore così pieno! E pure... « Ti dirò una cosa che ti farà sorridere. L'anno sco' aveva una coppia di canarini, il maschio è morto questo inverno - non so come avvenisse, incominciò ad arruffarsi, a tremare, a sonnecchiare, a non mangiar più, e un mattino lo trovai irrigidito sul fondo della gabbia. Ebbene, la femmina, venuta la primavera, ha fatto tuttavia il suo nido, e se avessi veduto con che cura! Non aveva uova e nondimeno covava sempre, covava tutto il giorno, e pigolava in quel metro affettuoso che hanno tutti gli uccelli quando allevano i piccini. Anche oggi che siamo in estate, non si è ancora ricreduta di questa illusione. Quante volte questo povero uccello mi ha fatto pensare a me stessa, e mi ha fatto piangere ! « Pero tu non vedrai queste pagine, perchè allora non mi amavi, perchè esse appartengono ancora ad un'epoca del mio passato che ho bisogno di dimenticare per sempre. Se potessi dimenticarlo! « Tu mi devi perdonare le angosce che ti ho cagio- nato ieri; devi perdonare le mie dubbiezze, le mie esigenze, le mie contraddizioni. Adesso ti scrivo col cuore calmo, e conosco ciò che v'era di riprensibile nel mio contegno, allora non lo poteva. Ho sofferto molto a vederti partire, ma oggi mi sento quieta e felice. Tu non puoi comprendere la sorpresa, dirò quasi lo sbigottimento che provo in me stessa nello scrivere queste parole che non ho mai potuto nè dire, nè scrivere: Mi sento felice ! « Tant'è, bisognerà bene che tu mi conosca, ho promesso di raccontarti la mia vita e lo farò. Il medico mi ha detto che non potrò alzarmi prima di otto giorni, utilizzerò questo tempo nel farti il mio racconto. Oggi non lo potrei, ti scrivo con molta fatica. « Se sapessi quanto mi è caro il tuo fazzoletto; lo tengo sempre sul cuore, dormo con lui; ho qui ancora i fiori che tu hai baciato; e alzando un poco la testa posso vedere la sedia su cui ti sei seduto: vi ho fatto metter sopra un mio abito perchè non vi si segga più nessun altro. Oh mio Giorgio, mio adorato! mio mio! È egli vero? « Non posso scriverti di più, mi duole il braccio; e poi non so nemmeno se potrai decifrare i miei caratteri. Sono felice e ti adoro, ecco tutto, non potrei dirti altro. Ieri, mentre salivi la scala, ho sentito la tua voce. Dio, che spasimo ! Amami, Giorgio, amami. Il tuo cuore non ha che a pensare all'immensità della mia miseria per trovare in sè la forza di amarmi. « Voglio avere un altro oggetto toccato da te, ho bisogno che tu mi dia qualche altra particella della tua persona. Ti acchiudo un mio piccolo nastro, bacialo e rimandamelo. .......... « Ho passato tutto il giorno a sognare, e perciò non ti scrivo che stasera. Ho avuto caro che oggi abbia piovuto. Una volta la pioggia mi metteva malinconia; adesso mi rallegra. Forse perché ora sono io felice, mi piace che la natura sia malinconica? Non lo so. Quando si è felici, si amano i piccoli dolori e le piccole contrarietà -forse per ombreggiare meglio le nostre gioie e per darvi un risalto maggiore. « Devo dunque parlarti di me? scriverti qualche cosa della mia vita? Non so come incominciare. « Quando era piccina aveva un'abitudine comune a tutti i fanciulli, e di cui veniva rimbrottata assai spesso. Chiudeva gli occhi, e vellicandoli leggermente col rovescio della mano, vedeva dei ghirigori, delle scintille, degli oggetti d'ogni forma e d'ogni colore, delle figurine, ma tutte in modo confuso, intricato, variabili; succede ora intellettualmente lo stesso fenomeno se tento di affacciarmi alle memorie del mio passato. « E sì che il mio passato fu assai povero di tutte quelle gioie che formano ordinariamente per le donne una causa di dolci rimpianti - amori, adulazioni, vanità soddisfatte - io ho provato nulla, o quasi nulla di tutto ciò. La maggior parte degli uomini amano inconsciamente il passato per la sola ragione che è passato , io credo di averlo caro per lo stesso motivo. « Io nacqui malata; uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò the mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un'epoca della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che ciò deve spiegarti le molte anomalie che dovrai riconoscere più tardi nel mio carattere. La mia potenza di affettività non aveva nè modi, né limiti; era una febbre, una espansione, un'irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l'universo senza esaurirmi. « E parlo di affetti, non di amore, ché a quell'età non avrei potuto sentire altro che affetti; se quel bisogno di amore fosse perdurato si violento fino alla gioventù, mi avrebbe trascinata a qualche eccesso colpevole. « Tutti i fanciulli si affezionano ai primi oggetti che possiedono, sopratutto alle cose che vivono od hanno apparenza di vita ; ma le loro predilezioni sono superficiali, mutabili ; sono meglio che affetti, un'affettuosa curiosità di conoscere. L'intensità era invece la maggiore dote della mia ; amavo le cose che amano i fanciulli, ma come le amerebbero gli uomini. Mi ricordo spesso - e te lo racconto per farti sorridere - di una piccola sciagura che m'accadde a sette anni, e che mi fu causa di una malattia quasi mortale. Avevo un micio ed un canarino; erano tutta la mia affezione, non avrei saputo dire quale amava di più. - Il micio mangiò il canarino - immagina tu il mio dolore l Uno l'aveva perduto, l'altro non lo poteva più amare, doveva abborrirlo. Me ne corrucciai tanto, che ne fui malata due mesi. « Non ho mai amato le bambole, aveva avversione a tutto ciò che non era vivo; amava le piante ed i fiori perché mi parevano cose viventi. Non so dirti ciò che provava alla vista di un cespo di viole, di un bulbo di giacinto, di una pianticella di primule. Le sradicava, e le tramutava spesso di vaso per averle tra le mani, per vederne le radici, per guardarle bene; se morivano, ne conservava gli steli disseccati. Di tutte le sensazioni incerte e confuse di quell'età, questa è stata sempre per me la più. inesplicabile - questo strano amore che aveva per le piante. Mi avviene ancora oggi di pensarvi alcune volte, senza poterne punto comprendere la natura. « L'attaccamento che sentivo per le mie compagne, per i fanciulli, per le persone di casa, mi era spesso motivo di grandi tormenti. Esigeva dal loro affetto più di quello che era possibile concedermi ; quindi quelle contrarietà me le facevano credere indifferenti, apate, ingrate; ne soffrivo come soffrirei ora d'un vero abbandono e d'una vera ingratitudine. Una mia nutrice che io amava assai dovette allogarsi in mia casa, e rimanervi fino a che io non ebbi toccato i dodici anni, giacché mi era ammalata ad ogni tentativo che si era fatto di separarmene. « A quell'età fui posta in collegio, e mi vi innamorai di una mia. compagna. Fu una passione vera, ostinata, tenace, quale non poteva sentirla che io. Quella fanciulla, che ora è donna maritata, non comprendeva nulla della profondità e dell'indole di quell'affetto ; e quantunque mi riamasse, lo faceva si freddamente che io ne era desolata. Era -benché buona - una ragazza vacua e leggiera come le altre, era bellissima, e fu forse la sua beltà che mi trasse inconsciamente ad amarla. Mi ricordo che mi alzavo di notte per andarla a vedere mentre dormiva, e passava molte ore vicino al suo letto, coi piedi nudi, colla sola camicia, tutta tremante di freddo. Le rubava i suoi nastri e le sue pezzuole 'pel solo motivo che erano sue, la scongiurava colle lacrime a dirmi che mi voleva bene, a lasciarsi baciare. Ma ella era spesso senza pietà. Non solo quella delusione non mi guarì della mia malattia, ma mi fu anzi fatale, perché mi fece comprendere che avrei trovato difficilmente in altri cuori quell'affetto ardente e senza limiti che sentivo nel mio. « Fui levata di collegio dopo pochi mesi, e non avevo ancora quattordici anni che fui presa d'amore per un uomo di quaranta, un giudice di mandamento, un amico di mio padre che veniva in nostra casa tutte le sere. Allora, strana cosa I non aveva simpatia che per uomini molto attempati. Benché giunta all'epoca della pubertà, non ero più sviluppata di quanto lo sia una fanciulla robusta di dieci anni : egli mi trattava come una bambina, e mi faceva spesso ballare sulle sue ginocchia ; le sue carezze e i suoi baci, ogni suo atto di famigliarità mi cagionava un turbamento dolce e incomprensibile. « L'amava alla follia, benché non comprendessi nulla della natura di questo sentimento, e avessi quasi paura di lui. Era un uomo alto, serio, con una gran barba nera: ora che ci penso non so come a quell'età avessi potuto innamorarmi di un tal uomo, pure fu una passione quasi decisiva per la mia vita. Ebbi il coraggio di scrivergli una lunga lettera che egli mostrò a' miei parenti. Mio padre ne rise, ma mia madre ci vide dentro il germe di una passione seria, e lo pregò a non venir più in nostra casa. Nell'uscire, egli m'incontrò sull'uscio, mi prese pel mento e mi disse: « Mia cara piccina, vorreste incominciare troppo male e troppo per tempo; non avete avuto paura de' miei quarant'anni? Se mia moglie avesse veduto la vostra lettera, vi avrebbe mandato a regalare un bel pulcinella. » Mi strinse una guancia tra le dita ed usci sorridendo. « Mi ammalai di dolore e di vergogna: vissi per due anni malaticcia, pensierosa, raccolta, appassionata della solitudine e dei libri. In quel periodo di raccoglimento mi formai l'intelletto ed il cuore; vi era entrata fanciulla e ne uscii donna. « Ma sono già assai stanca, mio caro Giorgio, proseguirò domani. Addio, addio. » « Ove sono rimasta? Eccomi a riprendere. «Mio padre e mia madre mi adoravano, e si adoravano. Erano due creature stranamente ingenue, strana- mente buone. Si erano fatti all'amore diciassette anni prima di sposarsi; erano vecchi tutti e due, e non avevano avuto altri figli. Questo nome di Fosca che a te sarà parso assai singolare, è comunissimo in quella provincia delle Romagne dove son nata, e me l'avevano dato perché era stato quello d'una bisavola che non ho conosciuto. « L'affetto che mia madre aveva per me la rendeva si cieca a' miei difetti, che l'educazione che ella mi diede fu affatto impotente a correggermene. La sua illusione più costante, quella che non si smentì mai, nemmeno dopo che le malattie m'ebbero deformata come tu vedi, era che io fossi bellissima. Parlava di me alle sue amiche come di un prodigio di avvenenza, e si spaventava dei pericoli che circondavano la mia bellezza. La verità era che le attrattive della gioventù supplivano in parte al difetto di quelle della natura; non ero nè brutta, né spiacevole, ma non ero bella; e fu la convinzione contraria che ella aveva infuso in me fino da piccina, che mi rese doppiamente terribile il dovermi ricredere di un errore così dolce. « Tu non sai cosa voglia dire per una donna non esser bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l'esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. Nella vita dell'uomo non vi è miseria paragonabile a questa. L'uomo, ancorchè deforme, ancorchè non ,amato, ha mille divagazioni, ha mille compensi; la società gli è indulgente; non potendo mirare all'amore, egli mira all'ambizione; ha uno scopo; ma la donna non può mai uscire dalla via che le hanno tracciato il suo cuore e la sua vanità, non può tendere ad altro fine che a quello di 'piacere e di essere amata. Non vi è che la maternità che possa compensarla qualche volta della privazione dell'amore, ma questa ne è il frutto, ed è spesso negata alla bruttezza. « Mio caro Giorgio, tu comprenderai ciò che io ti voglio dire: io ho provato questo tormento in tutta la sua estensione; io più che molte altre infelici, giacchè la mia sensibilità era disgraziatamente ancora più mostruosa della mia laidezza. Si, della mia laidezza; avrò il coraggio di giudicarmi senza pietà e di chiamare le cose col loro nome. Se tu sapessi... io ho odiato molto me medesima, ho odiato molto la mia disavvenenza, ma non mai tanto quanto ho detestato e detesto ancora il mio cuore. Sono le sue esigenze che mi hanno reso doppiamente terribile il peso della mia deformità. « Allora io non era però così brutta, e se quella strana illusione che mia madre aveva fatto nascere in me coi suoi elogi non avesse dapprima lusingata, poi ferita improvvisamente la mia vanità abbandonandomi, avrei potuto rassegnarmi alla mia fortuna che non era delle più tristi, e forse anche appagarmene. Il disilludermi mi costò invece molti dolori. Giunta ad un'età in cui la bellezza doveva esser tutto, riconosceva di non essere bella; quell'illusione non aveva durato che per tutto quel tempo in cui non sarebbe stato necessario di averla. « Ti ricordi di aver avuto sedici anni? Hai provato anche tu quella febbre, quelle smanie, quelle inquietudini incomprensibili che accompagnano quell'età? Hai sentito anche tu il bisogno di straziarti il cuore con mille sventure immaginarie, di crederti vittima di persecuzioni che non soffrivi, di fantasticare una felicità impossibile per godere crudelmente di disilluderti? Hai provato tu pure quel bisogno che ti spingeva a cercare una chiesa per pregarvi e per piangervi? La mia vita fu così povera anche di amicizia che non ho ancora potuto pe- netrare nel cuore di un'altra creatura : non so cosa abbiano provato le altre donne a quell'età, ma ciò che ho provato io è fuori di ogni espressione. Il bisogno di essere amata era il segreto di tutté le mie sofferenze, io lo comprendeva. La natura non mi aveva dotata soltanto di un cuore sensibile, ma di una costituzione inferma, nervosa, irritabile ; io non poteva avere nè quella forza passiva che dà l'apatia, nè quella castità naturale che dà la robustezza : l'amore doveva essere il mezzo e lo scopo di tutta la mia esistenza. « Non tardai a convincermi che non poteva inspirare dell'affetto. Tutte le donne scelgono, io doveva lasciarmi scegliere. E questa piccola rinuncia che era necessario fare al mio amor proprio, non sarebbe pure stata assai crudele se qualcuno mi avesse almeno preferita ed amata. Vissi invece fino a vent'anni, senza aver inspirata la benchè menoma affezione; senza aver ottenuto, nemmeno per giuoco o per pietà, il conforto di una parola amorevole. « La condizione delle donne del volgo ha ciò di preferibile alla nostra, che l'amore tra esse non obbedisce a leggi di etichetta; possono non essere amate verace- mente, e tuttavia godere delle apparenze dell'amore, e spesso anche de' suoi vantaggi. L'educazione non ha reso il loro cuore così esigente come il nostro; esse non sen- tono il bisogno di sacrificargli le dolcezze di un affetto colpevole. Non vi è confronto tra l'infelicità che la brut- tezza può cagionare ad una donna ricca e quella che può cagionare ad una donna povera; gli occhi del mondo non si rivolgono mai su quest'ultima -- il codice dell'onore non colpisce che la donna ricca. Mio caro Giorgio, dirti ciò che ho sofferto in quegli anni sarebbe impossibile. Coll'amore mi mancava tutto; quando non si è amate, la vanità non ha più motivo, ai essere, l'ambizione non ha più scopo, tutte le nostre piccole passioni svaniscono ad una ad una, come quelle che attingevano tutta la loro vitalità dall'amore, e non potevano sussistere senza di esso. Mi abbandonai con furore alla passione del meditare e del leggere - passione che non mi ha lasciata più da quel tempo - e vi trovai qualche conforto, non foss'altro quello di dimenticarmi a tratto a tratto, e di sollevarmi sulla triste realtà che mi circondava. Ma la lettura è fatale in ciò, che quella dimenticanza apparente ci ripiomba ancora più disarmati nelle memorie che tentavano dimenticare; che l'idea fissa dalla quale sembra distoglierci trova invece mille conferme, mille argomenti di essere, nelle pagine medesime che leggiamo. Portare le passioni, nella solitudine è lo stesso che volerne essere dominati. E poi, non è la lettura, non è la solitudine che possano guarirci dell'amore a vent'anni ; il tempo solo ne guarisce spesso gli uomini, le donne non ne guariscono mai, le nature superiori ne muoiono. « Non poteva sperare nulla dagli uomini, mi rivolsi a Dio; è ciò che noi tutte finiamo di fare; se non che io l'aveva fatto troppo presto. Divenni religiosa; entrai in quel periodo di ascetismo sincero, esaltato, profondo, che tutte le donne di cuore, ancorché felici, hanno o tosto o tardi provato e superato. Mi pareva di poter dare così uno scopo alla mia vita. Nelle nature buone e generose l'amore non è egoista, egli non è tanto un desiderio di rendere felici sè stessi, quanto un bisogno di rendere felici gli altri; non è spesso che una smania di sacrificarsi all'altrui felicità: ora mi pareva che il sacrifiizio che avrei fatto a Dio della mia gioventù avrebbe dovuto soddisfare in qualche modo quella sete di amore che mi struggeva da tanto tempo senza rimedio. Molte donne furono condotte a Dio da questa illusione. Hanno esse trovato pace? E ciò che io non ho potuto esperimentare. « Un giorno mi recai sola a visitare un convento che era poco lungi dalla città, isolato, sopra un colle, come un nido di colombe, quieto, solitario, sereno. Mi sedetti sui gradini della porta. Gli alberi del cortile sorpassavano, colle loro cime l'alta muraglia di cinta, e sembravano

affacciarsi per mormorarmi un invito ad entrare: da quell'altura si vedeva la campagna tutto all'intorno, e la città simile ad un immenso alveare: sulla porta erano scritte le meste parole della Bibbia, « Sacro all'amore e al dolore; » tutto era pace e silenzio.

« Rimasi colà assai tempo. Nel ritornare l'eco di un salmeggiare improvviso che veniva dalla chiesa parve volermivi richiamare. « Era di sera; il sole tramontava, gli uccelli si raccoglievano sugli alberi... colsi una pratellina, e ne strappai i petali ad uno ad uno: « Sì e no, sì e no, n l'ultimo era « Sì.  » Decisi. All'indomani manifestai il mio progetto a mia madre. Ne fu spaventata. Si pose a piangere e mi disse: « Mia cara figliuola, tu ci vuoi far morire; pensare a lasciarci !... noi che non viviamo che per te ! Entrare in un convento, alla tua età! una bella fanciulla come sei tu, colla tua dote ! » « Che poteva io fare? Non mi amava forse mia madre? Non aveva io il debito di riamarla? Mia madre! » « Ieri sera non ho potuto nè proseguire, nè mandarti ciò che aveva scritto. Oggi sono tentata a non continuare. Mi pareva di aver tante cose a raccontarti, e vedo che finisco col raccontarti nulla. Forse che io non ho sofferto? No, egli è che le cause delle mie sofferenze sono tutte intime, sono tutte morali, e tu puoi meglio immaginarle che io dirtele. E poi, come si può dire un dolore? come una gioia ? • Ho domandato spesso a me medesima se l'apatia e l'egoismo, e talora quella melata crudeltà che li maschera, non sieno altro che una conseguenza di quelle leggi che regolano l'individualità, di quell'impossibilità assoluta di comunanza tra un essere e l'altro che ci tiene divisi e isolati, e forma di ciascun individuo un centro irremovibile nel gran mondo delle sensazioni. Dolori, speranze, affetti, tripudii, tutto è essenzialmente individuale. Sembra che da tutte le leggi della natura si sollevi una voce che ci grida: Nessuno può addossarsi la soma dei tuoi dolori, o versarti le dolcezze delle sue gioie; nessuno può togliere od aggiungere un atomo al tuo essere: non riporre le tue cure che in te stesso. • Credetti finalmente di essere amata. i Un mattino trovai sul mio balcone un mazzo di fiori che vi era stato gettato dalla via. Sopra una cartolina che v'era nascosta dentro erano scritte queste parole: « Vi amo. Lodovico. » Chi era questo incognito? Era giovine, bello, veramente innamorato di me? Non lo sapevo, nondimeno era felice, era pazza; v'era un uomo che mi aveva detto: a Vi amo; » ciò era già per me un avvenimento sì grande, che l'ordine delle mie idee ne era interamente sconvolto. • Risolsi di tentare ogni mezzo per scoprire chi fosse lo sconosciuto, che mi aveva indirizzato quel biglietto. Aveva già osservato da parecchi giorni che un giovine forestiero passava assai spesso sulla via, e sollevava gli occhi alle mie finestre con aria d'imbarazzo; ma egli era sì bello, sì elegante, e pareva esser anche si ricco, che • io non avrei mai osato illudermi che egli vi passasse per me. Io l'aveva d'altronde guardato si poco e con tanta timidezza, che non era possibile che egli avesse tanto letto nell'anima mia da risolversi a scrivermi quelle parole. Mi pareva follia l'abbandonarmi a quella speranza. « Nondimeno mi convinsi a poco a poco che - fosse egli stato o no l'autore di quel biglietto - quell'incognito mi amava. Era cosi facile l'indovinarlo. Egli non passava che per vedermi -ciò era evidente. In quanto a me, non aveva già più altro pensiero che il suo. Essere amata da quel giovine mi pareva felicità cosi grande, che ne era quasi atterrita. La sua bellezza sembravami ancora superiore all'ideale che mi era formata di un amante. « Un giorno ripassò sotto le mie finestre cavalcando, mi guardò e mi mostrò con aria d'intelligenza un mazzetto di viole che aveva in mano. Alla mattina trovai quei fiori sul mio balcone. Dentro vi era un altro biglietto su cui era scritto: « Mi amate? Lodovico. Non v'era dubbio. Era lui, e mi amava. Immagina tu, o Giorgio, l'anima mia! « In quel tempo, mio cugino, che era maggiore, e aveva ottenuto un anno di disponibilità, conviveva colla mia famiglia. Egli era orfano da giovinetto, e mio' padre, che era poco più attempato di lui, lo aveva caro come un fratello. Alcuni amici suoi e di mio padre si radunavano alla sera nella mia casa; erano persone serie, gravi, mature, appassionate di discussioni politiche; e nè io nè mia madre solevamo far loro maggior compagnia di quel tanto che ce lo imponevano le convenienze. Mio cugino mi disse un giorno: « Come avviene che non ti si vede mai? sembra che tu ci sfugga: hai forse paura dei nostri anni e della nostra serietà? vuoi vederti intorno dei giovani? Lasciane il pensiero a me; porterò qui una calamita più attraente. » E alla sera fui per svenire allorchè lo vidi entrare nella sala collo sconosciuto che mi aveva gettato quei due biglietti. « Egli lo presentò a mio padre come il conte Lodo-vico di B..., veneto ed emigrato. Disse averlo conosciuto già da parecchi giorni al gabinetto di lettura; parlò con entusiamo del suo ingegno, accennò alle persecuzioni politiche che lo avevano costretto ad emigrare, e aggiunse che si sarebbe forse trattenuto più mesi nella nostra città, e ci avrebbe onorato alcuna volta delle sue visite. Come seppi più tardi, egli era stato ragguagliato da mio cugino intorno al mio carattere, alla mia posizione e alla mia fortuna, cosa che per altro non aveva fatto nascere in me alcun sospetto sulla lealtà della sua condotta. Egli era sì spiritoso e sì amabile, che i miei parenti ne furono presto entusiasmati; mio cugino ed i suoi amici non potevano più far a meno di lui, e lo sollecitavano a venire in nostra casa tutte le sere. In capo a pochi giorni noi avevamo preso a considerarlo come una persona della nostra famiglia. È assai difficile che io possa farti una pittura esatta del suo carattere; mi giovo di questa parola " carattere, " perché è quella che risponde meglio al mio concetto, non già che egli ne avesse uno. Non aveva alcun principio, non aveva alcuna opinione; si piegava subito ai principii e alle opinioni degli altri, qualunque esse fossero; e con tal calore e con tale accortezza, che nessuno lo avrebbe creduto non sincero: passava dall'uno all'altro estremo colla stessa facilità e colla stessa apparenza di convinzioni. Era cattivo per indole, qualche volta arrendevole e buono per debolezza. Non aveva idea di dignità personale, non si curava che di simularla e di parerne estremamente geloso. Qualunque bassezza non gli sarebbe sembrata umiliante; qualunque ostacolo morale non lo avrebbe distolto dal compiere un'azione proficua a' suoi interessi. Era incapace di sentire uno scrupolo. Tutta la sua condotta non era subordinata che ad una cosa sola, al codice; egli aveva commesso di turpe tutto ciò che è possibile commettere senza venir colpiti dalla legge - mille volte nella sua vita aveva rasentato il carcere, e non vi era mai entrato. Dire che cosa era stata la sua vita non é possibile, forse egli stesso non lo avrebbe potuto. Aveva errato di paese in paese, vivendo splendidamente delle sue industrie di avventuriere, assumendo qui un nome, là un altro, atteggiandosi a martire politico, aprendosi mille vie col suo talento, col suo coraggio, colla sua avvedutezza - sempre fortunato, sempre felicemente ingannatore. « La sua bellezza doveva aver contribuito non poco a questo successo. Egli era alto deìla persona, ben fatto, giovine, fiorente, biondissimo; aveva aspetto e maniere distinte, aveva aria di bontà e di dolcezza straordinaria, era sempre calmo, sempre sereno, e pareva non conoscere che il sorriso. A queste qualità aggiungeva un talento mediocre che aveva l'arte di far apparire un talento superiore. Era intelligente di musica e scriveva versi. Le sue composizioni musicali e le sue poesie erano una specie di salvacondotto, una specie di commendatizia di cui si giovava per accreditarsi presso le famiglie che lo ospitavano, od iniziavano qualche rapporto con lui. Egli non indugiava mai a mettere in luce queste due qualità, e sopratutto in modo sì naturale e si semplice, che nessuno ne avrebbe mosso rimprovero alla sua modestia. « Mio caro amico. Oserò darti un consiglio che ti parrà strano, che forse ti farà sorridere, ma che nondimeno è assai giusto. Diffida di coloro che fanno mestiere di far versi, diffida in genere degli artisti e dei letterati mediocri. Durante il tempo che vissi con mio marito ho avuto agio ad avvicinarne un gran numero, né ho trovato in alcuna altra classe della società caratteri d'uomini più tristi e più abbietti. Un mezzo letterato, un mezzo poeta, un mezzo artista mi fanno orrore. Hanno tutte le passioni sfrenate e biasimevoli dei grandi caratteri, senza averne una sola virtù. Ne hanno la vanità, l'orgoglio, l'ambizione, l'egoismo, senza un solo dei loro pregi che li temperi, senza un raggio di quella bontà improvvisa e passeggiera che ha il genio. Molti confondono l'ingegno col cuore ; nulla di più erroneo. È provato che gli uomini più eminenti nella vita pubblica furono quasi sempre i più tristi nella vita privata. Cristo Io ha detto: « Il cielo è pei semplici. » L'onestà non fu mai nè il retaggio, nè il privilegio della sapienza. « Tale era in poche parole l'uomo che divenne mio marito. « Io mentirei se ti dicessi che lo sposai non amandolo, mentirei pure se asserissi di averlo amato quanto ne era capace. Non lo conosceva quale era, ma aveva come un presentimento delle sue viltà, una specie d'intuizione misteriosa ché impediva alla mia anima di abbandonarsi intieramente alla sua. Forse il mio amore mi aveva resa impotente a comprendere alcune delle sue bassezze che la mia coscienza aveva comprese senza che io lo sapessi, e di cui non lasciava trapelare al mio cuore che un'idea vaga e confusa. Io subiva d'altronde, come tutte le altre donne, quella malia prepotente e incomprensibile che esercitano su di noi gli uomini di carattere violento, e spesso anche perverso. Lo avrai osservato, è cosa comune. Le donne, ancorchè non cessino di essere cortesi coi buoni e coi miti, cedono sempre di preferenza agli uomini audaci, prepotenti, pronti all'offesa, disprezza tori degli altri, vanagloriosi di sè; in una parola, ai peggiori degli uomini. Le più grandi passioni sentite da donne furono quasi sempre per uomini abbiettissimi. Mi è avvenuto più volte di chiedere a me stessa, vedendo qualche donna giovine, gentile, bella, elegante: « A chi apparterrà il suo cuore? chi godrà del suo af- fetto? Un uomo celebre, un uomo di genio? un bell'uomo? No, un piccolo mostro, uno sciocco, un cattivo. » Oh, mio Giorgio, noi siamo pure le tristi e incoerenti creature I « Non avendo voluto cedere alle istanze de' miei genitori che lo avevano scongiurato a rimanere con essi, mio marito mi condusse a Torino. Ci accasammo in quella città, dove, diceva egli, aveva avuto rapporti con uomini politici, i quali lo avrebbero aiutato a conseguire una posizione elevata ed una fortuna ragguardevole. Mi fu assai facile avvedermi fino da principio che egli non mi amava, tanto erano artificiose le prove che si affannava a darmi del suo affetto. E non solo non mi amava, ma pareva aver disgusto di me, e sforzarsi a violentare il suo cuore e la sua natura per non dimostrarmelo. Lungi dal comprendere lo scopo di questa dissimulazione, io, nell'immensità del mio dolore, gliene era grata. Sapeva di non essere bella, immaginava che l'intimità e la convivenza mi avessero fatta apparire a' suoi occhi ancora più brutta di quanto Io era, e gli avessero destato nell'animo una subita avversione per me. In questo caso la sua finzione era mossa da un sentimento di delicatezza ch'io non avrei saputo apprezzare abbastanza; era un sacrificio di cui io gli doveva essere riconoscente. Ho serbato lungo tempo questa illusione, e mi sono sforzata a trattenerla, giacchè, quantunque non amata, mi era caro il pensare che lo era stata un tempo, che la mia bruttezza soltanto lo aveva diviso da me, e che io poteva ancora stimarlo. In quel bisogno che io sentiva di giustificare ad ogni costo la sua condotta, quante cose ho attribuito alla mia bruttezza!

Soltanto un mese dopo il nostro matrimonio egli mi aveva annunziato che il governo austriaco aveva posto sequestro sulle sue rendite, per cui diventava necessario esigere da mio padre la riscossionw di una parte della mia dote; e m'aveva parlato di questa sventura come di cosa di cui non avrebbe mai saputo darsi pace. Lieta che ciò l'accostasse di più a me, sollecitai da' miei genitori il pagamento di una somma che costituiva una parte ragguardevole della loro fortuna. Però questo avvenimento non parve renderlo nè più cauto, nè più previdente, nè tanto meno più affettuoso. Le sue abitudini erano anzi peggiorate. Egli rimaneva assente una parte della notte, e non rientrava che al mattino; spesso passavano giorni intieri senza che ci vedessimo; intraprendeva alcuni brevi viaggi senza avvertirmi, e tornatone, mi diceva semplicemente: « Scusa, ho dovuto partire sul momento, un affare di premura... a In una parola, era evidente che egli non si occupava punto di me, nè sentiva forse tampoco quella specie di attaccamento che nasce dalla convivenza e dall'abitudine.

« Aveva però slanci di tenerezza, radi ma vivi; e in quei momenti pareva si dolesse con sè stesso della propria freddezza, e si scusava meco de' suoi torti. Appariva in ciò si sincero, che io non solo tornava a perdonarlo e ad amarlo, ma mi struggeva di trovare in me qualche colpa onde giustificarlo delle sue. « Una sera, in uno di questi momenti di abbandono, mi confessò d'aver fatto una grave perdita al giuoco, non osare chiedere altro denaro a mio padre, trovarsi, non pagando, poco meno che disonorato. Io fui felice di potergli dare tutti i miei gioielli, i miei abiti più ricchi, tutto ciò che possedevo di prezioso, onde sottrarlo alle conseguenze di quella perdita. Me ne pagò con una settimana di amore, di assiduità, di tenerezze, e ritornò poi subito alle abitudini di prima. « Ma sarebbe racconto assai lungo il voler dire .tutte le torture mie e tutta la ingratitudine sua, tutte le astuzie con cui giunse a poco a poco a spogliarmi interamente della mia fortuna. Un giorno - mi s'era mostrato già da tempo agitatissimo - entrò improvvisamente nella mia camera col volto estremamente turbato; mi disse non aver mai avuto il coraggio di confidarmelo, ora essere necessario, benchè troppo tardi; avere egli contratto da celibe alcuni debiti ascendenti a somme enormi, più di metà la fortuna della mia casa, avere sperato poterli pagare coi capitali che il sequestro impreveduto rendeva ora inalienabili, e aver perciò firmato cambiali la cui scadenza imminente gli apriva le porte del carcere: preferire uccidersi. E levata una pistola, fece atto di esplodersela al viso. Tu avrai già indovinato ciò che io ho fatto. Mio padre e mia madre vennero essi a trovarmi piangendo. Mi chiesero se egli mi amava, io dissi di sì; se ero felice, io dissi ancora di sì: essi acconsentirono a spogliarsi quasi interamente della loro fortuna, perché io fossi felice e tranquilla con lui. Felice! Quel sacrificio che doveva legarlo maggiormente a me, sembrò invece allontanamelo; e ciò era naturale, giacché non v'era più possibilità di altre speculazioni a mio riguardo, né occorreva fingere più oltre. Incominciai allora a comprendere qualche cosa del suo carattere e a tentare di resistere a quel bisogno di affetto ineluttabile che mi trascinava verso di lui; ma era indarno: io non poteva conciliarmi a quella fede, crederlo sì cattivo e sì infinto, non poteva cessare di amarlo. Mi era fatta quasi una religione del mio amore, e mi ostinava ad abbandonarvimi benchè lo sapessi incorrisposto. Ogni cosa che ci costa molto la si ama, benché riluttanti; e nell'ostinazione di un dolore o di un sacrificio, vi è un'acre voluttà che è spesso altrettanto soave quanto la gioia. Poche settimane dopo questo ultimo avvenimento mi disse che attendeva da Venezia una sua cugina, che me l'avrebbe fatta conoscere, e l'avrebbe pregata di fermarsi a pranzo con noi; le facessi buon viso. All'indomani mi presentò diffatti una donna giovane e avvenentissima, cui volle che baciassi e trattassi con intimità pari alla sua. Non sospettai di nulla, e fui lieta della compagnia di quella sconosciuta che era venuta ad interrompere per un istante la tediosa monotonia della mia vita. Mi parve che quella donna mi ponesse affetto, e provasse un interesse singolare per me. Ricevetti nel giorno seguente un suo biglietto, in cui mi diceva: « Devo parlarvi di cose che riguardano il vostro avvenire, vi aspetto in mia casa (via Borgo Nuovo, N. 7). Che vostro marito nol sappia, o tutto sarebbe inutile. Se avete cara la vostra felicità, venite. » « Vi andai col cuore tremante. Appena entrata la mi buttò le braccia al collo, con atto di espansione rozzo ma sincero; e mi disse: «.Povera creatura, voi siete rovinata, voi siete stata ingannata, tradita... Non sapete? Quell'uomo, vostro marito, non è nè il conte di B..., nè il marchese di C...- che so io?- Egli si è tosto fatto chiamare con tutti i titoli possibili.- Egli non è altro che un barattiere, un cavaliere d'industria, un cattivo soggetto. Io, che non sono mai stata sua cugina, so dirvi che egli è un fiore di briccone, che ha moglie in Dalmazia e due figli: io ve ne dirò la vita e i miracoli. Ho conosciuto suo padre, dalmato anch'esso, impiegato nella polizia austriaca a Zara; ho conosciuto sua moglie, una povera ragazza che egli ha ingannato come voi, e abbandonato come abbandonerà voi pure. Se volete sapere tutte le sue furfanterie, le ho sulle dita. Non vi fidate, lasciatelo, tornate a casa vostra. So che vi ha già estorto delle somme considerevoli ; me lo disse lui stesso, fra poco vi spoglierebbe di tutto il resto. Egli passa la sua vita in mezzo alle donne e alle carte; non ha un'oncia di cuore, non crediate di poterlo correggere. Ve lo confesserò, io sono stata una sua amante; l'aveva lasciato già da un pezzo, allorchè la settimana scorsa mi fece un sonetto pel mio giorno onomastico, e con ciò tornò a metter piede in mia casa. Fu lui stesso che mi parlò di voi; e in che modo! Se lo aveste sentito ! mi fece nascere la curiosità di conoscervi, e ho tanto insistito, che mi ha accontentata. Povera creatura! mi avete fatto compassione: ho detto tra me stessa : « Le dirò tutto, » e vi ho scritto di venire. Tornate a casa vostra, credete a me; quell'uomo vi farà morire; non siete voi quella che possa resistergli; colla vostra salute, col vostro carattere... Io ne ho riso, io non sono donna da lasciarmi malmenare cosi, ma voi! Ho voluto dirvi tutte queste cose. Ho fatto una buona azione e mi sono vendicata, sono contenta. » i Nel tornare a casa lo trovai che scendeva le scale. «- D'onde venite? mi chiese egli con asprezza. «- Da vostra cugina, risposi io; ella mi aveva mandato a chiamare per raccontarmi tutto ciò che sa di voi e per darmi alcuni consigli in proposito. «- Va bene! diss'egli aggrottando le ciglia, lo aveva preveduto. Che sciocca!- Non avete a dir nulla a vostra giustificazione? «- Nulla. Immagino che essa vi avrà detto la verità. Venite nella mia stanza e ne parleremo. . «- Voi sapete dunque tutto, diss'egli; non me ne dispiace; quella donna, a pensarci bene, mi ha reso un servizio. Sarò sincero con voi. Mi doleva d'ingannarvi più oltre. Se un uomo che vende la sua bellezza, come la vendete voi tutte, è un cattivo soggetto, io ne sono uno pessimo... Ma ciò non ha a che fare; è questione di apprezzamento. Fra me e voi è corso un contratto. Voi mi avete dato il vostro danaro, io vi ho dato la mia avvenenza, la mia gioventù, il mio talento (Non voglio mancarvi di rispetto in questo istante, ma voi sapete, Fosca, che non siete bella). Eravamo pari: ebbene, abbiamo vissuto insieme undici mesi, il nostro commercio andava bene. Ora questo contratto non ci conviene più? sciogliamolo. Mi sembra che non occorra disgustarci per questo. Voi tornerete a casa vostra, vostro padre e vostra madre sono due eccellenti creature, e vi riceveranno a braccia aperte. Io tornerò a vagabondare pel mondo e a distrarmi. Già... fu un errore. Non era nato per la vita di famiglia io. Badate che siamo in debito di un semestre di fitto di casa. Ve ne avverto per vostra norma. Io parto sul momeuto. A rivederci. Cosi mi separai da mio marito. Rimpatriata, trovai la mia famiglia quasi povera. Al rimorso di averne sacrificato il benessere al mio egoismo, si aggiungeva il dolore di scorgere che la salute de' miei genitori s'era alterata di molto per quei dispiaceri. Erano invecchiati quasi ad un tratto, erano diventati pensierosi, tristi, diffidenti. Quelle due creature sì semplici, si ingenue, si affettuose, avevano subita una disillusione troppo grande e troppo inaspettata. Essi non avevano neppure mai im-. maginato che avesse potuto esistere al mondo un uomo come mio marito; ciò sarebbe stato superiore di gran lunga al concetto più triste che avevano potuto farsi degli uomini, ed era naturale che ne fossero colpiti sì al vivo. Una sola cosa consolava un poco me ed essi di quella sventura. Io stava per diventar madre. Io avrei avuto uno scopo nella mia vita; essi, un affetto nuovo, una nuova diyagazione; sentivamo tutti e tre che questo avvenimento ci avrebbe fatto dimenticare il passato di cui lo consideravamo quasi come un compenso. Erano trascorsi cinque mesi dal giorno della nostra separazione, allorché una sera d'inverno, mentre stavamo seduti al caminetto conversando, ecco aprirsi l'uscio improvvisamente e comparire mio marito. Egli era tutto alterato ed in cattivo arnese. i Io innalzai un grido di spavento. Mio padre gli si avvicinò tremante per emozione e per ira, e gli chiese: « - Cosa volete? - Vengo a riprendere mia moglie, rispose egli, noi non siamo divisi formalmente, ne ho tutto il diritto. - Vostra moglie ha cessato di appartenervi da tempo. i- V'ingannate, la legge mi dà facoltà di obbligarla a seguirmi. - Essa non si moverà di qui, uscite. - Mi costringete ad usare la violenza? Ciò mi dispiace. i Mi si avvicinò, e afferratami pel braccio, fece atto di trascinarmi verso la porta. Io resistetti, scivolai e caddi percuotendo del seno sopra una sedia. Egli mi lasciò libera e mi disse: i Vi siete fatta male? perdonate signora: non era mia intenzione. » i Mio padre era vecchio ed impotente a difendermi. Eravamo soli in casa. «- Volete del danaro? gli chiese egli - Non accetto danaro da alcuno, ma ho tuttora alcuni crediti su vostra figlia che mi dovete soddisfare. « - Passate nella mia camera. i Nel ritornare si affacciò di nuovo all'uscio e mi disse: «- Fosca, non vi ho mai voluto male, ve lo giuro, non avrei voluto rendervi infelice, ma era predestinato. Io sono un miserabile. Ora vivete tranquilla, non mi rivedrete mai più. « Ed uscì. Mio padre gli aveva dato quasi tutto il danaro

che gli rimaneva. La nostra fortuna era pressoché rovinata. « L'emozione e la caduta affrettarono l'istante che aveva tanto desiderato. Sentiva che stava finalmente per diventar madre. Nel mio stesso dolore io era felice. Questa nuova sciagura aveva affrettato il premio di tutte le mie sofferenze, il conforto e la gioia della mia vita. Ohimè l Io non aveva preveduta la più grande, la più crudele, la più orribile di tutte le sciagure.

