Va bene/La pigna
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§ 2.
LA PIGNA
La promessa di quel mese di sollievo e di riposo non poteva essere migliore. Era piovuto fino al giorno avanti: ora, con la freschezza del primo limpido sole di marzo, pareva che la Primavera volesse dire:
Son qua.
E veramente, al professor Corvara Amidei, affacciato al finestrino d’una vettura di terza classe, parve d’intravederla, la Primavera, appena uscito dalla stazione: alle porte di Roma, la Primavera, in un non so che di roseo fuggevole e palpitante tra il tenero verde dei prati. Che era? Forse un gruppo di peschi fioriti. Si sì, eccone un altro, difatti, e altro, e un altro. La Primavera! Ah da quanto tempo non l’aveva più veduta così, nel suo primo nascere, con quel roseo riso dei peschi!
Trasse un lungo sospiro, e si sentì da quell’aria nuova inebriare, d’una ebrezza così limpida e pura, che lo intenerì fino alle lagrime. Gli parve una grazia che la sorte nemica gli volesse concedere quella vista deliziosa, da cui gli veniva una letizia così arcana che ora, ecco, non sapeva perchè, pur lì presente, gli pareva dei lievi anni lontani della sua fanciullezza, là nell’incanto del suo paese nativo.
E dimenticò allora, per un momento, tutte le sue sciagure, passate e presenti; il figliuolo tanto malato; quella donnaccia che lo disonorava; quel prete che l’opprimeva; la spesa superiore alle sue misere condizioni, alla quale bisognava pur sottomettersi per la speranza, forse vana ahimè, di recar bene a Dolfino; la noja cupa, amara; il peso enorme di quella sua insopportabile esistenza. Di contro a tutto il nero che aveva nell’anima, ecco il verde dei prati, l’azzurro del cielo e quella soave freschezza dell’aria, alito vivo della Primavera. E rimase, incantato, a mirare.
Sì, poteva, poteva esser bella la vita; ma lì, in mezzo a quel verde, all’aperto, dove la sorte crudele, certo, non poteva esercitare, come in città, la sua feroce persecuzione. Di questa persecuzione per le oppri menti vie cittadine, egli aveva quasi un’immagine tangibile: se la sentiva realmente dietro le spalle, come un’ombra orrenda, che lo faceva andar curvo, guardingo, tutto ristretto in sè: sua moglie.
Ne scacciò subito l’immagine, che gli aveva tutt’a un tratto offuscato la dolce visione, e si rimise a mirare. Ecco là i Monti Albani che pareva respirassero nel cielo, lievi, come se non fossero di dura pietra. Monte Cave, con la vetta incoronata di aceri e di faggi, e il vecchio convento e il bosco biancheggiante a mezza costa. Ecco, più là, Frascati solatìa. Al fragore del treno si levò uno stormo di passeri, e un’allodola, in alto, librata sulle ali brillanti, trillò. Il professor Corvara Amidei si ricordò allora della prima proposizione della grammatica latina, che da tanti anni non insegnava più: alauda est laeta. E tentennò il capo. Ora, quasi quasi, gli parevano belli anche i suoi primi anni d’insegnamento, quando però non s’era ancor messo a far casa comune con quel....
— E va bene! — - sospirò, turbandosi di nuovo.
Ma fu per poco. Passata la stazione di Carrocceto, cominciò a sentir prossimo il mare, e tutta l’anima gli s’allargò, ilare e trepidante, nella viva aspettazione di quella tremula azzurra immensità, che da un momento all’altro gli si sarebbe spalancata davanti a gli occhi. Ah, il suo mare! Da quanto tempo più non lo vedeva, e che desiderio acuto, intenso, ardente, di rivederlo! Ma eccolo già! eccolo! eccolo! E il professor Corvara Amidei sorse in piedi, tutto tremante dall’emozione, si sporse dal finestrino, e bevve con tanta ansia e tanta voluttà la brezza marina, che n’ebbe una vertigine, e ricadde a sedere su la panca della vettura, con le mani sul volto.
Il treno si arrestò ad Anzio, per pochi minuti, e il professor Corvara Amidei stette con tanto d’occhi a mirare ciò che dalla stazione si scorgeva della bella cittadina, dove non era mai stato. Scese, di lì a poco, alla stazione di Nettuno, ancora stordito e inebriato da quel primo respiro che, rivedendo il mare, aveva tratto proprio dal fondo dei polmoni, come non gli era più avvenuto da tanto tempo.
Gli scrivani del Ministero gli avevano dato qualche ragguaglio del paese. Si recò nella piazza principale, e domandò dove avrebbe potuto trovare un quartierino modesto, di poca spesa, alla vista del mare. Gli fu indicato un villinetto lì sotto la piazza, a destra, su la spiaggia. Era veramente un po’ troppo caro per lui quel quartierino; ma, pazienza! La finestra della cameretta posta sul davanti, verso lo spiazzo, di fronte alla caserma dei soldati d’artiglieria che venivano in distaccamento per le esercitazioni di tiro, era appena all’altezza d’un mezzanino: quella della camera prospiciente il mare, all’altezza d’un secondo piano. E il mare, di qua, pareva proprio che volesse entrare in casa; non si vedeva altro che mare. Il professor Corvara Amidei pagò la caparra al proprietario, gli disse che sarebbe venuto a prender alloggio la mattina dopo, e scese sulla spiaggia.
