Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapV

193 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo V – Medicina I. Dello studio di quest’arte nulla abbiam detto finora, perché nell’epoche precedenti assai poca materia ci avrebbe esso somministrato a ragionarne. A questo luogo dunque uniremo tutto ciò, che ad esso appartiene; e noi potremo spedircene facilmente col sol recare ciò, che Plinio il vecchio ne narra. Ma varie contese, che su diversi passi di questo autore si son risvegliate, ci obbligheranno a trattenerci su questo argomento più a lungo, che forse a prima vista non parrebbe doversi. Veggiam pertanto ciò, che Plinio ne dice, ove espressamente prende a trattar di quest’arte. Egli in primo luogo afferma, che niun tra’ Romani avea ancor sulla Medicina latinamente scritto: Natura remediorum, atque multitudo instantium ac præceptorum plura de ipsa medendi arte cogunt dicere, quamquam non ignarus sim, nullius ante hæc Latino sermone condita1. Se queste parole in tal senso si vogliano intendere, che niun tra’ Romani avesse ancora scritto trattato alcuno delle malattie e de’ loro rimedj, converrà dire, che Plinio, quando scrisse così, avesse in tutto dimenticato ciò, che non molto innanzi avea scritto, tessendo la serie di que’ Romani, che avean trattato di questo argomento. Dic’egli altrove2, che il primo a trattare de’ mali e de’ loro rimedj presi singolarmente dall’erbe fu Marco Catone il vecchio, e che questi per lungo tempo fu il solo Scrittore in tal materia; che poscia Cajo Valgio uomo erudito un libro, benché imperfetto, presentò ad Augusto di somigliante argomento; e che Pompeo Leneo Liberto di Pompeo il Grande prima di Valgio avea per comando dello stesso Pompeo in Latina lingua recati i libri, che intorno alla Medicina avea scritti il famoso Mitridate Re del Ponto. Aggiungasi, che prima di Plinio avea scritti i suoi libri di Medicina Cornelio Celso, di cui avremo a parlare nel seguente Volume. Non si può dunque intendere per alcun modo, che Plinio stesso dopo avere indicati tutti questi Scrittori di Medicina, e dopo aver egli stesso più volte allegato il testimonio di Celso, voglia qui affermare, che niun tra’ Romani avea ancor trattato di tale argomento. Plinio nel luogo, di cui ora parliamo, prende a narrare l’origine e le vicende di varie sette di Medici, che vi ebbero in Roma, e in breve ci offre la storia della Medicina. E di questa par ch’egli intenda, quando asserisce, che niuno tra’ Romani ne avea scritto fino a’ suoi tempi. Veggiamo dunque con Plinio, qual origine avesse in Roma la Medicina. II. Plinio dopo aver biasimati altamente i disordini, che in quest’arte si erano introdotti, l’incostanza de’ Medici, che ad ogni secolo cambiavan sistema, e la follia di coloro, che gli chiamavano a sì gran prezzo, Ceu vero, soggiugne, non millia gentium sine Medicis degant, nec tamen sine medicina, sicut populus Romanus ultra sexcentesimum annum. Afferma dunque Plinio, e altrove ancor il ripete3, che per lo spazio di oltre a secento anni non vi ebbe Medici in Roma. Ma contro questo stesso passo di Plinio hanno alcuni Moderni, e singolarmente lo Spon4, e gli Autori dell’Enciclopedia5, mossa grave difficoltà. Si appoggiano essi a un passo di Dionigi Alicarnasseo, il quale narra6, che l’anno 301 la pestilenza infierì in Roma per modo, che al gran numero degli infermi non bastavano i Medici. Eranvi dunque, conchiudon essi, Medici in Roma fin da quel tempo. Ma a parlare sinceramente io temo, che questo loro argomento non sia abbastanza valevole contro l’autorità di Plinio. Non v’ha chi non sappia, che gli Storici non rare volte anche i più esatti, quando singolarmente entrano al racconto di qualche memorabile avvenimento, a ciò, che vi ha di certo nella sostanza del fatto, aggiungono ancora ciò, che è semplicemente probabile. E se noi volessimo, per così dire, porre alle strette gli Storici più rinnomati, e chieder loro, su qual autorità abbian essi affermato, a cagione di esempio, che alla tal occasione tutta una Città fu in dolore e in pianto, che alla tal altra fu tutta in giubilo ed in allegrezza, essi sarebbon costretti a rispondere, che a narrare cotali cose, che al racconto aggiungono ornamento, può bastare, ch’esse siano verisimili, e quali in somiglianti occasioni si soglion vedere. Or non altrimenti io penso, che dir si possa di 194 questo luogo di Dionigi. Voleva egli descrivere la grande strage, che faceva in Roma la peste, e troppo bene cadevagli al suo intento questa espressione, che i Medici non bastavano al numero degl’Infermi. Egli usolla dunque, e pensò di dir cosa in tutto verisimile, non riflettendo (e uomo Greco, qual egli era, non è maraviglia, che non vi riflettesse), che Medici a quel tempo non erano in Roma. Ma credasi pur vero ciò, che narra Dionigi. Io penso, che ciò non ostante da questo detto non si combatta l’allegato passo di Plinio. Questi dice, che i Romani vissero oltre a secent’anni senza Medici, ma non senza Medicina; Sine Medicis, nec tamen sine Medicina. Il che vuol dire, che, benché non vi fossero uomini, i quali a prezzo curassero le malattie, e che facessero, o fingesser di fare studio di Medicina, eran nondimeno allor noti certi più facili e forse ancora perciò più sicuri rimedj, di cui usare alle diverse occasioni, e quindi Medici potevano in certo modo chiamarsi quegli, che tai rimedj porgevano agl’infermi. Così Catone non era Medico