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LUCA BELTRAMI

BRAMANTE POETA

Colla Raccolta dei Sonetti in parte inediti.


MILANO A COLOMBO E A. CORDANI TIPOGRAFI 1884 BRAMANTE POETA LUCA BELTRAMI

BRAMANTE POETA

Colla Raccolta dei Sonetti in parte inediti

MILANO A COLOMBO E A. CORDANI TIPOGRAFI 1884 [EX LIBRIS SIG. CESARE ZANARDI.DONO 1944]


Proprietà letteraria Venendo a dare alle stampe i Sonetti, d'amore o burleschi, di Bramante da Urbino, sonetti rimasti fino ad ora in parte inediti, ci sembra opportuno chiarire anzitutto le ragioni che a ciò ci hanno particolarmente indotto, accennando brevemente al valore e all'interesse da noi attribuito all' opera poetica del celebre architetto. La pubblicazione di questi Sonetti bramanteschi non può certamente avere per noi lo scopo di confutare la vecchia credenza la quale vuole che il Bramante sia stato illetterato. Il Müntz, discorrendo nella Gazette des Beaux-Arts degli architetti che lavorarono al S. Pietro di Roma, ci avrebbe in tal bisogna preceduto là dove, parlando di Bramante, dopo aver riportata l'opinione che questi fosse illetterato, si impegnò a rilevarne il poco fondamento con vivo interesse, cosi da attribuire alla questione un'importanza quale, a nostro avviso, non ebbe mai. Il Sabba Castiglioni, citando a prova che il Bramante fosse illetterato la circostanza che l' artista appartenne al Collegio dei Frari del Piombo, non ha fatto, che un tentativo mal fondato per giustificare l'asserto del Cesare Cesariano, al quale si deve probabilmente la sola e vera origine della credenza. Il Cesariano nei suoi curiosi commenti al Vitruvio, ha infatti questa frase « LICET ET FUSSE ILLITTERATO » (pag. LXX verso). Chi conosce però il bizzarro modo di esprimersi del Cesariano, ben difficilmente è indotto a prendere quelle parole in un senso preciso, assoluto, per farne argomento di una conclusione, la quale nel fatto viene a mettersi immediatamente in contraddizione, non solo coll' opera poetica di Bramante, ma più ancora colle varie testimonianze che ci restano ín scritti del tempo di questo artista. Cosi pure dichiareremo fin d' ora non essere nostra intenzione insistere sul valore letterario di queste poesie che or pubblichiamo, nè volerci giovare delle medesime per arrivare a considerazione qualsiasi sulla letteratura di quell'epoca; il che ci trarrebbe fuor dell' argomento. Il Vasari ebbe già a dire, a tale proposito, che Bramante «componeva qualche sonetto, se non cosi delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti. » Il Trucchi dice di tali sonetti che sono dettati « senza alcuna benchè minima pretesa letteraria » e il Müntz osserva come « le style n'est pas toujours d'une correction, d'une clarté parfaites » però « temoigne d'une grande facilité de versification et d'une bonne humeur à toute épreuve.» Ci accontenteremo su tale punto della questione di accennare all'importanza che Bramante ha potuto avere fra i suoi contemporanei quale poeta; come già si disse, varie sono le testimonianze, e il nome di Bramante lo vediamo più volte apparire nelle opere di parecchi poeti convenuti alla Corte di Lodovico il Moro: fra questi citeremo anzitutto il Gaspare Visconti, consigliere ducale, anzi confidente di Lodovico, amico e protettore di Bramante, autore di molti sonetti, di un poemetto dal titolo De dui Amanti ed altri componimenti poetici che vennero per le stampe in Milano nel 1493 e 1495: il quale Visconti apparteneva a quella famiglia che, prima degli Sforza, avea governato Milano, come egli stesso lo dichiara nel libro VII del suo poema De dui Amanti, dedicato a Lodovico Sforza:

Scendera de Gasparro un pronepote Compilator di questa historia in rima.

