Va bene/Il vento
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§ 3.
IL VENTO
“Tu, cara Primavera, non vedo perchè debba proprio quest’anno venire innanzi al dì che gli uomini ne’ loro calendarii t’assegnano per il ritorno. L’Inverno è stato piuttosto mite, e vorrebbe, prima di spirare, fare almeno un po’ di guasto: è nel suo diritto; vorrebbe che tu, per esempio, gli lasciassi il tempo di scaricarsi di qualche temporaletto che l’addoglia; ma se questo non ti garba perchè temi che ti sporcheresti i rosei piedini, trovando troppo imbrattate le campagne e le vie della città per il tuo ingresso trionfale; egli ti fa sapere che è ancor tutto gonfio di vento, povero vecchio, e ti prega che sii contenta di fargli, se non altro, buttar fuori questo, che ti snebbierebbe anche l’aria ben bene e ti spazzerebbe le terre dalle sudicerie che v’ha fatto. Renderesti un gran piacere a lui e uno grandissimo a me, che proteggo tanto, se tu sapessi, un brav’uomo, fin da quand’egli è nato. Figùrati, per dirtene una, che jeri, mentre egli si beava di te, steso a pancia all’aria nella pineta d’un bel parco, mi son divertita a fargli cadere in testa una pigna bella grossa e dura, che avrebbe potuto anche accopparlo, eh altro! ma io non ho voluto. Sai bene che porto nello stemma un gatto che scherza col topolino e non l’uccide„.
Come letta in altro tempo in un libro antico, perchè la crudeltà ne apparisse più raffinata, se la ripeteva tra sè e sè, da quindici giorni, Cosmo Antonio Corvara Amidei, questa bellissima preghiera che certamente la sua buona sorte aveva dovuto rivolgere alla Primavera, e che questa manco a dirlo aveva subito accolto. Era ancora col turbante in capo, e se ne stava alla sponda del lettuccio di Dolfino, il quale, da che era sceso alla stazione di Nettuno, gli si consumava nel lento cociore della febbre, anche di giorno. Prima, almeno, a Roma l’aveva soltanto di notte, la febbre.
E vento, e vento, e vento! Da quindici giorni non cessava un minuto, nè dì nè notte. Fischiava, mugolava, ruggiva in tutti i toni, ed era in certe scosse lunghe e tremende di tanta veemenza, che pareva volesse schiantar le case e portarsele via. Pareva; perchè poi, in realtà, si portava via soltanto qualche tegola, abbatteva qualche albero o qualche palo telegrafico e infrangeva qualche vetro. Si divertiva poi a rendere furioso il mare, perchè si ripigliasse la spiaggia, e venisse a rompersi fragoroso e spaventevole contro le mura delle case.
Al professor Corvara Amidei sembrava di trovarsi su una nave assaltata e sbattuta dalla tempesta. Il povero Dolfino n’era atterrito, e lui non trovava più modo a confortarlo con qualche parolina, perchè quel mugolo del vento, più che il fragore del mare, gli toglieva, non che la voce, ma finanche il respiro, gli torceva dentro le viscere, gli dava un’angoscia rabbiosa e muta, che trovava solo, di tanto in tanto, un po’ di sfogo involontario nella gola della povera balia, la quale, per compir l’opera, s’era ammalata d’angina e doveva starsene a letto, anche lei.
— Piano, per carità, signorino mio! — pregava quella, appena se lo vedeva davanti, come una fantasima, con la boccetta dell’acido fenico in una mano e il pennello nell’altra. — Piano, per carità! —
Si metteva a sedere sul letto e spalancava la bocca, che pareva un forno arroventato.
Il professor Corvara Amidei non voleva far forte; ma, ogni volta, come se la veemenza del vento che s’abbatteva ai vetri gli spingesse il braccio, lasciava andar certe spennellature, che a quella poveretta per miracolo non schizzavan gli occhi dal capo.