« Mio figlio viveva, ma io non poteva diventar madre. La natura mi era stata anche in ciò sì matrigna, che aveva posto ai piaceri del mio amore il prezzo della mia vita. Non solo mi aveva privato della bellezza perchè non provassi mai le gioie di un affetto corrisposto, ma mi aveva reso anche deforme perchè non godessi nemmeno di quelle più pure della maternità, che sole avrebbero potuto salvarmi. Sì, o Giorgio, un figlio mi avrebbe salvata. La solitudine delle mie passioni mi ha invece rovinata, perduta ! Ma a che prolungarti questo racconto? Io scampai miracolosamente ad una morte quasi sicura. Lasciai il letto dopo un anno di malattia, incadaverita, consunta come mi vedi. Mio padre morì di crepacuore; mia madre, che non era vissuta che per lui, lo seguì poco dopo. Di mio marito non seppi più nulla. Io mi riunii a mio cugino che, per avermi fatto conoscere lui l'autore di tutte le mie sventure, nella sua generosità se ne credeva quasi responsabile. Ed ecco la mia storia. « Se io potessi dirti ora la vita che ho vissuto in questi quattro anni di isolamento, tu ne saresti atterrito. Fino allora io era stata una fanciulla, aveva conosciuto nulla del mondo; i miei ,dolori, benchè grandi, erano stati in certo modo compensati da quelle illusioni, che l'inesperienza e la gioventù avevano ancora il potere di crearmi; possedeva ancora il segrèto della fatua felicità dei giovani - sapeva sperare; ora tutto era mutato, tutto l'edi- ficio era caduto; io era rimasta sola colle mie passioni, colle mie infermità, colle mie debolezze; con tutte quelle miserie che la natura ha dato alla donna, senza il compenso d'una sola delle sue gioie. Ti ho detto come l'amore fosse una condizione della mia vita, come questo bisogno fosse esigente e irrefrenabile fino dai primi anni della mia fanciullezza; immagina tu cosa doveva essere allora, cosa è adesso. Io non fui amata più mai, non sperava più di esserlo, poiché ove pure la mia disavvenenza non lo avesse reso impossibile, il mio cuore non era tale da darsi ad un uomo comune. Cosi tutto era contraddizione in me, tutto era urto ed antitesi: il cuore, la natura, l'isolamento, le infermità mi spingevano all'amore; la bruttezza, l'orgoglio, le esigenze dell'onore, il dovere me ne trattenevano. Mai lotta più lunga e più crudele fu combattuta in un'anima. Ho io finito adesso? ho io vinto? Tu solo puoi rispondermi, o Giorgio, tu solo ! » XXX. In quel frattempo, prevedendo il dolore che avrebbe cagionato più tardi a Fosca una mia gita a Milano, mi v'era recato furtivamente, e nel giorno stesso in cui ella mi mandava questi ultimi cenni sulla sua vita, riceveva da Clara la lettera seguente: Ti ho accompagnato col pensiero fino a ***. Sono le tre dopo mezzanotte, e tu vi arriverai in questo momento. Ho voluto coricarmi subito appena ti ho lasciato, e alzarmi adesso per iscriverti e per veder spuntare il giorno. Dico che ho voluto accompagnarti col pensiero, perché dormendo era sicura di sognarti. Oramai vi sono si avvezza, e mi par cosa sì naturale, che se passassi una notte sola senza sognarti ne sarei spaventata. Non puoi credere la strana impressione che mi fa questo trovarmi alzata in quest'ora. Che silenzio, che raccoglimento ! Pensare che mai nella mia vita ho passato quest'ora svegliata! È una cosa semplicissima; pure è un'idea che mi colpisce. Io vivo adesso in un istante che era venuto migliaia di volte nella mia esistenza, e in cui non aveva mai vissuto. Sono anche contenta di poterti scrivere in questo momento, perciò ora tu dormi e mi pare che tu mi appartenga di più. Non so cosa pagherei per vederti dormire ! Non ho mai potuto comprendere perciò si trovi si gran piacere a vedere dormire una persona che si ama; forse perchè possiamo vederla, guardarla, pensarci liberamente, senza bisogno di dissimularle le sensazioni che ne proviamo; perciò la vediamo come disarmata, mansueta, migliore? O piuttosto non avviene egli perciò in quell'abbandono apparente della vita materiale vi è una trasparenza che ce ne lascia veder l'anima ? Quando vedo dormir mio figlio ne sono quasi sicura. A proposito di mio figlio, ho trovato mezzo di inserire anche il tuo nome nelle orazioni che gli faccio dire tutte le sere. Giorni fa, passando con lui presso un venditore di immagini di chiesa, ecco lì una litografia colorita di ruggine di ferro e di rosso di mattone, che rappresentava san Giorgio a cavallo in atto di combattere il drago. Quel cavallo, quel drago lo hanno colpito vivamente. Glie l'ho comprato, e gli ho detto che essendo quello il santo il quale uccide i draghi che mangiano i cattivi fanciulli, conveniva ricordarsene tutte le sere nelle sue orazioni. Se le sue preghiere hanno un valore, Iddio ne terrà conto lo stesso; del resto io sono già felice di sentirlo pronunciare il tuo nome. « Voglio andare domani a passeggiare lungo la via che va a Loreto, dove abbiamo fatto colazione insieme ieri l'altro. Come siamo stati felici! Dio mio ! Ma veramente io sono sempre stata felice. Davvero, Giorgio ! Sono nata cosi. Un'altra donna, col mio passato si reputerebbe miserissima: io no, sento che sarei ingiusta a lagnarmene. Prima che ti conoscessi ero felice di una felicità mesta, passiva, inconsapevole, felice come lo sono i fanciulli, ma nondimeno lo ero. Te lo dico perché quel debito di gratitudine che io n'ho al cielo mi par quasi che lo esiga. Ho piacere che tu, che altri lo sappiano, come si ha piacere a far conoscere e a conoscere una buona azione. « Sai! Oggi a pranzo mi furon date alle frutta delle piccole pesche muscate, simili a quelle che ci avevano dato a Loreto. Figurati, ne ho mangiato un profluvio, un orrore! Assaporandole, e chiudendo un poco gli occhi, mi pareva di esserti ancora vicino. «  Lui mi ha detto: « Che diavolo! Tutta quella frutta ti farà male ! » Se avesse saputo ! se avessi potuto mandartene una! Ma veramente -l'avrai rimarcato ieri l'altro - io sono ghiotta come i ragazzi, io mangio troppo, io divoro ! « Voglio mandarti le primizie della mia età senile. « Ieri la pettinatrice mi ha detto: « Oh, signora, un capello bianco ! » - « Possibile! strappalo. » Era veramente un capello d'argento, e te lo mando perché tu lo veda e lo conserva come la data di un'epoca. « Quella donna mi ha raccontato che il primo capello bianco, gettato in un lago, si cambia in un'anguilla, e si è incaponita a sostenere questa tesi. Vuoi credere che questa superstizione mi fa ribrezzo, e non avrei il coraggio di fare questo esperimento? Ma sarei pazza di sapere perché e in che momento questo capello è di- ventato bianco! È un'idea che mi tortura il cervello senza rimedio. «  Se potessi incanutire interamente in un giorno! Se tu, venendo qui un'altra volta, mi trovassi invecchiata ad un tratto... una vecchietta, tutta bianca, tutta rugosa l Come ne sarei felice! « Voglio che tu mi faccia fare una chiave della nostra stanzetta, voglio andarvi qualche volta intanto che tu sei lontano, voglio andarvi a pregare. E non credere ché te lo dica per celia : davvero, Giorgio, se v'è un luogo dove io sento che potrei pensare al cielo, e sentirmi più buona, e pregare proprio con fervore, gli è quello. È bene di avere sulla terra un luogo dove potersi ricordare del cielo: di là la felicità vi ci ha già avvicinati. E poi, sei tu che vieni a visitarmi, e son io che dovrei apparecchiare pel tuo ricevimento. Vorrei gareggiare con te in questo sfoggio di apparecchi. Vedresti che ordine, che abbondanza di fiori, che assortimento di confetti !» « Riprendo a scriverti dopo una mezz'ora d'intervallo. Sono stata sul balcone a veder spuntare il giorno. Che spettacolo delizioso ! «  Non l'aveva osservato chi sa da quanto tempo. Credo che un uomo disgustato della vita non avrebbe che ad assistere allo spettacolo di un'aurora per riamarla; almeno sono ben certa che in quel momento non avrebbe il coraggio di morire, Una cosa orribile, una raffinatezza di crudeltà mostruosa, è l'abitudine che si ha di giustiziare i delinquenti al mattino. Morire alla sera non deve essere per metà si doloroso. Ma non parliamo di questo, io amo la vita, Giorgio, io l'amo in qualunque momento; io sono felice. «  Sono rientrata perchè spira un'aria acuta, frizzante, e non ho indosso che una camiciuola sottile quanto una ragna. Se vedessi gl'inchini che si fanno i miei fiori sotto le carezze di questo venticello balsamico ! Vi sono certe formiche colle ali che vanno su e' giù per uno stelo di geranio, con una furia, con una premura da non dirsi. Vanno, tornano, s'incontrano, ripartono, tornano ad incontrarsi... che faccende sono mai le loro? che affari le occupano? quale è lo scopo di questo strano lavorio? La gente che va e viene sulla strada quanto è lungo il giorno, e che io guardo spesso dal mio balcone, mi fa lo stesso effetto. « Io rido sovente di queste loro preoccupazioni. Io domando a me stessa : « Quella gente amano ? » Tutto il resto mi par vano. « Vedi questa farfalluccia? Ho voluto mandartela; ronzava già da un'ora attorno al mio lume allorché io sono andata sul balcone. Ne l'aveva cacciata mille volte colla mano. Ora tornando l'ho trovata qui agonizzante. Ha urtato nella fiammella ed è caduta sulla carta con un'ala bruciata. Sarei pur curiosa di sapere il segreto di questa attrazione che la luce esercita sugl'insetti alati. Amano - la luce e muoiono di quest'amore. Che cosa sublime! Ma veramente... quando si hanno delle ali, come non amare la luce e l'azzurro? Hai mai osservato? Le farfalle sono molto migliori di noi. Quando si abbracciano, muoiono. « Ho raccolto questi fiori che ti mando, e che ho baciato uno per uno, perché tu faccia altrettanto. Non è poca cosa ciò che ti mando oggi: un capello bianco, una falena morta d'amore e un piccolo giardino. Non ti puoi lagnare. Ho anche posto un mio bacio in un punto di questo foglio che non ti dico, e tu devi saperlo trovare. Nella tua prima lettera mi dirai dov'è che le mie labbra hanno toccato. Non te ne dimenticare. Ci tengo a questa prova. « Addio per ora, o caro Giorgio. È giorno fatto e posso essere sorpresa. - Mi ami? Dimmi, mi ami ancora? Non ti sarai mutato in questa eternità di dieci ore che ci divide? Io non sono più quaggiù che per te. Sai dirmi se esiste qualche cosa fuori di noi, qualche cosa che possa dar piacere o dolore? Se vi è una vita fuori del nostro affetto? Come ti amo, Giorgio Dio mio, come ti amo? E si può tanto amare? Può il cuore umano sentir tanto ? » XXXI. Pochi giorni dopo la guarigione di Fosca, io era già quasi considerato nella sua casa come una persona di famiglia. Ella aveva saputo trattenermi sì accortamente presso di sè, la sua immaginazione era stata sì feconda di pretesti a questo scopo, che suo cugino, lungi dall'adontarsene, aveva trovata questa intimità naturalissima e me ne sapeva grado come di una cortesia. Egli era un uomo semplice e debole. Benchè la bruttezza, e più ancora la malattia di Fosca, rendessero impossibile e quasi assurdo ogni sospetto di rapporti amorosi tra noi, le imprudenze di lei erano state tante e sì gravi, che, avrebbe pur dovuto avvedersène. Nell'affetto sincero e quasi paterno che egli nutriva per sua cugina, era invece felice di quella specie di sollievo che pareva recarle la mia compagnia, lieto di quell'interesse che io sembrava prendere alle sue sventure. Egli mi lasciava solo con lei nella sua camera, d'onde io non usciva ,spesso che oltre la mezzanotte. Nón sospettava neppure che altri avrebbero potuto sospettare. La sua fiducia non aveva limiti. Quella cecità provvidenziale che la natura ha dato ai mariti e agli amanti, era in lui si piena, che ove io avessi amato quella donna, avrei potuto abusare della sua fede colla maggior sicurezza possibile. Nè so dire ora quanto mi affliggessi dí quell'abuso parziale che era costretto a farne. Questo cruccio era una delle amarezze più acerbe di quell'affetto; poiché, quasi non avesse bastato a torturare la mia coscienza il conoscerlo sì leale e sì ingenuo, egli mi aveva fatte alcune confidenze che mi avevano potuto dare una misura della stima altissima in cui teneva il mio carattere. Mi aveva raccontata tutta la vita di Fosca, quale io l'aveva appresa da lei, e mi aveva parlato con dolore dell'affanno in cui lo poneva il pensiero delle sue angosce intime e della sua salute incurabile.

- Questa spina, mi aveva egli detto sovente con quel suo linguaggio rozzo, ma schietto ed affettuoso, è ciò che non mi lascia avere un'ora di pace. Non v'è cosa si fuori di posto come una donna che viva con un soldato. Portarla di qua, portarla di là... co' suoi nervi, ella che non ha più salute di un invalido 1 Se un soldato potesse avere una casa propria come gli altri galantuomini, meno male; ma noi siamo invece condannati a girare di paese in paese come il giudeo che ha dato lo schiaffo al Signore. Quando ci penso, mi accapiglierei con Domeneddio. Farci . brutti e senza salute, vada; ma lasciarci soli e senza una gioia al mondo, è troppo. I libri poi hanno finito di rovinarla. Al diavolo i libri! Per me li ho sempre avuti cari come uno stecco in un occhio. - Voi avete molta pazienza con lei, ve ne ringrazio. Voi siete un giovine dabbene, un giovine intelligente, e la vostra compagnia le piace. Vi ammiro; quando aveva la vostra età non aveva un'oncia della vostra calma, e dirò anche del vostro giudizio. Non vi faccio altri elogi, perché gli elogi sono della natura del vino - ubbriacano. Ho stima di voi, e potendolo, sarei felice di giovarvi. Ecco tutto.

E mi stringeva la mano con calore; e marcò quella sicurezza che ci dava la sua stessa intimità, rafforzava egli medesimo, senza saperlo, quei vincoli segreti che mi legavano a Fosca. Se io ho dovuto tradire la nobile fiducia di quell'uomo, e compensarla più tardi d'ingratitudine, il cielo mi è testimonio della inesorabile fatalità che mi ha trascinato a farlo. Egli sa che di tutte le amarezze che mi provennero da questo amore sciagurato, quella fu la più vera e la più profonda. XXXII. Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m'induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere più felice di lei. Perchè nessun'altra avrebbe saputo amare più intensamente. ,Lo stesso affetto di Clara non era nè sì assoluto, nè sì profondo; non aveva nè la forza, nè l'abbandono, nè la continuità, nè la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negata la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l'esuberanza pericolosa di quella. Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sì eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le più inconcludenti della sua vita d'ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell'amare e nel contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile, che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo a tutto ciò vi era un carattere, ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo. Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll'uscire e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze, impossibile allontanarsi da lei un istante più presto di ciò che era inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l'affanno in cui mi poneva quel sacrificio. Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n'era rimasto sì atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per evitarlo. Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato io la causa. L'abitudine mi vi aveva reso in pochi giorni sì rassegnato, che io aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura. Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le più penose; o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi, aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere: alzarmi, passeggiare, tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbedienza commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avare tonseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sì violenti che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l'avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocate in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sì aggraziato, si facile, e le modulazioni della sua voce sì dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia. Negl'intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce più serena e circondarla d'turatrnosfera meno lugubre. Benché que' suoi acconciamenti si ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sì spaventevole. In quei momenti v'era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire. Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre persone che suo cugino ed io. V'era colà un ampio divano di velluto turchino, sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello. Non vedendomi mai che là, diceva ella, poteva, allorchè io non v'era, sedersi al suo posto ed illudersi di avermi vicino. Spesso mi teneva abbracciato delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose che nè il mio cuore mi avrebbe suggerito, nè avrei avuto la forza di dirle. Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacchè tutto ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia tortura, nè sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi faceva mangiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un eccesso all'altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione nè ne' suoi dolori, nè nelle sue gioie. Ciò che mi pareva più incomprensibile in lei, era che non viveva che di caffè. Non veniva a tavola che per trovarmisi vicina e per mettere a prova la mia pazienza, facendo passare i suoi piccoli piedi sotto i miei, perché glie li premessi, o pizzicandomi le ginocchia sotto la tovaglia. In quei momenti sapeva che io avrei tollerato tutto, e abusava volentieri di questa sicurezza. Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La sLigione era ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull'imbrunire. Il moto della vettura conciliava sì bene il sonno al colonnello, ed egli era si felice di sapere che v'era li io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l'ora più felice della giornata; il sapere che suo cugino era lì, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora più tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero. In quanto a me non v'erano istanti più tristi di quelli. Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette, solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il, principio dell'autunno; i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l'aria d'una musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e stellato, l'aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a Clara, raccogliernii e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione. Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono nè immaginare, nè dire, nè forse sopportare senza soccombervi, La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già più nè salute, nè coraggio, nè speranza di sopravvivere a quella sciagura. XXXIII. Una cosa sovratutto - e la noto qui come quella che può dar ragione dell'abbandono in cui ero caduto e della sfiducia che s'era impadronita di me - contribuiva ad accrescere il mio dolore: il pensiero fisso, continuo, orrendo, che quella donna volesse trascinarmi con sè nella tomba. Essa doveva morire presto, ciò era evidente. Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei 81.10i spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole. XXXIV. Oltre a ciò mi era avveduto assai presto che il nostro amore non era più un segreto, e che tutto il ridicolo di una simile relazione cadeva sopra di me. Ho detto il ridicolo, giacchè per tutti coloro che non conoscevano nè i casi, nè l'indole di Fosca, tali rapporti non potevano essere che argomento di meraviglia e di riso. È difficile che il mondo attribuisca ad una passione amorosa, altre cause ed altro scopo, tranne quelli che hanno in natura. Nè è in inganno, giacchè, a dispetto nostro, la stima, il cuore, il sentimento non sono che modi e pretesti per condurci al piacere. L'amore il più elevato non ha altro fine che quello che ha l'amore il più ignobile, se non che questo vuol andarvi direttamente, quello per vie illusorio ed obblique. Dare per pietà ciò che si dà per egoismo, è poi sacrificio si grande e si raro, che pochi o nessuno lo può comprendere. Fosca aveva una cameriera giovane e bella, fidanzata ad un domestico di suo cugino. Mi era sembrato un giorno che ella mi avesse visto dare un bacio alla sua padrona nell'istante che attraversava un corridoio, nel cui fondo v'era uno specchio che rifletteva l'interno del nostro gabinetto. Non era in errore. Una sera, nel discendere le scale, intesi che ella parlava di me al suo innamorato in una stanzetta attigua al pianerottolo. Mi arrestai ad origliare. -Non sai ? le diceva ella, ora ne sono proprio certa; la signora Fosca fa all'amore col capitano. -Possibile Non lo crederei se vedessi. -Mio caro, io ho veduto, e ci credo. -Cosa li hai veduti fare ? -A darsi un bacio. -Lei a lui ? -No, lui a lei. -Ah! ah ! è doppiamente incredibile ! quella donna farebbe scappare il diavolo. -Tutti i diavoli, è addirittura orribile -Vorrei poi vederla in camicia. -Cattivo. E in mezzo alle loro risa intesi il rumore di un bacio che si erano. dati quasi per accertarsi della differenza che vi era fra i loro ed i nostri. Mi allontanai profondamente ferito nella mia vanità, triste, mortificato. Ma ciò non era il peggior male ; tutte le persone che frequentavano la casa del colonnello se n'erano avvedute; nessuno osava parlarmene, ma il loro contegno me ne assicurava. Più volte a tavola aveva sorpreso alcuni sorrisi e alcuni sguardi di intelligenza che mi avevano tra- fitto il cuore. Si rideva di me quasi apertamente, si parlava di quell'amore come di una aberrazione mostruosa. La sola persona che non avesse penetrato questo misero, era suo cugino. XXXV. A questo punto io sono tentato di desistere dallo scrivere queste mie Memorie, perchè comprendo adesso tutta l'impossibilità di farlo come lo richiederebbe l'importanza de' miei dolori. La parola - questa pittura del pensiero - non sa ritrarre che le passioni comuni e convenzionali ; rende t profili, ma non ha nè le luci, nè le ombre, non sa mostrare nè le profondità, nè le salienze ; le grandi gioie e i grandi dolori non li sa dire. Le pagine che ometto qui, perché dispero di saper esprimere con verità ciò che ho sofferto, dovrebbero contenere i dettagli più strazianti di questo racconto. Tutta l'orribilità di quel mio passato fu nei due mesi che trascorsi al fianco di Fosca, ed è ciò che è impossibile raccontare. Mi basta di segnare qui alcune epoche per poter dire più tardi i fu ín quel giorno, fu in quell'ora, fu in quell'istante. Il tempo cancella le date impresse dal tempo, ma quelle che il dolore ha scolpite nei cuori degli uomini non si cancellano mai. XXXVI. Eravamo nel mese di novembre. Fosca mi disse un giorno: « Domani andremo a passare una giornata intiera in campagna, andremo a piangere sulle foglie che cadono. » Il luogo dove dovevamo recarci era una fattoria a dieci miglia della città, situata in una posizione incantevole, a piedi degli Appennini. V'era già stato con essa altre volte, e vi andava volontieri, benchè la compagnia di Fosca mi amareggiasse di tanto quella gioia da rendermivi quasi indifferente. Ella invece ne era pazza; quelli erano i giorni più lieti della sua vita. Se io fossi stato-poco più forte, poco più generoso, avrei potuto e dovuto essere felice di quella felicità sì piena e si grande di cui godeva ella stessa. Ma io non possedeva che la virtù della tolleranza , non sapeva che rassegnarmi , e non poteva pretendere di più dal mio cuore. In quel giorno ero mesto e scorato più che mai. Mi era avveduto che la mia salute si alterava spaventevol: mente, e che il mio coraggio, la mia forza, la mia gaiezza svanivano a poco a poco con essa. L'ultima volta che Clara mi aveva visto ne era rimasta atterrita, e mi aveva detto : « Povero Giorgio, mi pare di vederti ancora quale ti vidi la prima volta che venisti a battere all'uscio della mia casa ; sei molto triste, molto dimagrato, che hai ? » E non so se fosse per pietà che le inspirasse di nuovo il mio stato, o per affanni suoi intimi, ella era assai pensierosa e assai mesta. Dacché Fosca era guarita, m'era recato a vederla due altre volte, e l'aveva sempre trovata così; non mi pa- reva più quella. Non che mi amasse di meno, ma non era più lieta come prima, non mi sembrava più felice. E perché si affannava adesso ad accertarmi del suo amore, a giurarmi che mi amava, a chiedermi se il suo affetto era tutta la mia vita e la mia felicità ? Ohimè t Io dubitavo. Io conosceva assai bene il cuore degli uomini. Quando l'amore se ne va, allora si sente il bisogno di affermarlo. Noi siamo più costanti della natura, più fedeli, più coscienziosi ; noi vorremmo trattenere questo amore che la natura ci invola, ma è indarno. Come, come amare ancora quando l'amore se n'è andato, quando il nostro cuore è rimasto deserto, e l'oggetto delle nostre affezioni non ha più un'attrattiva per noi ? Noi possiamo piangere su questa fralezza dell'amore, ma non possiamo arrestarlo : egli abbandona i cuori che vi hanno troppo creduto. Io non sospettava che Clara avesse cessato di amarmi, no ; questo sospetto mi avrebbe ucciso (almeno allora lo credeva), ma sentiva nell'anima mia qualche cosa di simile al presagio di una sventura lontana ; mi pareva che avrei dovuto perderla, e l'amava di più. Cosa portentosa, incomprensibile a me stesso; l'amava più ancora di prima, oltre quella misura che aveva giudicata estrema, più di quanto aveva creduto compatibile colla nostra natura mortale. Tale sono stato in agni tempo. Il pericolo non ha mai smentita quella fede che aveva riposta negli esseri e nelle cose che mi erano care. No, non li ho mai abbandonati. Allorché io li ho veduti sfuggirmi, mi sono avvinghiato ad essi per gettarmi insieme nell'abisso, per precipitare in una rovina comune. Pensava a queste cose seduto sulla riva di un torrente, poco lungi dalla fattoria , dove era venuto assieme col colonnello e con Fosca. Dopo tante ore di persecuzione, era riuscito a trovarmi solo un istante, ed era fuggito in quel luogo quasi a nascondermivi. Era assetato di pace e di solitudine. In quel giorno Fosca era stata intollerabile, mi era divenuta odiosa. Durante il viaggio, durante la colazione, durante le nostre passeggiate nel giardino, non mi s'era tolta dal fianco un istante. Suo cugino aveva preso un fucile ed era andato a sparare ai colombi ; ella mi aveva condotto sotto un albero, mi aveva fatto sedere vicino a lei , e m'aveva parlato del suo amore sì a lungo e sì calorosamente, che n'aveva l'anima piena di disperazione e di tedio. Non sentiva più alcuna pietà per essa, perché mi pareva di meritarne di più io medesimo. Aveva ora approfittato d'un momento in cui ella aveva dovuto allontanarsi, per fuggire e per andarmi a sedere sulla riva di quel torrente. Da quanto tempo non m'era più trovato solo in campagna e non aveva più inteso la voce soave della natura ! Era un luogo orribilmente incantevole; il suolo a roccie, a borri , a dirupi , ad avvallamenti; il torrente scorreva nel fondo di una forra in un letto di selci terse e bianchissime; quercie e castagni secolari sporgevano da una riva e dall'altra le loro braccia che si intrecciavano ; il sole vicino a declinare gettava sulla superficie dell'acqua alcuni raggi che sembravano convertirla in tante lame d'oro e d'argento. Di quando in quando uno sbuffo di -l'ovaio faceva cadere una pioggia di foglie che l'acqua travolgeva nei suoi vortici, o spingeva verso la riva ; il terreno era fiorito di ciclami, di pratelline, di viole ; una pispola cantava sopra il mio capo ; io guardava e sognava. Era là , seduto da un'ora , allorché alzando gli occhi verso la sommità del burrone, vidi Fosca che stava seduta guardandomi. Io la vidi e non mi mossi. Ella si alzò, esitò un istante, poi attraversò correndo un tratte della riva coperto di acacie e di rovi, mi raggiunse, e si lasciò cadere vicino a me senza parlare. -Mi sfuggi ? mi disse ella finalmente dopo un lungo silenzio. -No, ma aveva bisogno di esser solo. -Perchè non avvertirmi ? -Temeva d'offenderti. -Credevi meno offensivo il non dirmelo ? -Mio Dio l io dissi ; ma tu vuoi mettere il mio cuori ad una prova ben esigente ! Ella fece atto di alzarsi. Io sollevai gli occhi per un movimento quasi involontario, e raccapricciai nel vedere che aveva il volto e le mani tutte coperte di sangue. Nell'attraversare la riva correndo, s'era ferita alle spine delle acacie, s'era lacerati i capelli, e aveva fatto a brani il suo abito. -Resta, io le dissi con voce commossa afferrando lo sue braccia, tu sei ferita, tu devi soffrire. Ella si guardò le mani senza muoversi, e disse : -Non me n'ero accorta. Le sciolsi un fazzoletto bianco che aveva al collo e le asciugai il volto ; andai a bagnarne un'estremità nell'acqua e le lavai le ferite. Ella mi lasciava fare senza dir parola : guardava il torrente cogli occhi fissi e spalancati, e pareva assorta in una strana meditazione. -Che hai ? le chiesi io ; a che pensi.? Non mi rispose. -- Vuoi che mi getti in quell'acqua ? mi disse ella dopo un momento di silenzio. -Fosca, esclamai, non essere cosi ingiusta con me;; io, tu lo sai, io ho momenti di tristezza, durante i quali posso essere qualche volta cattivo, ma tu conosci il mio Cuori. -È perché lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture ? Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante : -Credo che tu te ne sia fatto un concetto esagerato. -Può essere, diss'ella. Tacemmo tutti e due per più di un'ora. Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell'acqua , applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d'alghe che l'acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l'uno all'altra, ma si assorti in noi, sì immobili, che non sentivamo più il nostro contatto. Il campanello d'una rauca, che venne a pascolare sulla sommità della riva, ci riscosse da quell'assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d'erba, poi tornava a rialzarlo e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico. Fosca mi disse : -Perché mi guarda così? -Non so, io risposi sorridendo, guarda me pure. -Non però tanto fissamente: 'giò mi fa pena, non so il perché, ma mi fa una gran pena; ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro. E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo e facendo tintinnire la sua campana. -Credi che quella bestia sia più felice di me? mi chiese Fosca quando tornai a sedermele -Se il non aver affetti e passioni, il non aver Coscienza di bene e di male può essere una sorgente di felicità, io credo che sì, dissi. E in questo caso, è anche più avventurata di qualunque uomo avventuratissimo. Ma che ne, sappiamo noi? Chi può scrutare nella loro natura? -Ella era sola, e pareva nondimeno tranquilla. Non si amano forse tra loro ? -Non come noi. Ciò che è strano è che l'uomo soltanto ha orrore della solitudine. - Tu però la cercavi poc'anzi. -Per un istante. -Perchè volevi esser solo ? -Per pensare. -A chi ? -Dio mio L.. A nessuno, a me stesso, alla natura. Non hai mai sentito il bisogno di esser sola? -Sì, quando soffriva... per piangere. • -Ebbene... -Tu volevi piangere? interruppe ella, e Or me? -Ma no, io dissi con impazienza; buon Dio; voleva esser solo, ecco tutto. Fosca chinò il capo con aria mortificata , colse una viola, e mi chiese dopo qualche momento: - Perché rifioriscono adesso le viole e le margherite, i primi fiori che sbucciano a primavera ? -Credo che si sbaglino, io dissi , il tepore dell'autunno fa loro immagifiare che l'aprile sia già ritornato. Vi sono molti fiori che cadono nello stesso errore. I lillà, i rosai, i sambuchi, tutte le piante primaticcie tornano a metter le gemme in autunno. -È vero, diss'ella, l'autunno e la primavera si rassomigliano. È la stessa cosa che la gioventù e la vec chiezza. Chi sa se a ottant'anni si risentano le passioni di quindici ! - Ma ! io dissi, è però ben certo che si .riprovano le stesse debolezze. La vita è un arco, le estremità si as somigliano perchè sono vicine. Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; . si muore come si ha incominciato a vivere,, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un'altra vita. - E queste viole bianche, diss'ella, sono viole da morto, non è vero? Perchè i fiori da morto sono tutti bianchi? - Io mi sentiva orribilmente tediato da quelle domande. Il sole tramontava in quell'istante, l'orizzonte pareva in fiamme, i tronchi degli alberi spiccavano vivamente da quel fondo sanguigno ed abbagliante. Io pensava a Clara. Se ella fosse stata con me - Non so, io dissi, forse perchè sono i più- mesti e i più fragili. Regalami un fiore. - Ecco. Staccai una primula gialla, e gliela diedi. - Che uccello è quello che canta ? - Mio Dio Uno scricciolo. - Come la sua. voce. è sottile Che colore ha ? - Credo grigio ; eccolo; guardalo lì, su quel ramo. - Credo che sia il più piccolo dei nostri uccelli. Il più piccolo. . - Dammi un bacio. Mi rivolsi e la baciai con freddezza. Se ne avvide, mi guardò e mi disse : - Ti tormento, non è vero? Ebbene ti bacierò io sola. Mi prese una mano che si avvicinò alle labbra. Vedendo che io non le diceva nulla, tornò a chiedermi : - TI annoio forse ? ti faccio soffrirei vuoi che io

vada Via ? Rispondimi. Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva cosi, il dispetto mi aveva reso muto e crudele.