In quale stima il Visconti tenesse il Bramante, lo si vede nel suo poema là dove dice che:

« Quanto è Bramante al mondo huom singulare Ciascuno a questa etate il vede e intende » e si potrebbe più presto numerare

" . . . . nel ciel l'anime sante Che dir le cognition ch'a in se Bramante."

E poco dopo :

" Questo che de Bramante hor scrivo e narro. A te nol dico già per cosa nova."

Questo Visconti, come poeta, era abbastanza pregiato dai contemporanei, e ce lo attestano gli elogi adulatorii che accompagnano l'edizione delle sue poesie fatta dal P. Franciscus Tantius Corniger: Stefano Dulcino, canonico della Scala, lo chiama "splendido caualiero et prestante poeta." Il suo modo di poetare presenta qualche analogia con quello del Bramante, col quale era in continua relazione: dei sonetti d' amore del Visconti più d'uno ricorda quelli del Bramante: ad esempio quello che comincia:

« Dolce nimica della mia salute. »

Il Visconti ci riporta l'ammirazione del Bramante verso Dante con una nota a un sonetto, dove dice : non fu facto questo sonetto per voler judicare fra due tanti huomini (Dante e Petrarca) ma sol per motteggiare con Bramante, sviscerato partigiano di Dante. In altro sonetto indirizzato a Hieronimo Tuttavilla, lo stesso Visconti dice:

" Da l'altra parte il mio dottor Bramante Mi morde quando il verso é grosso e umile."

Noteremo infine come Bramante abbia suscitato più di una rivalità fra i poeti contemporanei, rammentando a tale riguardo i due epigrammi poco rispettosi, uno intitolato : Desiderium Bramantis , e l'altro attribuito al Maccagni; sorvolando ad un terzo Epigrama a la sepoltura di Bramante da noi trovato in un codice Magliabechiano (VII, 9, 720, Var. Poes.) e che per la sua trivialità merita di rimanere ancora inedito.

Veniamo a determinare l'epoca di tali componimenti poetici. Parecchi, e precisamente quasi tutti i burleschi, si indirizzano al consigliere Ducale Gaspare Visconti il quale morì di 38 anni nel marzo 1499 (V. anche Argelati Bibl. Script. Mediolan. T. II, part. I col. 1604); questo, e il vedervi al tempo stesso citati il Maccagni, il Bergonzio ed altri, mette in chiaro che fu nel periodo della sua dimora a Milano che Bramante si dilettò di poesia, in quel periodo cioè che dal 1476 circa, si protrae fino al 1499, epoca della caduta di Lodovico il Moro e del disperdimento della Corte ducale e degli artisti ivi accolti ; e come Serafino Aquilano recossi a Napoli, il Tebaldi a Ferrara, il Pulci a Firenze, il Bramante lasciò Milano per recarsi a Roma, dove la sua presenza è segnalata a partire del 1500. Anche le poesie d' amore possono essere assegnate allo stesso periodo del soggiorno a Milano; ad ogni modo non furono scritte dopo il 1497, inquantochè il MSS. parigino, come vedremo fra breve, porta la data " a dì primo di setembre 1497 » : d'altra parte una volta stabilito a Roma, non crediamo che il Bramante trovasse occasione di coltivare ancora le muse : occupato in molti ed importanti lavori alla Corte pontificia, e già innanzi ormai negli anni, gli dovettero necessariamente mancare i due argomenti che vediamo campeggiare nelle sue poesie, l'amore e la miseria. Ora è appunto per l' epoca nella quale furono scritti, che questi sonetti acquistano particolare importanza: poichè se le notizie intorno tramante non fanno difetto per il periodo del suo soggiorno a Roma, che corre dal 1500 al 1514, permettendoci le sue opere di tener dietro alle vicende della sua vita, mentre i documenti ci danno anche il giorno della morte (Romæ, die XII Mart. hore IIII noctis 1514: m.° Bramante mori hiermatina, sono al contrario assai scarse le notizie riguardanti il periodo molto più esteso del soggiorno a Milano, periodo che ci riesce assai oscuro per la scarsità dei documenti e per la confusione stessa che durò a lungo sul nome di Bramante: egli è appunto per tale povertà di documenti che dobbiamo tener calcolo, con particolare interesse, delle notizie che si possono ricavare dalle poesie. Ed anzitutto ci sorprendono le ripetute dichiarazioni e descrizioni della miseria in cui si sarebbe trovato a quel tempo l' autore. In uno dei sonetti, Bramante, rivolgendosi all'amico Visconti, annuncia il prossimo ritorno da lungo viaggio insino a Nizza, e si descrive tutto rotto negli abiti, malconcio e senza un soldo: in altro sonetto, sotto forma di dialogo, finisce per dichiarare che porta i borzacchini perché ha le calze rotte: tre sonetti consacra a descrivere, adoperando anche espressioni e frasi volgari, le calze rotte, e conclude col chiederne un pajo. Per quanto si voglia riconoscere in tali dichiarazioni di miseria l'intervento di una naturale inclinazione alla celia, pure un certo fondamento di verità si fa sentire e ci richiama alla memoria come il discepolo di Bramante, Cesare Cesariano abbia lasciato scritto di lui che «fu patiente filio di paupertate.» Questo artista che vediamo prender parte, coll' opera o col consiglio, a molti dei lavori che si compirono in Milano nell'ultimo quarto del secolo XV, incarnando il suo nome nel movimento dell'architettura a quell'epoca, e si presenta stracciato nelle vesti, mostrando le ginocchia , si confessa pidocchioso, non ha un soldo in tasca ,

