Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapVI

202 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo VI – Giurisprudenza I. Mentre in questa maniera andavano i Romani perfezionandosi nello studio delle Scienze tutte e dell’Arti liberali, venivano ancora sempre più avanzandosi in quella, che al buon reggimento della Repubblica più d’ogni altra è necessaria, cioè nella Giurisprudenza. Era questo uno studio onorevole non meno che vantaggioso. Un dotto Giureconsulto era sempre affollato da numeroso stuolo di Cittadini, altri a chieder consiglio, altri ad apprendere la scienza delle leggi. Anzi era generale il costume, di cui abbiamo moltissime pruove negli antichi Scrittori, che in sul fare del giorno accorressero numerose schiere di Clienti alla casa del loro Avvocato, quasi a fargli corteggio. La maniera stessa, con cui essi rendevano le lor risposte, spirava la gravità e la grandezza del Romano Impero; perciocché seduti su una specie di trono udivano le proposte, e rispondevano. Ego, dice Cicerone1, ætatis potius pacationi confidebam, cum præsertim non recusarem, quominus more patrio sedens in solio consulentibus responderem, senectutisque non inertis grato atque honesto fungerer munere. E tal era l’onore e il vantaggio di questo loro esercizio, che taluno per non interromperlo ricusava di salire alla dignità stessa del Consolato. Io penso, scrive Cicerone ad Attico2, che Aquilio (famoso Giureconsulto) non sarà tra’ candidati del Consolato, perciocché egli ricusa di esserlo, e giura di essere infermo, e reca a sua scusa il regnar, che e’ fa ne’ Giudicj. Ma veggasi singolarmente l’eloquente tratto di Cicerone in lode di questa scienza3, ove egli mostra, quanto di onore, di autorità, di benevolenza ella arrechi a chi la professa; che tutti i più ragguardevoli e i più illustri Cittadini Romani eransi sempre ad essa applicati; che niun più dolce e più onorevol conforto potea nella sua vecchiezza avere un uomo passato per le più luminose cariche della Repubblica, che il vedersi affollati intorno tutti i suoi concittadini a chiedergli ne’ loro dubbj parere e consiglio; e che la casa di un dotto Giureconsulto potevasi giustamente chiamare l’oracolo della Città tutta. II. Non è quindi a stupire, che grandissimo fosse il numero di quelli, che a questo studio si rivolgevano. Ma, come suole avvenire, pochi furon coloro, che in esso acquistarono singolar fama. Di questi ancora io sceglieronne tre soli a dirne alcuna cosa più in particolare. Non vi è forse materia, in cui sia men necessario il distendersi a ragionarne ampiamente: tanti sono gli autori, che l’hanno illustrata. Se ne può vedere il Catalogo presso il Fabricio4, a cui molti altri più recenti se ne potrebbono aggiugnere, e singolarmente l’altre volte lodato Avvocato Terrasson, che nella dottissima sua Storia della Romana Giurisprudenza ha diligentemente raccolto, ed esaminato quanto ad essa appartiene. Quinto Muzio Scevola è il primo, che ci si offre a ragionarne. A conoscere le virtù e il sapere di questo grand’uomo, basta leggere ciò, che in diverse occasioni ne dice Tullio. Non voleva egli tenere scuola né pubblica né privata di giurisprudenza; ma molti ciò non ostante accorrevano ad udire le saggie risposte, ch’egli dava a coloro, che a lui venivano per consiglio; e questo stesso era un utilissimo Magistero, di cui Cicerone confessa di essersi giovato assai5. A un profondo saper delle leggi congiungeva egli una robusta eloquenza. Quindi Crasso presso Cicerone di lui parlando così dice6: Q. Scævola æqualis & collega meus, homo omnium & disciplina juris civilis eruditissimus, & ingenio prudentiaque acutissimus, & oratione maxime limatus