- Rispondi, ripetè ella con accento supplichevole. - Oh, lasciami, esclamai io con impazienza, lasciami! Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era allontanata che di pochi passi, allorché intesi un suo urlo acutissimo ; mi rivolsi , e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni terribili. Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell'accesso era uno de' più violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra. La distesi sull'erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in un'ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz'ora , era quasi buio. La muca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch'io ebbi quasi paura di quello sguardo. Quella donna distesa sull'erba come morta, coll'abito lacero, col volto livido e insanguinato, a quell'ora, in quella oscurità tetra che non era nè luce, nè tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi, soli... v'era in quel quadro qualche cosa di sì tetro, che raccapriccio ancora oggi a ricordarlo. Quando m'avvidi che era inutile l'indugiare, sollevai Fosca sulle mie braccia e mi diressi verso la fattoria. Ella era sì magra, sì consunta che io indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni , nei quali aveva per vezzo portato Giara in quel modo at- torno alla nostra piccola stanza, e aveva sentito premere sulla mia persona le sue forme piene, pieghevoli, dense! Il colonnello era stato assai inquieto per la nostra assenza; lo fu ancora più nel vederci tornare in quel modo. Gli raccontai che, avendo udito le grida di Fosca, era corso verso il torrente e l'aveva trovata a terra svenuta; forse nel cadere s'era offesa il volto e le mani cogli spini. Fu posta in carrozza, così priva di sensi com'era. Durante il viaggio non abbandonò mai la mia mano che stringeva tra le sue convulsivamente. Suo cugino mi disse: - Mi dispiace che ella vi fa stare in una posizione molto incomoda; poveretta, non capisce più nulla, vi ha scambiato per me. - Certo, io risposi, ella crede di stringere la vostra mano. XXXVII. Giunto a casa, incominciai a provare quella specie di leggerezza e di benessere che precede la febbre. Mi buttai nel letto, smanioso di addormentarmi , di non svegliarmi più, giacchè non potevo più reggere agli assalti di tutti quei pensieri che venivano a torturare il mio cervello. Non tardai ad assopirmi, ma passai una notte terribile; ebbi l'incubo; un fantasma spaventevole s'era buttato sopra di me e mi stringeva, mi soffocava col SUO peso; sentivo un affanno, un caldo, una sete, un'oppressura da non dirsi; al mattino mi svegliai come istupidito, mi sembrava di non esser desto; sentiva una gonfiezza penosa nel cuore, e mi pareva che egli si fosse in'gros- sato, e che urtasse con violenza nelle pareti del petto. Non avendo potuto alzarmi, mandai pel medico. - Era cosa da aspettarsi, mi diss'egli, vi vedevo deperire ogni giorno e voleva avvertirvene. Me ne astenni sempre perchè mi sentiva un poco imbarazzato a farvi questa confidenza, e perciò speravo che un giorno o l'altro avreste trovato modo voi stesso di troncare quella relazione. Ora non posso farne a meno.. Bisogna che lasciate quella donna ad ogni costo; siete troppo sensibile. - Credete che ella ne morrebbe? - Non è cosa da potersi prevedere. Ad ogni modo voi non fareste che affrettarle di poco una crisi vicina, inevitabile. Capirete che è questione assai delicata; io non posso dirvi: • Fate questo, fate quello, » posso avvertirvi di un pericolo, ecco tutto; è a ciò che si limita il mio mandato. La vostra malattia attuale è cosa di cui guarirete in otto giorni; siete sano e potete trionfarne, potete farvi robusto; ma i germi del male li avete già in voi, trascurateli, e non sarete più in tempo. Vi ammalerete in piedi, vi consumerete senza avvedervene; alla vostra età, colla vostra costituzione, colla vostra indole, si muore in questo modo. Non avete nessun altro dispiacere'? - Nessun altro. Stette un momento silenzioso, poi riprese: - Pensateci, bisogna che scegliate fra la vostra vita e la sua; o voi o lei, questo è il dilemma, io mi limito a formularvelo. Mi prescrisse alcune medicine, ed uscì dicendo sarebbe ritornato assai presto. Passai tutto quel giorno in una profonda malinconia; v'era fuori un gran vento, piovigginava; io guardava le gocce di pioggia stillare giù per i vetri, e le ventole dei tetti girare da un lato e dall'altro cigolando. La notte era vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a poco nell'oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto immerso nel pensiero de' miei affetti e de' miei dolori. Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l'uscio con violenza, poi Fosca comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto. -Tu soffri, tu sei malato, e per mia colpa! Oh mio Giorgio, o mio angelo, perdono, perdono! Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole. -Fosca, io le dissi, che hai fatto? Alzati, alzati. -No, finchè non mi avrai perdonato. -Ma io non ho nulla a perdonarti. -Si, dimmi che mi perdoni. -Ti perdono. -Oh grazie, grazie! Si alzò a stento e si abbandonò colle braccia distese attraverso il mio letto. -Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato colle mie insistenze, ho abusato troppo di te. Si, sì, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio ! E tu non vuoi neppur dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma se sapessi quanto ho sofferto anch'io stanotte ! Dio, quanto ho sofferto ! Io ignorava che tu eri malato; era in letto io pure, l'ho saputo adesso, mi sono subito sentita forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo ! povero angelo ! Oh, io sono un'insensata, una miserabile ! E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo. -Calmati, Fosca, io le dissi, tu lo sai, questa commozione potrebbe esserti fatale: se i tuoi accessi... se ciò succedesse qui... pensa... -Oh no, no, è impossibile, io soffro troppo in questo momento; e poi io non mi appartengo più, tutta la mia vita è in te, io non so più di esistere. Ma guarirai, guarirai presto, nen è vero? oh guarisci, guarisci! Si alzò, buttò in un angolo il suo scialle, e prese a camminare per la stanza con passi rapidi. Afferrò l'estremità di un tappeto che copriva il tavolo e lo gettò a terra assieme ad alcuni ninnoli che vi erano sopra. Guardò il cielo dalla finestra, si avvicinò ad una parete, vi appoggiò il capo, e rimase in quell'atteggiamento alcuni minuti. Io la guardava istupidito. -Non voglio che soffra tu solo, riprese riscuotendosi ad un tratto, no, no, non voglio. Guardò intorno alla stanza, vide splendere sopra uno scrittoio la lama d'acciaio 'd'un tagliaca‘rte, la prese e mi si riavvicinò gridando: -Feriscimi, feriscimi: dove è che soffri? nel petto, nel cuore? ebbene feriscimi qui, nel cuore, voglio anch'io la mia parte di dolori, sì, voglio soffrire anch'io. Le afferrai la mano e le tolsi la lama che gettai a terra. -Per carità, esclamai io, Fosca, non ti abbandonare a questi trasporti. Io non sto male, non ho nulla, siediti vicino a me, su questa sedia; se veramente mi ami, se ti è cara la mia vita, la mia felicità, non mi affliggere e non mi atterrire in questo modo. Non disse nulla, e si sedette. La sentiva piangere e singhiozzare forte nell'oscurità. -Accendi un lume, io le dissi. -No, mi vedresti, avresti orrore di me. Io ti vedo lo stesso. Non ho bisogno di luce per vederti. -Buon Dio è forse la prima volta che ti vedo? -È vero, diss'ella con tristezza. -Ebbene, sarò io che voglio vederti, aggiunse per mitigare l'asprezza di quella risposta. Si alzò, accesa la lampada, e tornò a sedersi vidno al mio letto. -Come sei pallido ! Come sei bello ! Ah, perchè sei cosi pallido ! Stette un momento a guardarmi come rapita. Alzò gli occhi, e vide un vecchio Cristo di legno appeso alla parete. -Tu credi ? mi chiese ella. -Un poco. -E preghi? -Qualche volta. -Vi fu un tempo in cui ho creduto anch'io, in cui ho pregato anch'io. Quando aveva quindici anni piangeva tutte le sere pregando. In collegio c'era un camerino dove andava a nascondermi per potere esser sola e pregare ad alta voce senza essere sentita. Oh quell'età! quella fede! Ora è tutto finito. Sono tre anni che non prego più; penso sovente al cielo, ma senza invocarlo. Due mesi or sono nei primi giorni che ti conobbi, in una notte che c'era stato un gran temporale, e non aveva potuto dormire, mi alzai e mi affacciai alla finestra. Aveva cessato di piovere, il cielo s'era rasserenato come per incanto e scintillava di miriadi di, stelle, l'aria era fresca, imbalsamata, ricca di quel profumo acre che ha la terra bagnata; e allora mi ricordai con più forza di Dio, e tesi le braccia al cielo quasi per chiedergli misericordia di me e della mia giovinezza infelice; ma fu indarno , io non sentiva più la sua voce. -Tu non puoi non credere, io le dissi, la tua bontà è una fede, la tua virtù è una religione, i tuoi dolori sono una preghiera. Quanti onesti credono di essere atei perchè sono infelici! La loro infelicità sembra volerli allontanare dal cielo, e non sanno di essere i più credenti degli uomini I Può la bontà non essere credente? -Ciò è vero, diss'ella. Oh se potessi credere ancora! Ma per te crederò, sai, pregherò ancora per te. Sarò esaudita lo stesso. Stasera dirò le mie vecchie orazioni, le dirò sempre, tutti i giorni; domani andrò in una chiesa per pregarvi e per piangervi. Mi fece passare una mano sotto il capo, volse il mio viso verso il suo; mi guardò e mi sorrise cogli occhi bagnati di lacrime. -Come sei bello così malato, mi disse, se tu non offrissi vorrei vederti sempre così. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo, vicino al tuo letto a guardarti. Mi arruffò i capelli colle mani, li fece cadere a ciocche da un lato e dall'altro del guanciale, si alzò, prese uno specchietto e mi disse: -Guardati. Io mi guardai e sorrisi. Baciò lo specchio, lo ripose, e tornò a sedersi. -Ora, diss'ella, me ne andrò; mio cugino era uscito e non sarà tornato ancora; se lo sapesse !... Ebbene, se lo sapesse! Ma che monta? riprese crollando il capo e riabbracciandomi, io ti adoro, Giorgio, io ti adoro. Che m' importerebbe il perdere la mia pace, la mia fama, il rendermi anche ridicola, quando ciò fosse per te? Ove è il tuo male? Nella testa, nel cuore? -Nell'uno e nell'altro, più nel cuore. -Anche il mio è lì, vedi. Mi sento una pena, un fuoco, una quantità di sangue... Ti parrà strano che io tanto consunta soffra di troppo sangue, e pure è così. Ieri mi sono, sentita meglio, quelle graffiature mi avevano fatto bene. Dovresti levarmene un poco. Si tolse uno spillone dalla cintura,me lo diede e mi disse: - Forami una mano, forami. - Ma è una follia ! Che idea l -No, no; esclamò ella con impazienza; lo voglio, te ne prego, Giorgio Io allontanai il braccio, ella fu sollecita ad afferrarlo, a tirarlo verso di sè e a percuotere la mano che aveva libero sullo spillo. Si ferì leggermente; una goccia di sangue cadde sul mio guanciale. -Ora sono contenta, disse ella, mi fa male, mi ab-brucia, sono contenta. -Va, va, le diss'io, è tardi. -Si, andrò, ritornerò domani; fuggirò ancora. Oh t per pietà, non soffrire, non esser triste; guarisci presto, guarisci presto. Si abbassò a raccogliere lo scialle che aveva calpestato passeggiando. Guardò tutt'intorno alla stanza, guardò il mio letto, i miei mobili, e disse: - Che pace vi è qui dentro 1 Che raccoglimento l Che religione 1 È qui che tu vivi, o mio Giorgio. Si inginocchiò, e stette assorta un istante non so in quali pensieri; si calò il velo del cappello, si alzò, e mi disse con voce ferma e risoluta: -Un solo bacio, uno solo, e partirò subito. La baciai; attraverso il suo velo vidi lucere le sue lacrime. Prese un rembodel mio lenzuolo e se lo avvicinò alle labbra; baciò anchè un piccolo libro che v'era sul tavolino. Quando fu vicina all'uscio, tornò indietro, si fermò a piedi del mio letto, si appoggiò colle mani incrociate sulla spalliera, mi guardò un istante; poi usci senza parlare. . All'indomani il dottore mi trovò assai peggiorato. XXXVIII. Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva prescritto un riposo continuo. Non uscivo più di casa, e Fosca veniva a vedermi ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando, rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde dei tetti, pensando a quell'inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia patria, simile in tutto a questo, se non che ora almeno viveva sotto il martello di un gran dolore. I momenti che passava con Fosca erano i più tristi di quelle mie giornate. Le sue contraddizioni non erano mai state sì frequenti e sì estreme, la mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva si variabile, non si era mai rivelata si pienamente come in quei giorni. Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di noi, quegli incontri potevano essere assai più pericolosi. L'amore di Fosca non conosceva più alcun ritegno, alcun limite. La sua virtù avrebbe avuto la forza di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo. Perchè, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza invincibile, inconcepibile, estrema , avevano avuto fino allora il potere di conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel con- tegno; il suo amor proprio le aveva imposto di non tradire la natura de' suoi desiderii, ma era però ben facile l'indovinarla. E se adesso ella avesse potuto superare queste esigenze del suo amor proprio ? se avesse osato... se la pietà mi avesse vinto?... Era ben necessario che io mi fossi risolto a non vederla più così da solo, a non vederla che raramente. Oltre ai pericoli di queste sue visite, oltre alla fissazione terribile che s'era impadronita di me e di cui ho già parlato - che essa volesse trascinarmi con sè nella tomba - (e io la vedeva avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m'era pur fisso in capo che lo spavento incussomi da que' suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V'erano momenti in cui sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta la persona, sentiva un'oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene liberamente che piangendo dirottamente e gridando. Che era ciò? Avrei io ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto della mia pietà? Così io proseguiva a vivere in tali angustie, non rassegnato, non apertamente intollerante, inerte; debole troppo per risolvermi a fuggire quella donna, troppo geloso della mia felicità per sapergliela sacrificare interamente. XXXIX. Non so fino a quando avrei durato in quella irresolutezza, se la notizia di un più grande pericolo non fosse venuta a salvarmi. -Che avete risolto di fare? mi chiese una volta il medico. -Lo sapete, nulla, non ho la forza di prendere alcuna risoluzione. -E pure converrà che vi decidiate. -A che ? - A ciò che vi parrà meglio. Io vi dirò ora più esattamente quale è la vostra situazione, quale quella di lei. Voi saprete trovarvi il vostro tornaconto. -Spiegatevi, la mia situazione ? -È assaì più triste di quanto non lo crediate. Suppongo che in questo amore vi sia stato finora nulla di colpevole, anzi ne sono certo. -Nulla, nulla, io dissi. -Non mi nasconderete però che avete incominciato a temere della sua virtù, non meno che della vostra debolezza. -Mi pare anzi di avervene parlato. -E a temerne molto. -Moltissimo, le circostanze... -Sì, sono le circostanze, riprese egli, che creano per ciascun di voi un pericolo di cui ignorate tutta l'estensione. Se io non ve n'ho parlato prima , è perché sapeva che ciò allora era inutile; la difficoltà di vedervi liberamente era una guarentigia della vostra virtù; per voi lo era la sua sola bruttezza. Allora io ne poteva esser sicuro — lo fui anche finché avete tenuto il letto ma oggi è altra cosa. Conosco la sua malattia, giacchè non si tratta che di una malattia, e so che ella potrebbe abusare della vostra accondiscendenza. Guardatevene. È necessario che io vi faccia una rivelazione. -Voi mi tenete in grande ansietà. -Sappiate che l'amore sarebbe fatale a quella donna; un errore l'ucciderebbe. La sua sensibilità è si profonda, la sua irritabilità sì grande... non vi dirò altro, voi mi comprendete. Si tratta di un'infermità comunissima, ma fenomenale pel suo sviluppo, di un'infermità spaventevole. - Mio Dio, io dissi, ed ella sa ciò ? - Sì. - In questo caso, ella stessa... - Ebbene ! Ella stessa potrebbe provocare. questo pericolo. Voi la conoscete, badate che l'idea del sacrificio che ella sembrerebbe fare della sua vita, non esalti la vostra immaginazione fino a, farvelo parere sublime. La sua vita sta per finire, ella lo sa; ella può scherzare con essa impunemente; ma riguardo a voi è altra cosa. D'altronde non ignorate che l'amore non sta nel cuore; non illudetevi, quella donna non sacrificherebbe la sua esistenza nè a voi, né al vostro affetto, non la sacrificherebbe che alla sua, felicità. Ella , proseguì il medico , era assai meno malata allorchè vi conobbe. La vostra vicinanza, le vostre accondiscendenze le sono state fatali; d'ora in poi glie lo sarebbero sempre più. Convincetevi d'una cosa , ed è che voi l'uccidereste in ogni modo, o volendola rendere felice, o continuando a tollerarla come avete fatto finora: L'unica via che vi rimane è di abbandonarla. - Ma come, io dissi, come abbandonarla ? - Diamine ! Immagino che non sarà poi impossibile, rispose egli sorridendo. Via, abbiate animo. Vi volete rovinare così ? Che credete ! siete dimagrito spaventeVolmente, avete addosso una febbriciatola che mi fa paura. Io non compiango quella donna meno di voi, io ammiro la vostra generosità e ve ne lodo; ma sacrificarvi in tal guisa è una stoltezza ; i primi doveri sono quelli che avete verso di voi medesimo. Io vi farò ottenere una licenza col pretesto che la vostra malattia lo esige. Fra due giorni potrete partire. Vi terrò informato di tutto. Vedremo in appresso ciò che si potrà fare, prenderemo consiglio dagli avvenimenti. Acconsentite? - Con tutta l'anima, io risposi. E due giorni dopo andai ad accomiatarmi dal colonnello, cui dissi : - Vengo a salutarvi in ufficio, perché non avrei più tempo (ti venire stasera in vostra casa; è tardi, e devo apparecchiare per la mia partenza ; scusatemi presso vostra cugina, io partirò domani all'alba. - Diavolo ! esclamò il colonnello, mi dispiace che ve ne andiate così per tempo ; ma per altro lato... quando si tratta di lasciare un paese come questo, un paese di tartari, di pellirosse... capisco. E mi strinse e mi scosse la mano con una ruvidezza piena di affetto. Quanto mi faceva male l'ingannare quell'uomo l XL. Quella notte non dormii ; passai circa sei ore, assopito, sopra una seggiola a bracciuoli, vicino al focolare, coi piedi incrociati sul paracenere, pensando e fantasticando alla luce della fiamma del caminetto. Le idee più dolci e le più tristi si succedevano senza posa nel mio cervello, si urtavano, si mescevano senza lasciarmi un istante di pace. Agiva io umanamente nell'abbandonare Fosca in quel modo? Era leale, era onesto quel fuggire così da lei, quell'ingannarla in tal guisa ? Era sovratutto prudente ? Nulla di tutto ciò ; né io poteva mettere in calma la mia coscienza, né almeno tenermi certo che questa risoluzione non avrebbe compromesso il no, stro segreto. Se nell'apprendere questa notizia, ella avesse rivelato, ne' suoi accessi, le cause della mia fuga? Se suo cugino?... E poi, ella ne avrebbe certo sofferto, ne avrebbe sofferto orribilmente, avrebbe potuto morirne ! Ad ogni modo, se pur nulla di ciò fosse avvenuto, io poteva essere almeno ben sicuro che quella donna mi avrebbe disprezzato, e giustamente. Questa supposizione era tuttavia la meno triste che io potessi fare. Ma per altro lato quante considerazioni insorgevano a giustificarmi l La mia salute, i doveri che io aveva verso Clara, la mia avversione sempre crescente, l'impossibilità di dividermi da lei in un modo meno violento, quella specie di influenza decisiva che il medico aveva esercitato sopra la mia volontà, tutto ciò doveva pure aver peso in quell'apprezzamento rigoroso che io intendevo fare della mia condotta. E poi, quali compensi ! Sarei sfuggito alle persecuzioni di Fosca, non l'avrei veduta più, avrei ricuperata la mia salute e la mia gaiezza, avrei riveduto Clara, avrei passato quaranta giorni vicino a lei. Quaranta giorni Ciò era più che sufficiente a confortami di questi scrupoli e di questi timori. Il pensiero di riabbracciare Clara fu quello che mi tenne desto e immerso nelle mie fantasticherie fino al mattino. Ogni qualvolta l'immagine di Fosca veniva a collocarsi dinanzi a me, quella di Clara insorgeva a frapporsi e a celarmela. Mi riscossi al suono delle ore che scoccarono alla torre della piazza. Erano le sei, e conveniva partire. Il fuoco si era spento, io mi sentiva irrigidito e ingranchito da quel lungo rimanere sulla seggiola. Uscii da quella stanza con una specie di trepidazione affannosa, ma dolce: dappertutto, vicino al letto, sul divano, nelle inarcature delle finestre, in tutti gli angoli della camera mi pareva di veder Fosca guardarmi inesorabile e minacciosa. Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlandó e sorridendo con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: « Giorgio e Clara, 19 dicembre 1863. » Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto i miei affetti , non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva incominciato a piovigginare. Mi sedetti ad una estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia di Clara ; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi come fulminato: era Fosca. Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggieri si diressero verso di lei con aria mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai veduta sotto un aspetto sì spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a discendere con lei dalla vettura ; ma non m'era balenata alla mente questa idea, che il convoglio era già partito. Io rinunzio a descrivere tutto lo strazio di quella situazione crudele. Ora il segreto della nostra intimità era scoperto non solo, ma ella aveva abbandonata la sua casa per seguirmi. Se fino a quel giorno io aveva esperimentato la sua dolcezza, ora doveva esperimentare la sua collera : io leggevo ora ne' suoi occhi uno sdegno represso a forza, una fermezza di proposito che non avrei mai potuto supporre nel suo carattere ; si era seduta vicino a me, ma non per altro che come per assicurarsi che non le sarei sfuggito. Non mi guardava, nè pareva volermi chiedere alcuna spiegazione della mia condotta. D'altronde la sua voce era abitualmente sì debole, che il rumore delle ruote mi avrebbe impedito di sentirla. Mi attenni all'unico rimedio che mi era possibile ac- cettare in quel momento. Alla prima stazione che in- contrammo, mi alzai e le dissi : - Discendiamo, ci fermeremo qui , aspetteremo il primo convoglio che ritorni, parleremo. Mi ubbidì senza rispondere. Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto; non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto di cammino che ci separava dal paese. Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia ; tutta la campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaia ti sugli alberi, e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio dí Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza. Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era più piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a pian terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro sorridendo - nè io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite - chiesi alla padrona della bettola se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco. - Non v'è altra stanza che questa, diss'ella, ma per loro, signori, se vogliono... metterò a loro disposizione la mia. Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d'un ampio camino, dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca, che vi si lasciò cadere sfinita, ne presi un'altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei dall'altra parte del camino. Eravamo soli, e poichè non era più possibile evitare una spiegazione, credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo. -Ecco, io dissi, o Fosca, a che cosa ci hanno condotto le vostre follie! Ella alzò gli occhi con lentezza, quasi con fatica; mi guardò e li riabbassò senza rispondere. -Spero, io continuai, che mi direte quale scopo avete avuto nel seguirmi, quali sono i vostri progetti, quale il contegno che terrete verso vostro cugino, allorché gli sarà nota la vostra fuga, se pure non egli è già nota in questo istante. -Qualunque sieno per essere le conseguenze di questa mia risoluzione, diss'ella con calma, voi non dovrete parteciparvi in alcuna maniera. -Mi pare però che in questo stesso momento... Voi sapete che io ho una -licenza di quaranta giorni, che andava a fruirne ora per riconquistare in parte quella salute che mi sono rovinato per voi, e che questa vostra imprudenza mi costringerà a rinunciarvi. -Perchè? Voi potete continuare il vostro viaggio; se in questo momento voi siete qui, e se io sono in vostra compagnia, è perchò mi avete invitata a venirvi. -Fosca, io dissi con calore, spero che non vorrete spingere tant'oltre la vostra crudeltà, da irridere perfino alla mia delicatezza. Le ragioni che adducete non hanno maggiore logica di quelle di un fanciullo. Avete troppo spirito per non avvedervene. -No, rispose ella con asseveranza, no, siete in errore. Io sono ben risoluta a lasciarvi proseguire la vostra via, a non frappormi fra voi e la vostra felicità. Non ho saputo che nella notte di ieri la vostra risoluzione; era troppo tardi perché io potessi uscire di casa ; sono venuta stamattina , ed eravate già partito; se vi avessi trovato, vi avrei fatto conoscere quali erano i miei progetti. Sono giunta ancora in tempo a vedervi e a seguirvi - a seguirvi senza parlarvi, senza chiedervi nulla, senza pretendere alcuna cosa da voi; immagino che non me ne contesterete il diritto. Ho con me del danaro, e vi terrò dietro ovunque andrete: nessuno m'impedirà di abitare la stessa città, la stessa casa, di man perdervi d'occhio un istante. Se non m'aveste invitata a discendere, vi avrei accompagnato, come un'estranea, fino a Milano. In quanto a mio cugino, rassicuratevi, gli ho scritto di questo•mio amore, gli ho confessato come io stessa vi ho legato a me colla mia insistenza, come avete dovuto sacrificarvi a questa passione e risolvervi ad abbandonarmi con un inganno. Gli ho detto che siete onesto, buono, leale, che il vostro maggior dolore era quello di tradire la sua fiducia (credo di aver indovinato un vostro sentimento); potete essere tranquillo su ciò. -E credete cosi di avermi tolta tutta la responsabilità che mi hanno creata le vostre follie? -È la seconda volta che usate questa parola « follie. » Credeva che almeno del mio cuore non avreste mai potuto dubitare, che ne avreste rispettato il dolore. -Ma che cosa pretendete da me? -Nulla. -Perchè mi avete seguito? -Ve l'ho detto. -Ma io non vi amo, dovete pure avvedervene. -Non importa, vi amo io. -Non avete pensato a che cosa vi condurrà questa ostinazione? -Non posso avere altro pensiero che il vostro. -- La vostra salute v'impedirà di seguirmi, non avrete forza di giungere fino a Milano. -Ebbene, morrò per via. — Voi credete con ciò di farvi amare, di farvi ammirare; la vostra vanità ha forse in questa risoluzione una parte maggiori ohi, il vostro cuore; disingannatevi; la mia stima, il mio affetto non attingono alcuna forza da questa falsa costanza. -Mi conoscete assai male, diss'ella. Io non ho creduto al vostro amore quando asserivate di amarmi; come potrei lusingarmi di accrescerlo adesso che mi sfuggite? Non ho voluto mai che illudermi. Sono io che vi ho amato, che vi amo, che voglio amarvi. È un impegno che ho contratto colla mia coscienza. Voglio che ci crediate, vi costringerò a crederci. Mi sono votata a voi, ho risolto di morire per voi. Aveva bisogno di uno scopo nella vita, l'ho trovato, lo raggiungerò. Non importa che non mi amiate, potete anche odiarmi, è tutt'uno; anzi preferirò il vostro odio alla vostra indifferenza : ciò di cui voglio assicurarmi è della vostra memoria; voglio costringervi a ricordarvi di me ; quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete più dimenticarmi. Ecco perchè vi ho seguìto. -Ma è una aberrazione, io dissi. -Forse, ma non monta. -Un'aberrazione inutile... -Non credo, vi conosco. -Per lo meno crudele. -Sì. -Sapete dunque che ne soffrirò? -Sì. - Come potete conciliare questi due sentimenti disparatissimi : l'amore che dite avere per me, e il desiderio di farmi soffrire? -Non desidero di farvi soffrire. Io vorrei rendervi felice se lo potessi; ma il mio amore ò molto più grande delle sofferenze che può cagionarvi. Non vi comprendo, tutto in voi à contraddizione. -Si, esclamò ella con impeto, un'orribile, una spaventosa contraddizione. Tacemmo entrambi per un istante. -Avete però un mezzo, ripigliò ella con calma, e senza distogliere gli occhi dalla fiamma che stava affissando, per sottrarvi alle mie minaccie. -Quale? -Uccidetemi. -Uccidervi l Che insensatezza l Ma voi sapete che non s'uccide una persona impunemente, né senza motivi. Se mi aveste detto ciò a quindici anni , vi avrei trovato qualche cosa di nuovo, di romantico, di commovente, ma ora I E perché dovrei uccidervi ? Perché non vi posso amare? Che colpa ne ho io se il mio cuore non può sentir nulla per voi ? -Il vostro cuore l diss'ella, non appellatevi al vostro cuore. Conosco questa ipocrisia delle passioni, l'ho esperimentata. Il cuore non è l'amore. Se il mio volto fosse stato meno brutto, se io avessi potuto correggere le linee del mio naso, della mia bocca, della mia fronte, conseguire un poco della freschezza e della pinguedine dell'infima donna del volgo, voi stesso, voi mi avreste adorato. L'amicizia è bontà, ma l'amore non è che bellezza. -Sia come volete, io dissi. Doppia ragione perché dobbiate cessare di perseguitarmi sì crudelmente. Posso io impormi una simpatia che la natura vi ha negato i mezzi d'inspirarmi ? Devo io subire le conseguenze di quella che vi ho fatalmente inspirato io? Che cosa poteva fare per voi oltre a ciò che ho fatto? Vi ho dedicato quattro mesi della mia gioventù, mi sono sacrificato intieramente ai vostri capricci, alle vostre pretese, ai vostri nervi. Ho avuto la forza di fingere un affetto che era ben lungi dal sentire, ho avuto la delicatezza di dissimularvi con tutti i ripieghi possibili la mia hv- versione. Ho resistito finché ho potuto; quando vidi che la mia salute n'era rovinata, e che non poteva liberarmi da voi che fuggendovi, ho risolto, benchè con ripugnanza , di giovarmi di questa astuzia. Un santo non avrebbe fatto altrimenti. Ed ora che cosa volete da me? Che cosa esigete di più? Ho sentito un vivo interesse per voi, vi ho compianta, vi ho stimata. Mi obbligherete ora a parlarvi aspramente, a far tacere perfino la mia pietà ? Siete sconoscente, siete ingrata, non avete cuore. Se mi amaste, mi lascereste in pace. Pretenderete adesso che io vi sacrifichi tutta la mia vita ? È impossibile. Quattro mesi di tali tormenti sono un'eternità; un amore felice non potrebbe durare di più. Voi lo sapete, voi non potete dissimularlo: io non posso amarvi, io non posso amarvi ! -Oh, tu mi amerai, esclamò ella con voce terribile, tu mi amerai! Si drizzò di tutta la persona, e mi guardò con aria risoluta e minacciosa. Io rimasi come istupidito dalla paura e dalla sorpresa. Era avvezzo a temere quella donna, e mi meravigliava e mi doleva dell'arditezza che aveva posto in quelle mie parole. Come aveva osato tanto? Comprendevo che ella agiva ora per uno di quegli impeti, di quei subiti mutamenti che erano cosi facili nel suo carattere, e che sarebbe stato impossibile il continuare con lei una discussione seria e tranquilla. -Fosca L.. le dissi con accento affettuoso, e mi sentii soverchiato da una subita angoscia di cuore, e non potei dire di più. Ella si portò le mani alla fronte, se la premette fino a imprimervi le traccie delle dita, alzò gli occhi al cielo, e si contorse le mani gridando: - Ah! io sono disperata, io sono disperata ! - Guardò attorno alla stanza con aria atterrita, vide la finostra, esitò un istinto. poi vi si avventò con impeto. -Addio, Giorgio, addio ! non mi rivedrai più! La raggiunsi prima che avesse potuto aprirla, la trascinai a forza vicino alla sua sedia. Singhiozzava affannosamente senza piangere. L'abbracciai, e me la strinsi al seno cón tenerezza. -Siedi, siedi, io le dissi, non ti desolare così, farò tutto quello che vorrai. Tu tremi, sei pallida! -Ho freddo. La copersi col mio mantello, e rattizzai il fuoco. -I tuoi piedi sono bagnati, i tuoi abiti inzuppati di pioggia; accostati alla fiamma, così. Datti pace, datti pace. Non sono cattivo, lo sai, non ti farò• alcun male, ti ubbidirò, ma non mi spaventare co' tuoi impeti. Abbi anche tu compassione di me! Tornai a sedermi, e mi celai il volto fra le mani per nascondere le lacrime che la pietà di lei, che il dispetto della mia fortuna mi avevano richiamato sugli occhi. Stemmo qualche momento senza parlare. Fosca si accorse che io piangeva. -Tu piangi, mi diss'ella, oh mio Dio! Si lasciò cadere dalla sedia e mi tese le braccia supplichevole. -Non piangere, non piangere. Sono un'egoista, una miserabile. Lo so che ti rendo infelice, e non ho la forza di rinunciare a te, non. lo posso, ecco la mia sciagura più grande... Oh perdonami, perdonami l Se tu vedessi nell'anima mia! Se tu sapessi come ti amo, come mi sei necessario t Fa tutto ciò che vuoi di me, sarò la tua serva, la tua schiava, ma non mi sfuggire, non mi abbandonare. Non potrei stare quaranta giorni senza vederti, sarebbe impossibile, morrei disperata. Ritorna, ritorna. Tu lo vedi. Io morirò assai presto, sento la morte dentro di me; ancora un istante e sarai libero. Tu sei giovine, tu sei bello, hai salute, hai talento, la vita ti sorride, il mondo è tuo, la felicità che ti attende è lunga; sacrificati ancora un momento per me; quando sarò morta, considererai questa sventura come un istante di amarezza nelle lunghe ore di gioia che avrai goduto, mi ricorderai forse con delle lacrime. Non mi parlare di doveri, di ragione, io non ho più ragione, non ho più coscienza di doveri; non esigere da me ciò che non è più possibile ottenere; io ti amo, ecco tutto ciò che so dirti. Abbi carità. Ritornerai? Dimmi che ritornerai. Si trascinò verso di me e nascose il capo tra le mie. ginocchia. -Si, io dissi, si, torneremo assieme, ma domani dovrò pur ripartire, non posso fare a meno di recarmi per due giorni a Milano. - Ah ! esclamò ella. Ebbene, ebbene non importa. Non vorrò essere felice io solo. Avrò la forza di resistere. Ma non ti fermerai di più, ritornerai? Promettilo. -Si, io dissi, te lo prometto. -Giuralo. -Lo giuro. Ma potrò poi rivederti in casa tua? Tuo cugino... -Spero che non avrà veduto la mia lettera, che saprà nulla. Io l'ho lasciata sul mio tavolino da lavoro. Dacchè non tengo più il letto, egli non viene più nella mia camera. Sai che non esce dall'ufficio che pel pranzo. Prima di quell'ora saremo già arrivati. La mia cameriera ne sa qualche cosa, è prevenuta, non dirà nulla. Checchè avvenisse, vedrò oggi il medico e lo pregherò di venirtene ad informare. Ommetto il resto di quel triste dialogo. Feci cercare d'una carrozza e ricondussi Fosca alla stazione. Il freddo; la fatica, il dolore avevano talmente esaurito le sue forze, che dovetti quasi sollevarla sulle mie braccia per salire con essa le due predelline della vettura del convoglio. Quivi si sedette dirimpetto a me; volle tenere tutte e due le mie mani tra le sue, avvicinare il suo viso al mio, baciarmi di quando in quando come fossimo stati soli. Più ella era soffrente, più era affettuosa; lo spavento, l'agitazione, le lotte di quella mattina l'avevano sfinita; non aveva quasi più coscienza della nostra situazione, e si abbandonava a me senza ritegno. Chi eravamo noi? Quali rapporti correvano tra quei due esseri sì diversi? Quella donna sì mostruosa, sì spaventevole, sì malata, poteva essere l'amante di quell'uomo? Tali erano le domande che io leggeva negli sguardi attoniti dei nostri compagni di viaggio. Mi ricorderò per tutta la vita di quel giorno Alla sera mi sentii un poco rassicurato nel ricevere questo biglietto del dottore : « Ho saputo da lei quanto è successo oggi, e vi scrivo per incarico suo; state tranquillo, la cosa non ebbe alcuna conseguenza, suo cugino ignora tutto. Sento che intendete di ripartire domani, e che avete promesso ritornare fra due giorni. Verrò domattina a parlarvi e a consigliarvi in proposito. » Ma quali altri consigli poteva egli darmi in quel caso ? XLI. Pochi minuti prima che io partissi , il medico venne infatti a trovarnii. Entrò nella stanza sorridente con aria di voler far le 'beffe della mia sconfitta; e mi sarei offeso di questo contegno, se non l'avessi saputo sinceramente interessato ai miei casi, e non fossi stato certo che egli era appunto venuto da me per suggerirmi qualche altro rimedio. -E così? hai diss'egli sedendosi, eccovi già di ritorno. Non avrei creduto di rivedervi si presto. Avete avuto paura ? Vi siete lasciato ricondurre come un agnello. -Voi conoscete quella donna, risposi io, non crederete certo che avrei potuto contenermi diversamente. -Lo so, ma la cosa per sè stessa è assai singolare; non vi offendete se ne ho sorriso mio malgrado. Immagino almeno che questo vostro recarvi a Milano per due giorni non sia che un pretesto, e che la vostra partenza sarà decisiva. -No, ho promesso di ritornare. -Bisogna dimenticarsene. -Ne ho impegnato la mia parola d'onore. -Male. Bisognerebbe dimenticarsi anche di questa. -Non è possibile. -Come volete. Non voglio esporvi qui le mie teorie sull'onore, ma mi limito a farvi una domanda : « Che cosa intendete di fare ? » -Ciò che è oramai inevitabile. Ritornare, giustificare con un pretesto qualunque la mia rinuncia alla licenza, e rimanere presso di lei fino a che non vedrò la possilità di fare diversamente. -Datemi il vostro polso, diss'egli; e corrugò la fronte tastandolo. — La vostra tosse è diminuita ? -Accresciuta. -Dormite ? -Poco. -Agitato ? -Estremamente. -Fate cattivi sogni ? -Orribili. -Fra due giorni sarete traslocato a Milano, diss'egli tranquillamente. State assai male; avete bisogno di cambiar aria; questa atmosfera vi uccide. -A Milano ! fra due giorni. -Si, me ne incarico io. L'aria di quel paese vi farà bene. Farò revocare la vostra licenza, e vi farò avere invece una traslocazione che renderà la vostra partenza inevitabile. Ella lo comprenderà, non potrà opporsi. Le dirò che fui io a provocarla vostro malgrado. -Ma pensate... -A che cosa I interruppe egli con impazienza. Io penso al vostro bene, giacchò voi non avete un'oncia di giudizio, e lasciate volontieri che vi pensino i vostri amici. Dopo tutte le follie che ha fatte per voi, dopo quella colossale di ieri, la salute di quella donna è peggiorata a tal segno, che ella non ha più due mesi di vita ; e due altri mesi di soggiorno vicino a lei basterebbero a dare a questa lenta infiammazione che vi divora uno sviluppo che renderebbe impossibile arrestarla. Fate quell'apprezzamento che volete di questa mia mediazione, che vi costringo a subire ; io ho coscienza di compiere un dovere. Me ne ringrazierete più tardi. E usci prima che nella mia titubanza avessi trovato parole per eccitarlo o per distoglierlo da questo disegno. Io vorrei tacere qui di quegli ultimi giorni che passai con Clara a Milano; non vorrei evocare dalle oscure profondità delle mie memorie che i soli dolori - giacchè l'evocarne le gioie è cómpito assai più triste e difficile - il mio cuore non conosce più la via delle gioie, esso ne ha dimenticato il linguaggio ! - ma come non ricordare quegli ultimi baleni di felicità che hanno rallegrato la nostra esistenza? I primi piaceri non sono meno dolci degli ultimi, ma non si rammentano colla stessa trepidazione. Allora se ne speravano altri, e più frequenti, e più grandi; la gioventù, la fortuna erano per noi; vi era ancor tempo a saziarsene, ma adesso L. sono le ultime gioie quelle che si rammentano per tutta la vita, quelle che il cuore ha legato a sè colla stessa supersti.ziosa religione con cui vi ha legato la memoria di un estinto. Non sono i piaceri che incominciano quelli che si rimpiangono, sono quelli che finiscono. In una natura dove tutto muore, dove tutto ci sfugge, le cose più dilette sono quelle che abbiamo perduto. La fortuna ci fa parere più cari gli oggetti che ci toglie, di quelli che ci dona, ed è forse così che ci riconcilia lentamente coll'idea della distruzione e della morte ; nondimeno tristi quelle cose di cui esclamiamo: sono le ultime ! Ho veduto spesso sorgere il sole con gioia; ma talora mi sono sentito stringere il cuore, e ho steso le braccia verso di lui nell'ora melanconica del tramonto. XLIII. Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario : a 23 dicembre 1863. - Registro questa data e queste memorie due ore prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento ; ho il cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perché ? Non lo so dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent'anni le lacrime ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste lacrime che non possono trovare una via. Perché non si piange più dopo i venti anni? Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei, qui, soli, contenti, ma non più contento come un tempo... Mi amerebbe ella meno? No, ella sembra amarmi soltanto più seriamente. Temo d'aver indovinato il segreto terribile che ella si strugge di nascondermi. Clara non è felice. « Perchè ha pianto ieri sera nel lasciarmi ? ella che non ha pianto mai ? Ella sapeva pure che mi avrebbe riabbracciato oggi. Non aveva mai assaporato delle lacrime; ne ho bevuta una delle sue. Come sono amare! « Penso quasi con dispetto, quasi con ira alla strana conformità che la fortuna ha posto tra alcune scene di questi miei due amori così diversi. Che raffronti ! che analogia in queste antitesi Oggi abbiamo passato quattro ore in campagna, sulla neve, in mezzo al fango, come le passai ieri l'altro con Fosca. Clara ha voluto rivedere il nostro tabernacolo, i nostri prati, i nostri alberi, i nostri ruscelli. Ho tentato inutilmente di distoglierla da questo progetto, ho dovuto accompagnarvela. In questa stagione! Non mi dimenticherò mai, mai, di questa passeggiata! « Perchè ha ella detto che voleva tentare di ritrovarvi sè stessa ? Mi ritorna ora in mente questa frase oscura e angosciosa. « Siamo saliti in una carrozza ove eravamo già stati assieme una volta nei primi tempi del nostro amore. Clara l' ha riconosciuta. V'era ancora nella tappezzeria della vettura un G che ella vi aveva inciso allora con tanti trafori di spillo. Siamo discesi fuori della città dalla parte di Morivione. Siamo stati fino a Vaiano, abbiamo attraversato i prati correndo. Clara ha voluto entrare nella chiesa, e si è inginocchiata un momento per pregarvi. Non vi era dentro anima viva. Che solennità nelle chiese deserte ! « Abbiamo bevuto latte in una di quella catapecchie miserabili che si trovano allo svolto del canale. Siamo entrati nella stalla ; alcuni bambini giuocavano in un angolo della mangiatoia, e ci guardarono attoniti e quasi spaventati ; non sapevano levarci gli occhi d'addosso. Che quiete là dentro ! che caldo ! Ho chiesto a Clara: « - Vorresti vivere qui con me? « - No, rispose ella tristamente, ho orrore della povertà. « Quella contadina ci ha detto: - Loro signori sono già stati qui a san Giorgio, me ne ricordo. « - Quando? chiese Clara. « - A san Giorgio, nel giorno in cui si usa andare a bere il latte in campagna. « Allorchè fummo usciti, Clara mi disse: « - Ho voluto farle ripetere due volte il tuo nome. « Ritornammo attraversando quell'argine lungo e sottile che divide i due canali. Bisognava camminare l'uno dietro l'altro. Clara mi disse : « - Va dinanzi tu, voglio vederti. « Mi rivolsi a un tratto improvvisamente, e la sorpresi colle lacrime agli occhi. « - Tu piangi, le diss'io con ansietà. Che hai? Perchè piangi? « M'interruppe con un sorriso, e mi disse: « - È effetto del guardare la neve. Come sei poco esperto di lacrime ! « Risalimmo nella vettura che ci attendeva. Il vetturino ci guardò quasi stordito. Eravamo tutti immollati. Ci facemmo condurre a Porta Magenta, e ripigliammo le nostre scorrerie a piedi. La nebbia si era sollevata, e il sole splendeva di tutte la sua luce. La neve pareva fatta di tante pagliuzze d'argento e abbagliava. Gli alberi erano pieni di gazze e di merli, il torrente era gelato Ila un lato e dall'altro della riva, e scorreva nel mezzo con lentezza; non si vedeva nè un insetto, nè un filo d'erba. a Clara scorse la prima la nostra capanna,- il nostro tabernacolo,- e fu sollecita a raggiungerla , ma l'uscio ne era chiuso, e non ci fu possibile entrarvi. a Ella fu si afflitta di questa contrarietà, che per poco non ne pianse. Riattraversò il ponte di tavole su cui la neve gelata rendeva facile lo sdrucciolare, e abbracciò un albero sotto il quale eravamo soliti ripararci dal sole. Si sedette sulla neve in un punto in cui solevamo sederci e passare lunghe ore sull'erba. Trovammo in una siepe alcune di quelle bacche vermiglie che producono le rose selvatiche e che hanno un sapore acre, benché quasi dolce, e un nido ripieno di foglie secche e di neve. Quante memorie in quei luoghi, quante memorie! « Clara esclamava tra sè stessa:- Pensare che tutto sarà rifiorito a primavera, che questi luoghi ritorneranno così belli come lo erano nei primi giorni del nostro amore! « - Ebbene, le dissi io, questo pensiero non ti conforta ? « - Ma saremo noi ancora così giovani, ancora così felici ? a Non seppi risponderle. Perché ha ella concepito questo dubbio? « Nel ritornare raccolse presso la siepe di un giardino un fiore di semprevivo, di quelli di cui si intessono le corone mortuarie. « - Gettalo via, io le, dissi, è un fiore da morto. « Perchè ? rispose ella con tristezza, se è l'unico fiore che non avvizzisce? l'unico che non muore mai ? Il fiore delle memorie è caduco, ma questo sopravvive alla memoria. Quello è per gli affetti vivi, questo per gli affetti sepolti. «E volle che lo accettassi, e,promettessi di conservarlo per memoria di quel giorno. «- Ritorniamo nella tua stanza, mi diss'ella, voglio passare tutto il giorno con te, sono pazza oggi. Ho freddo, sono irrigidita, accenderemo il fuoco. «Durante il tragitto della carrozza incominciò a tremare e a rabbrividire dal freddo. Volle che facessi passare anch'io le mani nel suo manicotto. Vi sentii dentro alcuni oggetti che aveva raccolto per memoria di quella passeggiata, una foglia di ellera, un ramoscello d'albero. Percorremmo quel lungo tratto di strada senza parlare, vicini, coperti dalla sua pelliccia, guardandoci, colle mani così strette e riunite nel manicotto. « Accendemmo nella mia stanza un gran fuoco. « Non aveva mai veduto Clara sì pallida. Come era bella così, come era bella! «Ella aveva i piedi tutti bagnati. «- Levati i tuoi stivalini, io le dissi. «Non voleva. «- Ti ammalerei. Ubbidiscimi, te li leverò io. «Mi lasciò fare, benché quasi con dispiacere. Le sue belle calze erano anche esse bagnate; glie le slegai, glie le tolsi; ho veduto i suoi piedini nudi, piccoli, torniti, rosati; li ho riscaldati tra le mie mani. « La sera ci ha raggiunti li, vicini al fuoco. Avevamo passato tre ore nelle braccia l'una dell'altro. Ella non aveva mai posto tanta dolcezza ne' suoi abbandoni. Perché era così mesta? Perché non sapeva dividersi da me? Perché è tornata indietro per baciare l'uscio della nostra camera? Io torturo inutilmente il mio cuore con queste domande. «Ha dimenticato qui la sua crocetta di brillanti; la porterò con me, glie la restituirò ritornando. Scrivo un istante dopo che ella è partita; guardo con tristezza la sedia su cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l'ho amata mai tanto come oggi. Oh? che sarebbe di me senza quella donna l» XLIV. L'indomani era la vigilia di Natale. Aveva detto a Fosca che per quel giorno sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella mia stanza mi diceva: So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede. Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa menzogna inevitabile. » Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava questi pericoli con calma, perché sapeva che erano gli ultimi. La mia apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacchè il dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi sentire un po' troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse con schiettezza : - Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per voi, ma per me ne sono lieto. g una puerilità, un'abitudine come le altre, lo ca- pisco, ma in questo giorno sento anch'io il bisogno di vedermi circondato da' miei amici. Il Natale è la più bella festa dell'anno. Io non sono nè turco, nè cattolico- sono semplicemente un galantuomo- ma alcune delle feste cristiane mi piacciono, mi vanno a sangue, armonizzano colle mie convinzioni; io ci vedo dentro un significato profondo, che le apparenze ci nascondono. La religione ne è un pretesto. Che credete? Non è già la nascita di Cristo che noi festeggiamo oggi; noi festeggiamo la famiglia, le gioie della vita domestica, il focolare. Se questa festa si celebrasse in agosto non avrebbe più una metà della sua importanza; è in questa stagione che sentiamo il bisogno di vederci riuniti. Ecco la casa, il camino, il ceppo tradizionale, la tavola apparecchiata. Peccato che non nevichi! Tempo fa, ho passato questo giorno sulle montagne, in una casetta sepolta tra le valanghe, coi lupi alla porta. Quello fu un vero Natale 1 E stasera rimarrete con noi? Faremo una piccola cena. - Volontieri, io dissi, è una festa a cui ho legato anch'io delle memorie. - Ah ! continuò il colonnello mentre ci mettevamo a tavola, chi è che non vi ha legato delle memorie? Le più belle rimembranze della famiglia fanno capo a questo giorno. Volete ricordarvi delle ore più gioconde della vostra fanciullezza, delle persone che avete amato di più, dei vostri genitori, dei vostri fratelli? Bisogna che pensiate al Natale, alla casa dove siete nati, alla stanza dove potevate raccogliervi, alla fiamma del caminetto, alla notte vegliata cicalando... - E alle gozzoviglie... interruppe uno dei commensali. - Sia come volete, continuò il colonnello, anche alle gozzoviglie. Male per voi se in questo tacchino coi tartufi non vedete altro che un tacchino coi tartufi. Io ci vedo la ragione di un legame più stretto fra noi. Dov'è che gli uomini si trovano meglio riuniti che a tavola? È là che essi dividono il pane ed il vino, che si dimostrano più efficacemente il loro affetto, offrendosi a vicenda le cose più necessarie alla vita. A voi. Eccovi qui un petto di pernice ; permettete che ve lo offra. Crederete forse che un uomo che vi offre un petto di pernice possa essere un vostro nemico? Questa offerta era stata fatta a me. - Tolga il cielo che io abbia a cadere in tale errore, io dissi, io considero la vostra offerta come la più eloquente testimonianza della vostra amicizia. - Via, esclamò egli, voi credete di aver proferito una facezia, e avete detto invece una grande verità. Io ho imparato a non dare alcun valore a quei doni che sogliono farsi i ricchi, a quei piccoli sacrificii fatti e retribuiti per convenzione. Quando io ero ragazzo era molto povero, non mi vergogno certo di confessarlo. Ebbene, la camera migliore della casa era la mia, quei piccoli agi che poteva permetterci la nostra situazione erano per me; a tavola mi si davano le cose più squisite; mia madre era instancabile nell'occuparsi di tutti questi piccoli nonnulla che potevano recarmi piacere; quello era il vero affetto - tutto il resto è convenzionale, falso - è apparente. Se un uomo affamato -mettiamo anche semplicemente un uomo goloso - desse a me affamato l'unica costoletta che gli rimanesse per colazione, sento che dovrei essergliene più tenuto, che se m'avesse dato venti napoleoni dei quaranta che aveva nella sua saccoccia. - È vero, disse Fosca, io credo... - Chiedo scusa, interruppe suo cugino, tu non puoi credere nulla, non puoi essere in ciò un giudice competente; tu non puoi conoscere il valore di una costo- letta, giacché non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita. -Oh, oh, esclamò il dottore, questa argomentazione è falsa. Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità, piuttosto che dalla sua durata. -Dall'una e dall'altra, diss'io. -Sta bene, disse il colonnello, ma più assai dalla durata. Farò uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo, a mo' d'esempio, che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti... Che ve ne pare? Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello dell'uno? Singolarmente si, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore più grande. Cosi è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno più vivo e più durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri intermedii questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non avremmo sciolto con onore questa questione? Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali. -Chi avremo a cena con noi? chiese il dottore. -Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi. -Compresa la baronessa, la moglie di... -Suo marito. -O dell'amico di suo marito l -Bando alla maldicenza, disse il colonnello. In verità che se io credo di avere una virtù, la è questa, di non veder mai ciò che non dev'esser veduto, e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di rendere ad un altro, e che è tuttavia quello che vien reso più raramente, l'astenersi dal dirne male. -Ma io non aveva in animo di dirne male, disse quello tra noi che aveva provocato questa osservazione. Voleva far constare di un fatto. Vi sono certe cose che saltano agli occhi. I mariti... -Può essere, interruppe il colonnello, che i mariti sedano poco; ma gli altri vedono troppo. Io apprezzo più la cecità dei primi, che l'accortezza dei secondi. La fiducia di un marito, di un padre, di un fratello è cosa che mi commuove, doppiamente poi se tradita. Io non ho riso mai della semplicità; la credo la più nobile delle virtù, invece ho sempre temuto della doppiezza. La natura ha donato all'uomo questa cecità per dare alla culpa della donna un rilievo ancora più appariscente. Io guardai Fosca, il cui volto aveva incominciato ad impallidire. Il pranzo era finito, e, se avessi potuto, le avrei suggerito volontieri di ritirarsi nella sua camera. -E se non fosse..., aveva ripreso il colonnello. Ma fu interrotto dall'arrivo del sergente di posta che ci recava un fascio di lettere. Io n'ebbi una, che conobbi tosto essere di Clara, e mi affrettai a nasconderla nel mio portafogli, impaziente di trovarmi solo per leggerla. Dopo le follie di quel nostro ultimo ritrovo, che cosa mi avrebbe ella detto? Il colonnello fece atto di riconsegnare le sue al sergente perchè le riportasse in ufficio, ma avendone veduta una col suggello del Ministero, la riprese e l'aperse. La lesse in un baleno, si rivolse a me con aria di meraviglia e di dispiacere, mi guardò un poco come per interrogarmi, poi mi disse: Siete voi, o sono quei signori del Ministero che hanno voluto farci questa sorpresa? Siete destinato al Dipartimento di Milano, e dovete raggiungere immediatamente la vostra destinazione. Che diavolo - A Milano!... io balbettai tutto confuso, traslocato!. Veramente... non capisco... E alzai gli occhi verso Fosca. Vidi il suo volto impallidire, trasfigurarsi, affilarsi. Ella stese le braccia verso di me, tentò sollevarsi, e ricadde sulla sedia. Suo cugino, i medici, le furono tosto dintorno; guardavano ora me, ora lei, e parevano sospettare le cause di quella sua crisi improvvisa. Successe un istante di silenzio. Gli occhi di Fosca, spalancati, immobili, vitrei, non cessarono di affissarmi. Ella si alzò ad un tratto agitata da una contrazione spaventevole, corse verso di me, si afferrò a' miei abiti e proruppe in un grido straziante: - Oh Giorgio, non mi abbandonare, oh mio Giorgio! mio adorato ! Quelle parole, quell'atto erano una confessione troppo eloquente. Suo cugino impallidì, arrossi, tornò ad impallidire; stette un istante immobile come istupidito, paralizzato, fulminato da quella rivelazione, poi si avventò verso Fosca guardandomi con occhi terribili, la strappò con violenza dalle mie braccia, la trascinò verso il suo appartamento; e nel varcare la soglia dell'uscio si rivolse, e mi disse: - Uscite, signore; uscite di questa casa. Ci rivedremo assai presto. Gettai gli occhi smarriti dintorno a me; il sergente di posta, le cameriere erano spariti; i miei commensali si erano alzati, e facevano, mostra di frugare qua e là tra i mobili per cercare i loro berretti e le loro sciabole. Io uscii, mi cacciai giù per le scale colla disperazione nel cuore. XLV. Non so perché fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell'aperta campagna; era già buio e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via, e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguigne, che sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo seguii coll'occhio finché lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto, patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di astrazione simile al sonnambulismo; riacquistai la coscienza di me, mi ricordai di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempia, perché mi pareva che qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa. Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto 1 Fra poco il nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io più d'ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui, quell'uomo onesto, quell'uomo eccellente, colpito della stessa pena che una società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Più ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva posto a legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile. Perché, sarei io stato sì vile da gettare sopra di lei la responsabilità di quell'avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze di quei pregiudizii che lo costringevano a pretendere da me una riparazione palese come l'offesa? No, non v'era a questo riguardo alcuna via di transazione; un duello era inevitabile. Poiché m'ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un poco più tranquillo. Il timore, l'aspettazione di un male, mino un male maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventù non era stata che una lotta continua tra l'istinto tenace della vita e la mania assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell'uomo che sapeva accomodarsi sì bene cogli uomini e coll'esistenza, che era cosi onestamente felice !... quello era un pensiero che mi lacerava il cuore. Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l'amava; i mali che ella aveva cagionato parevano disgiungerci ancora di più. La mia pietà era sì poca viva, che il minimo de' suoi torti bastava a farla tacere. Le mie idee si rischiararono a poco a poco. Non si può durare lungamente sotto l'oppressione di un gran dolore. 11 cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci di quegli affanni. Rientrai nella città. Mi pareva d'essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l'idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara. . 1Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l'avrei abbandonata mai più. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sì lieve, dinanzi alle attrattive di una gioia sì grande e sì durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile. Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimemente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di più, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un'eccezione mostruosa e sventurata. Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll'aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, sa non dopo averle lette dieci o venti volte ; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle. E aveva allora venticinque anni! Ma in quella sera ero troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti per potermi protrarre questo piacere. L'apersi con avida impazienza; ed ecco ciò che conteneva quella lettera terribile: « Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno quella forza che io non ho, e possa non conoscere l'amarezza di quelle lacrime disperate che io verso nello scriverti. Mio buon amico, mio Giorgio, mio angelo, noi dobbiamo vederci mai più, noi dobbiamo lasciarci per sempre. La mia mano vacilla, e il mio cuore s'infrange nello scrivere queste parole. a Ascolta. Sarò breve, ti dirò tutto più concisamente che posso, giacche ogni parola che devo dirti mi trapassa l'anima come una lama. Rovesci di fortuna gravi e improvvisi hanno rovinata la mia famiglia. Mio marito è quasi povero. È necessario che tutto sia mutato nel nostro sistema di vita; che io attenda cella mia vigilanza, colla mia assiduità, forse anche col mio lavoro, a quelle economie che mi impone il mio dovere di moglie e di madre. Mio marito ebbe forse dei torti verso di me; io ne l'ho ben punito. Ad ogni modo, ora che egli è infelice, sento il bisogno di riavvicinarmi a lui e di proteggerlo col mio affetto. La fortuna ha riunito le nostre esistenze, non posso abbandonarlo. Tu stesso, tu mi disprezzeresti. Sono ora otto mesi che ci amiamo. La mia colpa fu lunga, la mia dimenticanza profonda, la mia felicità immensa.