" Deh! tomi un soldo e poi fammi impiccare "

e va mendicando da un amico un pajo di calze, ci lascia un senso di profonda delusione. Il fine sentimento delle proporzioni, la squisitezza delle decorazioni, la grazia che distingue le opere di questo artista, ci hanno facilmente portati a raffigurarci un Bramante ben diverso da quello che balza fuori della realtà: sfortunatamente tali delusioni non sono rare per chi si addentra alquanto nei particolari degli artisti di quell'epoca, così splendida nelle apparenze. Molti, che nella storia passano come mecenati, non hanno sempre meritato la loro fama. E fra questi si può annoverare quel Lodovico il Moro che pure accolse alla sua Corte tanti artisti. Come appare da uno dei sonetti, al Bramante sarebbero stati assegnati dalla Corte di Lodovico il Moro, cinque ducati al mese, pari a lire imperiali annue 270; stipendio abbastanza ragguardevole - potendo essere ragguagliato a circa 5000 lire di nostra moneta - tanto più se vi mettiamo a raffronto altri stipendii di quel tempo, come ad esempio quello del Lazzaro Palazzi architetto del Lazzaretto , - di L. 50 imperiali annue. Però lo stesso Bramante ci lascia capire che lo stipendio non gli era pagato molto puntualmente. Anche il pittore Montorfano ebbe ad aspettare mesi e mesi d' esser dalla corte ducale pagato per lavori pei quali aveva tolto a credenza e impignato, così da vedersi infestato da li suoy creditori. Dai sonetti abbiamo pure indizii di alcuni viaggi fatti da Bramante, ora sulla riviera di Ponente passando per Genova, Savona, Nizza, ora nel Monferrato, ad Asti, Acqui, Alba e Tortona: vi si parla di un passo fra gli Appennini per Pontremoli, di un viaggio a Pavia, probabilmente quello fattovi nel 1488 per invito del cardinale Ascanio: notizie che possono gettare qualche luce sul periodo del soggiorno a Milano di questo artista.