— Sputate! Sputate! —
E se ne tornava accanto a Dolfino, con una fissità truce negli occhi, mentre la boccetta dell’acido fenico gli tremava in mano. Acido fenico.... veleno.... ma troppo poco, troppo poco e diluito.... non sarebbe certamente bastato.... E poi, del resto, come lasciar Dolfino in quelle condizioni? No, via! La tentazione però era forte. Quel vento lo faceva impazzire.
— Villeggiatura!... — borbottava tra sè.
Già metà del mese era passata. La spesa in più del fitto, la mancanza dei comodi di casa, l’aggravamento del male di Dolfino, la malattia della serva: ci aveva guadagnato questo. E poi, ancora un po’ di pazienza: bisognava che si facesse tutto da sè: lui accendersi il fuoco, lui andar per la spesa, lui apparecchiar da mangiare.... E non poter condurre, neanche per un minuto, il ragazzo sulla spiaggia; vedersi lì, in quelle tre stanzette, imprigionato, assediato dal mare e dal vento.
Troppo, eh?
— Tin tin tin — piano piano, alla porta.
— Chi è? —
Ma lei, Satanina, si sa! venuta in groppa a quel vento; Satanina, la buona mammina, che vuole a tutti i costi rivedere il figliuolo malato.
Entra, si precipita, cade in ginocchio ai piedi del professore, il quale indietreggia sbalordito; gli s’aggrappa alla giacca, gridando, scarmigliata:
— Cosmo! Cosmo, per carità! Lasciami veder Dolfino mio! Perdonami! Salvami! Abbi compassione di me! —
E scoppia, così gridando, in un pianto dirotto, in un pianto vero, di lagrime vere, senza fine, e in singhiozzi anche, in singhiozzi non meno veri, che la scuotono tutta; e non si leva da terra, e si nasconde la faccia con le mani, seguitando a implorare:
— Bacerò, bacerò la terra, dove tu metti i piedi, Cosmo, se tu mi perdoni, se tu mi salvi! Non ne posso più! Voglio esser tutta del mio Dolfino, ora! Lasciamelo assistere, curare, per carità! —
Cosmo Antonio Corvara Amidei casca a sedere su una seggiola, si nasconde il volto con le mani anche lui, benchè in quella cameretta, veramente, per l’ombra della sera sopravvenuta, non ci si veda quasi più. Suona la campana dell’Avemaria.
— Ave Maria.... — dice forte, apposta, la balia dal letto, cominciando la preghiera, per sottrarre il padrone alla tentazione.
E Dolfino chiama dall’altra camera in fondo, sbigottito:
— Papà.... papà.... —
Allora Satanina, come sospinta da una susta, scatta in piedi e corre dal figliuolo.
Il professor Corvara Amidei rimane inchiodato su la sedia. Gli giungono dalla camera di Dolfino le tènere espressioni d’affetto che colei rivolge al figliuolo, il suono dei baci che gli dà. Gli sembra che d’improvviso un gran silenzio si sia fatto intorno, un silenzio misterioso, di fuori, come di tutto il mondo. Si toglie le mani dal volto e resta attonito, ad ascoltare. Un vetro si scuote, appena appena, alla finestra. Ah, il vento — ecco il vento è cessato. E come mai? Si reca dietro la vetrata a guardare la via illuminata di là dal prossimo giardino annesso alla casa degli ufficiali. Sì, il vento è cessato, tutt’a un tratto. Si odono le voci degli ufficiali che escono allegri dalla mensa. Ma Dolfino è ancora al bujo, in camera, con colei; e il professor Corvara va per accendere la candela.
— Lascia, faccio io! — gli dice subito Satanina. — Il lume dov’è? Di là? —
E scappa a prenderlo, premurosa.
— Papà, — dice allora Dolfino, piano piano, papà, io non la voglio.... Fa troppo odore....
— Zitto, figliuolo mio, zitto....
