Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapX
224 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo X – Arti Liberali I. Come nel ragionar degli Etruschi e de’ popoli della Magna Grecia e della Sicilia abbiamo ancor ragionato del fiorire, che tra essi fecero le Arti Liberali, così ragion vuole ancora, che lo stesso facciamo or de’ Romani. Ma il farem brevemente, e sol quanto basta a conoscere l’origine e il progresso di queste Arti presso di loro. E cominciando dalla Scultura e dall’Arte statuaria, Varrone citato da S. Agostino1 e Plutarco2 ci assicurano, che per lo spazio di cento settant’anni niuna statua ne’ tempj di Roma ebber gli Iddj, così avendo comandato Numa nelle sue leggi. Dico ne’ tempj; perciocché fuor di essi se ne videro anche ne’ più antichi secoli alcune, come fralle altre la statua di Giano a due faccie, che Plinio dice consecrata da Numa stesso3. Agli uomini ancora fino da’ primi tempi si videro innalzate statue in Roma, e il medesimo Plinio rammenta quella di Clelia al tempo della guerra di Porsena4. Erano però ne’ tempi più antichi le statue o di creta o di legno; e la prima statua di bronzo, che in Roma si vedesse, dice lo stesso Autore5, che fu quella di Cerere fatta col denaro di Spurio Cassio, allorché egli per sospetto di affettata autorità Reale fu ucciso, il che avvenne l’anno di Roma 268. Aggiugne, che dagli Iddj passò poi quest’onore agli uomini ancora; e che successivamente erasi sparsa tanto quest’arte, che tutti i municipj ancora avean nelle lor piazze molte statue di bronzo, e che anzi le stesse case private e i lor cortili erano in ciò somiglianti alle piazze; tante eran le statue, di cui si ornavano. A me però non appartiene il cercare, quando, e a chi si ergessero statue in Roma; ma se Romani artefici vi fossero in quest’arte eccellenti, o se fosser costretti a servirsi a tal uopo degli stranieri. II. In questa parte, a dir vero, non sembra che molta lode si debba a’ Romani6. Avvezzi a decider nel foro a chi si dovesse muover la guerra, a chi accordare la pace, avrebbon creduto di abbassarsi di troppo, se con quella mano medesima, con cui pretendevano di imporre legge al mondo, avessero maneggiato scalpello o altro plebeo strumento. Di fatti Plinio, che nel più volte citato libro moltissimi nomina più o men famosi scultori, un solo ne produce, dal cui nome si possa credere, che forse ei fosse Romano, cioè un certo Decio, di cui ancora non parla con molta lode7. Quindi è, che il dottissimo Antiquario Winckelmann rigetta l’opinion di coloro, che ne’ Monumenti antichi distinguer vogliono lo stil Romano dall’Etrusco e dal Greco8, e mostra, che le statue in Roma furono opera comunemente degli Artefici Etruschi, poscia de’ Greci. E a’ tempi ancora di Cesare e di Augusto veggiamo, che Greci erano gli Scultori in Roma, e Greci gli Incisori di pietre, tra’ quali celebri si rendettero singolarmente Dioscoride e Solone9. Ma se i Romani non si degnarono essi medesimi di esercitar quest’arte, non lasciaron perciò di pregiarne e di ricercarne i lavori. Questa gloria ancora si vuole da alcuni togliere a’ Romani; e a provare, quanto in ciò fossero rozzi, si arreca il fatto, che racconta Vellejo Patercolo10, cioè che Lucio Mummio espugnata avendo l’anno 607 Corinto, e raccoltene le statue e le pitture tutte di grandissimo pregio, che vi aveva trovate, avvertì seriamente coloro, che incaricati erano di trasportarle a Roma, che avvertissero bene a non guastarne o smarrirne alcuna; poiché altrimenti gli avrebbe costretti a nuovamente rifarle a loro propie spese. Il qual fatto pruova bensì, che Mummio più di guerra intendevasi che di quest’arti; ma non pruova, che sì rozzi fossero tutti i Romani. E certo il costante uso tra loro di trasportare a Roma, e di conservare i più bei monumenti delle conquistate Città, mostra, che essi ben ne conoscevano il pregio. Così abbiam veduto che fecero nella presa di Bolsena; così fecero pure nella presa di Siracusa e di tutte le altre Città della Grecia e della Sicilia, da cui essi trasportarono a Roma, quanto vi ritrovaron di più pregevole11. III. Meno indegna della loro grandezza stimarono i Romani, almeno per qualche tempo, l’arte della pittura. Udiamo ciò, che intorno ad essa ne narra Plinio, l’unico tragli antichi Autori, che 225 abbia stesamente trattato di tale argomento. Presso i Romani ancora, egli dice12, quest’arte (della Pittura) salì presto ad onore; perciocché i Fabj, famiglia d’illustre lignaggio, da essa il soprannome