Dirimpetto al villino, dal lato di ponente, sorgeva e s’avanzava fin nel mare, maestoso, l’antico castello sansovinesco, annerito dal tempo. Salì su la scogliera sotto il castello, e lì rimase per più di un’ora stupefatto, a contemplare. Vide in fondo al mare levarsi azzurrino, quasi fragile, Monte Circello, come un’isola aerea, e più qua, seguendo la riviera, il Castello di Stura; vide prossimo, a destra, il porto d’Anzio, popolato di navi, nereggiante per il traffico del carbone, e poi la sterminata distesa delle acque, riscintillante al sole, così placida, che sulla spiaggia s’arricciava appena, silenziosamente. Quando alla fine potè scuotersi dal fascino di quello spettacolo, si recò a prendere un boccone; poi, sapendo che prima delle cinque non avrebbe trovato alcun treno per ritornare a Roma, pensò d’occupare le tre ore che aveva innanzi a sè in una visita al magnifico parco dei Borghese, a mezza via tra Anzio e Nettuno.
Non ricordava d’aver mai passato un giorno più delizioso di quello in vita sua; si sentiva beato entro quel precoce, voluttuoso tepor primaverile, col mare di qua, sotto lo scoscendimento dell’altipiano, e il verde dei campi e dei boschi dall’altra parte. Il cancello del parco era aperto; e il professor Corvara Amidei s’avviava, ammirato, per uno dei viali in pendio, quando si sentì chiamare da una nanerottola che gli correva dietro come una papera:
— Ehi! ehi! Si paga.... si paga il biglietto! —
Cinque soldi. Li pagò, quantunque si fosse proposto di limitarsi nelle spese. E riprese a vagare per quei viali profondi, deserti, ombrosi, come in un sogno. In un sogno parevano veramente assorti quegli alberi maestosi, nel silenzio che il canto degli uccelli non rompeva, ma rendeva anzi più misterioso. Gli avevano detto che in quel parco quasi abbandonato c’erano molti usignuoli. Gli parve, ascoltando, di sentirne cantare uno, in fondo, e s’internò da quella parte. Si trovò, dopo un lungo tratto, in una meravigliosa pineta. I fusti altissimi, diritti, davan l’immagine di colonne d’un tempio gigantesco; le fitte corone, lassù, eran confuse ed escludevano del tutto lo sguardo dalla vista del cielo. Pareva che la pineta avesse una sua propria aria, cuprea, insaporata di quella frescura d’ombra speciale delle chiese.
Il professor Corvara Amidei non seppe andar più oltre. Si tolse, quasi istintivamente, il cappello, e sedette per terra; poi si sdrajò.
Da molti e molti anni, fra una grave sciagura e l’altra, i diuturni dolori gli avevano quasi vestito la mente d’una scorza di stupidità; le cure affannose, minute, gli avevano impedito di levar lo spirito a quelle considerazioni che in gioventù lo avevano travagliato fino a fargli perdere per un momento la ragione e poi la fede. Ora, in quel giorno di tregua, essendo finalmente riuscito a intravedere come si potesse davvero sentir la gioja di vivere, ebbe la cattiva ispirazione di provarsi di nuovo a penetrare nel folto di quelle antiche considerazioni. E si domandò perchè mai egli, che non aveva mai fatto per volontà male ad alcuno, doveva esser così bersagliato dalla sorte; egli, che anzi s’era inteso di far sempre il bene; bene lasciando l’abito ecclesiastico, quando la sua logica non s’era più accordata con quella dei dottori della chiesa, la quale avrebbe dovuto esser legge per lui; bene, sposando per dare il pane a un’orfana, la quale per forza aveva voluto accettarlo a questo patto, mentr’egli onestamente e con tutto il cuore avrebbe voluto offrirglielo altrimenti. E ora, dopo l’infame tradimento e la fuga di quella donna indegna che gli aveva spezzata l’esistenza, ora quasi certamente gli toccava a soffrire anche la pena di vedersi morire a poco a poco il figliuolo, l’unico bene, per quanto amaro, che gli fosse rimasto. Ma perchè? Dio, no: Dio non poteva voler questo. Se Dio esisteva, doveva coi buoni esser buono. Egli lo avrebbe offeso, credendo in lui. E chi dunque, chi dunque aveva il governo del mondo, di questa sciaguratissima vita degli uomini?
Una pigna. Come? Si: una grossa pigna, staccandosi in quel momento dai rami lassù, piombò, a guisa di fulminea risposta, sul capo del professor Corvara Amidei.
Rimase il pover uomo a giacere, quietamente, privo di sensi, quasi fulminato. Quando potè riaversi, si trovò in una pozza di sangue. E ne perdeva ancora, da una bella ferita, che dal sommo del capo gli andava giù giù dietro l’orecchio. Ancor tutto intronato, riuscì a levarsi in piedi e a grande stento si trascinò fino al cancello della villa. La nanerottola di guardia, nel rivederlo in quello stato, col volto tutto imbrattato di sangue, strillò, inorridita:
— Gesù! Che ha fatto? —
Egli levò un braccio tremolante e contrasse il volto in una smorfia, tra di spasimo e di riso:
— La.... la pigna, — balbettò, — la pigna che governa il mondo.... già!
— È matto! — pensò quella e, spaventata, s’affrettò a chiamare il boaro della latteria annessa alla villa, perchè con l’ajuto d’uno dei ferrovieri che stavano li presso al cancello a riattare la linea, quel disgraziato fosse condotto al vicino Sanatorio Orsenigo dei Fate Bene Fratelli.
Qua il professor Corvara Amidei fu prima raso, poi medicato con sette bei punti di cucitura, e infine fasciato. Aveva fretta; temeva di perdere il treno. Il medico, sentendo ch’egli doveva mettersi in viaggio, volle abbondare in cautela, e gli combinò allora con le bende una specie di turbante, il quale gl’impedì d’assettarsi il cappello sul capo. Quando fu pronto, Cosmo Antonio Corvara Amidei si strinse nelle spalle, si provò pian piano a protendere il collo e, socchiudendo gli occhi, sospirò ancora una volta:
— E va bene!