Tutta una vita non basterebbe a scontare questa felicità (poichè la felicità è cosa che si sconta). Come potrei pretendere di essere ancora felice? Come oserei di essere ancora colpevole? Lasciandoci ora, noi ci lasciamo in tutta la pienezza delle nostre illusioni e della

nostra fede; noi porteremo intatte alla tomba queste illusioni che una intimità più durevole avrebbe scolorite o distrutte. La tua memoria riempirà tutta la mia esistenza. Non è il caso Che ci ha separati, è una predestinazione, è una volontà superiore e imperscrutabile. La sventura che mi colpisce ha punito me di una colpa che non potrò mai lavare abbastanza colle mie lacrime; ha tolto dalla tua via un ostacolo che avrebbe certo attraversato a te, giovane, un avvenire che il tuo coraggio e il tuo ingegno ti additano lusinghiero e felice. « Quando pure il mio cuore avesse potuto ribellarsi al sentimento di un dovere che m'impone di dividermi da te, io non avrei mai potuto sottrarmi al disprezzo di coloro che avrebbero penetrato il nostro secreto, alla condanna disonorante di cui la società avrebbe colpito la mia condotta. Mio figlio, l'unico scopo, l'unico affetto legittimo della mia vita, non avrebbe potuto redimersi mai dal disonore ingiusto e crudele che gli sarebbe provenuto dalla mia colpa; egli non avrebbe potuto arricchire il suo cuore di quel dolce sentimento che a voi uomini, già esperti della nostra fatuità, dei nostri errori, spesso anche delle nostre bassezze, fa parere ancora nobile e cara la donna: la pura e santa memoria di una madre. « Si, Giorgio, io sono caduta con facilità, ma devo rialzarmi con coraggio. Mi sono data a te con franchezza, mi ti ritoglierò con pari franchezza; mi farò un'arma della tua stima, della tua ricordanza; adoprerò a nobilitarmi quella stessa forza che mi darà la memoria del nostro passato. i Nella mia vita di otto mesi io fui assai felice... Non ho mai tanto guardato e pensato a questo tempo, come ora che i nostri cuori stanno per dividersi. Un'idea mi conforta e mi inorgoglisce, Nessuno può toglierci questo passato, nessuno può fare che io non t'abbia amato con tutta l'anima mia e che tu mi abbia riamata collo stesso ardore. Questo tesoro di memorie è indistruttibile. Io l'ho celato nelle profondità più segrete della mia anima. È da esso che io attingerò qualche conforto per la mia vita avvenire, misera vita, piena di tristezza e di abbandono, ma abbellita dal sorriso della tua rimembranza; senza questa certezza, dove avrei io trovato la forza di abbandonarti? « Nè noi dobbiamo lasciarci solo come amanti, dobbiamo lasciarci anche come amici, ogni altra relazione tra noi sarebbe fatale; non ci potrebbe ricondurre all'amore perchè nol dovremmo, non legherebbe di più i nostri cuori perché ce ne mostrerebbe quei difetti che l'amore ci aveva nascosti. Quando due creature si sono amate come noi , non possono più amarsi come gli altri; tu fosti tutto per me, non voglio che tu sia poco, preferisco che tu sia nulla. Le anime come le nostre non vivono che di piaceri grandi, o di grandi dolori. Prima di lasciarti ho voluto rivedere tutti quei luoghi che mi parlavano di te (forse io non li rivedrò mai più), ho voluto dare un addio a tutto ciò che il tuo affetto mi aveva reso caro. Nell'immensità del mio dolore, io sono ora quasi tranquilla. Io non ti perdo ; ho raccolto dal nostro passato tante memorie che una lunghissima vita non basterebbe ad esaurirle. « Ora addio. Tu lo vedi. Io ti scrivo piangendo, e non potrei scriverti di più ; le lacrime cancellano le parole, quasi avessero sentimento di pietà e volessero risparmiare a le il dolore di versarne altre nel leggerle. Io non pdteva ingannarti. Poteva essere ancora fra le tue braccia, ma il mio pensiero, il mio cuore sarebbero stati lontani da te. « Il destino che ci separa è inesorabile. Se tu mi hai realmente amata, se ho meritato qualche cosa dal tuo affetto, fa che la tua rassegnazione e la tua virtù mi abbiano a rendere meno terribile il perderti. « Ho lasciato apposta nella tua stanza la mia crocetta di brillanti. Tienila per memoria mia. Sarò felice se mi prometterai di portarla sempre sul tuo cuore. Non ti avrei fatto un altro dono, non avrei osato, ma una croce è simbolo di sacrificio, di abnegazione, di dolore; mi parve che ella avrebbe potuto farti ricordare di me, nella sola maniera in cui desidero che tu abbia a ricordartene. Quel giorno in cui mi lasciasti la prima volta, tu la vedesti brillare sul mio petto, tu la baciasti; vi si vedono oggi ancora le traccie delle nostre lacrime: ho pensato che questa memoria sarebbe stata sacra per te., « Addio ancora. Sii forte, Giorgio, sii ragionevole, non maledirmi. Pensa che soltanto in questo modo io poteva riacquistare la stima di me medesima, non credermi interamente perduta, e tu sii pago di aver amata una donna non affatto indegna di te. Un abbandono più lungo ci avrebbe disgiunti, questo sacrificio ci riunisce. Se io fossi stata libera, mi sarei uccisa per non sopravvivere al nostro amore; esso fu immenso, ma immenso e terribile ne fu il distacco; tu conosci invece i legami che m'impongono di vivere. Ma se io fossi stata libera, ti avrei amato per tutta la vita. « Addio, mio adorato, mia anima (ti chiamerò ancora ' una volta con questi nomi diletti), addio per l'ultima volta, addio per sempre. Mi dicesti un tempo che assomiglio a tua madre, amami in essa e come essa. Il mio affetto, la mia memoria ti seguiranno fino alla tomba. Sii felice, Giorgio, sii onesto; e che il cielo vegli sopra di te. » XLVI. La prima lettura di quel foglio non produsse in me che un senso di sbigottimento profondo. Poggiai i gomiti sul tavolo, la testa fra le mani, e la rilessi due o tre altre volte. Non poteva credere che ciò che aveva letto fosse realmente vero. La prima impressione che ci dà una sventura grande e inattesa è temperata sempre da un sentimento di strana incredulità, la quale ci trae a dubitare delle cose più palesi e reali. Se cosi non fosse, quell'impressione avrebbe spesso il potere di uccidere. Mi provai a fare colle mani alcune pieghe nel mio abito, a pronunciare forte il mio nome, perché mi pareva di non essere più io, o di essere in preda ad una tremenda allucinazione. Mi alzai, e sorrisi non so di che cosa. Incominciai a camminare per la camera a passi accelerati. Senza accorgermene aveva preso in mano la candela ; la mia ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giù per la stanza. Mi arrestai a contemplarla, l'accorciai e la riallungai appressando e allontanando il lume: mi fermai ad un angolo, e guardai attorno alla camera quasi spaventato, vidi vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colla fiamma della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di voluttà quasi crudele. Passando vicino ad uno specchio, vi scorsi riflessa la mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso. Mi provai a sorridere e. a contrarre in mille modi le mie fattezze. Vi fu un istante in cui mi parve che lo specchio riflettesse il viso di un'altra persona che era dietro di me e vi si affacciava curvandosi dietro la mia spalla. Trasalii, e feci atto di rivolgermi ; il lume mi scivolò di mano, cadde e si spense. Quel rumore, quell'oscurità improvvisa mi fecero tornare in me. Lo riaccesi, mi sedetti, tornai a rileggere la lettera di Clara. Ora aveva ben compreso; mi premetti le mani sul cuore e mi abbandonai sulla mia sedia cogli occhi chiusi, quasi sperando che qualche cosa di terribile, di fatale sarebbe successo fra poco, che la casa ove mi trovava sarebbe rovinata, che la terra si sarebbe aperta per inghiottirmi. Non era possibile che ogni cosa in natura continuasse a procedere collo stesso ordine di prima. Sentiva passare le carrozze sulla via, sentiva il cicaleccio dei passeggieri, ma tutto ciò non avrebbe durato più che un istante. La mia felicità era finita, tutto doveva essere finito. In quel momento scoccarono le sette al pendolo della camera ; ogni vibrazione mi parve un colpo di coltello che mi trapassasse il cuore, e mi contorsi e mi raggomitolai gemendo come per difendermi da quei colpi. In quell'orribile confusione di idee che s'era formata dentro di me, una ve n'era ben certa, ben chiara, ben definita : io aveva amato un mostro. Era possibile abbandonarmi cosi ? Potevano esserti in natura ragioni sufficienti a dividere due cuori che si erano amati come i nostri ? Potevano due creature, che erano state sì care l'una all'altra, separarsi e sperare di sopravvivere a questo abbandono? Avrei io mai creduto che il nostro amore avrebbe potuto finire? Avrei io avuto il coraggio pur di pensare a ciò che ella aveva predeciso e compiuto con si facile risolutezza ? No, nè io, nè nessuno. Tal cosa non poteva essere immaginata che da un essere mostruosamente ingrato, mostruosamente crudele. Io aveva amato questo essere. Tutto l'edificio della mia fede era rovinato, tutto era caduto nel fango. Mi immersi e mi smarrii in questi pensieri, di cui non comprendeva allora tutta l'ingiustizia. Mi riscossi sentendomi toccare alla spalla ; guardai: era il dottore. Egli si scostò un poco da me, perchè la sua ombra non m'impedisse di vedere il colonnello che era entrato con lui, e s'era arrestato in piedi nel mezzo della camera. Si appoggiò colle mani allo schienale d'una sedia mi disse: -Immaginerete certo le ragioni che hanno indotto il colonnello a venire da voi. Egli sa che vi sono amico, e mi ha permesso di accompagnarlo. Ho insistito su ciò, perchè spero che le vostre giustificazioni saranno sufficienti ad evitare... -Ma che diavolo dite ! interruppe vivacemente il colonnello. Io non vi ho dato certo questo mandato. E proseguì avvicinandosi a me e piantandomisi ritto dinanzi: -Signore, voi avete abusato bassamente della mia fiducia, siete venuto nella mia casa per disonorarla, mi avete reso ridicolo. Capirete che ciò è tal cosa cui non si può rimediare con delle parole. È necessario che me ne diate una riparazione d'altro genere. Spero che non dovrò costringervi ad accordarmela. -Volete dire? -Noi ci batteremo. -Va bene. Quando? -Domani. -Ma..., interruppe il dottore, io credo..., mi pare che se si facessero prima alcune parole in proposito, non sarebbe gran male; sarebbe possibile intendersi, e... -Via, via, riprese furiosamente il mio avversario, è inutile che insistiate a questo riguardo. Voi non conoscete tutte le minime particolarità di questo fatto, non sapete fino a che punto io fui ingannato. Vi fu un altro miserabile che ha abusato di quella donna..., egli lo sa, ho avuto la debolezza di raccontarglielo. Finora ha saputo sfuggirmi, ma nutro speranza che un giorno o l'altro c'incontreremo. Io non risposi, e continuai a guardare la fiamma del caminetto. -Spero, continuò egli riavvicinandomisi dopo aver fatto alcuni giri per la stanza, che lascerete a me lo stabilire le condizioni di questo scontro. Voi siete il provocato, ma io sono l'offeso. Voi solo sapete fino a che punto mi avete offeso. Abborro questi duelli ridicoli che finiscono con una scalfittura. È necessario che ci battiamo fino a che uno di noi rimanga sul terreno. - Sia, io dissi senza sollevare gli occhi, ho bisogno di uccidere un uomo. Il mio avversario e il dottore mi guardavano meravigliati. -Saprete però, continuò il colonnello, che ciascuno di noi arrischia ad un tempo la sua posizione. La disparità dei nostri gradi ci vieta di batterci. Bisognerebbe che io o voi ci dimettessimo. -Mi dimetterò io, dissi. -Non vorrei però... -Non potete impedirmi di dimettermi, replicai con calma., Come volete. Mi curvai sul tavolo, scrissi la domanda della mia dimissione e gliela porsi. - Restano a stabilirsi l'ora e le condizioni del duello, diss'egli, è troppo tardi perché possiamo affidarne l'incarico ai nostri secondi. Se non avete nulla ad opporre, ci accorderemo noi stessi a questo riguardo; il dottore né sarà testimonio. Io non risposi. -Ci troveremo domattina alle otto, dietro gli spalti del castello. Provvederò io le armi. Non avete osservazioni a fare? -Nessuna. -Allora non v'è altro punto a discutere. Conto sulla vostra parola. Ci rivedremo. E fece atto di uscire. Quando fu presso la soglia dell'uscio tornò indietro, e mi disse con voce più calma : -Qualunque sieno i nostri rapporti attuali, devo ri- chiedervi d'un favore che i vostri sentimenti di gentil i uomo non mi possono rifiutare. Mia cugina non ha serbata memoria alcuna di' ciò che successe oggi... -Ah vostra cugina... interruppi io. Ebbene? -È necessario che essa continui ad ignorarlo, che non sappia nulla di ciò che sta per succedere. L'esito di un duello è incerto, e... -Sì, io dissi alzando il capo e guardandolo in volto per la prima volta dacché era entrato nella stanza, è assai incerto. Io potrei ahche uccidervi, non è vero? -Verissimo, rispose egli un po' turbato, come io potrei uccidere voi. E dopo un momento di silenzio mi chiese: -Mi odiate dunque molto? -Non so, io risposi, ma se non fossi certo che fra poco o ucciderò, o sarò ucciso, mi sarei già buttato sulla via per uccidere qualcun altro. -Vi ho fatto una domanda inopportuna, diss'egli con aria mortificata e sorpresa. Tali sentimenti non mi riguardano. Le nostre convenzioni sono stabilite, e basta. A domani. Ed uscì. Allorchè sentii l'uscio richiudersi dietro di lui, ricaddi sulla mia sedia e proruppi in un pianto dirotto. Il dottore, che era rimasto nella stanza senza che me ne fossi avveduto, mi si avvicinò e mi disse: -Calmatevi. Siete stranamente agitato. È a deplorarsi che quella donna vi abbia condotto a tale estremo, ma chi l'avrebbe preveduto? Questo duello avrebbe potuto essere evitato; il vostro contegno fu calmo, ma provocante. Ora non giova pensarci. Voi l'avete detto, l'esito d'uno scontro è incerto, è follia il preoccuparsene. Io sono afflitto di aver cagionato inconsciamente queste sventure, ma voi sapete che l'ho fatto a fine di bene. Non me ne porterete rancore? -Se io credessi esservi atto meritevole di gratitudine, io dissi, ve ne sarei anzi grato. Ma non parliamo di ciò. Io debbo in questa notte veder Fosca, io l'amo, io voglio renderla felice un istante prima di abbandonarla. Qualunque sia per essere l'esito di quel duello, io non la vedrò mai più. Bisogna che voi la preveniate della mia visita, che ordiniate di lasciarla sola, che mi lasciate passare dalla vostra camera. -Ma è impossibile! esclamò egli. Voi sapete... -No, no, interruppi io con impeto. Voi non vi opporrete, perchò io sono risoluto a vederla in qualunque modo, a qualunque costo. Nemmeno l'idea di una violenza potrebbe arrestarmi. Quella donna mi ha amato, ella sola mi' ha amato veracemente. Non l'abbandonerò senza gettarmi a' suoi piedi e senza ringraziarla colle mie lacrime. -La responsabilità di questa imprudenza, disse il dottore, ricadrà tutta sopra di voi. -Io posso sopportarne delle più terribili... -Non vi riconosco più. Sia come volete. Vi attenderò nella mia stanza. Ora corro a prevenirla. XLYII. Io torno a rivolgermi adesso una domanda che la mia coscienza atterrita mi ripete assiduamente da cinque anni. Sono io responsale di ciò che commisi in quella notte? Aveva io la consapevolezza delle mie azioni? Non so; ricordarmi di quegli avvenimenti con piena esattezza di dettagli è per fermo tal cosa che sembra acusarmi; ma non ci ricordiamo noi anche dei sogni? Prima di quel giorno, dopo, oggi stesso in cui mi rico- nosco sì mutato; mi sarei lasciato vincere a tal punto dalle mie passioni? Ed esistono passioni sì indomabili nel mio carattere? - È uno spaventoso problema che non giungerò forse mai a decifrare. La incertezza della mia responsabilità è il segreto delle mie torture; per essa io sarò infelice per tutta la vita. Che se pure io potessi allontanare da me questa responsabilità orrenda, cesserei per questo di essere la causa di quelle sciagure? La mano che colpisce nel delirio, che uccide nell'impeto della passione, è perciò meno la mano che ha colpito, che ha ucciso? Io ho perduto anche il conforto disperato che mi proveniva da quel dubbio; io sento la mia coscienza fremere e ripiegarsi sotto il peso di questo convincimento terribile. XLVIII. Suonava la mezzanotte quando io entrai nella camera . di Fosca. Ella era inginocchiata a piedi del letto colla testa appoggiata ad una seggiola, in attitudine di preghiera. Non mi udì e non si volse; io mi tenni ritto sulla soglia, immobile, combattuto da mille dubbi, da mille paure, col cuore soffocato dall'angoscia. Girai l'occhio intorno a me, e contemplai con un senso di raccapriccio tutti quegli oggetti che mi ricordavano tanta parte del mio cuore. Colà io aveva vegliato una intera notte al suo fianco, su quella sedia, aveva evocato le dolci memorie di Clara, al fioco barlume di quella lampada aveva accarezzato le lusinghiere promesse d'un avvenire ampio e sereno. Ed ora !... Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto si risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi vide, die' un grido, balzò in piedi, e mi corse incontro colle braccia protese e mi avvinghiò al suo seno palpitante. Il mio cuore fremeva come all'aspetto d'una immensa sciagura. Quell'amplesso fu lungo e penoso. L'emozione ci aveva reso mutoli entrambi. La pallida luce che illuminava la stanza, il crepito lieve del lucignolo, il battito affrettato dei nostri petti, e la calma che vegliava al di fuori davano a quel momento una solennità che cresceva il mio affanno. Feci un moto come per ritrarmi da lei ; ella se ne avvide, ne indovinò il senso, e gettandomi le braccia al collo, piegò il mio capo verso il suo, si sollevò sulla punta dei piedi, accostò le sue labbra arse dalla febbre alle mie labbra, e mi copri di baci brevi, replicati, frenetici. Tutta la sua natura combatteva una terribile lotta di desiderio e di amore; il suo corpo fragile e consumato dal dolore aveva un'energia che m'impauriva. La trassi con dolce violenza presso un divano, e la feci sedere; ío me le posi d'accanto. Mi afferrò le mani, me le strinse con forza, le accostò al suo seno, poi alla bocca fremente. Il suo corpo tremava tutto. -Hai freddo? le domandai commosso. -Ho paura, mi rispose. La guardai in volto meravigliato. -Di che? -Di morire, di non poter reggere all'urto di quest'onda di felicità che mi opprime. Ho pregato il cielo che mi desse la forza che mi manca; poche ore, poche ore sole, e poi la morte; che importa a me di morire quando io abbia vissuto questa notte nelle tue braccia ? Il cielo è generoso, non è vero? Ha pietà di coloro che amano? Non risposi. Fosca proseguì senza badare. - Domani tu dovrai partire, domani io morrò. Ma non é che mezzanotte. Abbiamo sei ore innanzi a noi, sei ore per noi, per noi soli, pel nostro amore; poiché tu mi ami, non è vero? tu me l'hai detto. Mi guardò colle pupille scintillanti di passione. il suo volto pareva illuminato da un entusiasmo gagliardo che ne rendeva meno sgradevole la deformità ; le guance leggermente rosate, i capelli nerissimi ed abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d'ebano, il vivo contrapposto della sua veste di mussola bianca l'assomigliavano ad una visione fantastica ; in quel momento nissuno avrebbe detto che Fosca era assolutamente brutta. lo pensai a Clara, alle menzogne che le avevano guadagnato il mio cuore, all'inganno bassamente concepito e stoltamente svelato... Oh ! si, Fosca soltanto aveva meritato il mio amore, ella sola mi aveva amato, ella che aveva sfidato il ridicolo, il disprezzo, la collera; ella che aveva rinunziato al suo orgoglio di donna, domandando per pietà ciò che le altre danno per debolezza, per vanità o per vizio. - T'amo, le risposi. - Ripetilo. - T'amo. --, Ripetilo ancora. - T'amo. - Oh ! mio Giorgio, mio Giorgio ! Cadde a' miei piedi, mi strinse le ginocchia, e vi nascose la fronte. Quando la risollevò, vidi la sua faccia bagnata di pianto. - Tu soffri ? le chiesi con dolcezza. - No. - Tu piangi ? - Sono lacrime dolci, Tacque, si curvò sopra di me, e coprendosi il volto colle mani continuò a singhiozzare in silenzio. La sollevai da terra, allontanai le sue mani e la baciai sulla bocca. Trasalì, levò gli occhi verso di me, volle parlare, ma gliene venne meno la forza, e si abbandonò nelle mie braccia mormorando il mio nome. - Fosca ! Fosca! Non mi rispose. Trasognato, istupidito, senza mente e senz'anima, io sentiva il suo petto asciutto premere sul mio, la sua faccia appoggiata alla mia faccia, così presso da udire le pulsazioni affrettate delle sue tempia. -Fosca! Fosca l sii forte, sii calma ; io sono tuo, sono tuo, di nissun'altri che tuo. -Di nissun'altri? Ripetilo. Non è un sogno? Oh ! sì, sarò forte, sarò calma ; il tempo è geloso della mia felicità, vedi le freccie di quel pendolo come corrono veloci ! Oh! mio Giorgio, mio Giorgio ! tu sei mio V'era un accento di così selvaggia voluttà nelle sue parole, che il mio cuore si contorse nel seno come un serpente. Quella ripugnanza invincibile che la natura aveva posto fra di noi risorse impetuosa come una corrente per separarci. Un moto, un gesto, una mal frenata contrazione dei miei muscoli le rivelarono forse la mia intenzione, poiché in quel punto sentii i nervi delle sue esili braccia stirarsi come corde e stringermi in un amplesso soffocante. Gridai... si ritrasse, mi abbandonò impaurita, si inginocchiò domandandomi perdono. Abbassai lo sguardo verso di lei; quel volto sfigurato dalle lacrime e dal sentimento eccessivo del piacere, i suoi grandi occhi sporgenti dall'orbita, il tremito del suo corpo, mi rivelarono brutalmente tutto l'orrore della mia posizione. Non era la mia anima, non era la mia volontà; era il sangue, erano le fibre, i muscoli, i nervi che si ribellavano a quell'amplesso. L'immaginazione raddoppiò il mio ribrezzo : ricercai sotto quella veste, sotto quei nastri il suo corpo... Ed avrei io?... Mio Dio ! Mio Dio Oh ! Clara, Clara, perché hai tu ucciso il mio cuore? perchè non posso riconfortarmi del tuo pensiero, della tua memoria ? perchè mi hai lasciato solo colle mie paure, coi miei vaneggiamenti ? perché hai tu posto la maledizione sulle mie labbra che non conoscevano che l'amore ? All'improvviso Fosca tacque, si sollevò, mi guardò in volto e sorrise. -Sono pazza! mi disse: sono pazza! Il mio cuore trabocca di piacere, ed io piango come una sventurata. Andò con passo fermo verso la lampada, la prese e la collocò dinanzi ad uno specchio. Si guardò, gettò indietro con un moto energico della testa il lusso dei suoi capelli nerissimi, e ritornò a me col volto rasserenato. -Sono brutta, mi disse con calma ; le lacrime sono un falso ornamento. -Non è vero, le risposi tanto per liberarmi dal peso del mio silenzio. Tentennò il capo. -A quindici anni le lacrime, a trenta i sorrisi. Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia , arruffò bizzarramente i capelli , e ritornò a me lieta, voluttuosa, tutta profumi, sorrisi e desiderii. -T'amo, mi disse,, e si sedette sulle mie ginocchia incrociando le mani sul mio capo. Pareva così felice, cosi riconoscente, così carezzevole, che se anche il proposito non avesse prevenuto il mio cuore, egli ,si sarebbe arreso ugualmente per un senso irresistibile di pietà. Quella donna mi amava! -Tu parti ? mi domandò qualche istante dopo con accento di melanconia. -domani stesso. -Domani ! E parve raccogliersi a meditare. All'improvviso si riscosse. -Vuoi che io venga teco ? E siccome io non risposi subito, pose una mano sulla mia bocca e mi disse : -Non schermirti; io so bene che noi non possiamo amarci come gli altri uomini. Un giorno, un'ora, un istante, e poi... -E poi ?... -Si muore. Ella disse queste parole con tanta sicurezza, che mio - malgrado sentii un brivido corrermi per le vene. -Qual'è la donna che tu hai amato sopratutte? La guardai meravigliato. -Mia madre. -Non è questo. -Non domandarmi altro. -Voglio saperlo ; è un capriccio; ho i miei capricci anch'io; tutte le donne innamorate ne hanno; tutti gli innamorati li soddisfano. Oggi tu sei il mio innamorato. -Domandami qual'è quella che io amo. -E sia. Qual'è la donna che tu ami sopratutte? -Sei tu. Non si aspettava a questa risposta ; tremò, si fe' rossa in volto dal piacere, e nascose il capo nel mio seno. -Quand'è cosi , prese a dire poco dopo, dammene una prova. La baciai sulla bocca. -Non basta. La baciai ancora. -- Non basta. - Farò ciò che vorrai. Comandami. -Non voglio comandarti. -Desidera. -Nemmeno. -Che ho da fare? -Indovina. Ciò che faresti con una donna che amassi, ciò che hai fatto colle donne che hai amato, ciò che hai fatto con Clara. -Clara ! Tu dici ?... Mio Dio ! Mio Dio ! Perché risuscitava ella questo terribile pensiero in quel momento?... La strinsi al petto con forza, con una forza rabbiosa che aveva apparenza di passione. Ella si abbandonò palpitante senza dir parola. La mia stretta fu lunga ; il suo fragile corpo fremeva fra le mie braccia. -Giorgio, mio Giorgio ! -Sei paga ? -Non ancora. -Non credi dunque al mio amore? -Ci credo, ci credo; spirerei ai tuoi piedi se non ci credessi. Mordimi la guancia. - Perché? -Mordimi la guancia ; tu l'hai fatto con Clara, non lo negare; gettati ai miei piedi, appoggia il tuo capo sulle mie ginocchia. Mi arresi come un fanciullo. Tutte le forze della mia volontà erano domate dall'aspetto di quell'energia. M'inginocchiai a' suoi piedi. Ella batté palma a palma le mani con uno slancio di gioia puerilmente selvaggi" -Così, così... lo vedete, è proprio lui, il mio amore, il mio bello; lui così forte, così grande! Egli domanda la mia pietà, lo vedete, lo vedete ! Passò le mani affilate fra i miei capelli, li attortigliò fra le dita come avrebbe fatto con un bambino, mi lisciò la fronte, mi prodigò cento carezze, mi chiamò con cento nomi teneri. Io taceva e tremava. -Credi nella virtù della donna? mi domandò improvvisamente. Perciò quella domanda? E quale sarebbe stato l'effetto della mia risposta ? Voleva ella darmene una prova ? O piuttosto prevenire il mio disprezzo? Assicurare l'impunità della sua colpa ? -Ci credo, le risposi con un esaltamento che nascondeva assai male la mia convinzione. -Non ti pare che vi possano essere delle circostanze che scusino e legittimino il fallo? Non risposi. La sua intenzione era palese. Ripugnava alla mia dignità d'uomo contrastarle e schermirmi con un sotterfugio da una promessa che il dispetto e l'affanno avevano strappato al mio cuore. Ripugnava alla mia debole natura incoraggiarla con bugiarde lusinghe. Ella mi comprese e tacque. -Parlami di Clara, mi disse poco dopo. E siccome io non rispondeva, aggiunse con accento carezzevole: -Non temere, mio bello, non temere; non ne sono gelosa. Tu non sei più Giorgio per me, sei l'amore, sei il mio sole. Il sole illumina e riscalda; le creature ne fruiscono senza lamentarsi, ne fruiscono benedicendo; tu sei il mio amore, tu sei il mio sole... Tu l'ami, non è vero? -L'ho amata. -Non l'ami più? Sarebbe vero? Oh! grazie, grazie. Non è vero, sai; io ho mentito, non è vero che io non sia gelosa; oggi sono forte, ecco tutto. Vorrei essere l'aria che tu respiri per confondere la mia vita colla tua, distruggere la mia natura per far parte della tua natura. Dimmi ancora che non ami più quella donna. Glielo dissi. -Giuralo. Giurai. Si abbandonò fremente di piacere sopra di me, mormorando parole di desiderio e di preghiera. Il mio cuore era straziato dall'angoscia. Quella creatura selvaggia, resa terribile dalla deformità e dalla malattia, domandava da me l'ultima prova. Lottai contro me stesso, contro la mia natura codarda che si ribellava ad un sagrifizio che io stesso aveva provocato. Se fosse stata Clara! Che dico? Se fosse stata la più vile donnicciuola, io sarei forse caduto ai suoi piedi supplichevole, avrei dimenticato il mio cuore, la mia mente, la mia anima nell'ebbrezza dei sensi. Codardo! Codardo! Nell'impeto generoso che succedette a questo pensiero l'afferrai convulso, la sollevai sulle braccia, la portai in giro per la camera smaniando. Così altre volte, con altro fremito, con altro spasimo, io aveva portato il corpo adorato di Clara! Erano le stesse grida, le stesse parole rotte, lo stesso fruscio di vesti, lo stesso ondeggiare di capelli disciolti, lo stesso profumo inebbriante... Ansante, pallida più del consueto, ella mi scivolò dalle braccia, e si accosciò sul nudo terreno. Me le assisi al fianco. - Ho freddo, mi disse. -Ti riscalderò sul mio seno. -- Come sei bello! come ti amo ! Si levò d'un balzo, corse ad uno stipo, prese un palo di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo: -Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi. E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di recidirli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla. - Hai ragione, mi disse ella, hai ragione; più tardi. Più tardi! Che voleva ella dire? Perché? E poteva io ingannarmi sul significato di quelle parole? Si sarebbe ella prfrata della sua sola bellezza in quel momento? Più tardi! più tardi! Mio Dio! In quella si udì lo scatto d'una molla, poi quattro squilli sonori del pendolo. Quattro ore! Erano passate quattro ore! Levai gli occhi in volto a Fosca e vi lessi lo. stesso pensiero. Feci un moto come per ritrarmi; essa mi afferrò, mi strinse, e con un accento intraducibile d'affanno mormorò alle mie orecchie queste terribili parole: « Sii mio! Sii mio! » Una nebbia mi oscurò l'intelletto, e non ebbi forza di resistere. Ciò che avvenne dopo é così spaventoso che la mia mente ne rifugge inorridita. Due lunghe ore di spasimi, di grida, di promesse, di ritrosie ispirate dal ribrezzo, hanno spezzato la mia natura, hanno sfasciato l'edifizio delle mie memorie e inaridito l'ultima sorgente delle mie speranze... XLIX. Mi trovai nel luogo convenuto presso il castello senza quasi avvedermi d'esservi andato. Non aveva dormito, e mi pareva di non essere ben desto. Il dottore era venuto co' miei secondi, m'aveva cacciato in una carrozza, ed era stato in ciò si pronto e sì puntuale, che eravamo giunti nello stesso istante che il mio avversario. Era una mattina fredda, oscura, nebbiosa ; gli alberi erano carichi di ghiacciuoli che la brezza faceva cadere dai rami ; le campane dei paeselli vicini continuavano a suonare a festa; gruppi di contadini andavano alla città o ne tornavano coi loro canestri; le campagne erano coperte di neve e deserte. Scendemmo nel fossato per una frana che le pioggie avevano prodotto nel terrapieno. Colà non v'era a temere di esser visti. Quel castello, cui tante volte aveva dovuto recarmi con Fosca e che non aveva veduto mai, non era abitato che da pochi coloni; le sue torri screpolate coperte di ficaie selvaggie e di ellere parevano minacciarci di crollare sopra di noi. I nostri secondi convennero che ci fossimo battuti alla sciabola, come arma meno pericolosa. Ciò era per me indifferente. Non perchè non odiassi quell'uomo, ma perchè in quell'istante non aveva coscienza nè dell'altrui pericolo, nè del mio; quella specie di esaltazione, di sonnambolismo che aveva provato in me fino dalla sera precedente era ancora più piena e più profonda. Non vedevo con chiarezza, non avevo che una percezione imperfettissima delle cose che accadevano intorno a me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa alle vene delle tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un tintinnio incessante; provava in tutto il mio corpo quell'impressione che dà non un dolore, ma l'aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti tutta la mia macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere in attesa di qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulmina to. Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della .camicia. Scorreva li presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso. Ci diedero le sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro, misurarono le distanze. Io aveva sul mio avver- sario il vantaggio della statura, egli quello dell'agilità. Era uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi inquieti e vivaci, che non cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia ed una risolutezza che io era ben lungi dall'avere. Fu dato il segnale. Il colonnello tentò subito e con agilità impareggiabile un colpo decisivo, un colpo a bandoliera che io non evitai che in parte ritirandomi. Egli mi squarciò la ,camicia dalla spalla destra fino al fianco sinistro, e mi segnò una lunga scalfittura sul petto. Un orlo di sangue comparve subitamente lungo tutto lo sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e dal canto mio io lo colpii al braccio, ma la rimboccatura della manica rese il mio colpo inoffensivo. Ci ordinarono desistere, esaminarono la mia ferita, ricominciammo. Scambiammo parecchi colpi senza alcun frutto. Io era assai più abile del mio avversario, e se avessi nutrito odio per lui o avessi avuto maggior coscienza del pericolo cui m'esponevo, non avrei trovato difficoltà ad uscirne con vantaggio. Dopo pochi minuti, il colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo. Facemmo un terzo assalto. Io era più che stanco, annoiato; mi limitava alla difesa, e mi difendeva debolmente. Il colonnello aveva riacquistata nuova energia, il dispetto lo aveva, per così dire, ringiovanito, accompagnava ogni colpo con un grido secco e breve come è costume dei duellanti, e tentava ferirmi al petto di punta. Ripetè due o tre volte questo tentativo. La sua ostinazione mi scosse istintivamente dalla mia apatia. v'era nulla di più facile che colpirlo in quel momento con un fendente di testa, nè so come non se ne avvedesse. Colsi l'istante, egli mi si avventò rovesciando indietro il capo, io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a riavventarmi subito prima che avesse avuto tempo di rimettersi in guardia. Lasciai scendere la sciabola leggermente, egli vide il pericolo, deviò a destra, e lo colpii alla spalla. Gettò la sua arma con dispetto, rampognando i suoi secondi di aver acconsentito alla scelta della sciabola, e dicendo che il freddo gl'irrigidiva le mani, e rendevagli impossibile il servirsene liberamente. La sua ferita era, benché profonda, non grave. Insistette perché ci battessimo alla pistola. Nessun consiglio potè distoglierlo da questo proposito. Levammo a sorte cui toccasse sparare primo: la fortuna favorì il mio avversario. Fummo collocati a trenta passi di distanza. Le pareti parallele del fosso, che era angustissimo, davano all'occhio una direzione sì giusta e sì facile, che io mi tenni perduto. Avvicinai la mia arma al petto per coprirne il cuore, e mi collocai un poco di fianco per offrire minor bersaglio possibile. Fu dato il segnale, il colonnello sparò, la palla passò fischiando senza colpirmi. Egli riprese la sua posizione, io distesi il braccio, sparai alla mia volta senza mirare; egli vacillò un istante, lasciò scivolare la pistola di mano e cadde rovesciato. Io non so cosa àvvenisse di me in quell'istante. Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era accorso in mio aiuto. Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore, mi aveva Colto in quell'istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore. L. Dopo quel giorno tutto è oscurità nelle mie memorie; io non appresi che più tardi gli ultimi dettagli di questa tragedia domestica. La morte di Fosca, l'arrivo di mia madre, il ritorno al mio paese natale sono tutti avvenimenti di cui non ho serbato altra ricordanza che quella oscura e confusa di un sogno. Mi sembra talora che tali fatti sieno avvenuti in un'epoca assai remota della mia vita, tale che non può neppure essere circoscritta entro il limite degli anni che ho già vissuto; e sarei tentato di negare fede all'esistenza di questo passato angoscioso, se le traccie che esso ha lasciato nel mio cuore non fossero troppo palese e troppo profonde. Soltanto quattro mesi dopo la catastrofe che ho raccontato, una lettera del dottore mi recava le ultime notizie di quei fatti. « Non vi ho scritto prima perchè sapeva che la vostra malattia vi avrebbe impedito di rispondermi, e forse anche di apprendere il contenuto della mia lettera. Sento che vi siete pressochè ristabilito, e che i vostri accessi nervosi sono anche più miti e più rari. Il vostro medico vi avrà certo assicurato che ne guarirete, io ne impegno la mia parola; questi accessi non hanno alcun carattete epilettico, la vostra debolezza li alimenta, la forza che riacquisterete guarendo li farà cessare. Viaggiate, divagatevi. « Ignoro se lo stato d'animo in cui vi trovavate allora v'abbia permesso di serbar memoria di ciò che avvenne prima della vostra partenza. Fosca mori tre giorni dopo quella notte fatale; morì felice, illusa, soddisfatta; ignara di ciò che avvenne tra voi e suo cugino, convinta che l'ordine della vostra traslocazione aveva reso la vostra partenza inevitabile. « In una scatola che vi spedisco colla ferrovia troverete un involto di seta nera contenente i suoi capelli. Io ve li avrei mandati prima se, sapendovi ancora malato, non avessi temuto di commuovervi fatalmente con questo dono. Saprete certo che ve li mando per incarico suo. « La ferita del colonnello fu grave, non mortale; il proiettile lo colpi pure alla spalla, ma girò l'osso senza fratturarlo. Guarì in quaranta giorni. Il Ministero seppe del duello, e poichè le vostre dimissioni non erano state ancora nè offerte, nè accettate, lo costrinse a chiedere il suo collocamento in ritiro. Egli è partito pochi giorni or sono per Suez, ove gli fu offerto un impiego d'ingegnere civile nei lavori del taglio dell'istmo. Io gli avrei parlato volontieri di voi, e avrei voluto convincerlo della vostra innocenza ; ma queste sue ultime sciagure lo avevano reso si sospettoso e sì ingiusto, che avrei temuto di nuocere alla vostra causa anzichè di favorirla. D'altronde è assai probabile che non abbiate più a rivederlo. « Ho fede che la vostra coscienza non mi avrà scagliata mai alcuna parola di rimprovero per l'influenza fatale che ebbi in queste vostre sventure; nondimeno ho bisogno che me ne assicuriate; voi sapete se io ho pensato alla vostra felicità, e se mi stette a cuore il procurarvela. « Non so se ci vedremo ancora, nè quando (ci hanno sbalzati all'altro capo dell'Italia), ma se ciò avverrà, spero che vi vedrò mutato. La vita, la gioventù, il cuore hanno i loro diritti; voi li avevate anche troppo sacrificati. Distaccatevi dal passato, gettatevi in questo grande avvenire che vi attende. La coscienza è codarda essa si atterrisce spesso di mali che non commise, o che non potea non commettere. Una cieca fatalità muove e dirige le azioni di tutti gli uomini; non date loro maggiore responsabilità di quella che vi assegnano i limiti ristrettissimi del vostro arbitrio. Addio, mio buon amico, possiate essere felice, e non farvi rimprovero d'una sciagura di cui non siete stato che uno strumento. » I. U. TARCHETTI AMORE NELL'ARTE LORENZO ALVIATI L'amore non é una potenza indisciplinabile. Come ogni altra forza naturale, dà una presa alla volontà, all'arte, la quale, checché se ne dica, lo crea facIllssimamente e facilmente lo modifica, mediante gli ambienti, le circostanze estrinseche e le abitudini. G. MIOHELET. Lo conobbi nel collegio di Valenza. Io aveva allora quattordici anni, egli ne aveva diciassette compiuti, ma il suo corpo erasi già sviluppato come a venti; in quella scolaresca di fanciulli egli rappresentava, colla sua statura elevata, colla sua testa di Apollo , un personaggio assai più imponente del maestro. Quell'immagine mi richiama le memorie più dolci e più pure della mia fanciullezza, mi evoca scene obliate da lunghi anni, rimembranze confuse, sulle quali il mio pensiero non sa tanto arrestarsi e scrutàre da ritesserne intatta la tela. Difficilmente la nostra memoria ha la virtù di evocare un passato di quindici anni; ma spesso in quelle tenebre che lo circondano rimane un filo di luce che ci guida a rintracciare le gioie; spesso basta il profumo d'un fiore, un filo d'acqua, un suono, un nome, una fronda, per richiamarci le immagini di alcuni affetti, le circo- stanze di alcuni avvenimenti che si erano dimenticati da anni. Ma sono scene che l'intelletto illumina ad intervalli, a bagliori; quell'edificio si sfascia ricostruendolo; la memoria evoca e passa, poichè nella lotta che noi combattiamo col dolore non ci schermiamo che dal dolore dell'istante: nessuno potrà lottare ad un tempo colle sofferenze riunite di tutta una vita. Non vi è mai accaduto di trattenervi in quelle lunghe notti d'inverno a meditare vicino al focolare, e, rimescolando le ceneri già fredde, rinvenirvi un piccolo carbone ancora acceso? Lo avreste veduto brillare in quel momento d'uno splendore vivissimo, ma subito impallidire ed estinguersi al contatto di quella luce a cui si era sottratto per sempre. Cosi è delle memorie. Esse non si arrestano più d'un istante ; esse ricompariscono e fuggono; la loro apparizione è simile, nel mondo immaginario, all'apparizione fantastica dei trapassati: si mostrano e si dileguano , splendono come un baleno nella notte dell'intelligenza e si estinguono. E che cosa sono in fatto le memorie se non le reliquie della nostra vita morale, le sue salme, i suoi morti? È strano come la maggior parte degli uomini consideri la vita come un avvenimento continuato, e non s'avveda come noi moriamo ogni giorno, come seppelliamo ogni sera una parte di noi, anzi la nostra intera esistenza morale, poichè la sola vita fisica costituisce, nella sua decadenza progressiva, un fatto isolato e compiuto. E quante vite non abbiamo noi sepolte prima di morire! su quante care esistenze di un giorno non dobbiamo noi piangere! speranze, affetti, piaceri, nobili aspirazioni alla virtù, ebbrezze ineffabili dell'amore... a trent'anni la vita non è più che un immenso cimitero, sulle cui tombe noi veniamo a lamentare le gioie dell'esistenza che ci è sfuggita, e l'aridità dell'esistenza che ci rimane. - Dolci e serene memorie del- l'infanzia, voi formate tutto il segreto de' miei affetti, tutto il tesoro delle mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi almeno un istante, per riabellire del vostro sorriso fugace questi miei giorni sconsolati e sofferenti ! Povero Lorenzo! E parmi di rivederlo là sotto quei pioppi, ove venivamo a riposarci dalle nostre passeggiate delle vacanze. Là il Po si allarga e forma alcuni seni incantevoli circondati da alberi secolari. Uscendo pieno ed unito dalle gole dei colli , si versa e si dilata nella pianura, ove le sue acque creano una vegetazione rigogliosa, e le rapide selvette dei salici, i cui fusti riuniti e raggruppati dai rovi e dai lentischi, coprono gli stessi sabbioni delle rive. Non un eco, non un grido sotto quei pioppi maestosi e giganti, le cui sommità riunite come un immenso padiglione ti nascondono spesso la vista del cielo. Nel meriggio dei giorni canicolari tu non v'intendi che il ronzìo delle ali delle libellule o delle mosche dorate, e solo nel mattino il lamento malinconico del cuculo ne risveglia gli echi più lontani e sonori. Allorché quei lunghi fusti giganti, coperti dei loro ampi mantelli di licheni , emergono colla loro bianchezza dalle prime ombre della notte, sembrano acquistare forme o movenze di fantasmi; un mistero ineffabile di malinconia si diffonde per-tutti quei luoghi; la natura vi siede mesta, quasi ritrosa, e vi crea nel silenzio i prodigi più meravigliosi della sua vegetazione. Vi sono infatti delle foglie grandi come ventagli, dei convolvoli ampii come le ninfee, dei livertizii che s'innalzano coi loro fusti tortuosi fino alle sommità più elevante degli alberi. E dove le sorgenti si dilatano in qualche seno e formano alcune bolle o alcuni canali , l'acqua si cinge tutto all'intorno come di una corona, e sono masse di piccoli fiori bianchi simile alle margherite dei prati; ma l'onda vi ha la trasparenza del cristallo, e vi si vedono andare e venire frotte timorose di pesci, mentre la luce riflette nel fondo sabbioso le forme singolari dei ragni ballerini che nuotano colle loro lunghe gambe su quell'immobile superficie d'argento. Ritornando alle memorie più remote che la mia anima ha conservate di Lorenzo, mi si affacciano per le prime queste scene incantevoli della natura, che furono testimonii dei nostri dolori e delle nostre prime confidenze. Per un rapporto misterioso tra la natura degli esseri e la nostra natura spirituale, quasi sempre il carattere degli uomini si informa a quelle impressioni esterne che lo hanno colpito nei primi anni della vita. Le nostre idee, le nostre aspirazioni, i nostri giudizii avranno sempre un rapporto esatto , benchè incomprensibile , colla natura dei luoghi e delle cose che furono testimonia della nostra infanzia. lo sento che vi ha in me, nella mia indole qualche cosa di quel teatro della mia fanciullezza, di quei campi, di quelle acque, di quella vegetazione; in certi miei sentimenti parmi di scorgere un rapporto ben definito col profumo di certi fiori, colle loro tinte, coll'azzurro melanconico di quel cielo. Tali fenomeni, non che gli altri tutti della nostra natura, si manifestano, io credo, in tutti gli uomini; e se molti tra essi non se n'avvedono, è perché la lorò indole non li porta a meditare su sè medesimi; ma io penso che essi tutti sieno o possano essere poeti ad un modo: tutti subiscono le stesse impressioni, concepiscono le medesime idee; la diversità del loro valore sta nella diversità dell'espressione, nella forma - la letteratura non è che arte - noi vediamo che uomini turpi nella loro vita privata scrissero pagine sublimi; uomini sublimi per domestiche e sociali virtù, non seppero costrurre un periodo secondo le esigenze dei rettori. Se ciò non fosse, come avviene che un libro è inteso da tutti? trova un co in tutti i cuori? Lorenzo ed io ci amavamo di un affetto ardentissimo; ma il suo amore sentiva quasi della paternità, ed egli si tratteneva meco come avrebbe fatto con un fanciullo; le sue confidenze erano affettuose, piene, espansive; ma egli pareva rivolgerle a sè più che a me stesso; non pareva chiedere a me che di essere ammirato o compianto. Nè io indovinava allora perchè avrei dovuto compiangerlo: mi sfuggiva il segreto de' suoi dolori - giovine , vigoroso, intelligente, libero come il suo pensiero, padrone di vagare a suo talento per quelle campagne , di contemplarvi tutte le mattine il sorgere del sole, di cercarvi a sua posta dei nidi, di farvi una colazione sull'erba, di sottrarsi, quando il volesse, alla dura tirannia dello studio - tutto ciò mi parea troppo dolce perchè io potessi crederlo sventurato, perché non vi fosse tra noi chi non avrebbe mutata la sua sorte con esso. I fanciulli, più che ogni altro, sono avidi della propria libertà, nè smarriscono questo amore che in proporzione delle abitudini che devono contrarre vivendo. La vita sociale è una lotta che espelle a dramma a dramma la natura dagli uomini, fino alla completa trasformazione dei loro caratteri. Le disillusioni, gli inganni, le cure, le lunghe infermità dello spirito, l'ipocondria, le terribili prerogative dello scetticismo e del dubbio non esistono nello stato naturale: esse non sono che un prodotto nella società. Nessuna legge havvi nella natura la quale ci faccia conoscere che il corpo e lo spirito debbono invecchiare ad un tempo, partecipando alle stesse fasi di decadenza : nulla potrebbe corrompere in essa la verginità primitiva dei nostri pensieri e delle nostre aspirazioni; in essa la vita non potrebbe essere che una fanciullezza eterna, che una giovinezza perenne. Lorenzo era nato in un piccolo villaggio del Piemonte. Suo padre, costruttore e suonatore di organi, era venuto con lui, ancora bambino, a stabilirsi in una grande fattoria, di cui aveva come ereditato, per titolo di parentela, il diritto e i vantaggi dell'amministrazione dall'amministratore defunto. Quel vasto stabilimento era situato sulla riva destra del Po in una posizione incantevole. Lorenzo vi aveva passato la sua infanzia, e non era stato mandato alle scuole che a dodici anni compiuti. Suo padre aveva preferito valersene fino a quell'età per i servigi che poteva prestargli nel suo mestiere; e poiché egli era uno dei più vaghi fanciulli dei dintorni, inorgoglivasi di condurselo seco a tutte le feste dei paesi vicini, ove egli suonava nelle chiese ed ove il suo giovine allievo era incaricato di muovere i mantici degli organi. Ma dopo alcuni anni quest'umile attribuzione era divenuta tediosa a Lorenzo: egli aveva già appreso da suo padre i primi erudimenti della musica, e aveva voluto ribellarsi a quella schiavitù che non lo rendeva che uno strumento dell'arte, che lo condannava a ignorarne per sempre i segreti. Non era artista, ma voleva divenirlo; non ne aveva il genio, ma lo presentiva. Egli aveva conosciuto che doveva in qualche modo dirozzare la propria intelligenza, apprendere a frenare i trasporti della sua natura impetuosa e selvaggia prima di abbandonarsi allo studio dell'armonia, allo studio di un'arte in cui tutto è raccoglimento e pensiero; si era perciò deciso di frequentare le scuole, e fu allora che io lo tveva conosciuto a Valenza. Pochi fanciulli si erano sviluppati come lui a dodici anni. Lorenzo attraversava il Po a nuoto quando era gonfio, prendeva i nidi delle ghiandaie sulle punte più elevate dei pioppi, raggiungeva le lontre alla corsa, aveva disegni e ardimenti proprii di un'età più matura; onde soffriva di quell'inazione a cui lo condannavano le 'discipline dello studio. Non vi si dedicò che per cinque anni, e a malincuore: si sarebbe detto che egli vi interveniva per una violenza che la sua mente esercitava sulla sua natura, per una forza di volizione straordinaria: la sua intelligenza era aperta, forte, serena: dopo un anno di studio egli ci aveva raggiunti, poco dopo ci aveva superati, e in breve tempo eragli rimasto più nulla da apprendere di quelle aride e sterili cognizioni, di cui si era sempre pasciuto lo spirito, e impicciolite e ingannate le nobili aspirazioni della gioventù nelle scuole. Tutto era stato precoce in lui; la natura vi aveva sviluppato l'uomo prima del fanciullo; alla sfrenata vivacità d'un istante era successa una calma pensierosa e profonda; tutta la potenza della sua vitalità si era trasfusa nell'operosità febbrile dello spirito; si sarebbe detto che quella vita, che appariva in lui come raddoppiata, fosse pur duplice nella forza e nella celerità della sua azione. Ed egli lo sentiva; egli aveva forse il presagio di un'esistenza breve e affannosa, e affrettavasi a trasvolare con rapidità sull'oceano de' suoi dolori e delle sue gioie. E infatti tutte le anime elette, tutte le intelligenze elevate hanno provato questa impazienza tormentosa, quest'avidità irresistibile dell'avvenire, questo bisogno di pascere lo spirito delle dolci seduzioni dell'ignoto. Oh potessi divorarmi la vita 1 È il voto, è l'esclamazione di tutte le intelligenze superiori : voto e aspirazione eloquente, che rialza un lembo della mistica cortina del futuro, che le riconforta e le rassicura del loro destino immortale. Nate per l'eternità, esse sentono il peso del finito, e anelano di spezzare i legami della materia che le incatena e le opprime. Un giorno Lorenzo si avvide che le sue guance in- cominciavano a portare i segni della pubertà, e che in mezzo a noi tutti, egli appariva troppo discorde d'anni e di cuore per rimanersene ancora in quella spensierata società di fanciulli. Ci strinse la mano e ci disse addio lo avremmo riveduto ne' suoi boschi, e chi sa... forse lo avremmo anche incontrato in quella vita sconosciuta e svariata che ci rimaneva a percorrere. Ci separammo con delle lacrime. Sei anni dopo io aveva compiuto i miei studii, e stava per abbandonare il collegio, quando mi sovvenni'di Lorenzo che non aveva più' riveduto durante tutto quel tempo, e pensai che egli mi avrebbe abbracciato volentieri, e che separandomi allora da lui avrei dato anche un addio affettuoso, quasi più colmo, più intero, alla mia fanciullezza, a' miei sogni, a quel mondo sì