ebbero di Pittori; e il primo, che lo avesse, dipinse egli stesso il tempio della Salute l’anno di Roma 450, la qual pittura fino alla nostra età si mantenne, in cui quel Tempio sotto l’Impero di Claudio fu consumato dal fuoco. Una pittura inoltre del Poeta Pacuvio fu celebre nel Tempio di Ercole al Foro Boario. Credettesi dunque allora, che la pittura ad uom Romano e nobile, qual era Fabio, non disdicesse; ma si cambiò presto parere. D’allora in poi, continua Plinio, da uomini di onesta condizione ella non fu più esercitata, se pur non vogliasi eccettuarne Turpilio Cavalier Romano nativo della Venezia, e vissuto a’ nostri giorni, di cui alcune belle opere veggonsi anche al presente in Verona. Soleva egli usare la man sinistra a dipingere, il che di niun altro si legge. nomina però ancora Plinio un certo Quinto Pedio uomo di chiarissima stirpe, e stretto di parentela con Messala e con Augusto, a cui, poiché era muto, per voler di Messala e col consentimento d’Augusto fu insegnata l’arte della Pittura; e grandi progressi ei vi faceva; ma un’immatura morte in età ancor tenera troncò le speranze, che se n’erano concepute. Per ultimo nomina Plinio nel medesimo libro13 un cotal Ludio, il quale al nome sembra Romano, seppur non era Liberto; di cui dice, che al tempo d’Augusto prima di ogni altro ebbe gran fama nell’ornare le mura di capricciose pitture rappresentanti Ville e portici e selve e colli e fiumi e pesche ed altri somiglianti oggetti14. Veggonsi inoltre da lui nominati Arellio Pittor celebre poco innanzi al tempo d’Augusto, e Amulio verso l’età di Plinio medesimo15. Questi forse furon Romani, ma di famiglia plebea; se non si voglia, che Plinio contraddica apertamente a sé stesso. Ma trattine questi, non so se di altri Romani si sappia, che fosser Pittori. Ben molti Greci veggiam nominati da Plinio, che in Roma esercitaron quest’arte; e molti Romani ancora, che le più belle pitture da essi trovate nelle Città e nelle Provincie straniere portar fecero a Roma. Nel che giunsero alcuni a tale avidità, che essendosi trovate nella Città di Sparta certe assai belle pitture, per ordine degli Edili Murena e Varrone tagliate per mezzo le quadrella delle pareti, che n’erano adorne, e ben adattate in casse di legno, furono trasportate a Roma. Item Lacedæmone, dice Vitruvio16, a quibusdam parietibus etiam picturæ excisæ interfectis lateribus inclusæ sunt in ligneis formis, & in comitium ad ornatum ædilitatis Varronis & Murenæ fuerunt allatæ; il che pure essersi fatto di altre pitture, ch’erano sulle mura di un tempio di Cerere, si afferma da Plinio17 sull’autorità di Varrone. IV. L’Architettura per ultimo ebbe ella ancor tra’ Romani i suoi coltivatori, e forse per numero e per valore più che le altre due Arti. Già abbiam di sopra nominati coloro, che de’ Precetti di quest’arte scrissero in Roma; i quali ancora è probabile, che in essa si esercitassero. Plinio non ci ha di questa favellato distintamente, come della pittura e della scultura, e più si è trattenuto in descrivere i superbi e regali edificj d’ogni maniera, che negli ultimi anni della Repubblica e ne’ primi della Monarchia eransi innalzati in Roma, che nello svolgere l’origine e i progressi di quest’arte. Nondimeno possiam raccogliere quanto basta ad intendere, che questa, come dicemmo, forse più che le altre arti fu da’ Romani coltivata felicemente. Noi non veggiamo, che alcun Pittore o Scultore Romano sia stato chiamato in Grecia a qualche lavoro; ma il veggiam bene degli Architetti. Vitruvio ci narra18, che Antioco Epifane Re della Siria, volendo condurre a fine il tempio di Giove Olimpico, che in Atene era stato già da Pisistrato incominciato, fece a tal uopo venir da Roma un Architetto nomato Cossuzio. Anzi Vitruvio si duole, che non si fosse trovata memoria alcuna da Cossuzio scritta su questo argomento, e nulla pure si avesse scritto da Cajo Muzio, uomo di grandissimo sapere in Architettura, il quale avea innalzati i Tempj dell’Onore e della Virtù presso i Trofei di Mario. Ariobarzane ancora Re della Cappadocia, volendo rifabbricare il celebre Odeo di Atene, che nel tempo dell’assedio, di cui Silla avea stretta quella Città, era stato distrutto, usò di due fratelli Architetti Romani, cioè di Cajo e di Marco Stallio19. Egli è vero, che il Winckelmann conghiettura20, che nell’operare di questi due Principi avesse gran parte il desiderio di adulare e di compiacere a’ Romani; il che certo è probabile. Ma ciò non ostante, se valorosi Architetti