Dei ventitrè sonetti che or pubblichiamo, diciasette soli vennero già per le stampe: la Raccolta Milanese del 1756, in varii suoi fascicoli dava, per la prima, nove sonetti di Bramante, togliendoli da un MSS di proprietà di certo Carl'Antonio Tanzi: il Trucchi nel 3° volume della sua raccolta di Poesie inedite di 200 autori - Prato, 1847- pubblicava 13 sonetti di Bramante, non tutti inediti però, essendochè cinque si trovavano già fra i nove pubblicati dalla Raccolta Milanese: il Trucchi li trascriveva da un Codice Magliabechiano (N. 342) *) accompagnandoli con un breve cenno biografico di Bramante. Non ci consta che siasi pubblicato altro lavoro poetico di Bramante, se si tolga il frammento di Sonetto a coda che il Müntz riportò nel già accennato suo lavoro della Gazette de Beaux-Arts, allo scopo di mostrare come Bramante fosse versato anche nella Mitologia. Riguardo al MSS, Tanzi che servì alla Raccolta Milanese, possiamo dire che conteneva altri sonetti di Bramante, oltre ai nove riportati dalla Raccolta, inquantochè in una nota che accompagna uno di quelli, si dice : « Serbiamo ad altra fiata il far vedere quant'egli (Bramante) valesse anche nello stile faceto » il che accenna alla esistenza, in quel manoscritto, dei sonetti burleschi che la Raccolta però, mancando alla promessa, non pubblicò. Sappiamo pure che il MSS Tanzi conteneva poesie di Gasparo Visconti, ed altri, come la Raccolta Milanese, nel pubblicarli, accenna. Siamo indotti a supporre che il MSS fosse da


  • ) Var. Poes., Il, 75. - Bramante da Urbino, Sonetti XXIII quorum postremus inscriptum a Paolo da Taegio a fol. 25 recto ad 31 rectum. lungo tempo di proprietà Tanzi, ricordando come certo P. Francesco Cornigero Tanzi pubblicasse nel 1493, Le Rime del Mag.° Mess. Gasparo Visconti, e precisamente i Sonetti d'amore, seguiti da un poemetto sulla Fine del Carnovale; il quale Francesco Tanzi, probabilmente, doveva possedere anche altri lavori poetici, come sonetti burleschi, epistolari, ecc., del Visconti, nonché di altri contemporanei, fra i quali il Bramante.

Due altre Raccolte manoscritte di tali lavori poetici si conoscevano nello scorso secolo. Infatti la Raccolta Milanese, parlando di quella del Tanzi, osserva che è una fedele ed esatta copia di quella magnifica che serbavasi nell'archivio dei C.C.R.R. di S. Paolo in S. Barnaba. L'Argelati ne cita un altro esemplare presso i Nobiliss. March. frat. Visconti. Quale ventura abbian subito questi MSS. non sappiamo. Due sono quelli che abbiamo potuto consultare: l'uno è il MSS. Magliabechiano, attualmente alla Biblioteca Nazionale di Firenze, quello che servì per la citata edizione del Trucchi l'altro è il MSS. che si trova alla Biblioteca Nazionale di Parigi sotto il N.° Ital. 1543 manoscritto di 244 fogli, acquistato nel 1869 alla vendita del Sig. H. d. S., e che porta su di una pagina la nota " A dì primo di Setembre 1497 in Taracina." A tergo della copertina porta stampato il titolo di Proprietà " Comes Donatus Silva" collo stemma di famiglia. Il manoscritto quindi è molto vecchio, ma probabilmente non è alcuno dei 3 che si trovavano in Milano allo scorso secolo. Riscontrando i sonetti riportati della Raccolta con questa manoscritto, possiamo rimarcare una certa corrispondenza ortografica, che non esiste in pari grado con quello di Firenze il quale, assai più recente di quello di Parigi, ci dà una trascrizione non molto attendibile dei sonetti originali del Bramante ; tanto che il Trucchi cadde in varie scorrezioni, dovendo al tempo stesso lasciare qualche verso incompleto, per casi di disperata lettura. Ci siamo attentati quindi di preferenza al MSS. di Parigi, procurando di trascriverne i 23 sonetti che vi si contengono, nella lor forma genuina, togliendo solo le scorrezioni amanuensi, senza pregiudicare, per quanto ci fu possibile, la fedeltà paleografica. Di qualche parola però non ci fu dato ricavare una interpretazione affatto sicura, e ciò per la difficoltà della scrittura. Riguardo alle due omissioni che il lettore troverà nei due ultimi sonetti burleschi, non possiamo che accampare le medesime ragioni addotte dalla Raccolta Milanese nella stessa circostanza. Noteremo infine che non ci parve di alcun interesse il presentare i sonetti nell'ordine col quale si leggono nel MSS. di Parigi (ordine che si ritrova identico nel MSS. di Firenze) stimando invece opportuno disporre anzitutto i sonetti d'amore, e raccogliendo alla fine tutti i sonetti burleschi. Abbiamo poi distinto con un asterisco i sonetti che vengono ora pubblicati per la prima volta. I. Arde il mio petto in si soave foco Che sol del suo martir vive contento, E se talor cantando mi lamento, Facciol non per dolor, ma per pur gioco.