lusinghiero e sì dolce dal quale stava per dividermi per sempre. Belle colline del Po, dove io non aveva che venti anni, e che attraversai in quell'incantevole mattino di agosto per recarmi alla casa di Lorenzo ! Ripasserò io ancora quei colli in un mattino si delizioso come quello? e potrò io ripassarli con venti anni soltanto? Era lui: seduto presso una siepe di tarpino, leggeva ad alta voce Le Vite di Plutarco; mi riconobbe da lontano, si alzò, mi raggiunse e mi gettò le braccia al collo, esclamando: - Mio caro amico, mio caro fanciullo ! Fui colpito da questa parola: fanciullo. Era sempre quella superiorità d'anni, d'intelligenza e di cuore che aveva dimostrata nel collegio; ma era una dolce superiorità che non sentiva dell'orgoglio, che non voleva esser tale che per amare e proteggere ; era l'espressione di quell'elevatezza morale che tutti gli uomini acquistano più o meno coll'esercizio delle passioni e del dolore. Allorchè due persone s'incontrano per la prima volta ha luogo tra le loro anime una lotta tacita e ostinata, il cui esito è quasi sempre immediato, e per la quale una di essa si eleva ed impone, l'altra si sottomette e obbedisce. Vi sono delle anime orgogliose che contendono a lungo la loro supremazia, e non potendo serbarla, fuggono dalla lotta ; vi sono delle anime dolci che vi si abbandonano volonterose, che si affidano a un'altr'anima sorella, e gioiscono di questa dolce sottomissione. Tali sono la maggior parte delle donne coll'uomo, tale era io con Lorenzo. Ma quando pure non l'avessi conosciuto che in quell'istante, avrei potuto esitare ad abbandonargli tutto me stesso, come ad un fratello o ad un padre? Vi era qualche cosa di affascinante nel suo viso, qualche cosa di magnetico nel suo sguardo; il suono della sua voce era dolce e severo ad un tempo; i suoi modi affettuosi, ma energici, la sua persona bella e aitante; e poi quella sua testa di Giove, que' suoi occhi neri e inquieti, quelle linee maestose del suo viso, quelle ciocche massiccio di capelli, mi davano l'idea di una di quelle divinità greche scolpite da Fidia, di cui il tempo ha come paralizzati i rigidi lineamenti del volto. Se la natura mi avesse creato donna, avrei trascorsa la mia vita a' suoi piedi. Passammo insieme un giorno felice; andammo a risalutare quei boschi, quelle siepi, quelle campagne; risalimmo a nuoto la corrente: la natura era tutta una festa ; pareva sollevarsi da tutto il creato una voce che dicesse : - Amate, esultate, folleggiate, tutto è vostro quanto vi circonda, inebbriatevi di me, benedite alla gioventù ed all'amore! Tornammo silenziosi, raccolti, oppressi da quell'esuberanza di affetti e di memorie che la natura aveva versato nelle nostre anime... Ma quel silenzio di Lorenzo racchiudeva in sè qualche cosa di più opprimente • che non fossero le sole rimembranze del nostro passato. Come avviene di tutte le costituzioni irritabili e pronte, egli si era trasformato in un istante: era ritornato fanciullo, aveva folleggiato meco tra i boschi, sugli argini, tra le fresche correnti del fiume; ma ora la meditazione lo aveva richiamato a sè, e la natura aveva ripreso il suo dominio abituale e imperioso. Gli chiesi che avesse. Egli mi abbracciò con trasporto e mi disse: - Ti narrerò tutto stasera; se tu sapessi quale trasformazione ha subito in questi anni il mio carattere; come tutto mi apparisce disprezzevole e vano; come la mia anima, elevandosi ad investigare il destino umano, e creandosi una vita in sè, è rimasta imponente e isolata nella gran vita che le si agita d'attorno. Speranze, amori, piaceri, tutto si è trasformato per me, tutto si è concretizzato in una sola idea, tutto ha assunto un solo carattere, una sola legge, una sola rivelazione, quella dell'arte. Essa ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia immaginazione sì feconda, la mia sensitività sì sofferente e si viva, il mio orgoglio si esigente e severo, che io mi trovo collocato quaggiù come in un mondo strano ed inesplicabile, di cui non giungo a percepire nè la natura nè il fine. L'arte mi ha creato un mondo - essa sola - e se io potessi popolarlo colle creature della mia fantasia, dar loro forma e esistenza, vivere con esse e per esse, non avrei più nulla a rimpiangere del mio destino; ma ohimè I nulla esiste quaggiù tranne che l'ideale, e l'ideale è l'ombra, è il fantasma, la parodìa; - la realtà che noi ci affanniamo di raggiungere è oltre la vita. Egli tacque, ed era mesto; io lo contemplava tacendo; egli appresentava in quell'istante per me una di quelle creature straordinarie in cui la bellezza fisica e la bellezza morale rivaleggiano, e l'una presta all'altra una forma sensibile, e l'altra vi si rileva vestendola della sua espressione celeste. Ritornammo alla fattoria, che le prime ombre della notte si disegnavano su quelle vaste lande di arena lasciate asciutte dall'acqua; il cielo si andava qua e là popolando di stelle; alcuni fuochi fatui brillavano in quei seni dove l'acqua stagnante aveva raccolte e corrotte le alghe; gli uccelli ànnidati sulle quercie mormoravano strane voci dai loro nidi, i cani si rispondevano dalle valli, e gli ultimi rintocchi dell'avemaria, cosi prolungati dagli echi e dai venti, sembravano gemere su quel non so che di funerario e di triste di cui si veste la natura nel piangere la sua morte di un giorno. Lorenzo ed io ci tenevamo per mano camminando; spesso le nostre dita si allentavano o si stringevano convulse; le nostre sensazioni erano divenute comuni, le nostre vite si effondevano l'una nell'altra, e noi lo sentivamo tacendo... Oh come è nobile la gioventù, come è potente nelle sue concessioni, come è generosa e severa! E perchè la natura ci ripudia a trent'anni? Perché quegli alberi, quelle montagne, quegli astri non hanno più una voce per noi? Ogni uomo è artista, è poeta nei primi anni della vita; è un arido egoista negli ultimi; e quei pochi esseri che un'eccessiva sensibilità ha condannati a rimanere eternamente fanciulli, errano smarriti nel mondo, sbattuti come un fragile schifo su questo oceano tempestoso della vita. È la società? è la natura? Domandiamolo a noi stessi, noi che non abbiamo più che il conforto disperato del dubbio, ma spargiamo di fiori il sentiero della gioventù, inebbriamola di amore e di illusioni; non riveliamo ad essa questa terribile verità, che ogni uomo che è giunto a trent'anni è già sopravvissuto a sè stesso. Era un suono delicato e lamentevole, un arpeggiare sommesso di pianoforte, forse una dì quelle celesti melodie di Schubert che non si odono mai senza piangere. - Ascoltiamo, mi disse Lorenzo - e ci sedemmo sul limitare della porta - è Adalgisa che suona: essa non ha cantato più da tre giorni, certo la povera fanciulla è sofferente, e la sua malattia glielo avrà vietato. - Chi è dessa? gli chiesi commosso dalle note melanconiche di quella musica. - Una donna che mi ama, diss'egli, una creatura sventurata; oserei dire un angelo, se le triste passioni che si sviluppano colla materia non ne contaminassero la natura privilegiata e celeste. L'infelice, aggiunse Lorenzo, è travagliata da una malattia terribile, la cui azione è dolce, lenta, sicura, mortale senza nulla svelarle della morte, dall'etisia: questa infermità non è che uno svolgersi più rapido della vita, in cui tutte le nostre facoltà si moltiplicano e si consumano nella attività straordinaria della loro azione. L'anima dell'etico acquista facoltà di nuovi e grandiosi concepimenti; la sua sensibilità è squisita, la bellezza delle sue forme incantevole, l'espressione e la mollezza dei suoi profili ineffabile. Adalgisa aggiunge alla sua avvenenza naturale le fatali attrattive di questa infermità. - E tu l'ami? gli chiesi. Lorenzo stette un istante pensieroso, poi mi disse risoluto: - Non l'amo; o almeno, aggiunse correggendosi, non l'amo di quell'amore che si concepisce quaggiù dagli uomini. Dopo che una fatale avidità di lanciarmi nell'avvenire mi ha fatto conoscere quali frutti maturassero sull'albero della vita e mi ha allettato a raccoglierli, la mia anima ha sentita la vanità di questi piaceri ; essa ha compreso l'avvilimento che le ne proveniva fruendone, e si è formato un ideale di purità e di perfezione moralé, a cui dirigere tutte le sue aspirazioni e i suoi voti. Non credo alla donna, diss'egli, non ne ammiro che la bellezza incantevole delle forme; non credo all'amore, non ho fede che nel godimento che ne deriva. L'amore di un'anima elevata, quello sforzo che ella compie per avvicinarsi alla divinità col culto del buono e del bello, non può essere diretto ad una creatura la quale non può darvi che della voluttà, la più vana di tutte le sensazioni; non può essere rivolto al conseguimento di un piacere che vi degrada. L'amore ha tale scopo nella donna; esso non può essere concepito da lei disgiunto da questo fine, come da quella che vi è portata dall'istinto della maternità e da una minore elevatezza di concezioni, di aspirazioni e d'ingegno. Vi ha oltre a ciò nella donna un dolce sentimento di sottomissione, un delicato desiderio di confortare di gioie e di piaceri la vita dell'uomo che l'ha scelta a compagna - gioie e piaceri che ella non può, che ella non sa offrire che offrendosi. - La perfezione maggiore del suo essere, l'irritabilità della sua costituzione la rendono più atta a sentire i piaceri e più avida a procurarseli; ed è perciò che la natura ha collocato in lei una dose più grande di pudore, che non è che una ipocrisia della sensualità, e che non ha altro scoro che di frenare le ingenue rivelazioni dell'istinto. Ma perché tu comprenda tutto ciò, diss'egli, perché tu intenda come quell'amore dell'ideale che ci infiamma nei primi anni della giovinezza, e ci guida a porgere un omaggio alla virtù come linguaggio del bello, al bello come rivelazione del buono, escludendo ogni appetenza di godimento, per ciò solo che noi siamo ancora dominati dal sentimento dell'arte e della poesia, sentimento innato nell'uomo, possa cosi miseramente trasformarsi e rivolgersi al culto esclusivo del piacere, è d'uopo che io t'accenni quella triste esperienza della vita che mi fu dato di raccogliere nei primi anni della nostra separazione. Spesso i fiori che intrecciano la nostra corona non si distaccano che per opera di quella mano alla quale era dato di aggiungerne, non si avvizziscono che per ciò solo, che noi li avvolgiamo nell'atmosfera velenosa delle nostre passioni, e per un frutto amaro della terra non esitiamo a contaminarli nel fango. Morto mio padre, io mi sono avventurato nella vita, nella vita agitata, clamorosa, elegante; nei grandi centri ove la mia gioventù e la mia arte mi avevano aperta una via. Mio padre aveva accumulate molte ricchezze durante la sua vita operosa e modesta: un giorno mi trovai solo nel mondo, ma mi trovai dovizioso: aveva tributato alla mia arte otto anni di studii indefessi: le prime creazioni del mio genio mi avevano dato fama di artista valente; aveva ventidue anni, il mio volto era l'espressione fedele della mia anima, e la mia anima era nobile e pura; avevo del coraggio e del cuore, e mi gettai risoluto nell'avvenire. Questo battesimo sociale che chiude la vecchia vita e ce ne riapre una nuova, apporta spesso con sè molte gioie e molti dolori. Io non ebbi che dolori. Non era la mia anima suscettibile di provare la gioia? Forse lo era, ma non per quella presso la quale si affannano tutti gli uomini. I tripudii del mondo erano troppo o troppo poco per me; mi opprimevano e mi lasciavano un gran vuoto nel cuore: più io correva verso di loro, e più me ne trovava lontano; avrei voluto vedervi un'entità, una cosa concreta, uno scopo, un soddisfacimento nobile e pieno, e non vi vedeva che il nulla. Amai. Chi non ha amato o non ama ? Era stato il de- lino della mia gioventù, il sogno di tante notti, lo scopo della mia arte. Predispormi coll'arte all'amore, prepararmi l'animo ad accogliere questo sentimento e a sentirlo, ingigantirmene l'ideale, rivestirlo di tutte le illusioni, di tutte le parvenze possibili, ecco ciò che io aveva vagheggiato nel silenzio di questo ritiro prima di avventurarmi nel mondo. Ma gli uomini tutti e la gioventù sovratutto, credono che lo scopo dell'amore sia la donna, non distinguono tra il sentimento e la sensazione, fanno di queste due cose disparatissime una cosa sola, e chiedono più tardi a sè stessi: « Che cosa era l'amore? » Avrebbero dovuto chiedere: « Che cosa era la donna ? » Io pure ho ingannato me medesimo: ho creduto che tale fosse lo scopo di questo sentimento e mi affrettai a raggiungerlo. Mi era creato di esso un ideale abbagliante, lo aveva vagheggiato per tanti anni, non aveva mai dubitato di realizzarlo; e quando aveva abbandonato. per sempre la casa di mio padre, aveva detto a me stesso: — Avrò anch'io un amore. Ohimè, io non sapeva che un artista non può amare che l'amore, che due affetti sono troppo per esso, che quell'ideale che egli si è creato, non è che l'ideale dell'arte, che nessuna creatura al mondo può renderglielo in tutta la sua sublimità, può possederne tutte le forme e i colori. Ma che cosa è l'arte? È dessa che ci conduce all'amore, o è l'amore che ci conduce all'arte? quale dei due è Pessenia e quale è la forma? quale è quello che rivela e quale è Quello che è rivelato? Non ho potuto comprenderlo ancora; egli è però ben certo che ogni grande anima si è manifestata coll'arté, e che. nessuna di esse ha potuto sottrarsi al dominio dell'amore. Ho amato anch'io una donna, una creatura non migliore e non peggiore delle altre, un essere vago e felice, quali ne incontriamo spesso nel mondo - esseri che sorvolano su tutto, che amano tutto, che spargono delle rose su tutto; che versano delle lacrime e non piangono, che sorridono e non gioiscono, che non potrebbero essere felici e lo sono. Si chiamava Regina, aveva vent'anni ed era vedova. Viveva sola, aveva blasoni e livree, aveva ammiratori ed amici, aveva arredi e palazzo da sultana, era superbamente bella e orgogliosa. L'aveva veduta e l'aveva segretamente ammirata, mi pareva che la sua avvenenza avesse sorpassato la bellezza di quel tipo immaginario che io portava meco nel cuore; mi pareva che il suo amore avrebbe dovuto colmare ad esuberanza quel vuoto che io sentiva in me da gran tempo. Volli ispirare dell'affetto e l'ottenni, volli smarrirmi nella mia passione e lo feci..., non ne ritrassi che amarezza e sconforti. La vedeva ogni giorno lungo i viali cavalcare colla spigliatezza d'un giocoliere e coll'ardimento di una amazzone sorridere e pure atteggiarsi a mestizia. Era sempre sola, un palafreniere la seguiva da lontano; e quando io passava presso di lei mi fissava in volto gli occhi con espressione di affetto indicibile. Ne fui presto ammaliato; era il 'mio primo amore - il mio ultimo - mi vi abbandonai come un fanciullo. M'incontrava con lei ogni giorno durante le sue passeggiate; e benchè non avessi osato o potuto dirle il mio amore, e benchè ella del paro mi avesse tutto taciuto, nessuno di noi due ignorava di essere amato, e non attendeva che l'occasione di accertarsene. Anche questa occasione venne. lo aveva dato una sera un concerto e vi era stato applaudito: il teatro era affollatissimo, l'uditorio silenzioso ed intento, io stesso agitato da una com- mozione indicibile; era giovane e artista, e aveva destato in tutti gli animi un interesse profondo, una viva ammirazione di me: il mio trionfo era stato felice, ma non era stato meno completo; mi erano stati gettati dei fiori, molte signore si erano tolte dai capelli le loro camelie e le avevano lasciate cadere sul palco: io ne aveva raccolto una parte, quando nell'alzare lo sguardo scorsi Regina che mi gettava colla sua piccola mano coperta dal guanto un ricco mazzo di fiori. Rimasi indicibilmente confuso; accennai appena del capo in atto di ringraziamento, e mi ritrassi stringendomi al seno quel dono. Quando fui nella mia camera, nell'appressare alle labbra quel mazzo, vi scorsi un piccolo brano di carta arrotolata. Lo svolsi, era un foglietto da taccuino dorato nei margini, su cui ella aveva scritte colla matita queste parole: « Siete degno del mio amore, e ve ne ringrazio. Vi posso scrivere queste righe perchè sono sola, e posso farlo perchè ho dell'affetto per voi. Voi siete un grande uomo, ma avete la timidità di un fanciullo: venite domani a ringraziarmi di questa lettera. « REGINA. Rimasi profondamente impressionato da quella lettera. Non era cosi che io avrei voluto conoscere di essere riamato; quelle parole non mi rivelavano quell'amore casto, esitante, ritroso, che aveva desiderato di scorgere in lei, che aveva sentito fino allora in me stesso. Non conosceva ancora il linguaggio e gli ardimenti di una passione sensuale, ma ne aveva avuto in quelle parole una intuizione piena e scoraggiante. Cercava un amore puro, quell'amore che tutti gli uomini cercano a vent'anni, e non vi trovava che un amore di progetto, un amore già quasi colpevole nella prima, nella più timida, nella più santa delle sue rivelazioni. Ne era turbato; avrei voluto trovare in me la forza di non andarvi, ma mi sentiva sì debole anche dinanzi a quell'affetto, che mi era impossibile combattere il mio cuore. La natura e l'istinto trionfavano. Io ignorava che le espressioni di quel foglio erano il linguaggio esatto di un sentimento, intorno al quale gli uomini si formano generalmente un falso concetto, erano la rivelazione del vero amore, quale egli é, quale deve essere: gli uomini non tengono mai una giusta via di mezzo nell'uso e nell'apprezzamento che essi ne fanno; prima di vent'anni domandano ciò che la natura non può dare, che la stessa innocenza rifiuta - il sentimento puro e intangibile: dopo le prime disillusioni non chiedono più che la voluttà, negano la sua fusione col sentimento - non vogliono più che il piacere. La donna si dà, ma non si dà mai sola, dà il cuore con essa : la donna soltanto sa amare. Lottai, ma mi era impossibile sottrarmi alla mia passione; andai da Regina. La trovai splendida, superba, raggiante; non l'aveva veduta mai così bella. Non appena fummo soli mi si gettò tra le braccia e mi baciò sulle guance, eccitata da una commozione che pareva sincera. Provai nondimeno una gioia meno intensa di quanto non lo fosse il dolore che la mia anima sentiva in quell'istante. Avrei desiderato di averlo ottenuto dopo lunghi giorni di amore quel bacio; ma averlo così, senza conoscersi ancora, senza avere ancora ragione di amarsi... il primo bacio, quello che non si dimentica più, quello che segna il primo periodo della nostra esistenza morale?... Ah, tutto ciò parevami assai doloroso ! Queste considerazioni si agitavano dentro di me in quell'istante medesimo in cui ella pendeva sul mio seno, e aspettava parole colme di passione e di affetto. Non ne dissi, non avrei potuto dirne. Regina si sciolse dalle mie braccia, e guardandomi con occhi pieni di meraviglia e di amore, esclamò con suono di dolce rimprovero: - Non mi amate voi dunque? Mi avete dunque ingannata? Dio buono! ingannata... e come? Apprezzava dunque ella tanto il nostro amore? Era amore vero e sentito ? Era un abbandono logico, naturale, doveroso quello di gettarsi tra le mie braccia? Mi parve di comprendere qualche cosa: mi affrettai a rispondere, non meno commosso di lei: - Perdonate, è una strana confusione di idee che si è formata nella mia anima: è gioia, è amore, è sorpresa, sono mille sensazioni che mi opprimono per quanto siano dolci e nuove, anzi perchè sono tali mi opprimono... Non ho mai amato, Regina, non fui mai amato; è naturale che io debba trovarmi cosi confuso ed oppresso, cosi dolcemente oppresso..., avrei bisogno di sollevarmi colle lacrime; se fossi, come voi dite, un fanciullo, se fossi solo, vorrei piangere, e piangere fino a morirne. - Quanto siete sensibile! mi disse Regina, quanto siete nobile e buono! Ed è in vero la prima volta che amate? e son io che vi avrò inspirato il primo amore, che potrò farvi conoscere le prime dolcezze di questo sentimento? Oh ditemi che io non m'inganno, che mi amate; ho osato tutto con voi, ho osato troppo, non punitemi col vostro silenzio, con una riserbatezza che mi offende, perchè mi fa supporre che il vostro cuore abbia emesso un giudizio troppo severo su di me. Compresi che ella mi amava veracemente, che nel suo stesso abbandono, nella sua stessa felicità vi era la prova più eloquente del suo amore. È dell'amore che io doveva lagnarmi, non di lei; e mi accinsi a rassicurarla con quanta potenza di persuasione io seppi attingere dalla mia mente sconvolta ed agitata. Passai seco alcune ore - ci separammo commossi. - Quando fui solo nella mia camera mi raccolsi e piansi lungamente, piansi per la cessazione di un'illusione che avrebbe dovuto accompagnarmi per tutta la vita. Era quello Patitore? Era cosi che lo concepiscono gli uomini, che deve essere concepito da tutti gli uomini? E perché formarsene un ideale cosi elevato? Che cosa è l'ideale? Che cosa è il sentimento in amore? Può egli l'amore stare d sè, rinunciare alla sensazione che ne costituisce l'essenza, che unicamente lo crea? Poiché non è il sentimento astratto che ci unisca indissolubilmente alla donna, ma il possedimento che ci crea dei doveri e dei bisogni; è l'intimità, è l'abitudine che rendono potente l'amore. Tuttavia non abbandonai Regina : la natura agiva troppo potentemente su me perch'io potessi superarla colla forza della mia volontà. La volontà è sempre più debole dell'istinto, perché, ove nol fosse, ciascun uomo potrebbe violare impunemente la propria natura. Incominciai anzi ad amarla, conosceva che il suo cuore era retto e sincero, non ne poteva dubitare: investigai il suo passato, e non vi trovai cosa alcuna di cui dovessi soffrire ed affliggermi: un uomo qualunque, un uomo che non fosse stato vero artista, avrebbe potuto essere felice con Regina. Io non lo era. Ottenni tutto da lei. Da quel giorno ella cominciò ad amarmi, da quel giorno io sentii che il mio affetto era svanito. Lo dissimulai lungo tempo, era pietà, era gratitudine che me lo imponevano, ma essa non tardò ad avvedersi del mio abbandono, e ne fu mortalmente ferita. — Che vuoi? mi disse ella una volta, che pretendi da me per amarmi? che posso io fare per meritarmi il tuo amore? Hai guardato nel mio passato e non vi hai veduto nulla, hai indagata la mia condotta e sono uscita illibata dalle tue investigazioni. Quale demerito ho io per essere condannata al tuo abbandono? Non sono abbastanza bella`? non sono abbastanza giovine e ricca ? Sei geloso? preferisci l'isolamento? Vuoi che rinunci a tutto, a' miei abiti, a' miei cavalli, alle mie abitudini? Vuoi che abbandoniamo questa città e ci ripariamo in un angolo di terra ignorato? che viviamo soli, sconosciuti, felici? Dimmi, lo vuoi? Io era vinto, io era commosso, io inei fatto il sacrificio della mia vita per lei, ma non poteva amarla, non lo poteva : sentiva che nessuna donna avrebbe potuto inspirarmi ancora dell'amore; l'amore, l'ammirazione, il culto, l'affetto di quell'ideale che portava meco nel cuore lo trovava nell'arte - la donna ne era la negazione. Oscillammo alcun tempo tra la repulsione e l'amore, prevalse la repulsione - ci separammo. lo abbandonai quella città sei mesi dopo, nello stesso giorno in cui ella partiva per Francia col ricco barone di Saint-Froix, colonnello di cavalleria, col quale si era sposata al mattino. Cosi disgustato dell'amore altrui, rientrai nell'amore di me medesimo, non perchè il mio cuore fosse incapace di collocare in una creatura simile a me un affetto saldo e durevole, ma perchè, aveva compreso che nessuna di esse avrebbe potuto divider meco questo sentimento senza offenderne la purezza; perchè sapeva che quell'amore che io voleva, il mondo non me lo avrebbe mai dato, non me lo avrebbe mai potuto dare. Nell'amore dell'uomo, e più specialmente della donna, ho sempre veduto una specie d'ipocrisia, delle norme di convenzione che volevano mostrare di condurre al sentimento, e non conducevano che alla sensazione, non avevano altro scopo che là voluttà, e incominciate con tutte le apparenze di un amore ideale, di un puro affetto di cuore, finivano colle basse soddisfaíioni di un amore brutale, assai spesso colla sazietà, colla nausea, col disgusto che dà una passione soddisfatta. L'amore non è che un'ipocrisia - nella maggior parte degli uomini non è che l'abuso, l'applicazione falsa ed inesatta di un nome. Potrebbe chiamarsi il piacere, la voluttà, la sensazione - sarebbero le parole - ma l'amore, questa espressione - di cui ci serviarmo per indicare quanto abbiamo di sacro e di diletto nel mondo, per rivolgerci alla divinità, per accennare a quei legami pieni di mistero e di incanto che sembrano congiungerci all'universo; essa, la parola più dolce e più nobile del linguaggio umano, quella che inchiude l'idea del sacrificio scambievole, che è la nostra religione, la rivelazione più eloquente della nostra immortalità, non può essere adoperata per nascondere la natura ed i fini di un desiderio sì basso, per velarne la nudità, per travisarne lo scopo - l'amore è cosa dell'anima, la voluttà è cosa della materia: distinguiamo tra due nature sì differenti. Nella stessa facilità di quelle donne che si danno senza ritegno - e quel ritegno ha sempre le sue cause nell'amor proprio, è sempre un'arte quando non è calcolo o freddezza, - che non lo dissimulano, che dicono : vi domando del piacere e vi do del piacere, mi parve di scorgere, non dirò una maggiore virtù, ma una maggiore arditezza della verità, una franchezza saggia e lodevole. Che differenza tra esse e le altre? Le une promettono di darsi, nulla più, e si danno - le altre promettono cose infinite, l'amore puro e ideale, tutte le smorfie che affetta il sentimento, e finiscono col darsi come le prime, nulla 'di meno: in quelle una sincerità che ne scema, se non ne scusa, i traviamenti, in queste un inganno, un artifizio volgare, od una ignoranza di sè deplorevole. Tra un uomo ed una donna che si piacciono, la virtù non è in alcun luogo, se è in tal cosa che vuolsi far risiedere la virtù. Basta avere un'esperienza della vita assai lieve per apprezzare la verità di questa asserzione: quando due giovani creature* seuo, el4rfrerso, sono prese di affetto l'una per l'altra, sanno a che cosa li deve condurre l'amore, e comprendono che dissimulano, e fingono entrambe l'ignoranza di uno scopo che pure si struggono di affrettare col desiderio. Ecco le considerazioni che mi allontanarono per sempre dall'amore: intendo l'amore quale è ordinariamente ... uomini, quell'affetto che incomincia da un'apoteosi e finisce in una degradazione, le cui fila sembrano partire dal cielo, e nondimeno toccano il fango. Non spero altro dalla donna, benchè sappia che l'amicizia non è che un'ombra dell'amore, e che non potè mai appagarmi soltanto di essa ; benché comprenda che non può darlo che la donna, lei sola, ancorché puro, ancorchè deliberato per sempre all'astinenza di quei piaceri che ella può offrire. Ma ciò è per fermo nella natura ; e come ella abbia condannato ad un fine sì triste un sentimento sì elevato e sì nobile, come si sia servita di mezzi così divini per raggiungere uno scopo sì turpe, è ciò di cui la mia anima non ha mai saputo darsi ragione, è l'enimma eterno e insolvibile del cuore umano. Non condanno la facilità con cui gli uomini corrono al piacere, ma l'astuzia con cui dissimulano di non corrervi, le illusioni di cui circondano un atto di intimità che non ne ha alcuna, e che riserbano alla gioventù inconsapevole un disinganno certo e terribile. Hai tu avuto quattordici anni? Te ne rammenti? Ti ricordi di quel tempo quando nella donna non vedevi che l'angelo, quando nell'amore non vedevi che l'unificazione di due anime? Ed hai serbato memoria di quel giorno in cui afferrasti la realtà, in cui vedesti soccombere il tuo ideale? Oh, la natura vi ebbe la sua parte di colpa, ma la donna non meno!... La donna voluttuosa, facile, meno elevata di mente, è meno atta a comprendere la bassezza e la vanità del piacere; desiderosa di darsi perchè sa darsi, perchè vi ha attitudine, perchè desidera di sottomettersi , e sa porre, più che altrove, in questo abbandono, quella leggierezza , quella grazia, quella docilità, quel non so che di vago e di fatuo che sa ... sì bene i tutti i ... nulla della su vita. Si direbbe he il loro ... è che un'arte, che quelle medesime che si serbano virtuose lo fanno perciò solo, che, sanno di conservare in tal modo uno degli allettamenti più energici, e di poter esercitare una seduzione più potente. Tutto ciò che vi è nella donna - le sue opere, i suoi pensieri le sue parole, i suoi atti - tutto è seduzione, benchè seduzione tacita e delicata. Oh, l'uomo è assai più puro Nella sua franchezza, nelle sue abitudini un po' ardite, nel suo stesso linguaggio un po' rozzo e un po' brutale, egli è assai più puro! Nella fanciulla si trova sempre la donna - l'angelo bisogna cercarlo nella madre. Mio caro amico, riprese Lorenzo dopo un breve intervallo di silenzio, io mi sono disgustato assai presto delle donne ; le prime prove mi hanno atterrito ; non ti dirò ciò che ebbi ad esperimentare di poi ; aggiunse sconforto a sconforto - mi ritrassi nella mia solitudine disperando di non poter amare che la mia arte. E forse un artista non può, non deve avere un altro amore che questo - l'amore astratto del bello, del buono, l'amore che conduce direttamente a Dio, che rinuncia alla creatura, che non. si posa su cosa alcuna del mondo - tutto il resto è sogno, è illusione, è voluttà d'un istante. Se l'amore debb'essere infinito e gli uomini tutti amano cose finite, gli artisti sono i soli uomini che amano. Dopo l'abbandono di Regina ebbi altri affetti e altri inganni ; conobbi le donne uguali tutte, propense all'amore, ripugnanti perciò dall'amicizia che ne rifiuta i privilegi e i diritti, facili all'affetto, atte a colorire con quella vena di facile poesia che è in esse qualunque atto di degradazione fisica sul quale l'uomo si arresta a meditare con dolore... Non ho serbato memoria di una donna giovine, che abbia saputo perdonare a me giovane di averle potuto offrire dell'amore e di non averle dato che dell'amicizia. Rientrai in me stesso; volli riabítare questa casa, rivedere questi luoghi che mi parlavano dell'infanzia, l'unica -età della vita sulla quale noi possiamo ritornare senza piangere, e darmi tutto alla mia arte, e vivere di essa e per essa. Ma neppure qui non mi sento sereno, non mi sento felice; non si può amare l'amore per l'amore, e l'arte che ci crea un ideale così elevato, non basta a far tacere quel bisogno incessante dell'anima che ci spinge a cercarne una personificazione più o meno imperfetta negli uomini e nelle cose reali della vita. Bisogna amare, ecco la condanna; o turpemente o nobilmente bisogna amare: per noi che ne vediamo l'oggetto nel cielo e dobbiamo cercarlo nel fango è una condanna doppiamente terribile. Io vorrei possederlo questo oggetto, ma dove mi sarà dato di rinvenirlo? dove troverò la donna diversa dalla donna? Combatto da lungo tempo col mio cuore, tento di ucciderne l'affettività, di deviarla dalla donna e di rivolgerla all'arte. Inutile sforzo! La natura prevale; e l'arte, che è troppo grande, troppo conscia di sè per temere di una rivalità così poco durevole, ne seconda la legge ed i fini. Tornato qui, trovai Adalgisa già adulta; ci eravamo separati bambini, e benché io non fossi allora che un povero fanciullo della sua fattoria, ci eravamo legati di quell'amicizia pronta e sincera che si contrae facilmente in quegli anni ; ora quel sentimento si è mutato dal canto suo in un amore appassionato e ardentissimo. Posso io corrispondervi ? È troppo tardi, nè ella potrebbe offrirmi di più di ciò che altre m'offersero, nè vorrebbe offrirmi di meno; in lei vedrei sempre la donna, l'amante sparirebbe coll'amore. Cosi dicendo la notte era caduta, e Lorenzo, prendendomi per mano, mi ritrasse dal limitare nella stanza. Passai con lui altri due giorni, in cui vidi e conobbi Adalgisa, dopo di che ci separammo tristi e scorati. Abbrevierò la narrazione di questo racconto. Due anni dopo ebbi da Lorenzo questa lettera : « È assai tempo che non ho più novelle di te. Ho saputo che sei a Nizza e ti scrivo. Avrei avuto bisogno prima di scriverti. Ho attraversato molte calamità , ho subite molte prove dacché ci siamo divisi - ho compreso spesso che se avessi potuto confidarmi a te, versarti tutto il mio cuore, mi sarei sentito sollevato. Come la vita ci sfugge, come la felicità ci sfugge ! Due soli anni!... e pure quale solitudine si è fatta intorno a noi,quante care esistenze ci sono state rapite in cosi breve spazio di tempo ! Ho pensato sovente con dolore quanto debba essere triste la vecchiezza, quanto debba essere tormentoso il sopravvivere a tutti quegli esseri che si sono amati e perduti. « Ti ricordi dei discorsi che facemmo l'ultima volta che ci siamo abbracciati ? Il mio cuore combatteva allora una gran lotta, la mia virtù stava per soccombere, una sfiducia terribile si era impadronito di me. Io non credeva alla donna, io non poteva amare la donna - reputava l'amore turpe o impossibile, così soggetto come mi appariva ai bisogni irresistibili della natura, così fuso, cosi legato, così immedesimato con questi stessi bisogni. Nel tempo medesimo anelava a questo amore che la mia ragione ripudiava, ne subiva la prepotenza irresistibile, vi soggiaceva come alla tirannia di una passione indomabile. Strano mistero del mio cuore l Amava la donna nella sua beltà , nelle sue attrattive - l'odiava nelle sue debolezze, nella sua facilità, nella sua avidità di piacere. L'arte me ne aveva creato un tipo perfetto, io voleva concretizzare questo tipo in una creatura vivente, spiritualizzare la donna fino a trasformarla, fino a farle raggiungere la perfezione ideale di quel modello. a Mi ricordo che tu sorridevi di questo sogno, dissimulavi a stento la tua sfiducia, mi nascondevi appena l'ilarità che ti destava questa illusione. E pure che cosa è questo lavoro assiduo che compie l'umanità da molti secoli se non una conseguenza del bisogno che essa ha di spiritualizzarsi , di sottrarsi alle leggi fisiche per crearsi delle leggi morali ? Le idee confuse di civiltà, di progresso, di perfezionamento sono una derivazione di questa grande idea, di questa grande aspirazione. Ogni uomo tende a spiritualizzarsi. Perchè ci vergogniamo delle nostre debolezze, delle nostre imperfe- zioni, dei nostri bisogni ? Perchè ci sono delle cose che ci sembrano turpi nella nostra natura ?... Perchè tentiamo di nasconderle? Nella lotta di questi due grandi principii - del principio fisico e del principio morale - è riposto il segreto delle lotte umane - forse anche le oscure ragioni dell'umanità e della vita. a Ebbene l che faceva io se non che spingermi troppo innanzi su questa via ? se non che anelare con troppo ardore a quel perfezionamento ideale cui tutti gli uomini aspirano? Gli artisti sono uomini che precedono gli altri - vanno innanzi e additano il sentiero, si vol- tano indietro e si trovano soli... questi grandi, questi infelici solitarii Ti ricorderai anche di Adalgisa. Io non poteva accettarne l'amore, corrispondervi; le ragioni che ti ho espresso ora mi allontanavano anche da lei, me ne allontanavano ripugnante, afflitto, corrucciato di me stesso. Perchè io avrei voluto amarla, poterla amare, rendere a lei quelle gioie, quella felicità, quella luce che essa voleva gettare su tutta la mia vita. Non lo poteva. Tu mi lasciasti in quel tempo - erano gli ultimi giorni delle mie lotte e delle mie oésitazioni. Adalgià si ammalò poco dopo la tua partenza - la sua etisia raggiunse uno sviluppo impossibile ad arrestarsi - non si riebbe più - io la perdetti quando incominciava ,a tenermi cara la sua vita e il suo amore. « Io ti parlerò di questo amore come di una malattia della mia anima, come di un fenomeno inesplicabile della mia natura. Non vi ha dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri incompleti, i quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro imperfezione, della loro infermità ; come alcune specie di bache, di frutti, di nodi bizzarri, sono un prodotto della malattia delle piante, come dalla corteccia incisa di alcuni alberi stilla la gomma. Io che l'aveva tratta a morire colla mia indifferenza, che l'aveva resa infelice col mio rifiuto, io doveva amarla quando già la vita avea incominciato a sfuggirle, ad adorarla dopo che l'aveva perduta. Non so se tu abbia provata la più spaventosa tortura che possa subire il cuore umano - l'impossibilità d'amare le persone che ci amano e che reputiamo degne di amare. Non vi è tormento che possa adeguarsi a questo: basta averlo provato una volta perchè si comprenda tutta l'impotenza della nostra volontà, perché rovini tutto l'edificio della nostra fede, perché una tenebra immensa si distenda su tutta la nostra vita. L'amore è inesorabile; è in noi, ma è fuori di noi; non possiamo imporlo a noi stessi, non possiamo lasciarcelo imporre. « Tutte le persone dotate di qualche virtù e di qualche avvenenza hanno assistito a questa rovina che facevano intorno a sè stessi, hanno suscitato delle passioni che non potevano appagare, consumato delle vite che non potevano proteggere col loro amore. Nelle stragi che l'amore mena nel mondo, alcuni pochi soccombono alla felicità dell'affetto contraccambiato, molti al dolore dell'affetto non corrisposto, moltissimi - e sono infinitamente i più miseri - allo strazio di non poter amare. « Io ho provato questo strazio in tutta la sua potenza. Vedeva deperire la bellezza di Adalgisa, avvizzirsi la sua fede, affievolirsi e consumarsi la sua vita, e non poteva soccorrerla. Io assisteva a questa distruzione, lenta, penosa, inesorabile, senza poterla impedire. Chiedeva indarno al mio cuore ciò ch'egli non poteva darmi, ciò che io non poteva esigere da lui. Perché l'amore è una gran fede, è un gran vero - non lo si finge, non lo si smentisce. Esso non proviene da noi, ci viene non sappiamo donde, lo subiamo - perciò non lo possiamo mentire perché non lo conosciamo che dopo averlo provato - o meglio ancora provandolo. « Te partito, Adalgisa si pose a letto, la pietà mi trattenne presso di lei fino al giorno della sua morte. Fu in quel frattempo che il gelo del mio cuore si sciolse, che io incominciai ad amarla e a confortarla di questo convincimento - non visse felice, ma mori felice. Percliè ho incominciato ad amarla in quei giorni? E una domanda che mi sono rivolto sovente io stesso senza potervi rispondere. Di mano in mano che la sua malattia affievoliva la sua vitalità, prostrava le sue forze e le sue passioni, la sua animi acquistava una nuova potenza di mano in mano che si restringevano i limiti della sua vita fisica, si dilatavano, si estendevano quelli della sua vita morale. Io l'amava forse perché vedeva in lei sparire la donna e formarsi l'angelo, pur rimanendo angelo e donna ad un tempo - perché la vedeva librata tra il cielo ed il mondo, come avesse voluto additarmi il cielo senza togliermi alle gioie più miti della terra. « Non ti parlerò dei giorni che trascorsi presso di lei, al suo capezzale - giorni pieni di tristezza e di grandi gioie ad un tempo, di esitanze, di sogni, di illusioni, di subiti sconforti - cari e mesti giorni che io non potrò ricordare mai senza piangere, Adalgisa non prevedeva, non credeva vicino il suo fine: mi parlava dell'avvenire, di noi, del suo amore; formava progetti di felicità per un tempo lontano - la sua anima, simile alla fiamma che si ravviva un istante prima di spegnersi, gettava, già vicina a dividersi da lei, una più gran luce sulle gioie immaginarie del suo avvenire. Soventi ella intravedeva il vero, ricadeva nei suoi sconforti, presentiva l'abbandono della vita. Allora rivolava al passato, evocava, numerava, interrogava le gioie in quell'età, più spesso accarezzate che godute, più spesso sognate che ottenute; mi parlava dell'infanzia, di quelli anni che avevamo trascorsi assieme, quando la nostra affettività era ancora una virtù che spandevamo su tutti, che dividevamo con tutti; quando gli affetti, così dispersi, non si erano ancora riuniti nel cuore per rivolgerli ad una sola creatura. L'amore, diceva ella, era stato allora una grande espansione, ora non era che un grande egoismo. « La malattia aveva come modificate le sue sembianze, aveva dato al suo volto qualche casa di si pallido, di sì mobile, di sì trasparente, che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzab, mutata essenzialmente da quella di prima. La sua vitalità era affluita tutta allo sguardo; pareva intravedesse sempre qualche cosa al di là degli oggetti che la circondavano — guardava, come si guarda spesso, senza vedere. Le sue mati si erano come affilate, erano divenute sì piccole, si leggiere, si bianche, che nello stringerle vi sentivate la mancanza della vita, e ricordavate quelle mani che vi accarezzavano fanciullo, vi avvedevate che esse non dovevano più toccare alcuna cosa della terra... Oh le mani di un morente! Chi non ha strette una volta quelle mani? Chi non ha compreso il terribile linguaggio di quel contatto ? Sì, le mani hanno" un linguaggio speciale, un'espressione a se, un'eloquenza misteriosa che ogni uomo non può non intendere. Son esse che accarezzano le teste dei biondi fanciulli, che asciugano le lacrime degli infelici, che rivelano i primi tumulti della passione, che esprimono la pietà, la tenerezza, che infondono i conforti, che vi toccano, che vi stringono, che vi abbracciano l'ultima volta prima di morire. Le mani sono il linguaggio del corpo, come il sentimento è il linguaggio dell'anima. « Non è senza ragione che le superstizioni umane hanno attribuito un pregio sì grande alla verginità della donna. Non saprei come provarè questa asserzione, come giustificare questa fede che mi ha inspirata la vista di Adalgisa; ma egli è ben certo che se vi sono nella nostra natura due elementi che lottano per dominarg l'elemento fisico e l'elemento spirituale — e se la nostra perfezione, la nostra supremazia, la nostra gran*. dezza sono riposte nella prevalenza-di quest'ultimo, ella è una grande rinuncia quella che vien fatta per esso alla soddisfazione dei sensi più viva e più irresistibile. Si può deplorare questa rinuncia, non si può non arn- mirarla - la verginità eserciterà sempre uno dei più grandi prestigi sugli uomini, perché rivela ad un'ora la casta verginità del cuore e della mente. « Vi sono delle creature che sentono il peso della materia, la sua tirannia, l'impero che esercita sullo spirito; alcuni la subiscono, alcuni vi si ribellano. Quei martiri delle leggende cristiane che, spinti da un ascetismo religioso, si maceravano il corpo coi digiuni e colle battiture, non potevano essere che uomini straordinarii: combattevano ad oltranza quella lotta che noi combattiamo con armi più facili, con tregue lunghe, con viltà più frequenti, e nelle quali preferiamo spesso il soccombere al resistere forti ed infaticati. « Questa vittoria dello spirito sulla materia mi appariva piena, intera in Adalgisa - è in ciò che è riposto il segreto di quel fascino che la fede, che il genio, che il culto di un gran principio morale esercitano sopra di noi; il rispetto che c'inspira la vecchiaia, l'interesse che ci destano le persone deboli o inferme - simile a quelle lampade funerarie che gli antichi collocavano presso le tombe, la cui fiammella acquistava sempre più maggior luce, quanto più s'assottigliava il vaso d'alabastro che la conteneva - l'anima della fanciulla traspariva, si rivelava attraverso le forme vaghissime del suo corpo, che la consunzione svigoriva senza alterare. . « Essa era anzi più bella. Che ti dirò delle contraddizioni inesplicabili della mia natura?... Io me ne innamorai in quei giorni; e quanto più ella si andava approssimando al suo fine, quanto più io acquistava la certezza del suo abbandono, tanto più si rafforzava in me questo affetto. Come raccontarti tutte le lotte del mio cuore? descriverti, enumerarti le mie sensazioni? In poco tempo il mio amore raggiunse tutta la sua pienezza, assunse tutta la forza d'una passione indomabile, Sola, mia, soffrente, purificata dalla morte - cosi e non altrimenti io poteva amare una donna. Una donna? Non era una creatura umana che io amava in lei, era uno spirito concretizzato, personificato in un essere vivo, racchiuso in un velo vaghissimo, delicato, trasparente, che appena lasciava indovinare l'essenza di cui era composto. « Ma a che dirti tutto? come spiegarti il carattere della mia passione? Spesso mi atterriva il pensiero di perderla, più spesso ancora il pensiero di ricuperarla. La vita le avrebbe ridonato la forza, la salute, i desiderii; io avrei trovato in lei ciò che aveva trovato in Regina, ciò che si trova in tutte le donne, la donna; noi saremmo sopravvissuti al nostro amore... Perdendola, io raffermava invece per sempre la mia fede, conservava per sempre le mie illusioni ; la religione dell'amore avrebbe potuto pretendere da me un culto sincero ed eterno. Incauti coloro che piangono la perdita di una donna amata I Non vi è che la morte che possa purificare l'amore, che possa santificarlo, eternarlo - essa ne suggella la fede. Quando essa ha diviso due esseri che si amano, colui che è sopravvissuto può illudersi sulla durata che quell'affetto avrebbe avuto, se vivo; ha una tomba su cui piangere, e può costruirsi una fede su cui riposare. Nessuna gioia della terra è dolce come quelle lacrime e come quella fede I Ma ciò che è orribile è sopravvivere alle proprio affezioni, vederle vacillare, cadere, finire, irridere a sè stesse, posarsi sopra altre creature. Quanti esseri ci circondano che avevamo amati, che avevamo fusi colla nostra esistenza, coi quali avevamo sfidato la mutabilità dei tempi e della fortuna... e che adesso sono più nulla Vivere tra tali creature, vederle vive e felici, e portarne il lutto, è come vivere in un mondo che. ha cessato di appartenerci, è come presentire la morte co' suoi dolori, co' suoi abbandoni, co' suoi rimpianti, senza averne nè la dimenticanza, nè la quiete. a Ma a che farti conoscere tutti i dettagli dolorosi del mio racconto? Adalgisa morì ; e con quella morte cessò in me quell'indifferenza, quell'avversione all'amore, quel bisogno di raccogliermi in me stesso che mi aveva chiuso fino allora tutte le sorgenti della felicità e del piacere. Quell'affetto che mi s'era formato nel cuore durante la sua malattia si tramutò, dopo che l'ebbi perduta, in una passione che mi divorava la vita, senza che potessi spegnerla, che mi dominava senza che potessi combatterla. L'aveva dimenticata viva, l'aveva amata morente, l'adorava già morta. In ciò io era conseguente a me stesso, a' miei principii, alle mie idee: il mio amore era logico come lo era stata la mia indifferenza - procedeva dalle stesse cause, si riposava sulle medesime convinzioni. Un ostacolo mi aveva allontanato fino allora dalla donna la sensualità della bellezza : ora questo ostacolo era sparito, la bellezza di Adalgisa non era più che un riflesso della bellezza intatta ed eterna - in quelle forme pure e perfette io vedeva personificato quell'ideale che l'arte, che iI vero, che il bello avevano come delineato nella mia fantasia. Gli uomini tendono a personificare tutte le loro sensazioni, tutte le concezioni della loro mente la vasta idealità umana si riduce tutta alla creazione di alcuni tipi vaghi e indecisi, di cui cerchiamo indarno quaggiù una personificazione vivente. Dio non si è rivelato a noi: egli non ha tanto creato gli uomini, quanto gli uomini hanno creato lui stesso - l'idea di Dio non è che una personificazione dell'idea del bello eterno e del buono eterno - le anime elevate non hanno osato circoscrivere questa bontà e questa bellezza in una forma, le anime volgari sono discese fino inazione. Se tu avessi visto Adalgisa, avresti potuto compren- dere quanto ella si avvicinasse a questo ideale. Non so dirti quanto ella fosse bella, nè quanto il mio ideale fosse elevato! D'altronde che cosa è la bellezza ? Essa non può essere il risultato dell'armonia di alcune linee, perché queste stesse linee disposte diversamente possono dare diverse specie di bellezze - non vi è una legge in ciò; non vi è una bellezza assoluta. Possiamo analizzare il volto umano, descriverlo in tutte le sue parti, ammirare l'armonia dei loro rapporti - non basta vi è ancora qualche cosa che è fuori di questa legge, che sfugge a questa analisi, che costituisce unicamente il bello che noi ammiriamo. Egli è che ciascun uomo, personificando le proprie idee, si è formato un tipo di bellezza, secondo il quale esamina e giudica delle forme, degli oggetti e delle creature che ci circondano. Ciò è quanto noi chiamiamo il gusto. Le leggi della bellezza fisica sono riposte in una legge della bellezza morale. L'identità della natura in ciascun uomo rende queste leggi pressochè simili in tutti , quindi pressoché uno il tipo della bellezza umana , ma se noi potessimo uscire un istante fuori di noi medesimi, distruggere e mutare questa legge, vedremmo che il bello ci apparirebbe deforme, e il deforme bello, che la bellezza è tutta immaginaria, tutta convenzionale, tutta subordinata a questo principio. Ecco perché io non tenterò di delinearti l'immagine di Adalgisa - converrebbe che tu discendessi nella mia anima per rintracciarvela. « Non ho mai preso ad investigare che cosa sia l'amore, quali i suoi limiti nel cuore degli altri uomini. Per ciò appunto che ti ho detto ora, io non ignorava che nel bello si ama inconsciamente il buono, che nel deforme si odia inconsciamente ciò che è cattivo, ma le ragioni di quest'odio e di questo amore mi rimasero sempre ignorate - si poteva aver coscienza di questi due estremi morali, ammirarne queste personifIcazioni diverse, senza nè amarle, nè odiarle - il segreto dell'amore, che è ad un tempo il segreto della vita universale, rimarrà sempre inviolato dagli uomini. « Oh l dirti le ore di ebbrezza che io trascorsi al suo fianco, i deliri di quegli abbandoni !.. Quel cadavere che mi stava dinanzi ricongiungeva i fili spezzati della mia esistenza , mi rimetteva in pace coll'umanità, con me stesso ; riannodava i legami che mi avvincevano all'arte e alla vita. Quante anime non sapranno comprendere la natura di questa passione, giustificare la sua origine, la sua essenza, i suoi fini l Non è vero che le donne sappiano amare; sanno piacere, godere. Spogliatele di quelle attrattive del sesso che vi vedete mascherate dal sentimento - e non vi è più nulla. Ma in Adalgisa queste attrattive erano mute, distrutte - tutto ciò che vi era di ripugnante era sparito, tutto ciò che vi era di dolce era rimasto. Che importava a me che ella non vivesse? Io non aveva mai voluto chiederle del piacere. Nella ricerca affannosa del bello, io non aveva cercato mai che il bello, ancorchè passeggiero, ancorchè inanimato. Fui sempre casto di piena castità che è propria della robustezza ; nè io aveva cercato nella personificazione del mio ideale altri attributi che quelli elevatissimi del mio ideale medesimo. E poi vi è qualche cosa di morto in natura ? vi è qualche cosa di inanimato intorno a noi, cui non possiamo infondere una parte della nostra anima ? Ho sempre sorriso di questa specie di avversione che gli uomini hanno per tutto ciò che non vive: mi sono sempre sentito nel cuore un'esuberanza di spirito sufficiente a infondere la vita a tutti quegli esseri inerti che mi stavano dintorno. Le grandi anime soffrono in mezzo a ciò che si agita e vive ; prediligono là solittidine dove possono espandere la propria vitalità. Non vissi con lei che due giorni - la terra riebbe Adalgisa - io assistetti senza lacrime alla sua sepoltura. E perchè avrei dovuto piangerla ? Non mi bastava la memoria ? Coloro che piangono ciò che muore rinnegano la propria fede, la durabilità dei proprii affetti, la coscienza del proprio destino.