essi non fossero stati, non pare, che prescelti gli avrebbono ad opere così famose, perciocché a vergogna lor propria sarebbe tornato, se il lavoro non fosse riuscito a quella bellezza e a quella magnificenza, che si conveniva21. Un Valerio di Ostia Architetto a’ tempi di Cicerone ci rammenta Plinio22. Ma molti 226 Architetti Greci ancora furono in Roma. Tale esser dovea quel Ciro, che spesse volte si nomina da Cicerone23, il quale di lui valevasi ad Architetto. L’età di Cesare e di Augusto vide la magnificenza de’ privati e de’ pubblici edificj condotta in Roma a quell’eccesso di grandezza e di pompa, a cui non era giunta, né giugnerà forse mai. Ma la descrizione di essi alla Storia del lusso appartiene, e non alla Storia della Letteratura. Non mi tratterò io dunque a ragionarne distesamente, rimettendo chi voglia saperne alle belle descrizioni, che Plinio ci ha lasciate de’ Teatri di Scauro e di Curione, degli Acquedotto di Quinto Marcio, e di altri portentosi edificj, che a questo tempo erano in Roma24; e porrò fine a questa Parte coll’osservare, ch’ella è comune opinione, che l’Architettura a’ tempi d’Augusto giugnesse alla sua perfezione, e che sotto Tiberio cominciasse a dicadere. Ma il Winckelmann osservatore, se altri mai fu, diligente de’ monumenti antichi, riflette, che fino da questo tempo cominciò essa a degenerare, il che egli pruova coll’esame di alcuni edificj, che di quel tempo medesimo ci son rimasti, ne’ quali il troppo studio di ricercati ornamenti mostra, che la vera idea del bello in queste arti già si andava perdendo25. Così quel difetto medesimo, che cominciò sotto Augusto a introdursi nell’Eloquenza, come abbiamo veduto, cominciò pure a introdursi nelle Arti, di cui parliamo; e come quella colle altre scienze, così queste ancora ne’ secoli susseguenti vennero a stato sempre peggiore, come dal seguito di quest’opera si vedrà chiaramente.
Note
modifica1 De Civ. Dei l. IV c. XXXI.
2 In Numa.
3 L. XXXIV c. VII.
4 Ib. c. VI.
5 Ib. c. IV.
6 Intorno alle Arti Liberali esercitate da’ Romani veggasi la nuova edizione altre volte citata della Storia del
Winckelmann (T. II p. 305 &c.).
7 Ib. c. VIII.
8 Hist. del l’Art t. II pag. 125 &c. Edit. d’Amsterdam.
9 V. Winckelmann t. II p. 269, 276 &c.
10 L. I c. XIII.
11 Sembra, che il celebre Paolo Emilio volesse distruggere il pregiudizio comune a’ Romani, che l’esercizio delle belle
arti non fosse degno di loro, perciocché, come osserva il Winckelmann (Storia delle Arti T. II p. 160, 306) citando
l’autorità di Plutarco, egli scelse tra gli altri a Maestri de’ suoi figli alcuni Pittori e Scultori, acciocché nelle arti lor gli
istruissero. Ma questo benché sì luminoso esempio non fece cambiar maniera di pensare a’ Romani.
12 L. XXXV c. IV.
13 C. X.
14 La maniera di dipingere usata da Ludio era nota a’ Greci più secoli prima de’ tempi di Augusto. O dunque Plinio ha
errato, o egli vuol dir solamente, che Ludio fu il primo ad aver tra’ Romani gran nome in questo genere di Pittura (V.
Winckelmann Storia dell’Arte T. II p. 130, T. III p. 215 Ediz. Rom.).
15 Di questo Pittore Amulio Plinio ci dice ch’ei fu humilis rei pictor; col che sembra indicare, non già ch’ei fosse pittor
dozzinale, ma solo ch’ei si occupava comunemente di dipingere oggetti bassi e volgari. Aggiugne, che una Minerva fu
da lui dipinta in modo, che spectantem aspectans quocumque aspiceretur; le quali parole a me non sembrano potere
avere altro senso fuorché questo, che aveale il Pittore formati gli occhj in modo, che paresse tenerli fissi su chi
rimiravala, da qualunque parte ei la rimirasse. Il Sig. Giuseppe Tommaselli non sa approvare questa spiegazione, e
vuole, che Plinio ci indichi con quelle parole un quadro sì congegnato, che riguardandolo di fronte o da qualsivoglia
lato sempre rappresentasse la figura ivi dipinta in un medesimo aspetto (Della Cerografia, Verona, 1785, p. 14 &c.). Io
rimetto a chi sa di latino il decidere, se questo possa mai essere il senso delle arrecate parole.
16 L. II c. VIII.
17 L. XXXV c. XII.
18 Proem. l. VII.
19 V. Explication d’une Inscript. sur le rétablissement de l’Odeum d’Athenes t. XXIII Mem. de l’Acad. des Inscr.
20 Hist. de l’Art t. II p. 255 &c.
21 Quanto allo Stato dell’Architettura e degli Architetti del Tempo di Augusto veggansi anche le Memorie degli
Architetti del Sig. Milizia (T. I p. 53 &c. Ediz. Bassan. 1785).
22 L. XXXVI c. XV.
23 Ad Att. l. II ep. III; Famil. l. VII ep. XIV &c.
24 L. XXXVI c. XV &c.
25 Hist. de l’Art t. II p. 278.