atque subtilis; atque, ut ego soleo dicere, jurisperitorum eloquentissimus, eloquentium jurisperitissimus. Quintiliano ancora gli dà luogo tra quelli, che nella Giurisprudenza insieme e nell’Eloquenza eransi acquistati gran nome7. Uomo al medesimo tempo di probità insigne era a tutta la Repubblica esempio e modello d’ogni più bella virtù. Memorabile è il fatto, che di lui narra Tullio8, cioè, che volendo egli fare acquisto di un campo, e, fattane già la stima, avendo cercato al venditor di vederlo, poiché ebbelo esaminato, disse spontaneamente, che il prezzo, a cui era stato stimato, non 203 ne uguagliava il valore, e una somma assai maggiore gliene fece contare. Per questa sua integrità fu in odio a quelli, a cui essa era e uno spiacevol rimprovero e un rigido freno9; e questa per avventura fu la cagione dell’infelice sua morte; perciocché egli ne’ funerali di C. Mario fu per mano di uno scellerato crudelmente ucciso10. Intorno a questo e agli altri Scevola, che furono celebri in Roma singolarmente pel loro sapere nella Giurisprudenza, veggansi le Annotazioni del P. Giuseppantonio Cantova della Compagnia di Gesù poste al fine del primo libro dell’Oratore di Cicerone da lui di fresco tradotto, e dato alle stampe; nelle quali con diligenza assai maggiore, che non abbian fatto comunemente gli altri spositori, ha accuratamente distinti ed esaminate le cose, che a ciaschedun di essi appartengono. Quegli, di cui qui favelliamo, fu certamente uno de’ più illustri Giureconsulti, che vivessero in Roma, e , secondo il parere del Terrasson11 e di molti altri Scrittori, fu egli il primo, che a qualche ordine e divisione riducesse il Diritto Civile, intorno a cui egli scrisse diciotto libri, i quali dagli antichi Giureconsulti sono spesso allegati. III. A. Q. Muzio Scevola sottentrò nella fama di valentissimo Giureconsulto Servio Sulpicio Rufo. Di lui, oltre il parlarne che fanno tutti gli Autori, che dell’antica Giurisprudenza han favellato, abbiamo una vita con somma erudizione e con egual diligenza descritta da Everardo Ottone, e stampata in Utrecht l’anno 1737. Ma i moderni Scrittori non possono, che raccogliere ed esaminare ciò, che ne han detto gli antichi. Or questi ci parlano di Sulpicio come di uno de’ più grandi uomini, che mai fossero in Roma. Tralascio gli encomj, che ne fa Quintiliano, il quale altamente ne celebra l’Eloquenza12; e Gellio, che autore del Diritto Civile il chiama, e uomo di molta letteratura13. Mi basti il riferire gli elogj, di cui l’onorò Cicerone, il quale oltre l’averne più volte parlato in somma lode, così di lui più espressamente ragiona nel libro degl’Illustri Oratori: Ed io non saprei, dice14, chi altri mai con più impegno allo studio dell’Eloquenza si rivolgesse e di tutte le Arti Liberali. Ne’ giovanili studj ci esercitammo insieme, e insieme ei venne meco a Rodi affin di rendersi più colto ancora e più dotto. Poiché ne fu ritornato, a me pare, ch’egli amasse meglio di ottenere il primo luogo nella seconda scienza (cioè nella Giurisprudenza), che nella prima (cioè nell’Eloquenza) il secondo. Io non so, se avrebbe egli ancora potuto forse uguagliarsi a’ primi nel perorare. Ma volle anzi superar di gran lunga, ciò che di fatto avvenne, tutti gli altri non della sua solamente ma ancora delle passate età nella scienza del Civile Diritto. E avendo Bruto interrogato qui Cicerone, se a Scevola ancora egli l’antiponesse, Sì certo, soggiugne egli, che io penso, che grande esperienza nel Diritto Civile avesse e Scevola ed altri molti; ma che Sulpicio solo ne sapesse ancor l’arte; il che non avrebbe egli ottenuto colla sola scienza, se non avesse oltre ciò appresa l’arte, con cui e la materia