Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapVII

206 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo VII – Gramatici, e Retori I. Dopo avere esaminati i progressi, che in ciascheduna scienza fecero i Romani, rimane ora a dir qualche cosa de’ mezzi, ch’essi ebbero ad istruirsi, e che concorsero ad accendere sempre maggiormente in essi l’amore alle lettere, e ad agevolarne gli studj. E prima delle pubbliche scuole. Io non favello qui de’ Filosofi; che a parlar con rigore, non tenevano essi scuola, in cui potesse ognuno, pagando al Precettore la dovuta mercede, istruirsi nella Filosofia. Erano anzi amichevoli conferenze e dispute erudite, in cui radunandosi insieme quelli, che di cotali studj si dilettavano, si trattenevano dissertando or su una or su altra quistione; e lecito era ad ognuno il dire liberamente ciò, che ne sentisse. Del che si è già parlato altrove. Pubbliche scuole erano propriamente quelle, che si tenevano da’ Gramatici e da’ Retori. Alcuni di questi sono stati già da noi nominati nell’Epoca precedente. Molti altri, che fiorirono al tempo, di cui parliamo, si annoverano da Svetonio ne’ due libri da lui scritti su questo argomento; e quindi non fa bisogno, ch’io ne ragioni diffusamente. Invece adunque di tessere una lunga e nojosa serie di Gramatici e di Retori illustri, solo accennerem qualche cosa alla Storia di quest’arti appartenente. E quanto a’ Gramatici, il loro impiego dapprima fu singolarmente spiegare, dichiarar, comentare i Poeti: Sunt enim explanatores, dice Cicerone1, ut Grammatici Poetarum; ove vuolsi avvertire, che per lungo tempo solevano i Gramatici comentare i soli Poeti Greci. Quinto Cecilio Liberto di Attico2 fu il primo, al dir di Svetonio, che intraprese a spiegare Virgilio e gli altri recenti Latini Poeti3. Essi dicevansi ancora Literati o Literatores, col qual nome indicavasi un uomo non già profondamente istruito, ma leggermente tinto nella letteratura4. Il nome non era molto onorevole, e pare, che degni di molta stima non fossero la più parte degli antichi Gramatici. Ma col decorso del tempo ottennero maggior fama. Perciocché presero ad insegnare ancora i principj della Rettorica, e l’uso di quelle figure, che a’ giovani sogliono insegnarsi, acciocché in tal modo potessero i lor discepoli passare già bastevolmente istruiti alle scuole de’ Retori5. Le declamazioni ancora, comeché propie fosser de’ Retori, furono da’ Gramatici nelle loro scuole introdotte, e in esse così felicemente si esercitarono alcuni di loro, che dal tenere scuola passarono a perorare nel foro, e di Gramatici divennero Oratori6; e talun di essi venne in sì grande stima, che i più ragguardevoli Cittadini Romani, quando doveano pubblicamente arringare, a lui ricorrevano, perché scrivesse lor le Orazioni; come essere avvenuto a L. Elio raccontano Cicerone7 e Svetonio8, da’ quali egli è appellato uom dotto e nelle Greche e nelle Latine lettere eruditissimo. Esaminavano essi ancora, quali fosser le vere, quali le supposte opere degli Autori, e quali i passi per frode o per ignoranza in esse intrusi, e li correggevano secondo il bisogno. Di tutti questi e di altri somiglianti impieghi de’ Gramatici veggasi Quintiliano, che ne ragiona colla consueta sua esattezza e riflessione9, e tra’ moderni Giannernesto Emanuele Walchio nelle due Diatribe de Arte Critica Veterum Romanorum stampate in Jena gli anni 1748 e 1749. Intorno poi alla maniera da essi tenuta nell’insegnare veggasi la Dissertazione di Giovanni Oliva De antiqua in Romani scholis Grammaticorum disciplina stampata in Venezia l’anno 1718, e una Diatriba di Gian Giorgio Walchio De variis modis literas colendi apud Romanos inserita ne’ suoi Parerghi Accademici. II. Né i soli fanciulli andavano alle scuole de’ Gramatici ad apprendervi i primi semi della Letteratura, ma spesso ancora vedevansi le loro scuole da’ più grandi e da’ più dotti uomini di Roma onorate, e chiamati erano ad