— Papà, dove ti corichi tu? Per lei non c’è letto.... Tu devi coricarti qui, papà, senti? accanto a me.....
— Sì, bello mio, sì.... Sta’ zitto, sta’ zitto....
Silenzio. E perchè non torna Satanina? Non trova forse il lume? Che fa? Il professor Corvara Amidei tende l’orecchio; poi avverte un fresco insolito alle gambe, come se colei di là avesse aperto la finestra. Possibile?
Si leva dalla sponda del letto e va, al bujo, in punta di piedi, a origliare, fino all’uscio della camera che ha la finestra bassa sullo spiazzo, davanti la caserma. Satanina sta affacciata a quella finestra e parla sottovoce con qualcuno giù. Come! Con chi? Ah, spudorata! Ancora? Cosmo Antonio Corvara Amidei si restringe in sè, felinamente, le si accosta, senza fare il minimo rumore, e — quando le sente dire all’ufficiale che sta lì sotto: “No, Gigino, stasera no: non è possibile. Domani.... domani, immancabilmente....” — si china, l’abbranca per i piedi, e giù! la rovescia dalla finestra, gridando:
— Signor tenente, se la pigli! —
Al doppio urlo che gli risponde di sotto, dell’ufficiale e della precipitata, egli si ritrae, raccapricciato, in preda a un tremor convulso, di tutto il corpo: si prova a richiuder le imposte, ma non può, poichè dallo spiazzo nuove grida si levano, di soldati, di ufficiali, d’altra gente accorsa. Traballando, col passo legato, si trascina fino alla camera del figlio, ribellandosi ferocemente alla balia che, saltata dal letto in camicia, a quegli urli, vorrebbe trattenerlo per sapere che ha fatto, che è stato.
— Nulla.... nulla.... — risponde lui, fremebondo, abbracciando il figliuolo sul letto. — Nulla.... non ti spaventare.... Una tegola.... una tegola sul capo a un tenente. —
Bussano furiosamente alla porta. La balia scappa a infilarsi una sottana, corre ad aprire: un fiume di gente, soldati e ufficiali allagano vociando la casa ancora al bujo, dietro a due carabinieri e al delegato.
— Abbiano pazienza, accendo il lume.... — balbetta la balia, spaventata.
Cosmo Antonio Corvara Amidei si tiene stretto con tutte e due le braccia Dolfino, che s’è inginocchiato sul letto.
— Via! Venite con me! gli grida il delegato.
Egli si volta a guardarlo. Sotto il turbante delle fasce, quella faccia da morto con gli occhiali incute sgomento e orrore alla folla che ha invaso la camera.
— Dove? — domanda.
— Con me! Senza storie! — gli risponde, brusco, il delegato, prendendolo per una spalla.
— Va bene. Ma questo figlio? — domanda lui, di nuovo. È malato. A chi lo lascio? Sappia, signor delegato....
— Via! via! via! — lo interrompe questi, con violenza. — Vostro figlio sarà condotto al Sanatorio. Voi venite con me! —
Il professor Corvara Amidei rimette a giacere Dolfino che trema tutto dallo spavento; lo esorta pian piano a far buon animo: chè non è nulla, chè presto ritornerà a lui; e se lo bacia quasi a ogni parola, rattenendo le lagrime. Uno dei carabinieri, spazientito, lo agguanta per un braccio.
— Anche le manette? — domanda il professor Corvara Amidei.
Ammanettato, si china su Dolfino, di nuovo, e gli dice:
— Figlio mio, questi occhiali....
— Che vuoi? — gli chiede il ragazzo, tremando, atterrito.
— Strappameli dal naso, bello mio.... Così.... Bravo! Ora non ti vedo più.... —
Si volge verso la folla, ammiccando e scoprendo, nella contrazione del volto, i denti gialli; si stringe nelle spalle, protende il collo, ma l’angoscia gli serra troppo la gola, e non può ripetere anche questa volta:
— E va bene! —