Non perch' i' speri giunger al loco Dove è il mio passo desioso e intento, Che troppo alto pensier nel cor mi sento, A quel ch' è 'l mio poter debile e poco.

Ma perchè quanto il ben è più perfetto Più si convien naturalmente amare, Voglio sperar nel cor doglia, o diletto.

Dunque, se ciò ch'io amo è singolare, Degnamente mi sta fisso nel petto Che gloria è per virtù sempre stentare. II.

Dolce nimica d'ogni mio riposo, Per cui corro contento ne' miei danni Vedi fuggir bellezza e venir gli anni Ch'ogni bon tempo volgon a ritroso.

Con lor vecchiezza, e 'l suo viver nojoso, Nimico di piacer, colmo d'affanni, Debile e infermo, con mortali inganni, Del qual il mondo indarno è pauroso.

Dunque, mentre che dura il tempo verde, Non far come quel fior che 'n su la pianta Senza frutto nessun sue frondi perde.

Che quando il corpo in più vecchiezza viene, Più di sua gioventù si gloria e vanta, Vedendosi aver speso i giorni bene. III.

Amor vuol pur ch' io creda a chi m' inganna, E ch' io cerchi d'amar chi m' ha in dispetto, E ch'io del mio dolor prenda diletto: Troppo è nocivo il tôr venen per manna.

Colei che la mia vita salva e danna, Se con un guardo mi vien torto o retto, M' ha oggi a lacrimar così costretto, Che vita e morte in un punto m'affanna.

Che com'ella del mio piacer s'accorse, Ne' suo' begli occhi, ond' io mio fine involo, Quasi sdegnata in parte gli retorse.

E per mio peggio, mi sparì d'un volo Il cor, che sino a di dietro gli corse: Così rimasi di me stesso solo. IV.

Qual de le forze sue si fida tanto Che vincer crede Amor, Morte o Fortuna Troppo s'inganna; ed io sol per quest'una Cagion, son posto a sempiterno pianto.

Che sentendomi Amor dar questo vanto, Né vincermi potea con arte alcuna, L'arme, del sangue mio vaga e digiuna, Per vil, sdegnato, la gettò da canto.

Poi, tra sé mormorando, in terra scese: Se tu il cuor credi aver fatto adamante, Ed io del sangue arò che sempre il lese. (I)

Indi mi apparve un sì gentil sembiante Che con un guardo sol mi vinse e prese; Poi tornò in cielo ed io rimasi amante.

(1) Le parole corsive sono quelle che non si trovano nell'edizione del Trucchi. V.

Poi ch'amor m'ebbe dato mille ponte Con l'arme invan di sua crudel phatetra, Disse : costui, per certo, ha il cor di pietra Ch'ogni saetta in lui par che si sponte.

Non sono io quel ch'a Phebo li occhi in fonte Conversi col mio stral ch'or non penetra? Colui è perditor che pria s'arretra, Con altra arme convien che me gli affronte.

Poscia discese dal sereno in terra, E con la sua belta fatta visibile, Ricominciò di novo a farme guerra.

Or quivi a contrastar non fu possibile, Ma caddi al primo assalto vinto a terra: Così mi fè di sè per sè passibile. VI.

Non più spiace al nocchier nebbia alla stella Chi l'assecura in mar tra sì larghe onde, Ch'a me la finta larva (I) che nasconde La onesta bocca, sopra l'altra bella.

Chi mi solea del Ciel portar novella Con sì dolci parole e sì joconde Che in ogni alma gentil diletto infonde, Or, per esser coperta, non favella.

Ma se l'usanza folle m'ha conteso L'angeliche parole e 'l dolce riso, Non m' ha negato almen le luci sante.