ammaestrare i figliuoli de’ primarj Patrizj e degli Imperadori. Così Cicerone essendo attualmente Pretore recavasi spesso alla scuola di Antonio Gnifone10. Così Sallustio e Asinio Pollione onorarono dell’amicizia loro Attejo per la moltiplice erudizione soprannomato il Filologo, da cui anche furono a compilare le loro Storie ajutati11. Così Verrio 207 Flacco fu da Augusto destinato Maestro a’ suoi Nipoti, e chiamato alla Corte a tenervi la sua scuola12. Vidersi anche alcuni di essi sollevati a onorevoli impieghi, come Cajo Giulio Igino e Cajo Melisso, a’ quali fu da Augusto data la cura delle sue Biblioteche. Ove vuolsi di passaggio riflettere, che le opere, che abbiamo sotto il nome di Igino, gli son supposte, come comunemente si crede, e ancorché fossero da lui scritte, non è qui a farne menzione13, poiché secondo alcuni ei fu Spagnuolo, secondo altri Alessandrino14. Maggiore ancor fu l’onore, a cui salirono il sopraddetto Verrio Flacco e Orbilio; perciocché una statua fu ad ambedue innalzata, a quello in Palestrina, detta allora Preneste, a questo in Benevento15. Né onori soltanto ma ricchezze ancora non ordinarie raccolsero alcuni Gramatici dalla loro scuola. Il detto Verrio per l’ammaestramento de’ Nipoti d’Augusto avea ogni anno cento mila sesterzj, ossia due mila cinquecento scudi Romani, e fino a quattrocento mila sesterzj, ossia dieci mila scudi Romani traeva dalla sua scuola Lucio Apulejo16, benché alcuni vogliono, che a questo luogo di Svetonio invece di quadringentis si debba leggere quadragenis, che sarebbono mille scudi Romani. Quindi avvenne, che molti erano coloro, che aprivano scuola di Gramatica, talché a qualche tempo ve ne ebbe in Roma di cotali scuole oltre a venti, e tutte illustri17, e che non i soli schiavi e liberti, ma cittadini e Cavalieri Romani professavan quest’arte, fra’ quali da Svetonio vengono nominati L. Elio e Servio Claudio18. III. La moltitudine de’ Gramatici, ch’era in Roma, fu probabilmente l’origine del coltivamento degli studj in altre Città d’Italia. Fino a questi tempi appena troviamo alcun cenno di lettere, che fiorissero di qua dall’Apennino. Roma come era il centro, a cui tutti si riducevano i più grandi affari, così era ancora la sede di tutte le scienze. E se eravi nelle Provincie alcuno, che dal suo ingegno portato fosse agli studj, e che sperasse in essi di acquistarsi nome, venivane tosto a Roma, ove era certo, che né pascolo alle sue brame né premio alle sue fatiche non gli sarebbe mancato. Ma i Gramatici in Roma all’età singolarmente di Cesare e di Augusto eran cresciuti a segno, che non potendo tutti trovar discepoli, colla istruzion de’ quali vivere ed arricchirsi, cominciarono a spargersi ancora per le altre Provincie d’Italia, e ad aprirvi pubbliche scuole. In Provincias quoque, scrive Svetonio19, Grammatica penetraverat, ac nonnulli de doctissimis doctoribus peregre docuerunt, maxime in Gallia Togata, inter quos Octavius Teucer & Siscennius Jacchus & Oppius Cares, hic quidem ad ultimam ætatem, & cum jam non gressu modo deficeretur sed & visu. La Gallia Togata, come ad ognuno è noto, è la stessa che la Cisalpina, che comprende singolarmente la Lombardia, e questa sembra perciò che fosse il paese, in cui dopo Roma si cominciassero più che altrove a coltivare le scienze. In fatti veduto abbiamo di sopra, che Virgilio in Cremona prima e poscia in Milano attese giovinetto agli studj; il che conferma, che Precettori vi erano in quelle Città. Un Epitafio di Pudente Gramatico a’ tempi d’Augusto fu già scoperto in Bergamo nella Chiesa di S. Agata, ed è il seguente. PUDENS M. LEPIDI L. GRAMMATICUS PROCURATOR. ERAM. LEPIDÆ. MORESQ. REGEBAM DUM. VIXI. MANSIT. CÆSARIS. ILLA. NURUS PHILOLOGUS. DISCIPULUS.20 Intorno al qual Epitafio, da cui pare che si ricavi, che questo Pudente tenne in Bergamo pubblica scuola, una bella ed erudita Dissertazione abbiamo alle stampe dell’Abate Pierantonio Serassi21. IV. I Retori, a’ quali ora facciam passaggio, e più tardi e più difficilmente che non i Gramatici ottennero in Roma sede ed onore. Si è veduto nell’Epoca precedente, che alcuni Greci avean cominciato a tenere in Roma scuola pubblica d’Eloquenza; ma che l’anno 592 per ordine del Senato furon costretti a partirne; e si è esaminato, qual fosse il motivo di sì severo decreto. Ma dappoiché la conquista della Grecia trasse a Roma in sì gran numero i più colti uomini, che vi fiorivano, e poiché i Romani deposta ebbero quella austera avversione, che nutrito aveano per lungo tempo contro ogni Letteratura, egli è probabile, che molti Retori Greci riaprissero in Roma le loro scuole, e che i Romani volentieri vedessero la lor gioventù ad esse accostarsi. Certo si è già veduto di sopra, che i più valenti tra’ Greci scelse Cornelia ad istruire nell’Eloquenza i due Gracchi suoi figlj, e tra gli altri Diofane di Mitilene; e che i più celebri Retori Greci furon da Cicerone nella sua fanciullezza uditi. Ma di essi non parla Svetonio, il quale solo de’ Latini Retori ci ha lasciate alcune memorie. Narra egli adunque22, che alcuni Romani a imitazione de’ Greci presero essi pure a tenere 208 scuola d’Eloquenza, e a prendere perciò il nome di Retori Latini. Ma appena avean essi cominciato, che furon costretti a tacere. Ecco il grave e severo decreto di Gneo Domizio Enobarbo e di Lucio Licinio Crasso Censori contro di essi promulgato l’anno 661 quale da Svetonio23 e da Gellio24 ci vien riferito. Renuntiatum est nobis, esse homines, qui novum genus disciplinæ instituerunt, ad quos juventus in ludos conveniat: eos sibi nomen imposuisse Latinos Rhetoras: ibi homines adolescentulos totos dies desidere. Majores nostri, quæ liberos suos discere, & quos in ludos itare vellent, constituerunt. Hæc nova, quæ præter consuetudinem ac morem majorum fiunt, neque placent, neque recta videntur. Quapropter & iis, qui eos ludos habent, & iis, qui eo venire consueverunt, videtur faciendum, ut ostendamus nostram sententiam, nobis non placere. V. Questo decreto sembra a prima vista dettato da quel medesimo spirito di austera rozzezza, che fece per lungo tempo aborrire a’ Romani gli studj d’ogni maniera. Ma veramente, se con più attenzion si consideri, noi vedremo, che fu anzi zelo della gloria della Romana Letteratura, che a fare questo decreto condusse i Censori. In fatti è a riflettere, che Crasso uno de’ Censori, che il pubblicarono, è quel Crasso medesimo, che come uno de’ più valenti Oratori abbiam già veduto lodarsi da Cicerone. Quindi non poteva egli certo aver in odio l’eloquenza, né bramare, che i Romani non la coltivassero. Qual fu dunque il motivo, che alla pubblicazione lo spinse di un tal decreto? Egli stesso cel dice presso Cicerone, il quale a ragionar di ciò lo introduce per tal maniera25: Ella è questa una gran selva di cose (dice egli parlando degli ornamenti richiesti a ben ragionare), la quale benché da’ Greci medesimi non bene si comprendesse, e avvenisse perciò a’ nostri giovani di dare addietro, anziché avanzare in quest’arte, nondimeno in questi ultimi due anni vi ebbe ancora alcuni Professori Latini di eloquenza; i quali io, essendo Censore, aveva con mio editto tolti di mezzo; non già, come io ben sapeva dirsi da alcuni, perché non volessi, che coltivati fosser gl’ingegni de’ giovinetti, ma anzi perché io non voleva, che si offuscasse loro l’ingegno, e il solo ardir si accrescesse. Perciocché i Greci Retori finalmente, qualunque essi si fossero, avevan pure, com’io vedeva, e l’esercizio della lor lingua, e qualche erudizione, e quella coltura ancora, che del sapere è propia. Ma da questi nuovi Maestri null’altro parevami, che apprender potessero i giovani, fuorché ad esser arditi, il che, ancor quando a lodevoli azioni congiungesi, è in ogni modo a fuggire. Or non insegnandosi da essi fuorché ciò solamente, ed essendo quella, a dir vero, una scuola di impudenza, giudicai dover di Censore di fare