tutta dividere nelle sue parti, e svolgere colle diffinizioni le cose occulte, e colle spiegazioni dichiarare le oscure, e veder prima, e poscia distinguere ciò, che vi fosse d’ambiguo, e avere in somma una regola, con cui dal falso discernere il vero, e conoscere quai conseguenze da qualunque proposizione scendessero, e quali no. Perciocché egli di quest’arte, ch’è la migliore di tutte, fece uso ad illustrare quelle cose, che da altri prima facevansi o dicevansi confusamente. Dopo le quali parole aggiugne ancor Cicerone, che non della sola Dialettica usò a tal fine Sulpicio, ma della Letteratura ancora e dell’Eloquenza, come agevolmente, egli dice, si può da’ suoi scritti raccogliere, a cui non v’ha altri, che possano paragonarsi. Così Cicerone. IV. Ma altra troppo più bella occasione se gli offerse a mostrare, in quanta stima egli avesse Sulpicio. Nel principio della Guerra Civile, che dopo la morte di Cesare si accese, mentre Antonio stringeva d’assedio Modena, Sulpicio fu uno de’ tre deputati dal Senato a recargli in suo nome autorevol comando di abbandonarlo. Egli benché cagionevole per malattia si pose in viaggio; ma appena giunse al campo, e morì. Pervenutane la nuova a Roma, il Console Pansa propose in Senato, che pubblici e solenni onori si decretassero al defunto. Recitò allor Cicerone la nona delle sue Filippiche, che altro in somma non è, che un’Orazion funebre di Sulpicio, ed un perfetto modello di tali ragionamenti. Essa non si può leggere senza un dolce senso di tenerezza, e ben si scorge, che l’Oratore non cerca di adular la memoria dell’estinto amico, ma tutti passionatamente esprime i sinceri sentimenti del suo cuore. Un sol passo io qui recheronne proprio dell’argomento, di cui trattiamo, ove Cicerone loda l’insigne saper di Sulpicio nella Giurisprudenza: Nec vero silebitur, dic’egli15, admirabilis quædam & incredibilis & pene divina ejus in legibus interpretandis, æquitate 204 explicanda, scientia. Omnes ex omni ætate, qui hac in Civitate intelligentiam juris habuerunt, si unum in locum conferantur, cum Ser. Sulpicio non sunt comparandi. Neque enim ille magis juris consultus quam justitiæ fuit. Itaque quæ proficiebantur a legibus & a jure civili, semper ad facilitatem æquitatemque referebat, neque constituere litium actiones malebat, quam controversias tollere. Ma tutta degna è d’esser letta questa patetica eloquente Orazione, e singolarmente il decreto, con cui egli la conchiude, proponendo al Senato, che una pedestre statua di bronzo a pubbliche spese si alzi a Sulpicio nel foro, intorno a cui si facciano solenni giuochi; che l’onorevol cagion di sua morte scolpita sia nella base, e che a lui si rendano i più solenni onori, che a’ più grandi uomini e a’ più benemeriti della Repubblica rendere si solevano. Il parere di Cicerone fu interamente seguito, e il Giureconsulto Pomponio, che visse nel secondo secolo dell’Era Cristiana, afferma16, che la statua di Sulpicio vedevasi tuttora in Roma presso i Rostri detti d’Augusto. Una lettera scritta da Sulpicio a Cicerone per consolarlo nella morte della diletta sua Tullia si è conservata17, e può giustamente proporsi a modello di tali lettere di conforto. Ma, ciò che più appartiene al nostro argomento, molto aveva egli scritto intorno al Diritto Civile, e il mentovato Pomponio afferma, che presso a centottanta libri aveane egli lasciati18, de’ quali varj frammenti ci son rimasti nelle collezioni delle leggi Romane. V. Il terzo celebre Giureconsulto fu Publio Alfeno Varo Cremonese di patria, che fiorì a’ tempi di Augusto. Il comun sentimento degli Scrittori appoggiato a un passo di Orazio19 si è, ch’ei fosse dapprima calzolajo; e che poscia