Anzi gli ho visto dentro il paradiso E la mia morte, il cor mio vinto e preso, E l'anima contenta in pene tante.

(I) Cinta larva, cioè Maschera, onde la donna erasi il volto coperto (Racc. mil.). VII.

I' ho pur oggi usato tanto ingegno, Ch' i' ho rubato a que' begli occhi un sguardo, Anzi una fiamma, ovver proprio quel dardo Che in ogni maggior cor far maggior segno:

E vidi dentro a lor scritto, e in disegno, Mio timor certo e mio sperar bugiardo E 'l desio che mi strugge sì gagliardo Che più contra di lui non me mantegno.

Ben sai ch'amor di tutti questi è il duce E vagli innanti e mia dogliosa sorte E l'angoscia e le lacrime e il martire.

Voleva pur veder se vi era morte: Ma sì tosto voltar le sante luce, Che non potei por fine al mio desire. VIII. *

Poscia che 'l sonno e'l mio signor sen vanno L'un torna in ciel l'altro non so donde Nascon dagli occhi miei sì fervid'onde Che dalle guancie al petto un fonte fanno.

E 'l cor paventa e dice: oimè che inganno Dov'è la luce mia, dove s'asconde Quest'anima gentil che non risponde? Dunque tu fuggi ed io resto in affanno.

Ma poi che 'l senso ha ripigliato lena Riconosce l'error in che l'involse Quel che mi sprona e gli altri uomini affrena.

La bella vision redir non polse, Ma sol questo nel cor mi porge pena Che non fu vera e troppo tosto sciolse. IX.

Come 'l tempo si muta in un momento, Si muta il mio pensier che gli è seguace: Or ch'io credea solcar tal mare in pace, Veggio alla vela mia turbar il vento.

Silla latrar non molto lunge sento, Fortuna ogn'ora contro me più audace: O mondana speranza, o ben fallace Come in un punto fai lieto e scontento!

E quelle due lucenti e vive stelle, Che mi mostraro 'l porto di salute Nel dì ch'entrai nel pelago infinito,

Si sono al mio nocchier fatte ribelle, E in si spietate nuvole involute, Ch'altro non so che desperar del lito. X.

Dolce desir per cui sì amara vita Lieto sostengo e spero ogni di peggio, Poichè sì fiero un si bel volto veggio E drento agli occhi sua morte scolpita,

Cangiati ormai, vedi che 'l ciel t'invita Col sangue del suo re vendut' a pregio Alleva li occhi a quel supremo seggio Dove l'anima a Dio si rimarita.

Queste cose frangibili e mortali Che pajon cosi belle in prima vista, Tutte son corto bene e lungo male,

E chi le segue più biasimo acquista. Dunque rivolgi a Dio le stanche ale, Ch'alcuno indarno a lui mai si contrista. XI.

Più che mai tristo vo' vivere in doglia, Ché quand' esser credea libero e sciolto, In nuovo laccio mi ritrovo involto, Né ingegno so trovar che men discioglia,

O fiera, o pertinace e crudel voglia, Ben prendo del tuo mal diletto molto, Ma chi non amena quel santo volto Che in ogni alma gentil libertà spoglia?

Or sia come si vuol io son pur preso Da due belle man che sotto il sole Mai fece con sua arte la natura.

E se poco da lor mi son difeso Quanto ci penso più, manco men duole, Ch'esser servo di tal, stimo ventura. XII.

Poiché 'l tempo mi sciolse il primo laccio Nel qual già volentier stetti legato, Spiacquemi esser di carcer liberato E di voglia tornai in altro impaccio.

Or che del mio error tardo m'affaccio Ne vorre' uscir e 'l passo m' é negato: Ma di che mi doglio io s'io ho trovato Quel che cercavo e mal come vien n'accio (I).

Di me sol stesso, e piacemi né voglio Altramente voler se ben potessi: Ch'amor con sdegno in odio si converte.

E se talor del mio signor mi doglio, Come dimostrerei che drento ardessi, Se 'l cor tenesse sue fiamme coperte ?