in modo, che tal male non serpeggiasse più oltre. Le quali cose non dico io già, perché pensi, che impossibile sia il trattare e ornare latinamente quell’argomento, di cui abbiam favellato; perciocché la lingua nostra e l’indole delle cose è tale, che quell’antica ed esimia arte de’ Greci si può alle leggi nostre adattare e a’ nostri costumi. Ma a ciò fa d’uopo d’uomini eruditi, de’ quali in questo genere niuno ancora è stato fra noi. Che se un giorno alcuni ne sorgeranno, dovranno essi a’ Greci stessi antiporsi. Fin qui Crasso, dal cui parlare raccogliesi chiaramente, che non già l’arte de’ Retori, ma l’ignoranza di quelli, che l’esercitavano, avea egli con tal decreto presa di mira. E’ qui ad osservare, che Crasso dice, che in quegli ultimi due anni avean cominciato i Retori Latini a introdursi in Roma, Ora il Dialogo, in cui egli parla, finge Cicerone che si tenesse nell’anno stesso, anzi pochi giorni prima della morte del medesimo Crasso, che accadde l’anno 662. Due anni innanzi adunque, cioè l’anno 660 avean essi aperte le loro scuole; e l’anno seguente fu contro lor pubblicato il riferito decreto. VI. Il primo tra’ Retori Latini fu Lucio Plozio Gallo. I dotti Autori della Storia Letteraria di Francia l’anno annoverato tra’ loro uomini illustri solo pel soprannome di Gallo26. Ma già si è mostrato altrove, che argomento troppo debole è questo a provarlo nativo della Gallia Transalpina. Svetonio ci ha conservata27 parte di una lettera di Cicerone a Marco Titinnio, in cui così gli scrive: Io certo ricordomi, che nella mia fanciullezza prima di ogni altro prese a insegnare latinamente un cotal Lucio Plozio, a cui facendosi gran concorso, poiché tutti i più studiosi innanzi a lui si venivano esercitando, io dolevami, che ciò a me non fosse permesso. Ma me ne tratteneva l’autorità di dottissimi uomini, i quali pensavano, che da’ Retori Greci meglio si esercitassero, e si coltivassero gl’ingegni. E convien dire, che uomo colto ed eloquente fosse creduto Plozio, perché Cicerone stesso altrove narra28, che il celebre Mario amavalo e coltivavalo assai, perché sperava, ch’egli potesse un giorno narrare le cose da lui operate. Quintiliano dice29 che tra’ Retori Latini, 209 che negli ultimi anni di Crasso tennero scuola, fu singolarmente insigne Plozio; e altrove30 dice, che egli scrisse un libro intorno al Gesto. Mi sia qui lecito il dare un saggio di una recente opera sulla Letteratura Francese31, di cui veggo parlarsi con molta lode da alcuni Giornalisti, ma che a me pare, che troppo sia lontana da quella esattezza e precisione, che in tali opere è necessaria. Né io so intendere, per qual ragione l’Autore di essa, che altro non fa veramente, che compendiare la Storia Letteraria di Francia de’ dotti Maurini, pure non mai faccia menzione alcuna di tal opera, come se non ne avesse contezza. Ma almeno fosse fedele il compendio, ch’egli ce ne offre. Il peggio si è, che egli non è fedele che nell’adottarne gli errori, ove alcuno ne hanno commesso que’ dotti Scrittori; nel rimanente egli travolge a suo piacere i lor sentimenti, e con sicurezza maravigliosa ci narra cose, che evidentemente son false. Ne sia pruova ciò, ch’egli ne dice di Plozio32. Egli afferma, che la Gallia Narbonese fu la sua patria, e ciò senza alcun fondamento; che la gloria, ch’ei s’acquistò nella professione di Retore gli meritò il soprannome d’Insigne conservatogli da Quintiliano; e Quintiliano, come abbiamo veduto, non dice già ch’egli avesse un tal soprannome; ma che tra’ Retori di quel tempo ei fu singolarmente insigne. Aggiugne, che Cicerone si duole di essere stato privo delle sublimi lezioni di Plozio, e Cicerone, come abbiamo veduto, non ha mai chiamato sublimi le lezioni di questo Retore; che Plozio terminò la sua carriera nell’oscurità di una vecchiezza coperta di gloria e di malattie; e Svetonio altro non dice, se non che diutissime vixit; e della oscurità, della gloria, delle malattie