dal suo ingegno portato a cose più grandi, gittata la lesina e il cuojo, si applicasse alle leggi. Il sopraccitato Everardo Ottone alla vita di Sulpicio, di cui abbiam favellato, una Dissertazione ha aggiunto, in cui prende a combattere questa opinione, mostrando, ch’ella non è abbastanza fondata, e che il Varo, di cui parla Orazio, diverso è dal celebre Giureconsulto. E una lettera ancora di Cristefido Wectlero sullo stesso argomento abbiam negli atti di Lipsia20. Io non voglio entrare in tal quistione, che poco finalmente monta il sapere, di qual nascita egli fosse. Ciò che è certo si è, che egli fu uno de’ più famosi Giureconsulti di questo tempo. Una grande Raccolta di Decisioni Legali fu da lui fatta, e divisa in XL libri, intitolati Digesti, che dagli antichi Giureconsulti vengono spesso citati21, e da Gellio ancora22, che il dice discepolo di Sulpicio, e nelle cose antiche non negligente. La stima, che col suo sapere egli erasi acquistata in Roma, fu cagione, che dopo morte solenni funerali se gli celebrassero a pubbliche spese23; e una medaglia a lui coniata, nella quale egli è chiamato Alfinius, vedesi nella Raccolta delle Medaglie di famiglie Romane pubblicata dal Vaillant24. VI. Questi e molti altri Giureconsulti, che allo stesso tempo fiorirono in Roma, molta luce arrecarono certamente alle leggi Romane. Ma ciò non ostante era in esse ancor quel disordine, che sembra ad alcuni esservi ancora al presente; cioè un’infinita moltitudin di leggi oscure spesso e intralciate, e che talora parevano opporsi l’una all’altra. Dolevasi di ciò il medesimo Cicerone, e a’ Giureconsulti medesimi ne attribuiva la colpa, i quali o per imporre più facilmente agli ignoranti, o per coprire l’ignoranza lor propria, con mille divisioni e distinzioni affettate altro non facevano, che confonder le leggi, e tutta sconvolgere la Giurisprudenza: Sed Jureconsulti sive erroris objiciendi caussa, quo plura & difficiliora scire videantur, sive, quod similius veri est, ignoratione docendi (nam non solum scire aliquid artis est, sed quædam ars etiam docendi) sæpe, quod positum est in una cognitione, id in infinita dispertiuntur25. Livio ancora rammenta la soverchia moltitudin di leggi, da cui la Giurisprudenza era in certa maniera sopraffatta ed oppressa: Decem Tabularum leges perlatæ sunt, quæ nunc quoque in hoc immenso aliarum super alias acervatarum legum cumulo fons omnis publici privatique est juris26. A questo disordine, come altrove abbiam detto, aveva in animo di rimediar Giulio Cesare col ridurre a certi capi determinati tutto il Civile diritto, e ristringere quella infinita e disordinata moltitudin di leggi27; ma questo ancora insieme cogli altri vasti disegni, che a vantaggio di Roma andava egli volgendo in pensiero, fu dall’immatura morte sua troncato. Augusto riformò varie leggi, molte ne annullò, ne pubblicò molte; ma a formare un corpo di leggi unito, chiaro, e preciso, né egli né alcun de’ suoi successori pensarono per lungo tempo. 205

1 De legib. l. I n. 3 2 L. I Ep. I. 3 De Orat. l. I n. 45. 4 Bibl. lat. t. II p. 532 ec. 5 De Cl. Orat. n. 89. 6 De Orat. l. I n. 39. 7 L X c. III. 8 De Offic. l. III n. 15. 9 Cic. pro Plancio n. 13. 10 Id. pro Roscio Amer. n. 12. 11 Hist. de la Jurisprud. Rom. p. 229. 12 L. X c. I, l. XII c. III. 13 L. II c. X. 14 N. 40 ec. 15 N. 5. 16 De Origine Juris. 17 L. IV ad Fam. ep. V. 18 V. Ottonis Vit. Sulp. p. 91. 19 L. I Sat. III v. 130. 20 An. 1711 p. 21. 21 V. Ottonis Dissert. de Alfeno Varo; Terrasson hist de la jurispr. Rom. p. 233. 22 L. VI c. V. 23 Vet. Scholiast. ad Horat. l. c. 24 Tab. VI Fig. I. 25 De leg. l. II n. 19. 26 L. III c. XXXIV. 27 Svet. in Jul. c. XLIV. </poem>