(1) Accio ed anche haggio invece di ho, abbiamo trovato in altri scritti pubblicati in Milano nella 2. metà del XV secolo. XIII.

Nuova saetta m' è venuto al core E l'antica mi punge più che mai; Cosi mi sento raddoppiar in guai Ch'esser credea di tal tormento fore.

O fiero, ingrato e disleal signore Dunque di tanta fè tal premio dai? Della mia morte alfin che gloria arai, Se uccider chi se rende è men che onore?

Ma chi non lasseria ligarsi e sciorre Da duo sì belle man senza contesa E dar la vita a lor diletto e torre ?

E dal bel lampo chi faria difesa, Quando nel volto degli amanti scorre Ch'accenderebbe un mar non ch'alma accesa ? XIV. *

Quel sommo Re che sua grandezza inchina Tanto possono in lui prieghi mortali, Che scende qui tra nui per darne l'ali Da transvolare in sua patria divina,

Già era in sacrifitio stamattina Per dimostrar quanto di nui li cale Et io mirava in lui contrito e frale Quando a caso arrivò la mia regina.

Parme a quel tempo asserenarsi intorno E chiunque v'era rallegrarsi in vista; Pensa quel che si fe 'l cor misero amante.

Allor diss' io fra me: non ho io dinante Quel ch' el ciel muove e quel ch' al mondo adorno O felice mattina, e lieta vista! XV. Tu m'hai fatto in un punto lieto e tristo Luchino : ond'io di te mi doglio e lodo: D'una cosa ho spiacer, dell'altra godo Cosi vivo intra dui con forze misto.

Né sèguito l'impresa nè desisto Se prima gire o star da te non odo: Ma quel che ci può dare e torre il modo, Fa che sia, per mio amor, da te provvisto.

E cerca di saper se la mia vita Si vuol partir da voi, come dicesti, Acciò che possa procacciar di morte.

Ma se mi porgi questa volta aita Mai più lieto nom di me non conoscesti; Pensa per te s' amor nel petto porte. XVI.

Messer Gaspare dopuo lunga via Di Genova, di Nizza, e di Saona E d'Alba e d'Asti e d'Acqui e di Tortona, E di quanti Castelli han signoria,

Son, Dei Gratia, pur giunto a Pavia Benché arrostito son della persona Ver é ch' in borsa un sol quattrino non suona Tanta ell' ha di moneta carestia;

E 'l mio mantel di ciò fa mille frappe, Pensa poi quel che fanno i borzacchini Che sen van per dispetto a giappe a giappe. Del caval so che tu te l'indovini Senza ch'io el dica, ei mostra altro che rappe E ha cariche le spalle di rubini:

Sì che de malandrini Non so s' io tema, e vo pur là pian piano: Dimane, o l'altro, giungerò a Milano. XVII. *

Quelle mie calze che già vostre furo Pria ch'a Pavia dicessimo valete, Tosto convertiranno in una rete S' i non provvedo a lor danno futuro.

Immaginate un fico ben maturo E tutta la lor forma intenderete, E gli occhi delle stringhe agguaglierete A una merlata rota (I) intorno a un muro.

A chi volesse dir de le calcagna, De varchi, e de' pedugi e de genocchi Converria di scrittura una campagna.

(1) Rotta. E le costure en piene di pedocchi E pajono un vestito di Lamagna, Over del Duomo le finestre o gli occhi.

Vuoi che me le ritocchi ? Elle han più buchi che non ha un cribello E peggio è ancor ch'io ho voto il borsello.

So che tu intendi quello Che dir vorria, senza fartel più chiaro, Pur tel dirò: ne vorrei un altro paro. XVIII.

Perchè se porta i borzachini in piede ? - Perché ? Perciò che l'è gentil portare - E non per altro ? - Si, per cavalcare, Quando 'l fango, o la piova, o il vento fiede -

- E per altro ? - O io nol so - Che no? Toh vede Guarda ch' i non te 'l faccia indovinare. Perché li porta Bramante ? - Ah! lui il può fare, Perche cosi a un poeta si richiede.