né egli né altro antico Autore non fa parola; che Quintiliano parla col maggior elogio, che sia possibile, del libro scritto da Plozio intorno al Gesto; e Quintiliano non dice altro, se non che Plozio scrisse di tal argomento, e non aggiugne alcun motto di lode: Qui de Gestu scripserunt circa tempora illa, Plotius Nigidiusque. Ma l’esattezza di questo Autore si dà a vedere singolarmente in questo passo, ch’io qui recherò colle sue parole medesime, perché non credasi, ch’io ne travolga, o ne esageri il senso: Mais tout l’éclat d’une réputation si bien établie ne put l’arracher aux persecutions de l’envie, dont un certain Marcus Coelius fut le Ministre le plus acharné. La protection interessée, que Marcius accorda quelque tems à notre célébre Rhèteur, l’abandonna bientót à toute la rage de ses ennemis. Ambitieux de se surfaire aux siecles à venir, il vit avec indignation, que l’eloquence fiére de Plotius refusoit de se prêter au récit de ses belles actions; & c’est une excellente leçon pour ces gens de lettres si jaloux du commerce des Grands. Convien qui ricordare ciò, che di sopra si è detto, che Mario sperava, che le sue imprese potessero venir descritte da Plozio; e conviene aggiugnere ciò, che narra Svetonio33, che M. Celio in una sua Orazione parlò con disprezzo di Plozio chiamandolo latinamente Rhetorem hordearium. Or il nostro Autore di Mario e di Marco Celio, par che faccia un uom solo, chiamandolo ora Marco Celio, ora Marcio; e dice, ch’egli dopo aver per suo interesse protetto Plozio, sperando di essere da lui lodato, quando si avvide, che Plozio negava di compiacerlo, prese a perseguitarlo: cosa di cui non v’ha fondamento alcuno negli antichi Scrittori, e appoggiata solo a’ due fatti diversi di sopra accennati, confusi dal nostro Autore in un solo, e travisati a capriccio34. E questo basti per saggio di una tal opera, di cui assai poco varrommi nel decorso di questa Storia; poiché, come si è detto, ciò che vi ha di pregevole tutto è tratto dalla Storia Letteraria di Francia; e il confutarne tutti gli errori, sarebbe cosa a non finir così presto. VII. Il passo, che abbiamo recato di Cicerone, in cui parla della scuola aperta in Roma da Plozio, rischiara maravigliosamente e conferma ciò, che di sopra si è detto. Era Cicerone nato l’anno 647 ed era perciò fanciullo di tredici in quattordici anni, quando Plozio cominciò a insegnar la Rettorica latinamente. Il motivo da noi accennato, per cui contro di lui e degli altri, che ne seguivan l’esempio, pubblicaron i Censori il riferito decreto l’anno 661 è qui chiaramente espresso; cioè la comun persuasione de’ più dotti uomini di Roma, che a’ giovinetti fosse assai più vantaggioso il frequentar le scuole de’ Greci, ed esser da questi ammaestrati nell’Eloquenza. Ma il decreto di Domizio e di Crasso non ebbe gran forza; e alcuni, benché pochi, Retori Latini vengon nominati da Svetonio, che vissero a questi tempi medesimi, come Lucio Otacilio Pilito, che ebbe a suo scolaro Pompeo il Grande35, Epidio, che ebbe Marco Antonio ed Augusto36, e Sesto Clodio Siciliano, che di Greca insieme e di Latina Eloquenza fu professore, e amicissimo di Antonio37, il quale per testimonianza di Cicerone38 donogli due mila jugeri di terreno esenti da ogni imposta 210 nelle Campagne de’ Leontini in Sicilia. Finalmente Cajo Albuzio Silo Novarese Retore e Oratore insieme, il quale fuggito dispettosamente dalla sua patria, perché essendovi egli Edile, e pronunciando sentenza dal Tribunale, coloro, ch’ei condannava, presolo pe’ piedi l’aveano villanamente trascinato a terra, sen venne a Roma, vi tenne per molti anni pubblica scuola, e talvolta ancora, benché di raro, perorò nel foro, or con lieto or con infelice successo; finché tornato alla patria, e travagliato da una vomica, risolvette di uccidersi colla fame, e radunato il popolo, e esposte le ragioni della sua risoluzione, la pose ad effetto. Delle virtù, ch’egli aveva nel declamare