Da quel giorno le mie lotte erano finite, io mi sentiva riconciliato coll'esistenza. Mi ridonai all'amore della mia arte - non era che un solo amore, uno stesso amore - non vissi più che di quello.

La musica, fra tutte le arti, è la più divina perchè la più indeterminata. Concretizzare le idee nelle parole, la luce nella tela , le forme nel sasso, ma non potete concretizzare il suono - il regno delle note è infinito come il regno delle idee - più ancora, va oltre le idee, ve ne crea di quelle che non potete determinare, di cui non sapete darvi ragione. Strana e ridicola cosa ! Gli uomini hanno voluto circoscrivere la potenza di questo linguaggio, il solo che sia veramente universale ; l'hanno collegato colla parola la quale non esprime che cose determinate, - connubio mostruoso ! - hanno detto : queste note esprimeranno il dolore, queste il piacere, quelle la sorpresa, e via via ; hanno composta la sintassi delle note - hanno immiserito, circoscritto, rinnegato questo linguaggio che ci parlava di un mondo lontano, che ci sollevava sull'ordine delle idee comuni, che ci trasportava oltre il dominio dei sensi ; che appunto era grande, perché era impossibile sottoporlo a leggi fisse, trattenerlo dentro limiti fissi , perché era inesauribile, perchè era indeterminato. iQueste parole ti lasceranno indovinare quali sieno le mie idee in fatto di musica , quali i tentativi che io faccio per redimerla da queste leggi di convenzione. Scrivimi. Dopo la perdita di Adalgisa , io vivo da solo in questa città. Vorrei farti comprendere quali sieno i rapporti misteriosi che esistono tra la di lei memoria e la mia arte, e come questa attinga da quella, e quella si avvivi nella fiamma di questa, e formino un tutto solo ed armonico - ma ciò mi tornerebbe impossibile. « Rimarrai tu costi lungo tempo l Ti scriverò altra volta. » Ma non ebbi da lui altre lettere. Passarono due anni da quell'epoca, nè io aveva più ricevuta notizia alcuna di Lorenzo, e quasi me n'era dimenticato allorchè n'ebbi da un amico le tristi novelle che mi accingo a raccontare ; anzi trascriverò qui quel brano della sua lettera, che vi si riferisce : « È da lui stesso che io ho saputo che tu non ignori le sue follie passate e quella sua passione d'amore così strana , così ideale e così incomprensibile. Ho anzi ragione a credere che tu abbia penetrato meglio e più profondamente di me nelle segrete oscurità della sua anima, e che la natura della sua follia ti sia apparsa più evidente e più chiara. Credo averla compresa io pure, e ciò mi spiega in qualche guisa la seconda e la più grave delle sue aberrazioni. Se egli non ti ha scritto più dopo la tua partenza da *", ignori senza dubbio che egli si è dimenticato di Adalgisa, e che un amore non meno appassionato, non meno esigente, ma non meno inesplicabile si è sostituito a quel primo. i Era naturale che egli se ne dimenticasse, e che quell'affetto così triste, così spento, così solitario si spegnesse nel suo cuore per dar luogo ad una passione più viva e più reale, benchè ancora più assurda. Tu meraviglierai dell'oggetto di questa sua seconda affezione. « lo credo che tutta l'infermità della sua anima e della sua intelligenza si riducesse a ciò: che egli vo- leva personificare in un tipo di bellezza sensibile quel tipo astratto e ideale che gli aveva creato la sua arte. La natura stessa lo conduceva a cercare questa personificazione nella donna ; la purità della sua anima , la casta religione di questo ideale lo costringevano a volerne escluse quelle passioni fisiche che la contaminavano. Perciò egli non aveva amata Adalgisa che morta, l'aveva amata solamente in quegli istanti, in cui senza avere ancora perduto nulla della sua bellezza , si era già spogliata di tutte le sue passioni. Seguendo questo ordine stesso di idee, non allontanandoci dalle leggi e dalla natura della sua follia, comprenderai agevolmente come egli non potesse rimanere fedele a questa affezione, giacchè egli aveva d'uopo di vedere, di ammirare questa personificazione più o meno imperfetta del suo ideale. Non è a dirsi se egli soffrisse di questa dimenticanza che gli imponeva la sua stessa natura , la sua arte stèssa ; egli aveva creduto che quell'affetto sarebbe durato eterno, e lo sentiva svanire, spegnersi, dileguarsi miseramente come tutti gli affetti terreni ; sentiva ri: formarsi nel cuore quel vuoto che egli aveva riempiuto un istante , ma che ora non poteva sperare più di riempire. In quell'intervallo di lotte, in quel periodo di triste scoraggiamento si disgustò anche della sua arte, alla quale credeva, e non senza ragione, dovere unicamente la sua infelicità. La musica, diceva egli, è relativamente alle nostre facoltà la più imperfetta e la più incompleta di tutte le arti. Noi non sappiamo se ci andiamo avvicinando od allontanando dalla sua perfezione - non lo potremo mai indovinare - non le potremo mai assegnare nè un limite, nè una legge, nemmeno una via sicura, tanto ella si allontana da tutto ciò che è sensi- bile, da tutto ciò che è reale. Non nemmeno possi- bile una definizione, ella sfugge ai sensi, al raziocinio, a tutto: si è camminato finora sopra delle ipotesi , si sono stabilite delle norme elementari, si sono creati dei sistemi, dei generi, delle leggi di convenzione, ma nessuno ha ancora potuto comprendere che cosa ella sia, d'onde si è partiti, e fin dove si potrà giungere. I veri artisti hanno sentito tutto il tormento di questa ignoranza e di questa impotenza, hanno compreso quanto fosse grande il contrasto che la vaga idealità di quest'arte formava coll'arido realismo, con cui la natura li aveva condannati a lottare. « Disperando di trovar pace qui, egli prese a viaggiare; e fu a Firenze che vide la Venere dei Medici, e che lo stesso sentimento che lo aveva fatto invogliare di una fanciulla morta, gli destò nell'anima una passione ancora più ardente, ancora più inesplicabile per quel tipo perfettissimo della bellezza femminile. Lorenzo passò da quell'amore a questo colle stesse esitanze, colle stesse indecisioni di coloro che si sciolgono da un affetto reale. E con questa nuova passione non fece che crearsi nuove origini di sofferenze. Era naturale che egli, sì vigoroso, sì ardente, dotato di un'immaginazione così viva e così feconda, non potesse appagarsi di un amore così sterile e cosi solitario. Egli aveva voluto lottare colla sua natura, ma indarno. « Fu anzi quella medesima esuberanza di vitalità che egli si sforzava di trattenere, di accumulare in sè stesso, che guastò in qualche modo il suo organismo, e finì collo spegnere in parte la sua ragione. Il suo cuore, la sua mente, le sue aspirazioni combattevano una lotta perenne coi bisogni della sua vita, colle esigenze aride, materiali, inesorabili della natura. Egli non voleva soccombere anche a prezzo della sua felicità; non voleva concedere nulla al realismo dei sensi e delle passioni. « Se tu verrai qui ti racconterò a voce la storia di questo suo secondo amore. I dettagli sono molti e strazianti, nè mi regge l'animo di evocarli e di scriverli. Tale era il brano di quella lettera che si riferiva a Lorenzo. Io accorcio, per quanto mi è possibile, la mia narrazione. L'analisi di questa dolorosa infermità della sua mente - noi chiamiamo infermità di mente tutto ciò che si allontana dalle sue leggi comuni - potrebbe fornire argomento a molti volumi, e pochi saprebbero entrare nello spirito vero di questo esame - gli artisti forse, e non tutti. Questa specie di anatomia di un'anima non potrebbe offrire interesse che per coloro i quali furono dotati di una mente superiore, per quei pochi che hanno molto amato o molto sofferto, per quegli eletti, cui l'idea del bello si è mostrata per altre vie e per altre immagini che non soglia mostrarsi alle masse. Lorenzo AI viati ebbe natura e passioni e genio eccezionali. Le sue opere, non note che a pochi amici , furono forse di quelle grandi aberrazioni, di quei grandi errori, di quegli slanci giganteschi, di quelle prodigiose antiveggenze che precedettero in ogni tempo le scoperte dei più grandi veri scentifici e filosofici. Fu un uomo fuori de' suoi tempi - oserei quasi dire che fu un'anima fuori della sua natura, tanto egli seppe combatterla, ancor " ne uscisse vinto, e dominarla così miseramente. È noto come quella Venere destasse passioni d'amore violentissime. Lorenzo tradì, suo malgrado, il suo segreto, - il segreto di questo priapismo singolare del genio - e gli fu impedito dì rivederla. Rimpatriato, si ammalò di malinconia, e la sua ragione incominciò ad alterarsi nell'isolamento che egli creava intorno a sè stesso. Tutta quell'affettività, e assieme tutto quel fuoco represso di gioventù che non aveva potuto versare in nessun cuore, si raccolse e si riversò tutto in sè medesimo. Come spiegarlo? Egli incominciò a non trovare più altra compiacenza che con sè stesso, altro oggetto degno di amore che sè stesso, altra rivelazione del bello che la sua persona. In una parola, la sua ragione ne andò interamente sconvolta - egli fini coll'essere preso d'amore per sè medesimo. Io rifuggo dal descrivere i dettagli deplorevoli di questa follia : ciascuno li potrà agevolmente immaginare. Il mio amico non lasciò scritte che poche opere, le quali, per quanto io credo, andarono smarrite. Io conservo tuttora un suo manoscritto contenente alcune idee speciosissime sul ritmo, e uno schizzo di progetto relativo all'abolizione del melodramma. La sua musica -contrariamente a ciò che si poteva supporre - era dolce, semplice, appassionata , estremamente melodica. Coloro che l'hanno udita hanno serbato memoria per lungo tempo di quel fascino inesplicabile che esercitavano le sue melodie. Mi è pur rimasta una sua memoria circa quel barbaro sistema di finali fragorosi e convenzionali, da cui nessuno ha finora saputo sciogliersi, e che io ho in animo di pubblicare. Sarà l'ultimo omaggio che io renderò alla memoria di un amico' affettuoso e di un genio sventuratissimo. Lorenzo Alviati morì nel manicomio di Alessandria 1'11 giugno 1863. RICCARDO WAITZEN

LORENZO, E voi lo credete? IL MAGISTRATO. No, io non ho fede alcuna negli spiriti - intesi però a dire che essi esercitano delle strane influenze sugli uomini, e questa fede antica quanto l'umanità non può essere avversata ciecamente , nè distrutta ad un tratto. (A Ghost in comedy)