Or ben che ce n'è d'altri ? - Or pensa bene Ch'ancor ne troverai ne la rubrica - Poh! tu vuo dir ch'el sia per qualche umore ? - Se mai diè Cristo, o pazzo da catene, Tu sei ben grosso. Or vuo' tu ch'i tel dica? Egli ha rotte le calze ch' è il peggiore.

- O ingegnero e pittore Può esser questo ? - Sì al corpo di Dio E non ho un soldo al mondo che sia mio.

- Vuo' tu che t' insegna io? Torna al Vesconte e non aver vergogna; Che male è il vergognar quando bisogna.. XIX.

Messer io non so far tante frappate Né vendervi vesciche per lanterne, Che negli enigmi il ver mal si discerne: Per tanto io parlerò, si che intendiate.

Erno le calze mie tutte stracciate Unte più che tovaglie da taverne Tal che i ginocchi per pietà fraterne L'un pianse ad un balcon, l'altro andò frate.

Elle han messo appetito a più d'un sordo, Vedendole aprir gli occhi in sul sedere, Delle mie belle carni fatto ingordo. Or questi dl ch'io son stato a giacere. Col corpo infermo e col cervel balordo N'ho fatto manteghete da crestere

Sperandone anche avere Da voi un par, si come siete usato, Ch'amor, dal canto mio, non è mutato. XX. *

Vengon da Frignana tanti briganti Ch' a gire vêr Pontremol m' han sforzato, E Donato da Vico m'ha pregato Ch'io lavori per lui de' tremolanti.

Certan con le Ciconie i nostri canti, Non con Calliope, non con Erato, Per ben ch' io abbia il cor tutto infiammato Del fuoco che consuma gli altri amanti.

Deh sta un poco a udir nuova pazzia Ch' a posta d 'una capra e di due lasche Convengo ognor balar la gelosia. Andando hier a veder certe mie frasche Venni quasi cristallo a mezza via Sì di Medusa me turbar le masche.

Vesconte non te casche Questo da core, ma fa ch' io n' abbia un scudo Tal ch' io non giostri più con Borrea ignudo.

E se poi per te sudo Il mio sudor verrà dela tue pelle Ma non scoter però la sete a quelle. XXI.

Bramante, tu se' mo' troppo scortese Ch'ognor mi mandi calze a dimandare, E metti in parte un monte di denare. Ti par sì poco se ti fo le spese ?

- Messer, a fede ch' io non ho un tornese Deh! tomi un soldo e poi fammi impiccare - Come, da Corte non ti fai pagare ? Tu hai pur là cinque ducati il mese.

-A dirvi il ver le Corti en come i preti Ch'acqua, e parole, e fumo e frasche danno: Chi altro chiede, va contro i divieti. - E il tuo Bergonzio e Marchesin che fanno ? Non hai tu il lor favor ? - Deh stiansi cheti, Tutti siam sordi ove monete vanno.

Ma ritorniamo al panno: Se tu rifai de Pacca i miei taloni Butterò i borzacchin per li cantoni. XXII. *

Le gambe mie vorrian cambiar la pelle Chè questa pare aver la elefantia Anzi gli è giunta drento la moria E par nei varchi aver le codeselle.

Ella ha tanti pertugi e finestrelle Che più non ha grattugia, o gelosia, Benché da bollettin chiusa ne sia Più che non ha Ferrara in sue gabelle.

Le mie ginocchia stan sempre a balconi Per vagheggiar di Monna bianca il viso Ch' el foro fa fuggir spesso i...

Onde ne segue tosto all'improvviso Che 'l vien dal varcar giù de' taloni Tal che i calcagni poi scopion da riso.

Cosi me spesso avviso D'esser talor giuncata e tal cicogna Pensa Vesconte quel che arìa bisogno Ogni cosa a suo tempo ben s'adopra Ognuno a un modo il ciel non avvalora Quel è migliore che so laudarsi all'opra.

Sonetto del suddetto (Bramante) composto da poi cena a tavola a Paulo da Taegio, qual gli lo rechiese per metterlo in fine d'una certa sua opera intitolata Apolonio de Tyro, dedicato alla Ma Madona S. Ferrarese.


FINE.