e nel perorare, ma congiunte ancora a molti vizj, parla lungamente, oltre Svetonio39, Seneca il Retore40, e tra’ moderni il Conte Mazzuchelli ne’ suoi Scrittori Italiani41. Fiorì egli verso gli ultimi anni dell’Impero d’Augusto. Sembra però, che i Retori minor fama ottenessero in Roma, che i Gramatici, e che uomini più illustri fosser tra questi, che non tra quelli. Anzi ove abbiamo esaminata l’origine del dicadimento della Romana Eloquenza, si è veduto, che per testimonio dell’Autore del Dialogo de Caussis corruptæ eloquentiæ essi non erano mai stati in gran pregio; e che uomini assai mediocri erano comunemente, e tali, che bastar non potevano certamente a formare un perfetto Oratore. Alcuni nondimeno ve n’ebbe eccellenti nell’arte loro ed illustri, e perciò cari sommamente a’ grandi uomini di quel tempo, come di sopra si è detto. VIII. Il principale esercizio de’ Retori era quello del declamare, in cui non solo istruivano e esercitavano i lor discepoli, ma spesso si occupavano anch’essi. Proponevasi qualche argomento somigliante a quelli, che trattar si solevano più frequentemente nel foro, e di esso si ragionava, come appunto credevasi, che sarebbe convenuto fare in tale occasione. Il quale esercizio era certamente vantaggioso al sommo, come vantaggioso è a’ soldati il venire a finte battaglia per addestrarsi alle vere. Quindi uomini anche già avanzati in età e avvolti ne’ pubblici affari usavano spesso di declamare. Così di Gneo Pompeo racconta Svetonio42, che sul principio della guerra Civile per disporsi a rispondere a Curione, il quale preso avea a difendere la causa di Cesare, ripigliò l’esercizio del declamare da molto tempo interrotto; e che M. Antonio ed Augusto, anche mentre stavano in campo nella guerra di Modona, solevano a ciò dar qualche tempo. Ma Cicerone singolarmente era di questo esercizio amantissimo: Io mi esercitava, egli dice43, parlando de’ giovanili suo studj, declamando, come ora dicono, spesso con Marco Pisone e con Quinto Pompeo, o con alcun altro ogni giorno; il che io faceva spesso in Latino, ma più sovente ancora in Greco; o perché essendo il Greco linguaggio più ricco di grazie e di ornamenti mi addestrava a parlare somigliantemente in Latino, o perché, se non avessi usato del Greco, da’ celebri Professori Greci non avrei potuto essere né corretto né istruito. Né in età giovanile soltanto, ma fino al tempo, in cui fu Pretore, continuò egli a declamare in Greco44. Anzi dopo la guerra Civile, quando egli ritiratosi per alcun tempo nella sua Villa Tusculana tutto era immerso negli amati suoi studj, non solo declamava egli, ma udiva pur volentieri gli altri innanzi a lui declamare, e tra essi Irzio, che non molto dopo fu Console, e Dolabella45; talché scrivendo a Papirio Peto, e leggiadramente scherzando dice46, che, come narravasi del Tiranno di Siracusa Dionigi, che cacciato dal Regno si ritirasse in Corinto, e vi aprisse pubblica scuola, lo stesso faceva egli pure allora, dappoiché, tolti di mezzo i giudicj, perduto aveva il Regno, che teneva prima nel foro. Questo esercizio di declamare privatamente, finché fu congiunto allo studio delle più gravi scienze, in cui solevano istruirsi que’, che aspiravano alla fama di grande Oratore, e finché fu avvivato dalla speranza di brillare nel foro, e di salire per mezzo dell’Eloquenza alle più luminose cariche della Repubblica, giovò non poco a formare perfetti Oratori. Ma fin dal tempo di Augusto cominciarono a cambiar le cose, e in istato assai peggiore vennero nell’età posteriori, come già si è mostrato parlando dell’Eloquenza, e come dovrem poscia vedere innoltrandoci nella Storia Letteraria de’ secoli susseguenti. 211

1 De Divin. l. I n. 51.
2 Sembra, che da questo Cecilio si debba distinguer quell’altro, di cui parla Longino (Cap. I), come di autore di un
Trattato sul sublime. Il primo, come narrasi nelle Vite degli illustri Gramatici, era oriondo dall’Epiro, e nato in Tusculo.