Che cosa è l'immaginazione ? Chi ne definisce le facoltà ? Dove rintraccieremo noi quella linea che separa l'immaginario dal vero ? E nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni ; esiste qualche cosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale, od assolutamente fantastico ? O piuttosto non è egli tutto fantastico nello spirito ? Come nulla vi ha di individuato, di isolato nell'immensità delle masse 'che compongono l'universo, ma tutto si riunisce e si sfuma per mezzo delle piccole masse intermedie, non potrebbe essere che l'ideale ed il realismo si congiungessero tra di loro per certe leggi che a noi non è dato di conoscere, per certo mistero che a noi non è concesso di afferrare ; e che gli uomini non facessero che definire con queste due parole i due punti estremi di questa linea, quali sono il mondo sensibile ed il mondo immaginario? Qualunque sia quel vero che a noi non è dato di percepire , egli è però ben certo che dei grandi legami esistono tra di loro. La loro conciliazione, secondo la natura umana, ha formato la lotta di tutti i tempi, come forma la lotta dell'oggi : l'umanità tende ad equilibrarsi tra queste due grandi attrazioni, come quella che si sente dominata da entrambe, e non ignora costituirsi dalla loro azione il segreto delle sue lotte e della sua vita. La letteratura moderna, conscia di questa verità, si è rivolta alla soluzione di un grande quesito : o. idealizzare il reale; fondere assieme queste due potenze, costringere l'immaginazione, l'idea a soffermarsi sulla realtà, ad anatomizzarla, a rivestirla de' suoi colori, delle sue forme, delle sue seduzioni divine. Quella grande letteratura, che è la recente letteratura francese: Karr, Vittor Ugo, Girardin, e più di tutti Michelet co' suoi libri divini dell'amore e della donna , hanno dimostrata possibile questa conciliazione, indirizzandola allo scopo dell'umana felicità. Forse la letteratura avvenire non mirerà più ad altro fine che a questo : essa arresterà lo spirito degli uomini sempre rivolto all'ideale e al fantastico per trattenerlo sui campi della realtà, ove noi dobbiamo combattere, qui e non altrove, vogliosi o non volenti, la lotta secolare della vita. Ma la scienza ha pure rialzato in questi ultimi tempi un lembo della cortina misteriosa. Mesmer, colla scoperta del magnetismo, sembrò aver fatto un passo gigantesco su questa via. I primi fenomeni di quella scienza , arcani, oscuri, confusi, perciò accolti con quella superstiziosa credulità che affascina tutti gli uomini all'idea dell'incomprensibile e dell'ignoto, sembrarono aver afferrato le prime fila per districare tutto quanto il segreto, fino allora inviolato, della natura umana : — la fusione delle anime, la trasmissione del pensiero, L chiaroveggenza, l'intuizione, l'unificazione di due, di più individualità, furono altrettante scoperte che parvero assicurarci la conquista di verità prodigiose e infinite. Tuttavia non si tardò a riconoscere che tutto era fittizio in questa scienza, e che le prime basi gettate con tanta apparente solidità, non bastavano a sostenere quell'edificio colossale e gigantesco che si voleva innalzare sopra di esse: toltine i fenomeni materiali, tutto si è arrestato, tutto è ricaduto nell'ignoto; - l'ipnotismo ci. ha dimostrato che gli stessi effetti si ottenevano colla semplice fissazione di un oggetto luminoso; lo spiritualismo rimaneva dunque escluso, e i fenomeni del Mesmer ricadevano nel dominio della materia. - Perocchè chi ha mai potuto definire le proprietà degli spiriti , e i rapporti che essi hanno tra di loro ? Che cosa è il sogno, il sonnambulismo, il presagio, l'astrazione, il pensiero, e più di tutto l'incubo? I sensi - ecco i limiti estremi delle nostre facoltà ; nulla di positivo, nulla di assoluto fuori di essi - ogni altra cosa è immaginaria e fantastica ; essa appartiene a un'altra sfera di esseri, sulla cui natura, sul cui fine, sulle cui facoltà,- nulla ci è dato di comprendere e di asserire con sicurezza. Ciò non di meno, una vaga , una poetica illusione è venuta oggi a mettere in rapporto il mondo fisico col mondo spirituale, il mondo finito col vivente : intendo parlare dello spiritismo, questa applicazione singolare della scienza , per la quale uno spirito compiacente discende a parlare con voi un linguaggio di convenzione immedesimandosi in un tavolo, in una sedia, in un arnese qualunque della vostra camera : ed ecco che il magnetismo si è collocato come interprete, come intermedio tra voi e il mondo spirituale - perocchè come avrebbe potuto uno spirito rivelarsi senza il concorso di un oggetto sensibile? Io vorrei conoscere se coloro i quali , merce questo mezzo, continuano a convivere in ispirito coi loro cari, hanno la fede assoluta nella realtà di questa cobvivenza. Se essi credono, il fenomeno esiste. Noi non possiamo sorridere di questa credenza : proviamone l'assurdo, proviamone del paro la verità se ci è possibile. Bensì ciascuno di noi ha sentito in sè stesso, in molte circostanze della vita, qualche cosa che gli parlava di altri esseri, o sofferenti o lontani, o già morti alla nostra esistenza di un giorno. Ditemi, non avete voi perduto qualcuno dei vostri diletti? e non ne avete spesso udito ancora la voce e i consigli ? non li avete più riveduti nei vostri sogni, nelle vostre veglie affaticate e affannose? non li avete sentiti come discendere, pesare sopra di voi, immedesimarsi in voi stessi , congiungere alla vostra la loro vita ? Chi vi dice che mentre vi si affaccia un'immagine nel sogno, quell'immagine stessa non sia li viva, palpitante, curvata sopra di voi o assisa presso il vostro guanciale ? E chi vi dice ancora che voi sognate ? Che cosa è il sogno se non che un'esistenza piena, colma, smisurata, al cui confronto l'esistenza della veglia non è che la vita monca e impotente della pietra?... Veglia, sonno... parole! Io non vi domanderò quali fatti appartengano al mondo reale e quali a quello della immaginazione, non vi domanderò ancora quale sia quella linea che separa questi due mondi. - Negatemi che i fenomeni esistano. È assai tempo che io conobbi nell'esercito due giovani ufficiali, due gemelli : la natura li aveva fatti ad uno stampo ; nessuna distinzione fra di loro - le stesse fattezze, lo stesso colorito, lo stesso suono di voce - essi si amavano di tutta la tenerezza fraterna, e forse alla loro nascita la natura, ignara del concepimento di due esseri, trovatasi cosi alle strette, poiché la cosa non ammetteva indugio, aveva diviso fra di loro quel soffio della vita, che aveva predestinato inconsciamente ad un solo. Non ho5'conservato memoria di avvenimenti più singolari di quelli a cui dava luogo la loro prodigiosa somiglianza. Uno di essi, Giulio, era un abile giuocatore di bigliardo: l'altro, Luciano, non era che un giuocatore assai mediocre. Spesso i loro compagni, prima di accingersi al giuoco con uno di essi (era impossibile farlo con entrambi senza che ne derivasse una strana confusione), gli domandavano : - Sei tu Giulio o Luciano? noi confidiamo sulla tua parola. - Luciano, sul mio onore. Ed ecco che la partita s'impegn ava colla certezza di uscirne vincitori, ma ad un dato momento, Luciano scivolava dalla sala, subentrava non visto il fratello, e la partita era perduta. Spesso ancora nelle riviste del reggimento, uno di essi si assentava per turno, sicuro che l'altro poteva supplirlo senza pericolo di essere scoperti. Ed eccone uno sfilare grave e impettito dinanzi al colonnello nella prima compagnia cui appartiene, e appena uscitogli di vista, portarsi alla coda del reggimento e ripassare di nuovo alla testa della compagnia dell'assente. Ma un giorno il colonnello, insospettito, lo fa uscire dalle file, lo trattiene presso di sè, ed ecco che lo stratta gemma è scoperto e punito. Come è costume di soldato, essere chiuso agli affetti duraturi e gentili, e aperto solamente alle piccole passioni di un giorno, essi avevano delle amanti delle quali si dividevano i favori senza che le tradite potessero av- vedersi dell'inganno. La loro vita rimaneva cosi come moltiplicata, e la loro natura porgeva ad essi il privilegio di sensazioni sempre rinnovate e sempre recenti. Spesso avveniva che una di loro gli dicesse : - Amor mio, io non ti riconosco più questa sera, tu mi sei tutto mutato : è forse ciò che tu mi promettevi ieri l'altro ? un contegno più delicato, più rispettoso, più calmo?... ecco le tue promesse, ecco i tuoi giuramenti svaniti... - Non mi badare, o fanciulla, le mie preoccupazioni del giorno sono si gravi che io ho tutto dimenticato, e poi il mio amore è si veemente, si imperioso, si cieco... ma tu che lo disconosci, oh l tu mi ami sì poco... Certo quella mente immaginosa di Shakespeare, nell'ideare la sua commedia degli equivoci, non avrebbe potuto creare delle combinazioni più singolari e più ardite. Ma la vita dei due giovani era predestinata ad un fine prematuro e inatteso. Luciano cadde colpito da una palla austriaca nella giornata di San Martino : Giulio, che gli sopravvisse, divenne malinconico e pensieroso, senti che gli era venuta a mancare come una metà di sè stesso, abbandonò la carriera militare, ed essendosi ritirato a vivere in una piccola casa di campagna sul Canavese, vi mori di patema un anno dopo. Alcuni mesi prima della sua morte io mi recai a visitarlo, e mi trattenni alcuni giorni presso di lui. Lo trovai infermo e prostrato, affetto da quell'etisia del cuore che precede nelle nature soffrenti e sensibili, l'etisia fisica; ma la sua anima aveva acquistata tuttavia una potente affettività, una forza di astrazione straordinaria. Egli mi assicurava che era felice, che aveva ogni giorno dei lunghi ed affettuosi colloquii con suo fratello, che egli era presente ad ogni istante, che in quelle sei ore che egli trascorreva ogni giorno rinchiuso nella sua ca• mera ne evocava lo spirito col suo atto della volizione, e si abbandonava con lui alle dolci confidenze, alle piene espansioni del loro affetto, alle costanti e profonde investigazioni del loro destino. Spesso io sorrideva della sua fede, ed egli mostrava di compiangere la mia incredulità, e diceva con tutto lo slancio d'un desiderio a stento represso: - Ho potessi io presto morire, andarmene, libero, là dov'egli dimora ! oh potessi presto raggiungerlo ! E lo raggiunse di fatto. Ora potremo noi dileggiare un trasporto di fede si vivo? E siamo noi ben sicuri che tutto ciò non fosse che fede, che allucinazione, che sogno? Ho sentito uomini colti e severi dire coll'espressione d'un convincimento incrollabile: « Ciò è falso, ciò è vero, ciò solamente sussiste, fin là e non più oltre voi dovete innalzare l'edifizio della vostra fede. » Presuntuosi! E fino a qual punto hanno essi scrutato nelle viscere della natura ? Fino a qual pagina essa ha loro aperto il libro meraviglioso de' suoi segreti? Che vi hanno essi letto? La fede è finita : dalle sue basi incrollabili noi possiamo trarre delle conseguenze finite, perciò spesso limitate, monche, imperfette : ma il dubbio solo è grande, sconfinato come l'immenso universo, incommensurabile come l'oceano, profondo e tenebroso come gli abissi dell'anima umana : il dubbio è la rivelazione della scienza, - essa lo cerca immolandogli ogni fede - poiché una sola fede esiste, quella del dubbio. Ma veniamo al nostro racconto. In un caldo mattino di agosto dell'anno 1840, un elegante calesse tirato da due cavalli amburghesi, sollevava un nembo di polvere sulla via che da Raab mena a Vienna. Su quel calesse vi era Riccardo Waitzen; egli veniva da Ofen ; era uscito di tutela due giorni prima, e andava a domiciliarsi nella capitale dell'impero, con ventidue anni, due cavalli amburghesi, uno spartito di Mozart nella sua valigia e un ordine di pagamento di cento mila forini sopra una banca principale.di Vienna. Riccardo Waitzen si sentiva equilibrato come un principe nella sua carrozza; egli non era mai stato così felice, e poiché la felicità eccessiva sente assai spesso della natura del dolore, il giovine era portato a sentimenti malinconici, e guardava il sorgere del sole dietro le foreste del lago di Neusiedl con aspetto cupo e turbato, come se quel giorno fosse stato l'estremo della sua felicità e delle sue speranze. Questa sensibilità, che si eccita e si ridesta alla vista della natura, ci dice che Riccardo non era cattivo, e che il suo animo era suscettibile di sentimenti delicati e profondi : sì , egli era tale, e lo sarebbe per certo rimasto se egli non fosse uscito da Ofen, se gli avvenimenti futuri della sua vita non ne avessero sconvolto l'indole .e il cuore. Poveretto l il giovine non aveva più nè padre nè madre, anzi egli non li aveva conosciuti ; non aveva ricevuto quella dolce e perseverante educazione della famiglia che s'immedesima in noi e perdura a traverso tutte le peripezie della vita : uscito da un collegio a diciotto anni, egli conosceva le coniugazioni latine e i primi elementi della storia, sapeva suonare un valzer di Bach , e cantare una cabaletta di Schubert o di Thalberg, ma il suo cuore era rimasto costantemente la parte più negletta di lui : egli non aveva amato, egli non si era mai sentito tratto ad amare; la sua natura lo chiamava soltanto al piacere, all'incostanza, alla vita clamorosa e felice. Riccardo non aveva che una passione, una sola, ma energica, prepotente, assoluta, la passione ruinosa del giuoco, e fu da essa che ebbero origine quegli avvenimenti che noi stiamo per raccontare. Non ci arresteremo su quei due primi \, anni che egli trascorse così ignorato nella capitale: noi non lo considereremo che nella sua vita di artista e di amante, e aggiungeremo solamente che un anno dopo quel primo mattino di agosto, egli aveva ventitrè anni, un solo cavallo amburghese, lo spartito di Mozart ancora nella sua valigia, e cinque mila fiorini di capitale depositati alla banca. E finalmente un altr'anno dopo, egli non aveva più che ventiquattro anni, lo spartito inalienabile di Mozart, e cinquantamila fiorini di debito. Il giuoco lo aveva rovinato. Ma prima che Riccardo Waitzen, per una di quelle predilezioni della fortuna così rare negli annali del genio, si fosse acquistato per tutta la Germania fama di artista straordinario in due soli anni di studii e di occupazioni indefesse, era già conosciuto nei grandi centri di Vienna come un giovine la cui eleganza e la cui liberalità avevano superato ogni esempio. Bisogna aggiungere che Riccardo era bello, di quella bellezza intatta , sorridente, fiorita , da cui traspare, come la luce in un vaso d'alabastro, l'interna contentezza dell'anima: il dolore non aveva tracciata la più piccola ruga su quel volto, e, a dire il vero, è d'uopo confessare che egli ignorava completamente che cosa fosse il dolore. Non so se qualcuno de' miei lettori , qualcuno di coloro che sono portati dalla loro natura a riflettere e a trarre il meglio che si può dalla dubbia morale dei costumi presenti, si sia mai tolto seco uno di questi esseri che in tutte le società, in tutte le nazioni, rappresentano la classe più i mproduttrice, più inoperosa e più riprovevole del popolo — i lions, i dandys, i zerbini e rinchiusoselo nella sua camera, da solo a solo, e cita- tolo al tribunale incorruttibile della sua coscienza. Io mi sento umiliato nella mia natura di uomo all'idea di emettere un giudizio su queste creature. Io li vorrei poco meno che esclusi dalla nostra grande famiglia, nè dubito che verrà un tempo in cui l'umanità riverente ai due grandi principii d'ogni ordine sociale, che sono la punizione dell'ozio e la santità e la ricompensa del lavoro, condannerà all'ostracismo e al disprezzo questa classe inoperosa e fatale. Giova però osservare che il fashionable inglese ha certe eccentricità proprie della sua nazione che ne fanno un tipo interessante e curioso: il tedesco è quasi sempre assai colto, spesso artista o poeta : il francese splendido, originale, simpatico, impaziente di profondere tutta la sua fortuna per avere il diritto di uccidersi a venticinque anni, o di rientrare con decoro nella vita domestica : ma l'italiano non ambisce che lo sfoggio dell'abito, non ha nè arte, nè studio, nè distinzione alcuna , nè pregio alcuno intellettuale : egli è costantemente il più frivolo, il più ignorante e il più scipito di tutti. Riccardo non era però tanto caduto in fondo d'ogni bassezza che non riconoscesse l'avvilimento che gli proveniva da quella sua vita insipida e vana. « Io ho più di cento mila lire di debito, diceva egli una sera a sè stesso, una somma che non potrò più restituire, la fortuna ha cessato di sorridermi, e di tutto ciò che mi aveva accordato una volta non mi è rimasto nè un confidente, nè un amico, nè tampoco uno di quei buoni cavalli amburghesi che aveva portato meco da Ofen : in verità gli è ben tempo che io riprenda tra le mani quell'eccellente spartito di Mozart, che riassume tutte le mie memorie di collegio: non per nulla la Provvi4enza lo avrà collocato tra gli arnesi della mia guardaroba e conservatomelo per due anni nel fondo della mià vec- chia valigia. » Riccardo meditava su queste e tante al tre cose più tristi tra il frastuono d'una festa da ballo sdraiato sopra un sofà collocato nello sfondo di una finestra, di cui aveva racchiuse le cortine per nascondersi alla vista de' suoi amici. Era la prima volta che il pensiero del suo avvenire veniva a collocarsi come un incubo assiduo, pesante affannoso, tra lui e l'abbandono prestabilito della sua vita : Riccardo soffriva e sentiva per la prima volta di soffrire. Ma mentre egli si abbandona con una voluttà ancora ignorata a questo nuovo sentimento di dolore, ode proferire il suo nome, sente che si cerca di lui; e il giovine si scuote, si passa le mani sul viso , si racconcia la zazzera colle dita, si alza, e si slancia sorridente nella sala. Una vaga fanciulla di sedici anni, la cui voce era melodiosa come quel bisbiglio degli usignuoli, delle farfalle e dei fiori che si ascolta nelle prime notti di aprile, ere. stata pregata di cantare una vecchia leggenda tedesca ordita sopra i motivi d'una patetica sinfonia di Hummel, e Riccardo doveva accompagnarla al pianoforte. Anna Roof, che tale era il suo nome, era uscita di collegio pochi giorni prima, e si dicevano grandi cose della sua abilità nel canto e nel suono, ma sopratutto nel canto: ella era divenuta a un tratto la regina della festa, e aveva ricevuto un tributo di ammirazione e di elogi che poche donne avevano fino allora ottenuto. La sua bellezza aveva certo giovato a questo trionfo, ma nessuno avrebbe saputo dire perché Anna era bella : le sue fattezze sfuggivano allo sguardo, come qualche cosa di mobile e di vaporoso ; i suoi occhi avevano tutta la trasparenza del cielo, e quella profondità e quel mistero del suo azzurro ; il sentimento e la malinconia nel baciare il volto di una donna, non vi avevano mai la- sciato tanta parte di sè come su quello di Anna : il sentimento e la malinconia riuniti formano la natura dell'angelo, e Anna era un angelo. Certo se v'ha al mondo un tipo vivente di donna che si informi a quell'ideale di cui ogni uomo ha portato delirando l'immagine nel cuore fino a vent'anni, quella è la donna tedesca. In verità io posso anche odiare i Tedeschi, ma non posso odiare le loro spose e le loro fanciulle. È ad esse, alla loro dolcezza, al loro abbandono, alla loro fedeltà, a quella verginità di mente e di cuore, a quella cara ingenuità di fanciulla che esse sanno conservare per tutta la vita, che la Germania va debitrice della letteratura più morale e più appassionata del mondo. È la loro moralità che regge e costituisce la famiglia, è la moralità della famiglia che regge e costituisce la nazione. Io lo ripeto; io credo che ogni buon italiano odia cordialmente un tedesco, ma vede di buon occhio le sue donne. Dobbiamo e possiamo noi credere alla predestinazione? certo molti avvenimenti si compiono quaggiù per un concorso di circostanze che non possiamo giudicare imprevedute e immediate. Vi sono molte anime che si sentono, che si conoscono, che si cercano, che non ignorano l'esistenza di un'altra colla quale sono destinate a raggiungere la loro completazione. Tutte le unità nell'universo sono divise e separate, e tendono per le proprietà della loro natura a riunirsi : forse vi è nel fondo tenebroso di questo pensiero un debole filo di luce che ci potrebbe guidare a rintracciare i segreti della vita uhi-versale, del moto, della generazione e dell'amore. Quando Anna Roof e Riccardo si videro in quella sera la prima volta, sentirono che essi erano nati l'uno per l'altro, e che nessuna avversità di fortuna li avrebbe potuti disgiungere. Nessuno di loro aveva ancora amato, ma il giovane non aveva più di puro che il cuore; Anna aveva ancora l'ignoranza della purità e l'ignoranza della colpa : aveva la purezza naturale dell'angelo. Quella sera fu decisiva per tutta la vita di Waitzen ; egli suonò con entusiasmo e s'inebbriò della voce divina della fanciulla. Anna cantava con sentimento; la sua voce era debole e languida, uscivale dal petto come affannosa ; era più un lamento che un canto, ma quel lamento aveva affascinato ogni cuore e spremuto delle lacrime dagli occhi di tutta quella folla spensierata e felice. Riccardo ballò colla fanciulla un valzer vertiginoso, le cui rimembranze, il cui suono non uscirono mai più dalla sua memoria, come quelle che avevano segnato per lui il primo periodo di una nuova esistenza. Quella ghirlanda di rose bianche avvizzite, quell'abito azzurro tempestato di stelle d'argento, quei capelli cadenti e scomposti, quella taglia slanciata e flessibile, tutto quell'olezzo di cielo che emanava dalla sua persona , riempirono per lunghi anni la mente immaginosa del giovine con si grande pienezza di affetti, di sensazioni e di fede, che tanta non gliene avrebbe procurato una lunga esistenza di felicità, di godimento e di amore. Quando Riccardo, rientrato nella sua camera, rivolse lo sguardo a quegli oggetti che gli richiamavano alla memoria il suo passato, lo assalse un pentimento doloroso della sua esistenza trascorsa, di quei giorni senza amore, senza amicizia, senza coscienza di bene e di male, nei quali nulla si è raccolto, non una rimembranza, un affetto, una fede di cui riconfortarsi in quell'età nella quale non si può più vivere che di memorie. Il giovine si commosse e si armò di saldi e nobili propositi per l'avvenire: che accadesse di lui in quella notte, il cielo ed egli solo lo seppero; egli pregò e pianse come un fanciullo, si coricò colle lacrime e si ridestò tutto mutato. Otto giorni dopo egli abitava un piccolo appartamento in una casa di fronte a quella di Anna, per, modo che non si frapponeva tra di loro che la distanza della via. Fu così che Riccardo poteva lanciare sul balcone della fanciulla delle piccole pallottole di carta, sulle quali effondeva tutti gli affetti della sua anima innamorata e sofferente. Nella sua potente vitalità l'amore subisce due fasi : quella delle idee e quella dei fatti, ed è la prima di esse che ha nobilitato negli uomini questo sentimento, creando una distinzione tra i loro amori e quegli degli altri esseri organizzati, poichè nell'uomo l'amore non è tanto il congiungimento delle vite, quanto è quello delle anime e delle idee. Esistono due forze nella natura umana , sulle quali si basa tutto il sistema della vita : e sono la forza di attrazione e la forza di ripulsione - l'amore e l'odio: - l'amore è quella lotta che combattono due anime per riunirsi; e la sensualità non ha più altro scopo che quello di distruggere i corpi per affrettare la fusione delle anime: ma questa fusione è impossibile nel mondo materiale senza la cessazione delle vite, è del paro impossibile nel mondo dello spirito come quella che distruggerebbe l'individualità: da ciò il desiderio di morte negli abbandoni di amore, e quel vuoto eterno e quell'insoddisfacimento tormentoso che si prova anche nell'amore corrisposto. Ma la storia di un amore nella prima delle sue fasi, il suo nascere, il suo crescere, il suo svilupparsi, è tal cosa che sfugge alla potenza della parola, E che è ella la parola ? Tutti coloro che hanno sentito potentemente si sono arrovellati contro questo povero linguaggio umano, il quale non sa accomodarsi che colla vita dei fatti, e si trova immiserito e impotente allorché vuole esprimere la vita delle idee. Essa può manifestare un fatto con un suono, con una voce, con un periodo ; ma un'idea richiede dei volumi ancorché non avesse abbracciato che un atomo impercettibile di tempo, perché l'idea è l'infinito. È perciò che noi pubblicheremo qui semplicemente il contenuto delle varie pallottole di carta che Anna Roof e Riccardo Waitzen si scambiarono dai loro balconi. Il lettore che ha amato indovini le battaglie di quelle anime. 1.a pallottola di Riccardo ad Anna : Io vi amo. 2.a pallottola di Riccardo ad Anna : Io vi amo. 3.a pallottola di Riccardo ad Anna : Il vostro silenzio è inesplicabile ; perché ricevere le mie pallottole se non mi amate? E se mi amate perché non rispondere? 4.a pallottola di Riccardo ad Anna : Voi mi dileggiate crudelmente , voi raccogliete volontieri le mie pallottole, voi mostrate di leggerle con commozione, e non mi rispondete ; mostrate di amarmi e non me lo dite. Il vostro contegno è un enimma che tortura e confonde la mia povera ragione, allorché io tento di decifrarlo. Qualunque sia il vostro cuore per me, o rispondetemi od abbandonerò domani questo alloggio. La pallottola di Anna a Riccardo : (Se ne ignora il contenuto essendo caduta sulla via) 2.a pallottola di Anna a Riccardo : (Caduta come sopra) 5a pallottola di Riccardo ad Anna : Per carità, lanciate le vostre pallottole con maggior forza ; componetele di una carta più consistente. 3.a pallottola di Anna a Riccardo : Che vi dirò io, o Riccardo ? Abbiate compassione di me, perchè io più non mi riconosco in questi giorni. Ve lo dirò, si, che vi amo, ma non mi opprimete colla vostra insistenza, non mi lusingate, non mi straziate coll'immagine d'una felicità che non può, che non deve durare..., sappiate che il filo della mia vita è spezzato..., giurate di amarmi, e vi rivelerò un segreto terribile. 6.a pallottola di Riccardo ad Anna : Sulla mia vita, sul nostro amore, lo giuro. Dite, angelo, dite. 4.a pallottola di Anna a Riccardo : Il nostro amore sul quale avete ora giurato, non vi legherà a me per uno spazio maggiore di un anno. Sappiate che la mia esistenza è consumata da una malattia tremenda, la quale non conosce rimedio, dall'etisia. Io devo morire indubbiamente non più tardi del mio anno diciassettesimo che compirò nella prossima primavera, nella stagione dei fiori, quando tutto mi richiamerebbe alla felicità ed alla vita. Dite ora, o Riccardo, potete voi amarmi a questo prezzo? potete voi rendermi vostra ? 7.a pallottola di Riccardo ad Anna : Sono dodici giorni che non vi vedo: voi soffrite? voi siete malata ? o, perdonate questo sospetto, ricusate piuttosto di vedermi? La vostra confessione mi ha atterrito, e io sento più che mai il bisogno di amarvi e di. rendervi mia. Ma esistono pure dal mio canto ostacoli insuperabili : io vi amo, Anna, ma ho centomila franchi di debito. 5.a pallottola di Anna a Riccardo : Il vostro cuore non vi aveva ingannato; io era malata. La speranza di tanta felicità mi ha commossa ed oppressa fino a morirne. Ho voluto meditare su tutte le possibili eventualità del nostro amore prima di rispondervi. Sono lieta che accettando il sacrificio che vi assumete di compiere col rendermi vostra, io possa dimostrarvene in qualche modo la mia riconoscenza. Ma potrò io ricompensarvi del vostro amore? Possiedo esattamente abbastanza di che pagare i vostri debiti e dispongo liberamente della mia fortuna. Ma questo mutamento di stato richiederà la mia lontananza da questa città; e quindi anche la vostra. Acconsentite ? Io vi offro la mia vita di un anno, ma una vita la cui potenza sarà centuplicata dalla sensibilità, dall'amore, dal pensiero della sua cessazione imminente. Un'altra donna non potrebbe offrirvi un anno di ebbrezze più divoranti; la vostra esistenza trascorrerà attraverso una serie di sensazioni nuove e infuocate, io non vivrò che un anno nel tempo, ma vivrò un'eternità nell'amore. Tuttavia questa passione smisurata ha diritto ad una ricompensa : un altro patto tra noi : - Voi dovete essermi fedele anche dopo la mia morte, voi dovete amarmi per tutta la vostra vita. 8.a pallottola di Riccardo ad Anna: Acconsento ad amarvi per tutta la mia vita: ma giac- chè noi dovremo abbandonare questa città, non si potrebbe fare a meno di pagare i miei creditori? Noi non diremo quante altre pallottole furono scambiate tra i due amanti, fino all'ultima di esse che era così concepita: « Venite Riccardo, tutto è combinato e compiuto ». E una settimana dopo una carrozza da posta viaggiava sulla via da Vienna ad Amburgo. Anna Roof e Riccardo Waitzen andavano a passarvi la lor'o settimana d'orpello. Da questo punto ebbe principio la vita artistica di Riccardo, poiché egli non aveva appreso da giovinetto che i primi rudimenti dell'arte, e sebbene la natura lo avesse creato per essa, egli ne aveva delusi e attraversati sempre i disegni. La fanciulla non lo aveva ingannato assicurandolo della sua terribile predestinazione ad una morte sicura e precoce: egli stesso s'avvedeva di quella rapida rovina che la morte andava compiendo sopra di lei; quella gemma si era sbucciata ad un tratto, troppo presto fioriva, ma di quella bellezza fugace, di quello schiudersi violento del fiore raccolto e collocato nel vaso d'acqua, i cui petali si distaccano ancora non avvizziti dal gambo: ma nondimeno essa era bella; era mesta, ma di quella mestizia che forse negli esseri soprannaturali costituisce la gioia; l'amore la rivestiva di tutta la sua luce, il suo amore era tutta la sua vita, e la sua vita bastava a tutto il suo amore. Coloro che hanno veramente amato sanno comprendere l'eternità di un anno di amore, le mille voluttà ch'egli può offrire in un giorno, in un'ora, in un fugace momento, quegli abbandoni riuniti di ebbrezza e di cuore, in cui si dice: basta, te ne scongiuro, lasciami amico, perché io temo di morire..., io temo che la mia natura s'infranga. Riccardo non aveva ancora amato: come la maggior parte degli uomini egli aveva trasvolato su tutto, sfiorato tutto; ma non era giunto mai al fondo di un cuore, non aveva conosciuto quel profondo possedimento morale che costituisce unicamente l'amore, che unicamente lo autorizza, che eleva il possedimento fisico fino alla sua celeste sublimità, e la cui privazione fa si che molti di coloro i quali credono di avere smisuratamente amato, muoiono senza aver conosciuto queste divino sentimento. Fu quindi una serie di sensazioni nuove e profonde quella che venne a ridestare la sensibilità assopita del giovine. Riccardo si vide come risvegliato da uno di quei sogni, i quali ci sembrano così belli, così lusinghieri nel sonno, e che al mattino ci appaiono insipidi e vani. Allo svelarsi di questa verità egli avrebbe potuto rinvenire un conforto nelle seduzioni della sua vita avvenire, ma questa dolcezza eragli amareggiata da un convincimento terribile, dalla perdita inevitabile di Anna. Riccardo non poteva illudersi: egli lo vedeva, egli lo sentiva; quello stesso amore, quegli stessi abbandoni della fanciulla scuotevano troppo profondamente la sua sensibilità... oh ella era sì fragile, sì delicata..., l'avresti detta una di quegli steli di giunchiglie che si spezzano sotto il peso di una goccia di rugiada, una di quelle piccole farfalle azzurrine che intorpidiscono e muoiono - sotto il soffio più sottile del tuo alito..., e il giovine temeva sovente di abbracciarla, egli poteva stringerla troppo forte, farle male, intorpidire, arrestare quella corrente vorticosa della sua vita; scuotere, avvizzire quelle forme divine e sensibili come le foglie pudiche della mimosa. Questo ritegno forzato e volonteroso ad un tempo, quel non so che di arcano che circonda una creatura si sofferente, sì delicata e sì frale; quella nobile imponenza del dolore, quella triste e solenne maestà che proveniale dalla morte, che era già in lei, che rivelavasi appunto in quell'azione centuplicata della vita, ne formavano per Riccardo l'oggetto di un culto superstizioso e indefesso. Ma ciò che affascinava sopratutto la mente esaltata .del giovine, era la dolcezza, l'espressione ineffabile del suo canto. Anna cantava con forza, con sentimento; cantava spesso dalla mattina alla sera, la musica era il suo linguaggio, essa ne conosceva tutte le leggi, tutte le intonazioni, tutti gli effetti, tutte le modulazioni più arcane... Ma ciò che v'era di incomprensibile, direi quasi di pauroso nel suo canto, era che esso non ridestava idee, od effetti, o memorie di questa terra: colui che l'udiva si sentiva rivivere con sensazioni nuove, incomprensibili, inusitate, in un mondo del pari inusitato... Era forse l'approssimarsi per lei di questo mondo che le permetteva di udirne e di rivelarne le armonie come l'eco di un eco? Perocchò io credo che esistano -armonie, linguaggi, rivelazioni tra mondi e mondi. Quella vaga malinconia che s'impossessa talora di noi, che sente come del rimpianto, che sembra accennare a gioie, a dolori, ad affetti trascorsi, e ci occupa tutto, e non si sa cosa sia, è la rimembranza di un mondo passato: quelle aspirazioni che riempiono ed agitano tutta la nostra vita, quel succedersi di tanta speranza sempre deluse, e sempre rinnovate, quell'avidità insistente dell'infinito, non sono che l'attrazione di un mondo avvenire. Noi viviamo nell'eternità, collocati tra queste due potenze ugualmente dilette, e ugualmente formidabili: sono queste attrazioni del passato e del futuro che dilatano i confini della nostra esistenza, anzi che la costituiscono, poichò noi non, vivremmo senza di esse che la vita materiale dell'istante. L'infinito è nell'uomo. Chi non sente? Noi viviamo in esso a sbalzi, a tratti, a periodi, a vite parziali; ma passiamo dall'una in un'altra come gli anelli di una catena riunita alle sue estremità, come i punti lineari di un circolò; noi giriamo sulla superficie senza mai uscirne. Ecco l'infanzia: voi non vi siete ancora tutto emancipato dalla vecchia vita : avete modi, pensieri, aspirazioni inadatte a quello stato di cose nel quale siete rinato; vi sentite smarriti, confusi, impicciati; egli è che voi agite tuttora per le abitudini di un mondo antecedente : ma la vostra intelligenza, dopo aver lottato trent'anni per redimersi, vi pone finalmente in equilibrio tra queste due attrazioni, ed ecco a quell'età la pienezza della vita, sulla quale oscillate un istante prima di uscire dalla corrente, prima di subire l'attrazione di un mondo avvenire che vi precipita verso la vecchiaia e verso la morte; ma la morte non esiste; essa è la vita e la luce. Avete mai osservato un infermo? egli è buono, egli è docile, la sua natura si è tutta mutata, per poco che il suo spirito sia stato coltivato, egli sarà anche poeta : egli è che più si rallentano i nodi che ci avvinghiano a questo mondo, e più noi ci sentiamo posseduti dall'altro : i vecchi, i sofferenti, gl'infermi ne subisono già la natura; essi si trovano collocati tra le due vite, li, sul margine, sentono ancora dall'una a dall'altra, e non appartengono più interamente ad alcuna. L'umanità riverisce nel dolore e nella vecchiaia le scolte di questo mondo invocato. E certo quel fascino del canto di Anna, quella emanazione divina e incomprensibile di tutta la sua persona, non erano che l'eco di una rivelazione di quel mondo. E che cosa è il canto? Tutti i popoli cantano, ma gli sventurati sopra tutti. Egli è forse la rimembranza di un linguaggio che sparve o le prime voci di un linguaggio che sorge? forse la lingua delle passioni, di cui noi balbutiamo le prime sillabe disordinate e sconnesse? Anna cantava il suo amore e la sua morte, e le sue note erano l'elegia del suo destino. - Anche gli uccelli cantano morendo. Mi ricordo che quando era fanciullo mi prendeva vaghezza di andare le notti di primavera ad ascoltare il canto degli usignuoli. Una sera era per ciò uscito alla campagna, e m'era sèduto presso una siepe poco distante da un olmo, su cui uno di essi cantava con tale abbandono, e con note si malinconiche e toccanti che io, senza saperne il perché, mi struggevo tutto in lacrime udendolo. Si piange assai facilmente a quell'età, e tutta la vita avvenire ha di rado un sorriso che valga una sola di quelle lacrime. La luna era limpida e piena e inondava quelle campagne silenziose della sua luce; tutta la valle risuonava di quel canto. Ma nel colmo della notte la sua voce divenne fioca e lamentevole; a poco a poco le sue note si mutarono in un gemito prolungato, sommesso, poi interrotto..., poi non udii più nulla : pensai che fosse volato via. Stava allora per allontanarmi quando intesi un improvviso romorio tra quelle frondi, e sentii qualche cosa caderne, urtando di ramo in ramo:... mi avvicinai esitando, e vidi che era un uccello, un uRignuolo, certo quello medesimo; le raccolsi, era ancor vivo, ma sì delicato, sì leggiero, non aveva più che le penne; il sua piccolo cuore batteva si concitato che non poteva numerarne le pulsazioni..., il poveretto mi spirò tra le mani pochi minuti dopo. Non ho mai dimenticato quell'uccello. Strana potenza dell'amore! Riccardo divenne artista per Anna: fu a lei che egli dovette la sua gloria, la sua fecondità, il suo nome. Per quale miste essa aveva potuto apprendergli in un anno i segreti più imperscrutabili dell'arte? essa che pure li ignorava, e a cui forse non erano suggeriti o svelati che da un istinto? Ecco la sorgente di quel terrore superstizioso e fatale che invase tutta la vita del giovine, e che si accrebbe dopo la cessata esistenza di Anna. Essa avevalo educato col canto. Sotto l'incantesimo delle sue note, la mano inesperta di Riccardo, quasi passiva, quasi non volente, aveva creato delle melodie straordinarie: a poco a poco il suo orecchio, il suo cuore si erano aperti a quell'armonia, a quel ritmo celeste della musica; il giovine vi si era abbandonato con trasporto, tutto era inusitato per lui, tutto delizioso e incantevole; egli aveva provato delle sensazioni nuove, energiche, insperate, la cui potenza lo aveva quasi atterrito; come cosa che egli aveva creduto impossibile nell'arida realtà della sua vita trascorsa. Pareva ,che la fanciulla non volesse dividersi da lui senza apprendergli tutto, senza trasfondersi tutta in lui stesso. « Mio povero amico, le diceva ella sovente, tu rimarrai solo assai presto, ma io sento che non ti abbandonerò anche estinta: il mio spirito veglierà costantemente presso di te, e ti accompagnerà come una guida invisibile sulla tua via abbandonata e deserta: come una fiaccola solitaria illuminerà della modesta sua luce la tua povera vita di artista. Ma se pure io dovessi talvolta separarmi da te, se tu più non mi sentissi al tuo fianco, e avessi bisogno della tua Anna..., oh allora chiamami; suona quella sinfonia memorabile di Hummel, le cui note ci ricordano il primo giorno avventurato del nostro amore, e a quel richiamo, io abbandonerò tutto, io volerò ancora presso di te, dovessi per ciò divellermi dall'infinito, e rinunciare alle gioie più sacre e più inebrianti del cielo ». E tredici mesi dopo le nozze di Riccardo e di Anna, la Germania era commossa dall'apparizione di una raccolta di grandiosi componimenti musicali, che un artista già grande e ancora ignorato dedicava sotto il titolo di Foglie di cipresso, alla santa memoria di Anna Roof sua moglie. Passeremo di volo su tutte le fasi della sua vita di artista: non accenneremo ad alcuna delle sue composizioni più elette, benchè quell'ingiusta dimenticanza a cui furono condannate da una fatalità dolorosa, altrettanto che inesplicabile, ci ecciti a riporle, per quanto è in noi, alla luce della pubblicità e della gloria. Ma ciò appartiene al cómpito dell'arte e sfugge alle esigenze del romanzo. E chi d'altronde potrebbe rintracciare nel vasto oceano dell'armonia, tra i ruderi de' suoi monumenti abbattuti, le reliquie di quelle concezioni obbliate e disperse? Prodigio ineffabile dell'amore! Egli è sopravvissuto alla scienza, egli che ne è la sintesi, egli che è la scienza immortale della vita. Il nome di Riccardo accoppiato alle glorie palesi dell'arte fu travolto nell'oscurità e nell'ohblio, congiunto alle gioie segrete dell'affetto è passato splendido e illeso a traverso le tenebre secolari del tempo. L'amore, giudice e maestro dell'umanità, ne registra la storia ne' suoi volumi infiniti. L'umanità è nata e si perpetua coll'amore, nè potrà ricomporsi che nella sua tomba medesima. Dopo la perdita di Anna, Riccardo abbandonò Amburgoo e pensò che la vista di nuovi cieli e di nuovi costumi lo avrebbe distolto dal suo dolore operoso e costante. Venne a Linz, attraversando quegli ultimi gioghi delle Alpi che si perdono nelle pianure del Danubio, e poiché tutti quei luoghi gli parlavanb ancora di lei e della sua infanzia, decise di attraversare la Germania e di entrare nella Francia per quel fiume e pel Reno. Fu sui teatri di Ratisbona e di Straubing che egli raccolse i suoi primi allori musicali, e di là festeggiato e onorato in tutti i diversi stadii del suo cammino, ad Amberga , ad Ascii , a Coburgo, a Francoforte, a Magonza, entrò in Parigi pochi mesi dopo la sua partenza, preceduto da tutti gli allettamenti della pubblicità e della fama. Riccardo passò cinque anni nella capitale della Francia, allora, come attualmente, l'unico paese della vecchia Europa ove le arti e le scienze fossero rimunerate di fama e di danaro: l'unico centro ove si riflettesse tuttora un debole raggio di quella civiltà che è tramontata nell'antico continente per risorgere sulle rive del nuovo mondo. Egli vi si vide ad un tratto onorato, dovizioso, felice; ma una profonda amarezza veniva a turbare di tempo in tempo l' immensità delle sue gioie insperate: la rimembranza, la terribile rimembranza, diremmo quasi la presenza spirituale di Anna. Riccardo era buono, sensibile, affettuoso, ma la sua natura era variabile, sdegnosa di riposi e d'indugii; egli non sapeva essere lungamente misero o lungamente felice, non sapeva, come tanti esseri sensibili e delicati, sacrificarsi ad una astrazione, ad un'idea fissa, ad un voto, darsi ad un affetto per tutta la vita: e che era egli quell'affetto?... quali diritti aveva il passato sopra di lui? perché tributare ad un amore che aveva cessato di esistere il sacrificio di quelli che potevano ancora rallegrare la sua vita spensierata e ridente? Egli aveva pianta la fanciulla -per due anni, l'aveva amata fortemente e nobilmente, e questo lungo tributo di lacrime e di memorie doveva bastare alle terribili esigenze di quell'amore sepolto. Riccardo lo credeva, lo voleva, egli sentiva che la vita ha i suoi diritti, la virtù i suoi doveri e l'umanità le sue leggi: tutto inesorabile, tutto prepotente e severo. Noi lo diremo, Riccardo non amava più Anna: non solo egli avrebbe voluto dimenticare di averla amata, ma per una di quelle facili ingratitudini di cui tanto si compiace lo spirito umano, egli avrebbe desiderato di obbliare anche il suo debito, il debito della sua celebrità, del suo nome, della sua ricchezza medesima. Nulla è più grave e penoso, nulla è più insoffribile alla maggior parte degli uomini che il peso della riconoscenza. Assai di rado, se il benefattore non assume i modi e l'apparenza del beneficato (ciò che pretendiamo assai spesso), noi possiamo perdonargli il suo beneficio, È un debito tremendo che ci toglie ogni quiete, che ci rende avidi e impazienti di soddisfarlo anche ad usura. Quelle minute soddisfazioni, quelle piccole vittorie che si riportano ogni giorno, ogni ora, in questa lotta indefessa tra anima ed anima, tra creatura e creatura, in queste battaglie assidue e spietate dell'egoismo, sono le uniche sensazioni che ci confortino, nella nostra umana piccolezza, dei mali grandi e reali della vita; — tutto ciò è dolce, ma nulla è più dolce e più consolante che lo sciogliersi dal vincolo della gratitudine. Noi non l'abbiamo detto; ma abbiamo sentito più volte la nostra coscienza susurrarci all'orecchio: oh com'è dolce l'essere ingrati l Dopo la morte di Anna, Riccardo aveva passato sei mesi interi senza suonare : il suo dolore era ancora troppo vivo, troppo recente; pareagli che ogni nota, richiamandogli qualche circostanza della sua vita felice, un atto, un detto, un sorriso della fanciulla, avrebbegli ricordata con una realtà troppo eloquente la memoria terribile di quella perdita. Ogni rimembranza di lei era connessa ad una rimembranza della sua arte: ripassando su tutti gli studii musicali di quella sua carriera prodigiosa, egli poteva ricostruire tutto intero l'edificio del suo amore e delle sue memorie: Anna era morta, ma avevagli lasciata un'eredità di rimembranze cosi potenti che avrebbero bastato a riempiere tutta una vita. L'arte e l'amore si erano fusi per lei, e cosi unite le erano sopravvissuti nel giovine: forse in tal modo ella aveva tentato di eternare in lui la sua memoria, affidando al suo cuore di artista i doveri e gli affetti del suo cuore di amante. Ma una sera Riccardo aveva avuto vaghezza di risuonare quella sinfonia di Hummel che la fanciulla avevagli indicata per richiamarla. Egli aveva errato tutto quel giorno per le campagne, l'autunno volgeva al suo termine e l'inverno si riaffacciava colle sue brezze; cadevano dagli alberi le ultime foglie ingiallite, e i piccoli scriccioli nascosti nelle siepi alternavano quei loro gridi acuti e lamentevoli come di qualche cosa che pianga : l'anima di Riccardo era agitata da strane sensazioni..., egli pensava a egli avrebbe data la sua vita per rivivere un giorno nel suo amore, per ritogliere alla mente inesorabile quella sua Anna adorata. Rientrò nella sua camera che le prime tenebre della notte ne velavano stranamente gli oggetti senza nasconderli e senza lasciarne apparire le forme; il vento faceva gemere gli alberi del suo giardino, e gli steli dei fiori collocati nei vasi della sua finestra percuotevano spesso, così agitati, nei vetri come persona che accenni di entrare. Riccardo si sedette risoluto al pianoforte e suonò la sinfonia fatale di Hummel. Prodigio meravi- glioso ! Le sue mani scorrevano come trascinate, come mosse da una forza estranea, sulla tastiera ; le note ne uscivano così limpide, così pure, così simili alla voce umana, e più propriamente alla voce di Anna, che il giovine si senti rivivere un istante in tutta la più dolce realtà del suo passato ; egli si sentiva invaso da un'alteanima , sentiva la sua esistenza raddoppiata, vi era qualche cosa che gravitava sopra di lui senza pesare, che lo investiva tutto senza toccarlo, che parlavagli senza essere udito; egli udiva suonare e pareagli ad un tempo che tutto fosse silenzio intorno a lui, senonchè la fiammella della candela, che gli ardeva dinanzi, crepitava stranamente, curvandosi da un lato e dall'altro come sotto l'azione di un soffio invisibile. Riccardo non dimenticò mai quella notte. Egli visse più volte di questa doppia e misteriosa esistenza, le cui sensazioni, anziché estinguersi coll'abitudine, diventavano sempre più delicate e più vive. È in quegli istanti che egli aveva creato quelle melodie così dolci e così patetiche, che gli procurarono, ancora vivente, una celebrità invidiatagli da tutti i più grandi compositori della Germania. Fu per ciò che le sue opere, benché sorte in un paese che vanta una musica ideale come la sua letteratura, e che può dirsi la patria della musica elegiaca, furono segnalate per la loro malinconia e per i sentimenti singolari e nuovissimi che suscitavano anche nei cuori più induriti e più aridi. Ma il carattere di Riccardo formava uno strano contrasto coll'indole delle sue creazioni : egli lo sentiva, egli comprendeva del paro che nulla proveniagli da sè stesso, che la sua musica non era sua, era di Anna. Fu forse questa convinzione che uccise il suo amore e la sua riverenza per essa? Noi esitiamo a credere che un'invidia così ingiusta e col- pevole abbia potuto allontanare dal cuore del giovane la dolce immagine della fanciulla, e quasi rimproverarle la tenacità del suo affetto e l'assiduità della sua dimora presso di lui; egli è però ben certo che, due anni dopo la sua perdita, l'anima di Riccardo incominciò a ribellarsi a quella memoria, e ciò che aveva formato un tempo uno dei suoi allettamenti più dolci, quella presenza spirituale di lei, che manifestavasi appunto nella fecondità e nella potenza improvvisa del suo genio, divenne pel giovane un oggetto di terrore e di sdegno. Riccardo si sentiva trascinato al realismo della vita, e forse la sua anima era troppo debole per reggere all'imponenza di quell'affetto, troppo poco elevata per inorgoglirsene e tributargli il sacrificio di tutta la sua esistenza. E pure egli lo aveva promesso : Tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita; ecco il patto terribile che lo aveva vincolato a quella fanciulla, e che ella sembrava richiamargli ad ogni ora, ad ogni istante, rinfacciandogli, colla tremenda solennità della sua presenza, il disegno che egli aveva concepito d'infrangerlo. Parve a Riccardo che vi fosse qualche cosa di crudele in quel pretendere il compimento d'un sacrificio sì inutile e sì doloroso; egli pensò che l'insistenza della fanciulla lo sciogliesse dall'obbligo della sua gratitudine e del suo amore, e credette che avrebbe potuto dimenticarla senza essere infedele ed ingrato. Egli è così facile il credere ciò che è nei nnstri voti, che Riccardo si avvalorò di quella persuasione per obbliare senza rimorso ciò che doveva essere l'oggetto di tutti i suoi affetti di amante e di tutte le sue aspirazioni di artista: a poco a poco il suo spirito si sentì preparato a quella rivolta, e un giorno esitò, poi decise, e si abbandonò risoluto alle sue nuove passioni, pregustando, l'ebbrezza di esaudirle senza lacrime e senza pentimento. Passò così quattro anni, durante i quali egli non aveva mai più udito quella fatale sinfonia di Hummel, nè nota alcuna che potesse richiamargli il suo passato : l'immagine della fanciulla era così svanita a poco a poco dal suo cuore, e se vi tornava qualche volta egli sapeva attutirne e dimenticarne i rimproveri nella gioia di affetti più recenti e più lieti. Riccardo era felice. Quattro anni dopo questo ultimo avvenimento, Waitzen diresse al suo amico Giorgio Duplessy, direttore della Società degli artisti, la lettera seguente: a Mio caro amico. Come tu sai, io sposerò domattina madamigella Emilia Duport, quella bella e saggia guascona che abbiamo conosciuto insieme a Pontoise, ricca de' suoi diciott'anni e d'un mezzo milione di dote. Papà Duport darà per ciò domani a sera una splendida festa da ballo nel suo palazzo al boulevard Montmartre, 52. Egli, mia moglie e il tuo amico ti pregano d'intervenirvi. Come aveva passato Riccardo quei quattro anni? Egli era ricaduto nel suo abbandono abituale, in quell'avidità di piaceri frivoli e vani pei quali aveva già un tempo dissipata quella fortuna che aveva portato seco da Ofen. Non aveva più amato, ma si era dato ai piccoli amori di un giorno, a quegli amori senza trasporti, senza dolori, senza quelle gioie opprimenti che danno le grandi passioni, simili a quei fiori che noi raccogliamo quasi senza avvedercene camminando, e che sfogliamo e gettiamo sulla via dopo averne aspirato una sola volta il profumo. Nei due primi anni della sua vedovanza egli aveva già stabilita la sua fama d'artista ed ottenuto un successo che nulla avrebbegli più potuto contendere. In quella sua stessa inazione egli si era serbato un posto eminente tra le grandi individualità della scienza, e vi sarebbe rimasto anche perseverandovi, ma l'amore dell'arte e della vita domestica avevano ripreso il loro impero sopra di lui, e Riccardo contava oramai di abbandonarvisi per tutta la sua esistenza. Non aveva egli più pensato ad Anna durante tutto quel tempo? La memoria della fanciulla era dunque svanita per sempre dal suo cuore? No, egli aveva riprovati ancora dei momenti paurosi, aveva risentite delle memorie strazianti; in quegli stessi abbandoni de' suoi mille amori, nell'ebbrezza delle sue gioie, nel colmo della sua felicità, l'immagine di lei gli si era riaffacciata cupa, minacciosa, inesorabile: il giovane aveva risentita la presenza di lei con tutte quelle circostanze che gliel'avevano palesata la prima volta; aveva avuti dei sogni tremendi dai quali si era destato inorridito, compreso d'uno sgomento che rinasceva ogni notte più tormentoso e più atroce. E più volte, sotto l'oppressione di quell'incubo, Riccardo aveva pregato la fanciulla di perdonargli; l'aveva pregata come un ragazzo, piangendo; le si era prostrato, le si era umiliato come un codardo, tremando dinanzi all'orrenda apparizione di quell'immagine spavente'vole. Perchè essa le appariva nel sogno sotto altre forme, e non per questo perdeva della sua somiglianza. Riccardo la vedeva dappertutto, nelle prime ombre della notte, in tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo, in quei riflessi profondi e fantastici degli specchi che ricevono l'ultima luce del giorno, nelle persone da lui amate, in sè stesso ; sì, e ciò era più terribile, in sè stesso. Egli se ne sentiva invaso come da uno spirito che assorbisse tutte le sue facoltà, che lo paralizzasse, che lo possedesse tutto senza lasciargli che l'impotente intuizione del suo stato. Vi furono dei momenti in cui Riccardo aveva pensato di sottrarsi col suicidio all'orrenda persecuzione di quell'immagine ; vi fu un giorno in cui, il giovine inorridiva pensandovi, aveva osato perfino di maledirla. E che poteva ora pretendere da lui quella donna? quali erano i tremendi disegni di quello spirito severo e implacabile? Avvelenargli tutte le sorgenti della vita, mescersi a tutte le sue gioie, travolgere tutti i suoi affetti, turbare tutti i suoi sonni... perchè sì, era d'uopo che egli il confessasse a sè stesso, egli si era deciso per ciò solo a scegliersi una nuova compagna: per avere una creatura al suo fianco, cui dire nella notte: - Svegliati, te ne prego, ho paura, ella è li, vedila; ella mi vuole, ella mi domanda Riccardo volgeva nella sua mente questi pensieri in quella stessa ora felice che seguiva al suo nodo fortunato; tra lo stesso fragore del ballo, in quella sala di papà Duport che per una strana somiglianza di decorazioni e di arredi gli richiamava alla memoria quella sala di una casa sconosciuta ove aveva veduto Anna la primi volta. Ma egli fu riscosso assai presto da quella preoccupazione affannosa : tutto gli parlava di felicità e di amore in quel luogo, e la danza e quel frastuono di mille voci, e quel profumo inebbriante di donna, - emanazione della loro anima, mista a quegli atomi più preziosi della loro persona che esse abbandonano col moto, come i fiori agitati dal vento abbandonano la parte più pura del loro polline fecondatore. Ma nell'uomo questo profumo, il bacio di questi atomi volatizzati, non desta che la voluttà, e non suscita che desiderii di amore: nel fiore, essere più perfetto, soddisfa egli solo a tutte le leggi della fecondazione. Riccardo si abbandonò con trasporto alla danza e si scagliò in quel turbine di valseggiatori, ove si confuse abbracciato alla fanciulla. Sotto quella sua taglia piena ad un tempo e flessibile, la mano del giovine indovinava le dolci ondulazioni delle sue forme: vi era in esse, nella loro mobilità, nel loro fremito, qualche cosa di più eloquente del desiderio; il cuore di Emilia batteva concitato e sommesso, spesso interrotto come il timido linguaggio delle passioni : i ricci de' suoi capelli disciolti lambivano la fronte del giovane come un bacio protratto; le lunghe pieghe del suo abito ne avvolgevano, agitandosi, la persona quasi a confonderli in un essere solo e indivisibile. In quell'abbisso di voluttà Riccardo dimenticò il suo passato e sè stesso. Ma nell'ora che la festa volgeva quasi al suo termine, in un momento in cui i danzatori si riposavano sui soffici divani della sala, e le fanciulle si asciugavano coi loro fazzolettini di batista quelle gemme importune di sudore che piovevano dai loro volti arrossati; in quel periodo di solenni meditazioni in cui ripassano dinanzi a noi tutte le gioie, tutti i timori, tutte le ansietà della festa; e la stretta di mano e il bacio involato, e il fremito di tutta la persona, e la parola susurrata all'orecchio, e, Dio lo perdoni, quel contatto ardente e magnetico del ginocchio che uccide tante innocenze nei balli, e basta a svelare egli solo tutti gli arcani più imperscrutabili della vita, il signor Duplessy entrò nella sala tenendo per mano una bella fanciulla, e disse al signor Duport : - Perchè non fate suonare vostro genero?... ecco qui una giovine artista che ha una voce portentosa da soprano, e che accompagnata da lui, ci farà sentire tutte le meraviglie del suo canto. Pregato dal signor Duport, Riccardo si sedette senza esitazione al pianoforte; tutte le copie dei danzatori gli si disposero in Circolo; egli era lieto di dare a sua moglie e a quella vaga riunione di giovani e di signore un saggio straordinario della sua abilità musicale. Ma nel rivolgersi alla fanciulla per invitarla a sedersi presso di lui, egli trasalì nello scorgerne le sembianze.' Era lo stesso profilo di Anna, la stessa persona esile e delicata, lo stesso aspetto pensieroso e soffrente; ma vi era ancora di più, essa vestiva un abito azzurro sparso di stelle d'argento, e pendevale tra le trecce scomposte una corona di rose bianche avvizzite. Tutto si riaffacciò allora alla sua mente: erano scorsi sei anni che in una sala come quella, in una festa da ballo, forse in quell'ora medesima, egli aveva conosciuto quella fanciulla a cui lo aveva legato un giuramento formidabile, a cui aveva fatto sacramento di fedeltà e di amore per tutta la vita; in quel giorno stesso egli aveva infranto il suo patto, in quel giorno stesso egli doveva forse subirne una punizione tremenda. Riccardo impallidì a questa rimembranza, e disse alla fanciulla con voce interrotta: - Che cosa desiderate di cantare? Incominciate. - Non so, diss'ella, ciò che mi verrà pel primo sotto le mani, e tolto un volume di musica, e apertolo a caso, lo collocò sul leggio. Riccardo vi gettò gli occhi e trattenne a forza un grido di spavento... era quella sinfonia abborrita di Hummel Allora il giovane avrebbe voluto ritirarsi, ma non era più in tempo; la fanciulla aveva già incominciato..., era la stessa voce di Anna..., un brivido di morte scorse per tutte le fibre di Riccardo; egli pure volle incominciare, ma, orribile cosa! le sue mani erano irrigidite; le sue dita toccavano la tastiera e non potevano premerla; cin- que o sei note soltanto risposero a' suoi sforzi impotenti e convulsi: la sua fronte si coperse di un sudore gelato e un pallore cadaverico si diffuse per tutto il suo volto... Papà Duport gli si avvicinò e gli disse: - Che avete? cessate per carità, voi soffrite, voi siete pallido come un cadavere. - È nulla, disse Riccardo sorridendo d'un sorriso spaventevole, ora vedrete. E volle ricominciare, ma le sue braccia avevano smarrita ogni coscienza della loro forza e ogni facoltà di governarla; egli percosse sì violentemente sulla tastiera, che molte corde s'infransero e si arricciarono scivolando sulle altre con uno stridio prolungato e terribile. In quel momento parve a Riccardo che la fanciulla si curvasse presso di lui e gli mormorasse all'orecchio: « Tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita. » Egli gettò un grido e svenne. Trasportato nella sua stanza nuziale, gli furono prodigate tutte le cure che la scienza e l'affetto potevano suggerire alla desolata famiglia di Duport..., ma fu indarno che si tentò di richiamarlo alla vita. Riccardo Waitzen era morto di sincope. BOUVARD Arn - with all deforrnity's dull, deadly Dlscouraging weight upon me, like a mountain, In feeling, on my heart as on my shoulders A hateful and unsightiy mole-hill to The eyes of happier men... BYRON, The deformed trasformed.

Bouvard ! Chi era Bouvard? Forse taluno de' miei lettori tenterà ancora, non indarno, di far rivivere nel suo cuore le memorie vaghe e lontane che vanno annesse a quel nome; forse ricorderà tuttavia una storia misteriosa che ha per lungo tratto agitato le giovani fantasie di quei tempi, e ricevuto da tutte le anime sensibili un omaggio di pietà e di affetto. Io stesso mi arrovello di richiamarmi alla mente le circostanze di questo racconto pietoso, come le memorie lontane dell'infanzia, come le visioni fantastiche di un sogno: - bello e fuggevole com'esso, severo e malinconico come tutto ciò che ha creato il sentimento l'amore. Vi furono alcune vite che la natura aveva destinate alla pubblicità, alcune intelligenze che il cielo voleva collocate nella luce - per dirigervi le masse come ad un faro luminoso, e tuttavia quelle vite si spensero ignorate nel mistero, quelle intelligenze si consumarono sdegnose nelle tenebre. - Esistono due forze nella natura? - la forza positiva che crea e predestina, e la forza negativa che reagisce e distrugge? Domandatelo all'uomo, domandatelo al segreto della sua vita intima, domandatelo al genio sventurato ! Bouvahl fu un genio sventurato. Il suo nome tramontò così rapido come l'astro precoce della sera; la sua vita fu il passaggio di una meteora abbagliante che si spegne a metà della sua curva, e s'invola agli occhi meravigliati che la mirarono. Io non tesserò qui un racconto immaginato : scriverò la storia di un uomo che ha sofferto, la storia di una vita la cui azione si concentrò, tutta nel dolore, la cui catastrofe ha colmato di orrore e di pietà tutti gli animi generosi che la conobbero. - Scrivo per me stesso, scrivo per dare alle memorie della mia gioventù la durata della mia esistenza, per riserbarmi negli anni delraridità il conforto ineffabile delle lacrime. Chi non ha visitato il paese della Savoja, il suo suolo a sbalzi, le sue valli ripiene di nebbie e le sue montagne di pini e di granito, non conosce quel punto della terra dove la natura ha riposto il segreto della sua malinconia. Sulle montagne di Crest-Voland gli uccelli hanno una voce più dolce, il rigogolo canta nelle siepi con delle note tristissime, e vi ha in tutto il territorio del Ciablese una specie di reatino, il cui grido appena sensibile si assomiglia al lamento di un moribondo. Lungo i ciglioni delle montagne, le rive tappezzate di viole bianche che la superstizione ha collocato tra i fiori di cimitero, spiccano, come nastri candidi ondeggianti, su quel verde cupo delle eriche, ove delle folate di farfalle grigie aleggiano intorno a quei cespugli a migliaia. Bouvard nacque in quel luogo, nacque in una capanna: - suo padre suonava la gironda e faceva ballare una marmotta nera della valle di Champagneux. - Fu un triste acquisto quello che la famiglia di Bouvard aveva fatto colla nascita di questo fanciullo: in fatto egli era rachitico e infermiccio: la deformità lo aveva segnato colle sue tracce ributtanti, e non gli aveva lasciato nulla di regolare, nulla di attraente nel viso, nulla di vago nell'occhio e nella voce: - parea che la natura lo avesse per metà ripudiato non consentendogli che la pura fruizione della vita. A sette anni, Bouvard cominciò ad avvedersi della derisione che gli fruttava la sua deformità, e si senti trafitto nel cuore, immaginando e indovinando forse il destino di tutta la sua esistenza. Le prime avversità dell'infanzia lo fecero inclinare alla meditazione e all'isolamento; e forse dovette a questa sventura precoce lo sviluppo straordinario della sua sensibilità, fors'anche il suo genio medesimo; - ché, se il dolore crea o modifica i grandi ingegni (e la sventura nei sommi è causa e non accidente od effetto), la sua azione debb'essere più efficace nei primi anni della vita, quando la società non ci ha ancora armato il cuore di punte per schermircene, e lo spirito vergine e puro ritiene le impronte incancellabili della natura. Egli era costretto a separarsi da' suoi compagni, e si assideva la sera lungo le rive dell'Isere a veder scorrere le acque e tramontare il sole dietro la foresta di Gresy. « Com'è bello il sole! - aveva detto una volta a sè stesso Bouvard, come sono belle queste farfalle e questi uccelli che fanno qui il loro nido! - Ecco un magnifico fiore di giglio; quale precisione in tutte le sue parti, quale esattezza nella disposizione delle. sue foglie, quale flessibilità meravigliosa nel suo stelo! - E nel chinarsi a raccoglierlo, aveva intraveduto la sua immagine nella superficie trasparente del fiume, - la sua. immagine brutta, laida, ributtante... Bouvard sedette sopra la riva e pianse lungamente con abbandono. Egli avrebbe almeno desiderato un cuore, cui confidare il segreto delle sue prime sofferenze; e forse la tenerezza melanconica di sua madre aveva compreso quanto tesoro di affetti si rinchiudesse nell'animo delicato di quel fanciullo, forse nella madre avrebbe trovato un'amica, ma quell'amica doveva essergli presto rapita; - a dieci anni Bouvard era rimasto solo nel mondo. Un giorno suo padre gli aveva detto: - Mio caro figliuolo, tu hai dieci anni compiuti, e quantunque tu sia alquanto malaticcio e la tua figura non sia per verità delle migliori, le tue forze sono ora abbastanza sviluppate, e puoi bastare, d'ora in avanti, a te stesso: - io conto di andare nella Francia, ed è tempo che noi ci separiamo; prenditi la mia marmotta e la mia gironda, è assai più di quello che io potrei darti, ma il cielo compenserà almeno colla tua fortuna il sacrificio generoso di tuo padre. Bouvard prese la via di Bonneville, e dormì la prima notte in un canneto lungo la riva del torrente. Era una bella notte di agosto, egli non aveva veduto mai tante stelle, nè inteso così bene quel rumorio che fanno le locuste nelle stoppie, e quei mille suoni soavi e ineffabili che producono le foglie in una notte serena di estate. Parve a Bouvard di sentire in sè stesso qualche cosa di inusitato: - egli non aveva sonno, egli non aveva paura, non stanchezza, non disagio, si sentiva calmo e tranquillo - un sentimento infinito di benessere gl'infondeva per tutte le fibre una dolcezza non mai provata fino allora: - era pensieroso ad un tempo e sereno. -- Sentiamo, diss'egli, è ben questo un grillo che canta; - perchè canta egli questo grillo ?... e che cosa fanno lassù tutti quei luminari che il buon Dio accende tutte le sere?... e queste piante ?... e questo usignuolo che sento gorgheggiare da lontano? - In verità, io non avevo mai osservato che ci fossero tante belle cose nel cielo, e che i grilli cantassero di notte così dolcemente. Oh? egli deve essere pur buono il Signore se ha creato tante cose meravigliose. Bouvard cadde in una profonda meditazione; - egli pensò a sua madre e alla sua capanna, e a quel mondo sconosciuto nel quale stava per entrare così fanciullo: - a poco a poco i suoi sensi si assopirono, - egli porse attenzione a tutta quell'armonia malinconica che blandiva il suo orecchio come la nenia d'un bambino, - a quel fremito degli steli, - a quel susurro degli insetti, - a quel lamento delle acque, - alla voce del vento e delle foglie: la sua anima acquistava una strana sensibilità, il suo udito una potenza di sensazione ineffabile: - egli distinse le note più delicate, i tuoni più melodiosi, le cadenze più dolci; e gli parve d'aver indovinato il segreto della grande musica della natura. Egli prese la sua gironda e suonò una vecchia aria lamentevole che aveva ascoltata un tempo da suo padre: non vi era nulla di più semplice di quella musica, nulla di più monotono di quel suono; ma pure egli vi trovò tanta dolcezza che i suoi occhi si riempirono di lacrime, e quando ebbe finito, si avvide che stava inginocchiato pregando. Fu una grande rivelazione quella che la natura aveva fatto in quer momento a Bouvard: egli aveva compreso di essere artista; per una potenza straordinaria di intuizione, egli aveva presvelato il mistero di tutta una vita. - Una fiducia illimitata di sè stesso, un'avidità irresi- stibile dell'avvenire agitarono da quell'istante il suo cuore: - egli si sentiva superbo di sè, superbo della sua arte divina, egli comprendeva bene che non aveva ancor nulla conseguito, ma che avrebbe tutto conseguito col tempo. Bouvard si addormentò che era assai tardi, e sognò degli angeli e dei fiori, la sua capanna e le sue montagne, le rondini bianche dell'Isere, e le sue rive fiorite di ranuncoli... egli sognava ancora, quando si sentì battere sulle spalle, e nello svegliarsi vide due uomini seduti presso di lui, e di cui uno era intento a guardarlo. - Piccino mio, gli disse costui che pareva il più anziano, tu stai, a quanto mi pare, guadagnando male il tuo pane con questa brutta marmotta e con questo cattivo strumento, e sei pur molto giovane per andartene così solo nel mondo: io ti darò bene un compagno, eccoti qui il mio amico Jeanin, dal quale devo separarmi oggi stesso: egli è una persona di distinzione e non ha che un piccolo difetto, una menda di nessuna importanza per l'arte sua: è cieco da tutti e due gli occhi, ma ci vede bene colla mente, e ci sente meglio colle orecchie, chè non è già uno stordito il mio amico Jeanin, e ti farà toccare delle buone monete col suo violino. Veramente il tuo viso non mi fa troppo l'elogio di tua madre, ma tu hai l'aria di un buon fanciullo, e il cielo ti sarà grato se farai una buona compagnia al mio amico. Suvvia, sciogli subito il laccio a questa tua marmotta scodata, chè non va bene tentare la tua fortuna con questa patente di povertà, - porgi la mano al tuo compagno, e vattene alla buon'ora, chè io devo trovarmi per mezzogiorno sulla via di Villaz, lungo il canale. Bouvard considerò questo avvenimento come un favore straordinario della fortuna, e gli parve pure che vi fosse qualche cosa di dolce nella missione di carità e di amore che il cielo pareva affidargli coll'alleanza inaspettata di quel cieco. Egli non si era ingannato. Sette anni dopo, si leggeva sui giornali di Ginevra: Bouvard, il celebre suonatore di violino, darà questa sera un'accademia musicale nel nostro teatro. L'ingegno straordinario di questo giovane artista, e la fama universale che lo precede, ci esimono dall'aggiungere per lui alcuna parola di elogio e di raccomandazione. »

