Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XXIII

Lettera XXIII

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LETTERA XXIII

22 gennaro.

Così va, caro amico. Stavami al mio focolare, dove alcuni villani de’ contorni s’adunano in cerchio per riscaldarsi, raccontandosi a vicenda le loro fole e le antiche avventure. Non andò guari ch’entrò una fanciulla scalza, assiderata, e, vòltasi modestamente all’ortolano, lo richiese della limosina per la povera vecchia. Mentre ella stava rifocillandosi accanto al foco, egli le preparava un fascio di vite, un altro di quercia e due pani bigi. La villanella prese il suo carico, e salutandoci se ne andò. Anch’io allora, non so perché, me ne usciva e senz’avvedermi la seguitava, calcando, dietro le sue péste, la neve. Ma, giunta a un mucchio di ghiaccio, si fermò alcun poco per disgombrarsi la strada; ed io, raggiungendola: — Andate lontano, buona ragazza?

— Niente piú di mezzo miglio, signore.

— Parmi che i fasci vi aggravino troppo: lasciate che ne porti uno anch’io.

— Per i fasci, tanto, non mi sarebbero di sì gran peso, se potessi sostenermeli su le spalle con tutte due le braccia; ma questi pani m’imbarazzano la mano dritta. [p. 110 modifica]

— Or via, porterò i pani dunque.

— Come vi piace. — Ed arrossendo mi pòrse i pani, ch’io mi riposi sotto il mantello. Dopo brev’ora entrammo in una capannuccia, in mezzo la quale sedeva una curva vecchierella con una ciotola fra i piedi piena di brace, sovra le quali stendeva le palme malferme, appoggiando i polsi su le estremitá dei ginocchi.

— Buongiorno, buona madre!

— Buongiorno.

— Come state, buona madre? — Né a questa né a dieci altre interrogazioni di simil fatta mi fu possibile di trarre risposta, perch’essa continuava a riscaldarsi le mani, alzando gli occhi di quando in quando per vedere se eravamo ancora partiti. Posammo trattanto quelle poche provigioni; e, a’ nostri saluti e alle promesse di ritornare domani, la vecchia non rispose sennonché un’altra volta quasi per forza: — Buongiorno. —

Tornando a casa, la villanella mi raccontava che quella donna, ad onta di forse ottant’anni e piú e di una difficilissima vita, perché talvolta avveniva che i temporali vietavano a’ contadini di recarle la limosina che raccoglievano, in guisa che vedevasi in punto di mancar di disagio, tuttavia le rincrescea di morire, e borbottava sempre sue preci perché il cielo la tenesse ancor viva. In séguito ho udito dire a’ vecchi del contado che da molti anni le morì di un’archibugiata il marito, dal quale ebbe figli e figliuole, e quindi generi, nuore e nepoti, ch’ella vide tutti perire e cascarle l’un dopo l’altro a’ piedi nell’anno memorabile dalla fame. Eppur, caro amico, né i passati né i presenti mali la uccidono, e brama ancora una vita che nuota sempre in un mar di dolore.

Ahi! dunque, tanti affanni circondano la nostra esistenza, che per mantenerla vuoisi non meno che un cieco istinto prepotente, per cui (quantunque la natura ci porga i mezzi di liberarcene) siamo spesso forzati a comperarla coll’avvilimento, col pianto e talvolta ancor col delitto.