Il secondo era di patria Siciliano, schiavo prima, e detto di nome Arcagato, secondo alcuni, poi fatto libero e di
Religione Giudeo. Suida, che ce ne dà queste notizie, aggiugne, ch’egli fu Professor d’Eloquenza in Roma da’ tempi di
Augusto fino a que’ di Adriano (cosa certo impossibile, se non tenne scuola più di cento anni), e che scrisse più libri,
cioè due contro i Frigi, una scelta di voci più eleganti, un confronto tra Demostene e Cicerone, e un altro tra Demostene
ed Eschine, e alcuni trattati sulla differenza, che passa tralla imitazione Attica, e l’Asiatica, sul carattere di dieci Oratori,
sulle Orazioni genuine e spurie di Demostene, sulle cose, che dagli Oratori sono state dette o secondo o contro la verità
della Storia, e più altre Opere, e Suida conchiude dicendo, che è da stupirsi, che tanto delle cose Greche sapesse un
Giudeo. In molte di queste Opere dovea Cecilio trattar del Sublime; ma non è molto vantaggiosa l’idea, che ce ne dà
Longino, perciocché ei dice, che alla dignità dell’argomento mal corrisponde la bassezza dello stile, che non tocca le più
importanti quistioni, che pago di dire, che cosa sia il Sublime, non indica i mezzi opportuni ad ottenerlo. Dionigi
Alicarnasseo in una sua lettera a Pompeo fa menzione di un Cecilio suo carissimo (Resp. ad Pompeii Epist.). Ma non
sappiamo di qual fra questi due ei ragioni. Di Cecilio dice a un di presso le stesse cose l’Imperadrice Eudossia
nell’Opera più altre volte citata (De Villoison Anecd. Græc. Vol. I p. 268).
3 De Ill. Gram. c. XVI.
4 Id. c. V.
5 Svet. ib. Quint. l. II c. I.
6 Svet. ib.
7 De Cl. Orat. n. 56.
8 Ib. c. III.
9 L. II c. I.
10 Svet. c. VII; Macrob. l. III c. XII.
11 Svet. c. X.
12 Id. c. XVII.
13 E qui, e poscia altra volta ho nominato con lode Igino. Nondimeno il Sig. Ab. Lampillas si duole (T. II p. 41) perché
io ho detto, che essendo egli straniero io non dovea farne menzione. E qui ancora col suo grande telescopio scopritore
delle altrui intenzioni, dopo avermi attentamente esaminato, decide: La ragione io penso, che sia, perché premeva
troppo al detto Autore (cioè a me) che non comparisse in Roma nel secol d’oro uno Spagnuolo, il quale frai Letterati
Romani fosse stato prescelto da Augusto, a cui affidar la cura dell’Imperial Biblioteca. Io ho scritto qui, che ad Igino fu
da Augusto data la cura delle sue Biblioteche &c., e altrove ho detto, che tra’ più dotti uomini, che fossero allora in
Roma, a’ quali fu affidata da Augusto la pubblica Biblioteca, fu Igino uomo nelle antichità versatissimo. Or se le cose,
che a me preme che non si sappiano, si dicon da me due volte, quante volte dovrò io dir quelle, le quali mi preme che
sappiansi?
14 Id. c. XX; Fabricio Bibl. lat. l. II c. I.
15 Svet. c. IX & XVII.
Fu anche in Roma a’ tempi del gran Pompeo, come narra Suida, un Dionigi Alessandrino soprannomato Tero dal nome
di suo padre, di profession Gramatico, e scolaro già di Aristarco. Tra’ suoi Scolari ebbe, come afferma lo stesso
Scrittore, Tirannione il vecchio, e scrisse diversi Comenti, e più Opere Gramaticali.