Rivediamo ora Bouvard nella seconda fase della sua vita, - Bouvard, non più il piccolo savoiardo, - ma l'uomo di mondo, il giovane elegante, l'artista straordinario. Quali saranno ora le sue passioni, il suo cuore? Il lago dí Lemano giace calmo e tranquillo, il cielo è sereno e stellato, e la luna si riflette nelle sue onde. È una di quelle notti di silenzio e di amore, in cui tutto ciò che vi ha nel creato si agita e vive di questo sentimento. Che dice il susurro del vento che increspa leggermente le acque? che dicono le acque al vento? Perché le migliaia di foglie di quell'albero tremolano mormorando tra di loro? La goccia di rugiada che discende dal cielo a collocarsi nel calice vagheggiato del fiore, per quale attrazione ha saputo .percorrere la sua via verso di lui, nel vasto universo che l'ha creata? Porgiamo attenzione a questo linguaggio degli enti sconosciuto agli umani. Noi v'intendiamo il bisbiglio dell'insetto che compie le sue nozze fra i petali profumati della rosa; - il ronzio della farfalla notturna che aleg- gia intorno alla sua compagna nel suo nido di foglie e di seta; -la voce dello zeffiro che prepara la fecondazione misteriosa de' fiori; -il fremito delle alghe che si curvano ad accarezzare le onde fuggevoli del torrente; -il linguaggio segreto delle stelle, -il mormorio degli steli e delle gemme, -i baci delle fronde, -i numeri infiniti che svelano nella natura il sentimento universale e prepotente della vita, l'amore. Ma quanti sono tra gli uomini che intendano questo linguaggio? E non è l'uomo tra tutte le creature la sola che abbia spesso prostituito l'amore e sagrificato sull'altare dell'egoismo questo celeste sentimento? Non chiedete all'uomo dell'amore, non gliene domandate che un'ombra, -un'ardita apparenza che finge, che asserisce, che giura... Vi fu un tempo in cui gli uomini si amavano, prima che la famiglia, fanciulla vergine e pura, toltasi dalle foreste e dalle capanne per venirne a nozze colla società, non s'incontrasse per via coll'oro, garzone petulante e avventuriere che le fece violenza; e da quello sconcio nacque l'egoismo, mostro scellerato e insaziabile, che divora gli affetti nati da lui stesso, come Saturno divorava un tempo i suoi figliuoli. Pure, a quella guisa che vediamo, tra le cento braccia inaridite d'un albero fulminato, sopravvivere talora un ramo solo e rivestirsi di fiori- cosi leggiadri, che mai quell'albero ne aveva dato di tali nella pienezza della sua gioventù e della sua primavera ; non altrimenti l'amore sbandito dal seno dell'umanità , si è rifuggito nel petto di pochi uomini che lo custodirono nel se• greto del loro cuore. -Domandate a costoro come si ami, -cosa si speri dall'amore, -domandate loro se si può amare impunemente. -Oh I la gioventù è severa, e la società non lo è meno nelle sue leggi..., evitate dunque la lotta , insozzate la vostra anima , e get- tatele ai piedi la vostra corona di rose, prima che essa ve la strappi dal capo per collocarvi il suo serto di spine e di cipresso. Sulla superficie tranquilla del lago si culla leggermente una barca abbandonata, -i due remi , che le pendono dai fianchi imprimono nelle onde due solchi paralleli d'argento che si riempiono, e si rinnovano senza sparire e senza lasciare alcuna traccia di sè, -, emblema della vita. -perocchè, chi crede che l'avvenire esista? chi crede che esista il passato? Il presente soltanto esiste, ed è quel punto impercettibile che li riunisce: il tempo è una catena che si snoda dall'abisso del futuro, e si riaccoglie nella voragine del passato. Ma forse la parte che sparve tornerà a ricomparire ? -il serpente che si morde la coda. -Chi sa se il tempo trascorso non ritorni colle sue circostanze di luoghi e di avvenimenti? Le leggi che governano le evoluzioni degli astri e dei mondi, perchè non governeranno altresì le evoluzioni del tempo? Tutto parte da un solo principio di vita : piccoli mondi in un gran mondo, piccole esistenze in una grande esistenza... oh si, -il tempo ritorna, o l'eternità non sarebbe che un vaneggiamento dei mortali. -E puossi concepire l'idea dell'eternità ove vi ha qualche cosa che muore? Forse sono tali i pensieri che agitano la mente di Bouvard seduto con abbandono nella sua barca. -Bouvard così giovane, incomincia a provar quella malattia di cuore che nasce dalle speranze deluse, e che si alimenta nella solitudine degli affetti. Le prime pagine del libro della vita contengono racconti deliziosi, profezie e presagi di felicità senza fine, ma le pagine di mezzo ne preparano al disinganno, le ultime alla rassegnazione; e spesso si butta il libro, e non si vive che delle memorie di ciò che si lesse. Bou- vard ha fatto ciò che tutti gli infelici hanno fatto : -ha divorato le prime pagine con isdegno, ed ora si riposa sconsolato a mezzo del libro. Ma egli non le lesse, no, quelle pagine, le ha indovinate: -egli non ha accelerato il suo disinganno, ma lo ha prevenuto, -egli non ha trovato nei piaceri dell'esistenza che una prostituzione indegna della nostra natura, un mondo fittizio che ci sfugge, e pure ci accarezza, una menzogna che ci degrada e pure ci alimenta... Quale è infatti l'epoca della vita che si rimpiange? Quali i giorni in cui osammo chiamarci felici? La gioventù... E pure l'età che l'ha seguita, che ne ha fatto conoscere gli errori, ci ha snudato quel mondo apparente e menzognero de' suoi colori fatui e abbaglianti, ci ha mostrato la vanità di quelle passioni, la piccolezza di quelle gioie, la nullità di quei piaceri, il ridicolo di quelle aspirazioni, la sorgente crudele di quei sogni, che ci promettevano godimenti infiniti nella vita virile. Ma se noi abbiamo conosciuto quell'inganno a profitto della verità, perché oseremo rammaricarne? Certo una condanna crudele pesa tuttavia sui nostri capi: -ovunque l'albero della scienza dilata i suoi rami, e alletta gli uomini a raccoglierne i frutti proibiti, sembra rinnovarsi la sentenza terribile che il cielo fulminò sui nostri padri : ogni passo che l'umanità ha fatto finora sulla via della verità e del progresso, ha segnato un punto di allontanamento dalla via della sua felicità e del suo perfezionamento morale. Avviene dell'individuo ciò che avviene delle nazioni, avviene delle vite parziali ciò che avviene dell'esistenza delle masse. La gioventù sfugge colle sue gioie a quegli uomini, cui uno sviluppo precoce dell'intelligenza e l'abitudine fatale della meditazione hanno svelato troppo presto la. grande nullità della vita, e insegnato che la verità è un fantasma nudo, che la nostra sola avidità di raggiungerlo lo riveste di colori abbaglianti e di forme celesti, e che non le rimane che un solo conforto disperato, -quello che ritrae da sè stessa. Bouvard non ha che diciannove anni, e già ha trasvolato collo sguardo su tutto l'oceano tempestoso dell'esistenza: -egli vi scorge la gloria, la fama, l'agiatezza, la vita elegante e fragorosa, tutte onde clementi che sembrano assicurargli un posto tranquillo e sicuro; ma non è là ch'egli desidera di riposarsi, egli vaneggia un altro lido lontano e insperato... oserà egli nominarlo? oserà dirlo a sè stesso? Bouvard desidera un affetto, un affetto ardente come la sua anima, com'esso infinito, un amore di cui saziarsi o morire. Egli era nato per amare. -Vi sono delle vite che non furono mai che una rivelazione continua, incessante di questo sentimento. -Bouvard aveva amato prima sua madre, e con essa la sua capanna, i fiori e gli uccelli delle sue montagne, poi la sua marmotta da cui si era diviso con delle lacrime, poi il suo cieco compagno e i poveri villaggi della Savoja che aveva percorso con esso. Egli è a lui sopratutto, che aveva rivolto per molti anni le sue cure pietose e il suo affetto. Quel vecchio gli aveva tenuto luogo di un mondo : -vi aveva trovato la severa tenerezza del padre e la confidente espansione dell'amico. Il povero Jeanin era stato un tempo un artista conosciuto, poi amareggiato dal livore dei cattivi, poi ingratamente obliato, e aveva voluto fare di Boavard un alievo destinato a rivendicare il suo genio. Egli è altresì a quell'esempio che il giovinetto aveva piegato il suo cuore ad una tenerezza infinita, ad una sensibilità senza conforto, ad una generosità d'animo troppo grande e troppo spesso vilipesa dagli uomini. Nelle loro peregrinazioni per quelle campagne essi amavano talora di dormire nelle notti d'estate a cielo scoperto, e d'inspirarsi alla musica della natura; -e se entravano qualche volta nei villaggi , non era che per farvi intendere quell'armonia che ne avevano attinta, come un'emanazione improvvisa del loro genio, come un tributo dovuto a quegli uomini che li soccorrevano nei bisogni della loro vita materiale. Compiuta la loro missione, essi ritornavano ai loro campi , -e spesso Bouvard conduceva il suo compagno ad assidersi lungo le rive dei torrenti, o in quei seni remoti delle valli dove il vento agita continuamente le grandi foglie di cerri, e dove erano molti usignuoli che cantavano nelle notti serene fino al mattino. -Vedi tu il sole? -gli domandava il vecchio qualche volta, -è egli ancora così luminoso, come quando io lo vedeva nella mia fanciullezza? Dammi la tua mano, lascia ch'io tocchi il tuo viso e i tuoi capelli ; che io senta se le tue fattezze sono quali erano pure le mie in quel tempo. Fanciullo com'era, Bouvard dormiva la notte profondamente, e spesso nel suo sonno l'udiva discorrere con sè stesso, o pregare. Una notte l'intese suonare così dolcemente, che mai il giovane aveva udita una musica così sublime : -egli pensò che uno di quegli angeli, di cui gli aveva parlato una volta sua madre, fosse disceso ad apprendergli quell'armonia che si doveva sentire soltanto nel cielo: -poi l'udì gemere e mormorare alcune preghiere, -poi non udì più nulla. -Si destò al mattino ch'egli dormiva ancora, -attese che si destasse, indugiando egli , lo scosse..., era morto t Bouvard pianse alcuni giorni, poi lo seppellì assieme col suo violino, sotto tre grandi alberi che crescevano li presso, lungo un torrente che metteva nel Rodano, perchè avendogli egli detto che era del paese di Montelimart, pensò che le acque ne avrebbero col tempo restituito il cadavere alla patria. Fu un nuovo avvenire quello che si aperse allora al suo sguardo ; quantunque modesto, Bouvard aveva la coscienza del suo genio, egli sentiva di essere artista, sentiva di poter dare saggio di sè in ben altri luoghi che non fossero quei poveri villaggi della Savoja. La speranza di rinvenire suo padre bagattelliere giroVago nella Francia, lo trasse quasi suo malgrado a quel paese. Entrò nel territorio della Saona, suonò la prima volta a Bourg , poi a Mnon , a Moulins , a Never ; riscosse ovunque degli applausi, ovunque destò l'ammirazione la più insperata, a Melun gli furono gettate delle corone, e poichè egli si trovava così vicino a Parigi, entrò in quella città , allettato da quella vita fragorosa e felice nella quale anelava di lanciarsi. Vi passò quattro anni; - il piccolo savojardo, il povero suonatore di gironda , era divenuto un giovane elegante, un artista ricercato, l'elemento morale di quelle grandi riunioni : l'eletta società si contendeva Bouvard come il genio vivente dell'arte, come una di quelle grandi individualità della scienza, di cui si ambisce la predilezione e la stima. Fu in quei grandi centri che egli aveva studiato gli uomini e, più di loro, sè stesso. Egli avea bene veduto dovunque delle mani sporte a stringere le sue, dovunque aveva ascoltato delle parole di omaggio, egli s'era accostato alle labbra il veleno melato dell'adulazione ; ma di quell'esistenza fittizia pareva sdegnarsi la sua anima, e quando volle un cuore, un cuore soltanto, conobbe che vi era un deserto intorno a lui, che l'amicizia* rifuggiva da quella vita apparente e simulata, e che la sua deformità lo condannava all'isolamento dell'amore. Vi furono in tutti i tempi delle donne che sacrificarono la loro fama alla bellezza disgiunta dal genio -nessuna che la sacrificasse al genio disgiunto dalla bellezza. La donna, questa quintessenza di polvere la più perfetta tra le opere della creazione, non nasconde spesso sotto la maschera irritabile del pudore che le traccie più delicate della sensualità. Nelle passioni di amore, l'uomo è quasi sempre guidato nella sua scelta dalla virtù, la donna non lo è mai che dall'avvenenza. Nessuna di loro ha confortato del suo affetto di amante la vita di qualche grande sventurato: una tomba recente, -la tomba dell'infelice Leopardi, -accusa in faccia all'umanità l'egoismo sensuale della donna. Bouvard si avvide troppo presto che egli non poteva sperare dell'amore, e conobbe ad un tempo che questo bisogno si era talmente inviscerato nella sua natura, che non avrebbe potuto attutirlo che colla morte. Sdegnato di quella vita apata e clamorosa ove tutto si tributava all'apparenza, pensò che la solitùdine lo avrebbe collocato in maggiore armonia con sè stesso, pensò che aveva ancora qualche cosa ad amare, le sue memorie. Egli era quasi ricco : diede un addio alla vita pubblica, partì inavvertito e venne pellegrinando alle sue montagne. Ma quivi pure gli erano riserbate delle disillusioni inattese: tutto era mutato nel campestre teatro della sua infanzia; le nevi disciolte avevano fatto scoscendere qua e là gran parte di quelle rupi; i montanari avevano recisa una foresta prediletta di pini dove veniva a riposarsi nei giorni canicolari dell'agosto, poche pietre rimanevano della sua capanna ove le lucertole verdi guizzavano ai raggi del sole, -e come venne alla tomba del suo amico, trovò che il terreno smosso e inumidito dalle acque, era tutto fiorito di quei ciclamini vermigli che crescono sulle montagne, e ne raccolse alcuni che portò seco per tutta la vita, come l'unica reliquia sopravvissuta al naufragio della sua felicità e della sua giovinezza. Fu su quella tomba che egli compose le più belle melodie che mai il genio della musica avesse saputo inspirare, come un tributo alla santa memoria dovuta di quell'uomo che gli aveva appresi i primi erudimenti dell'arte, svelati i misteri più sublimi dell'armonia. Ma come nessun uomo è capace di rimanere lungamente infelice, Bouvard pensò che il soggiorno d'una grande città lo avrebbe distolto dalle sue meditazioni sconfortanti, e quasi stordito e calmato nel suo dolore. La fama della Nuova Eloisa, -il più bel libro d'amore che mai sia stato scritto, -era ancora diffusa e fiorente tra la gioventù appassionata di quei tempi ; egli aveva divorato quelle pagine con una specie di febbre e di delirio ; la vita del grande socialista si approssimava allora al suo tramonto, splendido e maestoso come uno di quegli astri che si circondano di maggior luce prima d'involarsi alla vista degli uomini. -Bouvard volle baciare quelle zolle che avevano data la vita a Gian Giacomo, e venne a Ginevra. Ecco come noi lo rivediamo in quella città, nel silenzio di una notte stellata , solo, abbandonato sopra una barca in mezzo alle onde tranquille del Lemano. Che fa ? Che medita il giovane in quell'istante ? Vi sono dei periodi di effervescenza nello sviluppo dello spirito umano, in cui l'anima si sublima e si eleva ad una grandezza smisurata non concepibile che a sè sola. Che è la parola perchè si attenti a manifestare quegli slanci ? Non sono che le piccole passioni , le sensazioni inerenti alla materia quelle che la parola può esprimere: ma ciascun uomo ha in sè qualche cosa che non rivela, che non può rivelare; ciascun uomo più grande di quanto lo appaia, di quanto forse lo creda egli stesso. E che è ciò che noi chiamiamo genio, se non la facoltà di concepire e di estrinsecare, con quanta maggior verità è possibile, questa vita profondamente intima e spirituale dell'uomo ? Bouvard guarda le stelle, il cielo, la superficie immobile del lago, i salici che si curvano sulle rive, i pesci che guizzano inseguendosi, gli acari fosforescenti che scintillano nelle onde commosse dai remi; e da questo spettacolo svariato attinge delle idee che egli sente, che egli comprende, ma che non saprebbe pure manifestare a sè stesso. È il linguaggio arcano che vi ha tra noi e la natura, e che Iddio non ha concesso all'uomo di esprimere. Ma gli occhi del giovine si rivolgono con insistenza a quei lumi lontani che appaiono sulle rive come tante scolte immobili nella notte, a quelle ville disseminate lungo la spiaggia, a quelle finestre socchiuse e illuminate che nascondono mille misteri di felicità e di amore. Sotto ciascuno di quei tetti vi ha una famiglia, vi hanno dei cuori che si amano, che sperano, che gioiscono, la cui esistenza non è tutta tessuta di dolore... Oh l sentirsi nati ad amare, possedere un cuore capace di amare un universo, e cercare indarno in questo deserto della vita qualche cosa che risponda a questo appello incessante dell'anima l - sempre indarno ! - eternamente indarno Bellezza, crudele bellezza I 2-- perchè fu concesso a te sola l'impero assoluto dell'amore ? perchè sei tu l'unica rivelazione, l'unica forma sensibile di questo sentimento? - Perchè, esclama Bouvard, - perchè rinchiudere la mia anima in questa creazione abortita dalla natura? Perchè darmi questo profilo di Etiope, questo naso da Ottentotto e questa bocca di Lappone? Poteva la deformità rivestirmi di spoglie più ributtanti? Oh la terribile condanna che associa al bello morale il brutto sensibile, e lo destina a rivelarlo Dopo quella notte Bouvard si ammalò, risanò a stento, parti improvvisamente da Ginevra e venne pellegrinando in Italia. Vi passò tre anni : fu a Venezia, a Roma, a Firenze, e finalmente sostò a Napoli, dove, ricco di fama e di danaro, aveva determinato compiere la sua carriera di artista nel mistero e nell'isolamento. La più grande disillusione e la più inattesa lo aveva colpito in quegli ultimi anni del suo trionfo: - egli si era sdegnato della sua arte. A che crearsi con essa un mondo ideale e fantastico che la società gli contendeva di raggiungere 't a che accarezzare i suoi inganni , palliare la sua sventura , eccitare la sua sensibilità , se gli era nota la vanità di questi rimedii, e se l'orgoglio suo gl'imponeva con insistenza di rifuggirne? A che profondere quei tesori di armonie, quelle esuberanze dell'arte, ad una folla spensierata che lo copriva di oro, che lo acclamava artista divino, ma a cui avrebbe chiesto indarno un solo di quegli affetti che egli aveva eccitato con tanta potenza nei loro cuori ? Essi avevano ammirato in lui l'artista, non l'uomo, - il genio, non il delicato sentire che l'accompagna, non l'ineffabile martirio che lo sconta. - Il giovine si senti prostrato, si senti invaso da uno scoraggiamento che indarno avrebbe tentato di superare: - vivere per sè stesso e a sè stesso; - obliare, - odiare anche - fors'anche odiare; giacché l'odio può ben contendere la sua voluttà a quella dell'amore: - ecco l'estrema risoluzione di Bouvard, ecco il conforto disperato che si riprometteva da questo disegno. Si ritrasse allora in una villa remota presso Posilippo e visse lungo tempo ignorato. Forse l'oblio avrebbe cancellato per sempre il suo nome dalle pagine della fama, se un avvenimento misterioso non ve lo avesse segnato con caratteri indelebili, se una catastrofe di terrore non avesse rischiarato d'una luce fosca e spaventevole il tramonto precoce della sua vita. Bouvard aveva venticinque anni e non aveva amato: aveva bensì desiderato di amare, - aveva vagheggiato un affetto di donna come si vagheggia l'affetto ideale di un angelo, - lo aveva chiesto al cielo come un forsennato avrebbe accettato una intera e lunga esistenza di spasimo per un breve e fuggevole momento di amore. Oh ! a venticinque anni, l'amore non è più una vaga aspirazione, non è più quel sentimento variabile, indeciso, estesissimo che si sviluppa nella prima giovinezza, ma è una nuova sensazione che si comunica a tutto il nostro essere, che riassume tutte le fila spirituali e fisiche della nostra esistenza. La vita, quale fu concessa agli uomini, sta nel giusto equilibrio dello spirito e della materia, e l'amore vero e potente si libra con essi senza propendere: ogni affetto che sfugge a queste leggi si oppone alle leggi della natura. Egli è a venticinque anni che si ama )a donna, a quindici non si è amato che l'amore. Ma se l'anima di Bouvard era delicata e sensibile, era pure ad un tempo severa. Se egli non poteva disconoscere la propria deformità, non disconosceva però l'elevatezza del suo spirito e della sua mente: un affetto comune era un affetto indegno di lui; egli si sarebbe consumato nella tremenda solitudine delle sue passioni, anzichè accettare l'amore di una donna che non avesse saputo comprendere quanti tesori di poesia e di affetti si celassero nel suo cuore lacerato. Allo sgmirdo di chi ama, la virtù non si rivela che nella bellezza. Il bello ed il buono sembrano partecipare della stessa natura, accoppiarsi e manifestarsi a vicenda - si direbbe che il buono è il bello morale, che il bello è il buono sensibile. Bouvard stesso si era ingannato come tutti gli uomini fanno: - egli non aveva conosciuto come una forza inesplicabile li tenga spesso disgiunti, e come questa fatale contraddizione si riveli distinta e frequente più che mai nella vacua natura della donnà. Per quanto poco si abbia vissuto nella società, o attinto leggieri erudimenti dall'esperienza, si avrà osservato che le favolose bellezze di ogni tempo si segnalarono per difetto di merito morale, spesso ancora per malvagità di cuore o per vizio sfrenato : - sono le bellezze mediocri quelle che annoverano i migliori caratteri di donna e i più dolci, e forse perchè il loro numero è più diffuso; ma la deformità sfugge da questi limiti, e accenna quasi sempre a bontà estrema o a malvagità estrema. Bouvard, volendo cercare una virtù, cercava una bellezza, e la rinvenne. In una sera d'autunno egli sedeva lungo la riva del mare, in uno di quei piccoli seni deliziosi che formano qua e là le acque incavando le rupi che le cingono , e contemplava il tramonto del sole dietro le scogliere addentellate di Lacco, quando una barca venne a passare all'improvviso rasente la spiaggia. Una donna attempata sedeva a prora leggendo, e poco lungi da lei una gio: vane bellissima stava silenziosa meditando, cogli occhi rivolti al cielo in atto di abbandono e di rapimento' mentre una mano che cadevale giù come morta pel titano o della barca, sfiorava colle dita bianchissime le onde che la cingevano come d'un mobile smaniglio di perle e cl argento. Una vela candidissima gonfia dal vento, quella/ luce di paradiso che si riflette dal sole nelle onde nel l'ora del tramonto, e che le onde riversano a torr ent sulle rive, componevano il fondo di quel quadro maraviglioso, che passò e sparve dinanzi agli occhi del gio- vane, come una creazione istantanea della sua fantasia, come la celeste visione di un sogno. - Quella donna non aveva veduto Bouvard, ma lo aveva guardato, - lo aveva lungamente guardato; - i suoi occhi fissi ed immobili parevano versare in lui quei sentimenti che forse nasceano dal pensiero di un essere lontano ed amato, - parevano dirigergli quelle aspirazioni che erano tutte pel cielo, e che la fanciulla avrebbe indarno tentato di rivelare alla terra. Bouvard sapeva di non poter essere amato, ma troppo grande era ancora in lui la fede del sacrificio nella donna, perché non credesse di poterlo essere per compassione. Una seduzione credeva egli esistere in lui, quella dalla sventura, ed egli vi attribuiva l'onnipotenza della bellezza. No, egli non è vero che l'amore inspirato dalla compassione possa generare l'avvilimento in chi lo riceve: ella è la più orgogliosa, la più nobile e la più durevole delle passioni, forse l'unica che il cielo benedice, e che non spegne che colla vita, perché soltanto colla vita si spegne la sventura che l'ha generata. Bouvard attribuì a sè quello sguardo. « Ella mi ama, egli disse, ella ha indovinato che io soffro. E potrebbe egli, quel viso di angelo, mentire un sentimento che non fosse di pietà e di tenerezza? Potrebbe ella amare un felice?... la felicità petulante, scherzevole, menzognera L. E poi egli aveva veduto altre volte quella donna, l'aveva veduta ne' suoi sogni, ogni notte, da diciassette anni: era il genio fantastico della sua arte, la creazione severa della sua musica, l'ente concretizzato, vivo, sensibile, palpitante, che egli si era composto nell'estasi delle sue melodie e delle sue meditazioni. E invero ciascuno di noi si crea fino dai primi anni della vita l'ideale della donna che vorrebbe amare, ciascuno di noi crede che esista un'anima sorella, le cui sembianze, le cui aspirazioni ci sono note, e verso la quale ci sentiamo attratti, nostro malgrado, per tutta la vita. Quell'amore che si strugge da sè senza posarsi, non è che l'incognita attrazione di un essere che la lontananza, che la società e la fortuna ci contendono; e spesso si vaga di amore in amore senza raggiungerlo, sempre ansiosi e sempre insoddisfatti, amanti sempre, e senza mai amare, portando seco fino alla tomba quel vuoto tremendo che i mille affetti passeggieri dell'esistenza non hanno avuto potere di riempiere. Quando Bouvard si avvide della sua passione, provò come uno sbigottimento, come una voluttà che sentiva del dolore, come una nuova intuizione della vita, a cui accoppiava il presagio lontano di quelle sventure che il cielo gli aveva destinate con quell'affetto. Quella donna era sparita :- l'avrebbe egli riveduta? E dove? E quando? E rivedendola, si sarebbe ella risovvenuta di lui? l'avrebbe amato? Quell'intervallo di tempo non avrebbe modificato il sentimento di pietà e di amore che il giovane aveva creduto di leggere nei di lei occhi? Oh l quell'istante in cui l'amore si rivela per la prima volta ad un'anima, è il momento più solenne della vita. E qual'è quell'uomo che può averlo dimenticato? Per quanto numerose sieno state le nostre passioni, per quanto indegne di noi, nessuno potrà mai obliare quell'istante in cui conobbe per la prima volta di amare. È lo svelarsi di questo sentimento che segna il principio della vita morale di ciascun uomo. Non accenneremo ai cambiamenti avvenuti nelle abitudini e nel carattere di Bouvard dopo quel giorno. Egli passò tre mesi senza rivederla: aveva corse e ricorse tutte le vie di Napoli come un demente, era stato a tutti i teatri, aveva frequentati tutti i centri di riunioni senza avere indizio alcuno di lei e senza quasi sperare di rinvenirla, quando un mattino la rivide in una carrozza elegante che attraversava la via di Chiaja, verso la Villa. - Bouvard non ebbe il tempo di meditare al partito più conveniente cui poteva appigliarsi per raggiungerla : trascinato da una forza irresistibile, l'insegue alla corsa..., si affatica..., resiste..., le sta al paro per lungo tempo: - ma già il suo ardore si scema, - le sue forze lo abbandonano, ed egli si arresta sfinito sulla via. Passò un altro mese: - la rivide una seconda volta e collo stesso esito, - la rivide una terza e, ahimè? pure indarno; ma i suoi sforzi furono finalmente coronati: - egli giunge un giorno a seguirla fino alla sua dimora. - Egli conosce finalmente il suo soggiorno, il suo nido, quel punto invidiato della terra su cui vive una donna adorata..., oh?. gioia! - osa chiedere di lei : - si chiama Giulia, - non ha che diciassette anni, è fanciulla, è ricca, è felice, e il suo cuore è puro come la sua anima, è libero come la luce che lo circonda. Da quel giorno Bouvard divenne audace, ardì sperare di essere amato, ardi meditare di palesarle la sua passione, e di affrettarne l'opportunità col prestigio della sua arte e della sua fama. Non andò a lungo che per esse furono superati quegli ostacoli che gli contendevano di avvicinarla, e giunse finalmente quell'istante sì ardentemente anelato, in cui avrebbe potuto inebriarsi della sua vista e leggere con sicurezza nelle pagine ignorate del suo destino. Giulia apparteneva ad una famiglia patrizia, presso la quale convenivano il fiore dell'aristocrazia e le celebrità più elette nel campo dell'arte e della scienza. Fu ad una di quelle serate artistiche che Bouvard venne invitato: egli vi fu accolto con gioia, udito con trasporto, applau• dito con frenetici entusiasmi... ma, oh Dio! era essa ancora quella Giulia che egli aveva veduto la prima volta dalla riva del mare nell'ora melanconica del tramonto?... quella fanciulla si bella, si dolce, sì compassionevole, quell'essere gentile e pensieroso che gli era apparso come una visione di cielo nelle ore tremende del suo sconforto? Colei, quell'angelo, quella fanciulla adorata, non era più che una donna comune, lieta, incurevole, folleggiante, sorridente a tutti quegli esseri fatui e leggiadri che se ne contendevano l'affetto; - una creatura della società e del piacere, ricca di gioventù e di bellezza, baldanzosa perché felice, e felice perché troppo insensibile, troppo esente da quella infermità di mente e di cuore, che ci rende pietosi a tutti i mali della società, ovunque síeno sentiti, e ci costringe a dividerli. Forse Bouvard non si era ingannato credendo che la fanciulla lo avesse riconosciuto, e avesse riso del suo affetto e della sua deformità. Il contegno di Giulia sentiva troppo della derisione e della noncuranza, perché egli potesse almeno lusingarsi di non aver tradito il suo segreto..., quel segreto sì dolce, sì caro, sì lungamente vagheggiato, e la cui rivelazione lo opprimeva ora di rossore e di avvilimento. E infatti, quel giovane che aveva inseguito come un insensato la sua carrozza, che le aveva prostituita la sua dignità e il suo orgoglio, che aveva preteso in sì strana guisa e con sì strana insistenza al suo cuore, era lì muto, umiliato, tacitamente deriso... E che era egli per Giulia ?... quell'artista quasi ignorato, perché sdegnoso di ammirazione, quel povero fanciullo della Savoja, quel giovane timido, sofferente, deforme ? Bouvard comprese troppo tardi come un accecamento fatale lo avesse lusingato di un affetto che la sua deformità gli rendeva impossibile d'inspirare. La sua defor- mità... , essa sola, - sempre essa..., quella inesorabile condanna, quella terribile distinzione, quel marchio indelebile della natura, che nè l'arte, nè il cuore, nè l'ingegno avevano avuto potere di distruggere. Un orribile desiderio balenò allora attraverso alla sua mente, - il desiderio di una deformità più mostruosa, di una bruttezza sì spaventevole, che, spingendo gli uomini a rifuggirne, avesse potuto saziare in lui l'avidità ineffabile dell'odio, quella nascente avidità che aveva già surrogato nel suo animo la prima e nobile aspirazione dell'amore. Tale è la vicenda degli affetti, e quelli soltanto che furono miti e volgari si spengono soventi nell'apatia: ma niuna via di mezzo è concessa alle grandi passioni, e l'odio e l'amore, che ne segnano i due punti culminanti, si alternano nella pienezza del loro vigore senza mescersi e senza arrestarsi. Egli è tuttora mal deciso quale sia veramente la più nobile e la più giusta di queste due passioni, poichè l'una ci viene dal cielo e l'altra dalla terra, e l'una predomina nella società e l'altra nella vita privata, ma egli è ben certo che, nella maggior parte degli uomini, è l'odio soltanto che finisce per riempiere quel vuoto che non ha potuto riempiere l'amore. Noi non diremo che Bouvard odiasse: - la sua vita avvenire non offrì circostanze si palesi da poterlo asserire con sicurezza; forse lo aveva solamente desiderato, e ciò è desolante nella nostra natura, che i buoni desiderino sempre indarno di diventare malvagi, e i malvagi buoni. Si muore egli dunque quali si è nati? E che è questa fatale predestinazione che la nostra volontà non ha potere di distruggere? Bouvard amava ancora Giulia : per una strana contraddizione dell'anima umana, per la potenza irresistibile che il bello esercitava sopra di lui, egli amava ancora quella fanciulla: - ma non era più la Giulia ideale, la creatura celeste, pensante, amorevole de' suoi sogni; - egli amava una donna, una donna viva, folleggiante, voluttuosa, l'immagine palpitante della gioia e del godimento. - E perché avrebbe egli dovuto odiarla? Per quale diritto aveva egli osato pretendere al sacrificio della sua beltà e del suo cuore? Se l'idea di tale sacrificio, se il sentimento dell'amore nobile e disinteressato, dell'affetto isolato dalla materia, possono essere concepiti sulla terra, essi non sono punto della terra, e spesso lo svelarsi di questa verità rigetta per sempre nel fango quelle anime delicate e sensibili che vi avevano una volta creduto. La vita di Bouvard si ravvolse da quel giorno in un mistero così imperscrutabile, che noi non potremmo accennare, neppure per supposizione, ai mutamenti avvenuti nel suo spirito e nel suo cuore. Non fu che l'ultimo istante della sua esistenza, che gettò una luce incerta e tetra sul suo passato, e rannodò in qualche guisa le fila spezzate e disperse del suo destino. Ove egli abbia vissuto e in qual modo, - ove esulato, si ignora. Sparve nella pienezza della sua gioventù e della sua gloria; il suo soggiorno fu rinvenuto deserto, i suoi specchi infranti, distrutto ogni oggetto che aveva potuto riflettere a' suoi occhi la sua immagine: - ogni traccia che egli aveva lasciata di sé, accusava l'esaltazione della sua mente, e qualche proposito irremovibile e disperato. Noi non lo rivedremo più che nell'ultimo giorno della sua vita. Quattro anni dopo quest'ultimo avvenimento, - in un mattino profumato di maggio, nella stagione che invita la natura all'amore, - si ornavano di gramaglie le porte di un sontuoso palazzo... Giulia, la ricca, la nobile, la leggiadra patrizia era morta, - morta alla vigilia delle sue nozze; involata alla teda da una malattia improv- vira e crudele, in tutta la pienezza de' suoi inganni e della sua fede, in tutto il vigore della sua gioventù e della sua bellezza. Allora da una piccola finestra di una soffitta in una casa di fronte, si affacciò una figura d'uomo, i cui lineamenti alterati dal dolore si contrassero in un sorriso amaro e terribile. - Quell'uomo era Bouvard. - Il pallore sepolcrale del suo volto, l'incolta abbondanza dei capelli e della barba, lo sguardo immobile e lucido, quell'espressione tetra e indefinibile di cui la sventura aveva velate le sue fattezze come d'un velo funerario, rivelavano il segreto di quei patimenti intimi e soprannaturali che intessono quaggiù molte vite, e che rifuggono sempre dalla confidenza e dalla pubblicità, fieri e sdegnosi d'ogni umiliante compassione e d'ogni conforto impossibile. E infatti, checché egli avesse sofferto, rimase pur sempre un mistero. Amava egli ancora Giulia? Non aveala obliata in quei quattro anni di separazione? Era egli sempre vissuto presso di lei? Certo è ch'egli non abitava quella soffitta che da due mesi, e che la povertà più desolante era venuta spesso in quei giorni a visitare la sua modesta dimora d'artista. Bouvard guardò, vide, lesse la funebre iscrizione, osservò il drappo nero che ornava le porte della fanciulla defunta, lo osservò con una muta indifferenza, senza affliggersi, senza stupirsi: - si sarebbe detto che quella sciagura non gli si palesava inattesa, che egli l'aveva preveduta, invocata, affrettata forse col desiderio. Certo il cattivo genio di cui favoleggiano gli uomini non avrebbe sorriso più tristamente, non avrebbe dimostrata una compiacenza più malvagia e crudele. Il giovine rinchiuse la finestra preoccupato da un pensiero insistente, da 'un'idea fissa, confortevole, lungamente blandita. « Affrettiamo, egli disse, affrettiamo il momento anelato... apparecchiamo per le mie nozze; » - e un istante dopo, gli ultimi arredi della sua soffitta, i suoi libri, la sua musica, le ultime reliquie della sua fortuna erano scomparse. Bouvard aveale mutate in oro e con esso aveva acquistato dei fiori. La stagione erane feconda. - La famiglia infinita dei giacinti fiori di gioventù e di primavera, le prime rose simbolo dell'amore nascente, le gemme dell'arancio che intessono le corone delle fidanzate, le stelle mobili del gelsomino che simboleggiano l'amore pudico, le lavande che significano amore ardimentoso, le azzalee e le cardenie fiori di passione e di sentimento, ornarono in sì grande quantità e con tanta profusione di olezzi quell'umile soffitta del giovane, che la si sarebbe creduta una di quelle dimore favolose, dove le fate attiravano alle loro nozze la gioventù incauta e ardimentosa, destinata a perirvi in un'ebbrezza di voluttà e di profumi. Bouvard attese con una gioia sfrenata a questa strana trasformazione della sua soffitta: - egli volle conoscere il linguaggio di ciascun fiore, volle collocarli egli stesso, alternarli con dei veli azzurri e rosati ; e vi aggiunse, sorridendo tristamente, alcuni steli di ramerino fiorito che esprimono l'amore corrisposto. - Centinaia di lumi erano apparecchiati a versare torrenti di luce su quei veli e su quegli strati enormi di fiori: - e come il giovane ebbe compiuto i suoi apparecchi col più diligente mistero, si compiacque di quella vista deliziosa e allettante, e disse con trasporto a sè stesso: « Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba ad un tempo..., la vita e la morte..., il gelo del sepolcro, e il fuoco dell'amore si lungamente represso...; certo non fu mai stretto sulla terra un connubio più degno degli uomini, e la stessa divinità potrà forse invidiarmi le mie nozze ». Noi domandiamo esitando: era Bouvard colpevole? Il dolore non aveva già alterato la sua ragione? quell'anima che fu un tempo si pura, si candida, sì generosa, poteva essersi cosi miseramente trasformata? poteva ella concepire nella piena lucidità della sua potenza un così orrendo progetto? Noi non lo affermiamo. La sua natura dovea certamente aver subita una dolorosa modificazione: - la povertà, i disinganni, lo scetticismo sociale, l'isolamento dovevano, senza alcun dubbio, aver provocato in lui quella rivolta che ci trae a reagire contro la divinità e contro noi stessi, ma la sua colpa non fu certamente che la conseguenza d'uno sconvolgimento istantaneo della sua ragione. Il suo delitto fu espiato dalla sua vita, e l'espiazione lo precedette; vi fu in esso dell'amore, direi quasi del genio; - le fasi dell'esistenza umana hanno poche pagine più sublimi, e le nostre passioni si elevarono di rado ad una potenza più smisurata: - si può dire che l'ultimo giorno di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua vita. Le notti nel mezzogiorno dell'Italia hanno in sè qualche cosa di voluttuoso e di molle; - il cielo è più elevato, l'azzurro più trasparente, le stelle più numerose e più lucide, - i fiori delle magnolie caduche e dell'arancio che si schiudono due volte all'anno, impregnano l'aria dei loro profumi delicati, e vi ha in essi qualche cosa che gli altri fiori non hanno, vi si sente l'amore, vi si respira la gioventù e l'abbandono. Ho domandato più volte a me stesso, perché il cielo abbia destinate quelle ore al riposo: ma forse la notte è la scena più calma e più meravigliosa della natura per ciò solo che è in essa che gli uomini amano. Oh la sublime epopea della notte 1 Io vorrei conoscere se i morti conservano ancora sopra il loro giaciglio di pietra una parte della loro vita morale; se quella polvere, - poich'ella esiste, ha la coscienza dell'esistere. Nella grande oscurità che avvolge tutti i segreti della natura, io credo che nessuno possa sorridere di questo pensiero: la superstizione ha pure i suoi diritti, giacché ,è dalle sue tenebre che uscirono in ogni tempo i primi barlumi della verità e della luce. Ma avete voi mai passato una notte in un cimitero? - Il silenzio vi è più tetro che in qualunque altro punto della terra, e non per ciò vi sembrerà meno di sentire qualche cosa che vive, che pensa, che si agita sotto di voi. - Certo se i morti vivono, la debb'essere una vita di solenni meditazioni... E come passano essi quelle lunghe notti d'inverno?... quegli anni infiniti della loro muta esistenza?... Alla pioggia, al sole, alla neve... Povere anime t - No, egli non é vero che la morte uguagli tutti i destini; la ricchezza ha preparate le sale sepolcrali, e vi mantiene ancora un raggio di quella luce, di cui essi erano così avidi nella vita. In una di quelle più splendide dimore fu collocata la salma di Giulia, e la giovine riposa sopra il suo lenzuolo di gramaglia come in mezzo ai veli del suo letto verginale. La sua bellezza ha nulla smarrito delle sue seduzioni; un abito bianco, leggiero, quasi vaporoso, ricopre le modeste sue forme; i suoi capelli neri e disciolti sono trattenuti sulla fronte da una corona di tuberose ancora fresche, le sue mani bianchissime le cadono dai fianchi coll'abbandono soave del sonno, e solamente i suoi piedi diritti e riuniti fanno fede dell'orrida rigidità della morte. Bouvard penetra in quel luogo colla gioia scolpita sul volto, con quella trepidazione affannosa ma dolce che ci accompagna al primo convegno colpevole della donna desiderata. Il ribrezzo non lo trattiene, non frena la sua impazienza, non ammorza l'avidità irresistibile della sua passione : - ma ogni indugio può essere fatale al suo disegno, - è d'uopo affrettarne l'esecuzione: - il suo oro gli ha procurato dei complici..., egli invola il cada. vere della fanciulla, e pochi istanti dopo è lasciato solo con lei nella sua dimora solitaria e segreta. Allora il giovane la adagia con dolcezza sopra uno strato di fiori, - poi s'inginocchia e la guarda..., quell'abito candidissimo, quelle lunghe trecce disciolte, quel corpo che si abbandona e quasi si affonda coll'immobilità della morte in un letto profumato di verzura, quella luce abbagliante che vi tinge ogni oggetto del colore dell'oro e del topazio, formano uno strano spettacolo che esalta e rapisce la mente immaginosa di Bouvard. - Ma egli non ha ancora osato sollevare il velo che nasconde il suo volto : - egli trema di quelle sembianze, teme che la morte ne abbia già alterata la bellezza, paventa quello sguardo fisso e severo che deve rinfacciargli, colla sua terribile immobilità, il suo delitto. Mille pensieri si agitano allora nella sua anima conturbata, il pensiero della sua vita sofferente, dell'inutile suo amore, del suo genio infelice, di quell'abbandono di sè stesso che lo trasse di giorno in giorno, sempre esitante e sempre sfiduciato fino a spegnere la sua vita in una colpa : - giacchè egli sente la prossimità del suo fine, giacché egli ha deciso irrevocabilmente di morire..., morire presso di lei, presso di quella donna al cui fianco non ha potuto trascorrere quell'esistenza avventurata e innocente che era stata il suo sogno d'un istante. A questo richiamo gli si affacciano tutte le memorie della prima giovinezza, di quegli anni confidenti e felici, quando l'avidità dell'ignoto gli dipingeva di mille colori vaghissimi le scene future della sua vita: - quelle illusioni, quei sogni, quella fede balda e sicura, - quel sorridere cortese della fortuna, - quell'amore universale che avrebbe voluto spargere delle rose sulle teste di tutti gli uomini, - quel vagheggiare un nido e una famiglia e perpetuare la nostra esistenza in altri esseri nati da noi, - quell'ideare il bene e compierlo, e prefiggerselo all'unico scopo della vita..., aspirazioni menzognere e crudeli I Nulla gli è rimasto di ciò: egli ha sofferto, egli soffre, ecco tutto, ecco la sintesi delle sue speranze, - egli ha dinanzi un cadavere, e l'ultimo de' suoi giorni sta per compiersi con un delitto. - Bouvard si commove e piange. - Vi ha in quel periodo di calma morale che precede la morte un istante di lucidità straordinaria nel nostro intelletto, durante la quale si va svolgendo dinanzi ai nostri occhi tutta la tela tenebrosa del nostro passato. Gioie, dolori, predilezioni, memorie, affetti, colpe, tutto ripassa dinanzi a noi, tutto vi è evocato dalla inesorabile coscienza; e felici coloro le cui rimembranze soavi e confortevoli non lasciano nulla a rammaricare della vita! Bouvard ha rivolto lo sguardo sul suo passato, e non vi ha scorto che un deserto senza limiti, una landa senza oasi, senza acqua, senza verzura, senza sorriso di cielo : - ventinove anni sono trascorsi, ed egli non ha raccolto un solo di quei fiori di cui la natura fu si prodiga a tutti gli uomini; - egli non ha spiccato dall'albero dell'esistenza che un solo frutto, un frutto amaro e velenoso, il più crudele fra quanti ne maturino sui suoi rami, - il frutto della derisione. A questo pensiero la mente del giovane, smarrita nell'abisso delle sue rimembranze, ritorna d'improvviso a sè stesso, alla sua deformità, a Giulia: - egli osserva quel corpo inanimato e leggiadro che gli sta dinanzi, -quella creatura si lungamente desiderata, - quella fanciulla che fu un tempo sì bella, sì lieta, sì incurevole, il cui amore lo avrebbe consumato nell'esuberanza della sua felicità, il cui odio lo ha tratto invece per una ostinata potenza di volontà a sopravviverle. E d'onde procedere quello sgomento incomprensibile che ci arresta dinanzi a un cadavere? Che è egli questo rispetto ipocrita e vano che ci trae silenziosi e dimessi dinanzi a un mucchio di polvere che si dissolve? Oh l la sfacciata impudenza che curva le ginocchia degli uomini all'aspetto delle reliquie dì un essere, di cui si è talora manomessa la felicità, e avvelenata a mille riprese la vita! Ma non è tale la posizione di Bouvard : egli solo ha sofferto, egli è la vittima; egli vorrebbe elevarsi a giudice sopra di lei, ma un interno convincimento gli dice che non gli anni misurano l'esistenza, ma la felicità, la sola, la irrevocabile felicità ch'egli ha perduto: - quella fanciulla è morta, ma fu felice; egli vive, ma soffre, egli non le sopravvisse che per rimembrarlo. L'anima del giovine si agita crudelmente a questo pensiero, che lo ripiomba ne' suoi propositi di vendetta: - quel cadavere sembra ora stargli dinanzi minaccioso..., forse egli vede, egli sente, egli sorride, egli si agita sotto il suo lenzuolo funerario... Bouvard si rialza impetuoso, e strappa il velo che copre il viso della fanciulla. - Dio! quale bellezza irresistibile! - E può il volto d'una defunta essere ancora così bello? Un'espreSsione di calma celeste si diffonde sulle sue sembianze, le guance sono tuttora leggermente rosate; la fronte candida e pura, le labbra e gli occhi socchiusi, l'epidermide trasparente e bianchissima: - non vi ha nulla di spaventevole in lei, nulla che possa essere più vago, più dolce, più allettante nella vita..., essa riposa, - essa dorme - come dormono i fanciulli a sette anni, quando non si sognano che delle nubi, delle farfalle e degli angeli..., tutte cose che volano, volano, e vanno verso il cielo. Vi sono due soli e grandi avvenimenti nell'esistenza che possano dare ai nostri volti un raggio di quella bellezza celeste che sfugge a qualunque manifestazione, e sono l'amore e la morte, - due cose sorelle, - l'estasi dell'uno, e la calma che succede all'altra. Coloro che hanno amato e che furono amati lo sanno: - quella bellezza non è della terra e non dura , è qualche cosa di aereo che si posa un istante sulle nostre sembianze e svanisce, - essa si vede, ma è inesplicabile: - è forse una luce di lassù che discende a benedire i due atti più solenni della vita , l'amore che ci rende degni del cielo, e la morte che ci concede di raggiungerlo. Io ho pensato più volte che se tutti gli uomini si innamorassero ad un tempo, la società sarebbe in un attimo trasformata : l'età dell'oro non sarebbe più quella favola allettante di cui si ride come dei sogni dei fanciulli. - Ogni uomo che ama è buono e grande. - I poeti sono uomini che amano. A quella vista Bouvard si arresta colpito dall'entusiasmo: l'incanto di quella bellezza lo rapisce ed eccita la mente fervida ed immaginosa del giovane. Nel suo atto violento, egli ha scoperto una parte del seno della fanciulla : - essa gli appare come una statua rovesciata di Fidia, come una di quelle immagini di vergine greca che il turbine ha divelte dalla loro base, e che s'incontrano talora mezzo sepolte tra i corimbi e le foglie oscure delle ellere, nelle isole solitarie dell'Egeo. Divina bellezza! - E perché non gli è dato di rianimarla? di spirarle il soffio della vita che Dio ha riserbato a sè solo? Ma Giulia lo odierebbe vivendo : - e non lo ha ella deriso? Il giovane rimane lungo tempo silenzioso, - poi il suo volto assume un'espressione tetra e risoluta, - egli si curva sopra di lei, egli vuole abbracciarla... « Nessuna donna, egli dice, si è data mai con maggiore abbandono ad un uomo... » Bouvard sorride seco stesso di questo orribile pensiero, - china il capo sopra di, lei e ne bacia le labbra irrigidite dalla morte. Quale contatto l Egli si scuote, egli trasalisce inorridito, egli raccapriccia di quel gelo ; e ricade prostrato dinanzi alla fanciulla. Allora egli piange, egli invoca, egli prega, - vorrebbe amarla, adorarla come una santa, e lo trattiene la memoria del suo passato; - vorrebbe odiarla, e lo arresta quell'immagine soave di angelo. Alcuni istanti dopo egli vaneggia e delira, - egli ripete ad alta voce il nome di Giulia, il nome della fanciulla adorata, e si abbandona al suo dolore disperato e selvaggio. - Poi l'asfissia dei fiori assopisce a poco a poco i suoi sensi, inebria e confonde la sua ragione: - egli prova come delle vertigini, - vede come degli oggetti che si muovono, - ode un bisbiglio di voci incomprensibili, - ripassano dinanzi a' suoi occhi delle strane figure che lo guardano e sogghignano..., egli si agita, vorrebbe avventarsi contro di esse, tenta di rialzarsi brancolando nel vuoto, - e ricade spossato presso il cadavere della fanciulla Certo, Bouvard non incontrò una morte così subita, nè così violenta, poichè i vicini raccontarono al mattino di aver inteso nelle •ultime ore di quella notte dei gemiti e delle grida soffocate; - ma ciò che aveva colpito maggiormente la loro immaginazione, era stato un suono di violino, da cui erano rimasti affascinati e sedotti come da un'armonia soprannaturale; - nè mai s'indussero a credere, per quante prove ne venissero lor date, che quella musica fosse stata l'opera di un uomo. Tale fu l'ultima creazione di Bouvard, l'ultimo lamento della sua anima, l'agonia sublime del suo genio. Vi erano in essa tutte le voci della natura, vi era il bisbiglio del vento e l'aleggiare dell'uccello, il susurro dei piccoli steli e il fremere dei grandi fusti dei cerri , lo scorrere del filo d'acqua e il, frangersi delle onde dell'oceano, -- vi era tutto ciò che il suono ha di aspro e di dolce, di soave e di orribile. - Sfortunati coloro che udirono quella musica ! La voce degli esseri più diletti, la parola di padre pronunciata la prima volta dal labbro del fanciullo, la prima rivelazione d'amore della donna adorata, non hanno avuto più nulla di soave, nulla di allettante per essi. Il domani la fama di un sepolcro violato si diffonde per la città; - si cerca il cadavere di Giulia, - gli indizii de' suoi complici guidano alla soffitta di Bouvard; - si chiama, nessuno risponde, - si batte, nessuno apre: - allora si atterrano le porte... orrendo spettacolo I tutti quei fiori erano calpestati e dispersi, molti oggetti Infranti, i veli della fanciulla lacerati, - dovunque le traccie di una lotta disperata e inuguale. Non era Giulia morta ? o le preghiere del giovine avevano avuto potere di rianimarla un istante? . . . Scheggie e frantumi di violino giacevano sparsi sul pavimento, ed un corpo deforme, inanimato stringeva convulsivamente il cadavere della bella Giulia... - Bouvard era morto! FINE.