16 Id. c. III & XVII.
17 Id. c. III.
18 Ibid.
19 Ibid.
20 Questa Iscrizione era certamente in Bergamo circa il 1531, nel qual anno Gio: Grisostomo Zanchi pubblicò la sua
Operetta de Orobiorum origine; perciocché egli la riporta nel terzo Libro come attualmente esistente presso l’antica
Chiesa di S. Agata nella stessa Città. Nondimeno quasi 150 anni dopo la veggiamo indicata come Iscrizione trovata in
Vicenza nelle rovine del Teatro Berico, ch’era presso la Città stessa. Egli è il P. D. Giambatista Ferretti Casinese, che
nella sua Opera intitolata: Musæ Lapidariæ antiquorum in marmoribus carmina &c. stampata in Verona nel 1672 la
riporta (L. I p. 77) dicendo Pudentis Gramatici M. Lepidi Sarcophagus Vicentiæ in ruderibus Theatri Berici olim
celeberrimi inventus. Or a chi di questi due Scrittori crederem noi? Al Zanchi, che ce la indica, come allora, mentr’egli
scriveva, esistente in Bergamo, e ne addita il luogo preciso, benché ora essa più non vi sia; o al Ferretti, che la dice
scoperta nelle rovine di quel Teatro, senza indicarci né quando essa si scoprisse, né ove essa allora esistesse? A me è
nato sospetto, che il Ferretti abbia preso un equivoco. Il Zanchi parla prima delle Iscrizioni, che erano nella Chiesa di S.
Vincenzo di Bergamo, e passa poi a dire di quelle, che erano nella Chiesa di S. Agata; ma il passaggio non ha alcun
segno visibile, che lo faccia osservare, di modo che io stesso leggendo il libro credetti dapprima, che quella Iscrizione
appartenesse al tempo di S. Vincenzo. Ciò che a me è accaduto, accadde forse ad alcuno di quelli, che volendo
raccogliere le Iscrizioni le copian da’ libri che lor vengono alle mani, e forse egli volendo indicare il luogo, ove era
quell’Iscrizione, scrisse nel suo Zibaldone: In T. S. Vinc. Berg. le quali parole lette in fretta, e peggio intese, diedero
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forse luogo all’equivoco di creder l’Iscrizione trovata nel Teatro Berico di Vicenza. Io non so, se questo sia un mio
sogno; ma certo le Leggi della buona Critica mi sembrano assicurarci, che questa Iscrizione a Bergamo debba
assegnarsi non a Vicenza.
21 Raccolta d’Opusc. Scient. t. XLI.
22 De Cl. Rhet. c. I.
23 Ib.
24 L. XV c. XI.
25 De Orat. l. I n. 24.
26 T. I p. 83.
27 De Cl. Rhet. c. II.
28 Pro Archia c. 9.
29 Lib. IV c. II.
30 L. XI c. III.
31 Tableau Histor. des Gens de lettres par M. l’Ab. de L.
32 T. I p. 12 &c.
33 De Cl. Rhet. c. II.
34 Le parole, nelle quali io ho scritto, che l’Abate Longchamps pare che faccia una sola persona di Mario e di Marco
Celio, possono, anzi sembrano veramente avere ancora altro senso; e credo, che l’Autore abbia voluto distinguere l’uno
dall’altro. Ma ciò non ostante si dovrà sempre dire, che non è appoggiata ad alcun fondamento, ma finta interamente a
capriccio la persecuzione da M. Celio mossa a Plozio, poiché non altro sappiamo, se non che una volta chiamollo
Rhetorem hordearium, e molto più lo sdegno di Mario contro il medesimo Plozio, di cui non vi ha vestigio presso gli
antichi Scrittori.
35 Cap. III.
36 C. IV.
37 C. V.
38 Phil. II n. 17.
39 Cap. VI.
40 Prooem. l. III Controv.
41 Merita di esser letto l’elogio, che di Albuzio Silo ha pubblicato il Ch. Sig. Conte Felice Durando di Villa, ove assai
bene egli svolge ciò, che all’Eloquenza di esso e degli altri Retori di quel tempo appartiene (Piemontesi Illustri T. III p.
221 &c.).
42 Ib. c. I.
43 De Cl. Orat. n. 90.
44 Svet. ib. c. I.
45 L. IX ad Fam. ep. XVI.
46 Ib. Ep. XVIII.