certamente, e pure abbiam di sopra veduto, che scritto avea intorno alle malattie e a’ loro rimedj. Essendo dunque il passo di Dionigi quel solo, che a Plinio si possa opporre, non par ch’esso basti a distruggerne l’opinione, che per secento e più anni non vi avesse Medico in Roma. III. Prosiegue Plinio a narrare, chi fosse il primo ad esercitare quest’arte in Roma. Cassio Emina autor antichissimo, egli dice, racconta, che Arcagato figliuol di Lisania venne prima di ogn’altro Medico a Roma l’anno 535, ossia l’anno 534, secondo le più corrette edizioni de’ Fasti Capitolini, essendo Consoli Lucio Emilio e Lucio Giunio. Così legge i nomi di questi Consoli il P. Harduino, citando due Codici Manoscritti, e aggiugnendo, che nelle altre edizioni leggesi veramente M. Livio; ma che la famiglia Livia era Plebea, né perciò poteva da essa scegliersi un Console. E’ egli possibile, che il P. Harduino non abbia posto mente al celebre M. Livio Salinatore, di cui tutti parlano i Romani Scrittori, e che in quest’anno appunto fu Console, insieme con L. Emilio Paolo? Ma torniamo a Plinio. Era, dic’egli, Arcagato celebre singolarmente nel curar le ferite, e detto perciò vulnerario. A grande onore lo accolse dapprima il popol Romano, gli fu dato il diritto della Cittadinanza; e a spese del pubblico gli fu comperato l’alloggio. Ma poscia sembrando, che troppo crudele ei fosse nel tagliare e nel toccare col fuoco le membra offese, ne ebbe il nome di Carnefice, e di quest’arte e di tutti coloro, che la esercitavano, cominciarono ad annojarsi i Romani. Così Plinio; e da queste parole par che si possa raccogliere, e più chiaro ancora vedrassi da ciò, che ora soggiugneremo, che altri Medici Greci o insiem con Arcagato o non molto dopo venuti erano a Roma. Ma in mal punto vi eran essi venuti. Il severo Catone implacabil nemico della perniciosa eloquenza de’ Filosofi Greci contro de’ Greci Medici ancora si accese a sdegno. Plinio a questo luogo medesimo ci ha conservato un frammento di non so quale sua opera, in cui parlando di essi ben dà a vedere, in qual orrore gli avesse. Io temerei di fargli perdere molto della sua forza, se qui nol recassi colle parole medesime di Catone: Dicam de istis Græcis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, & quod bonum sit illorum literas inspicere, non perdiscere, vincam. Nequissimum & indocile genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse. Quandocumque ista gens suas literas dabit, omnia corrumpet. Tum etiam magis si Medicos suos huc mittet. Jurarunt inter se barbaros necare omnes medicina. Et hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit, & facile disperdant. Nos quoque dictitant barbaros, & spurcius nos quam alios opicos appellatione foedant. Interdixi tibi de Medicis. IV. In queste parole tutta si ravvisa l’aspra severità e l’acerbo odio, di cui ardeva contro la Greca impostura l’austero Catone, a cui l’amor della patria faceva, io credo veder nemici, ove ancora non erano. Soggiugne però Plinio, che non era già la Medicina, cui Catone così severamente dannasse, ma l’arte di essa, quale da’ Greci si esercitava. In fatti Catone stesso diceva poscia, con qual medicina avesse egli e sé stesso e la sua moglie felicemente condotto fino all’estrema vecchiezza; e di un Trattato da lui scritto su tale argomento si protesta Plinio di usare in questo suo libro medesimo. Da un altro passo di Plinio7 si raccoglie ancora, che i cavoli erano uno de’ rimedj da Catone sommamente pregiati, de’ quali egli diceva le più gran lodi del mondo. E questo ci fa intendere, che la Medicina sola, la qual da Catone aveasi in pregio, era quella, che consiste nell’uso de più schietti rimedj, di cui la natura medesima ci provvede; e che i medicamenti raffinati e composti, che da’ Medici Greci si prescrivevano, erano quelli, cui egli altamente odiava, e che 195 soprattutto non sapeva soffrire in pace, che a sì gran prezzo si conducessero i Medici, e che gli uomini, invece di imparare per loro medesimi i più vantaggiosi rimedj, ciecamente si fidassero all’altrui esperienza. Questi erano ancora i sentimenti di Plinio, il quale a questo luogo gli spiega con uno de’ più eloquenti passi, che in tutta la sua Storia s’incontrino, ma oscuro talvolta per troppo studio di precisione e di forza. Io perciò recherollo tradotto, come meglio sia possibile, nella volgar nostra lingua; protestandomi però dapprima, per non incorrer lo sdegno de’ valorosi Medici de’ nostri giorni, ch’io non intendo già con questo di approvare tai sentimenti. Per tanto, egli dice, in quest’arte sola addiviene, che a chiunque si vanti d’essere Medico, si creda tosto, mentre pur non vi ha cosa, in cui più sia pericoloso il mentire. E nondimeno non vi poniam mente; sì dolce è a ciascheduno la lusinga di sperar ben di sé stesso. Inoltre non vi ha legge alcuna a punir la loro ignoranza, non vi ha esempio in essi di rigoroso gastigo. A nostro rischio si istruiscono, e colla morte di molti fanno le loro sperienze. A’ medici soli è lecito impunemente l’uccidere. Che anzi essi rimproverano i morti, e incolpano l’intemperanza loro, come se per loro proprio fallo fosser periti. Le Decurie de’ Giudici si sottomettono alla censura e all’esame de’ Principi; l’integrità loro si esamina fino collo spiare nelle pareti delle loro stanze; fin da Cadice e dalle Colonne di Ercole si fa venire, chi dee giudicar di un denaro; e nulla meno di quarantacinque uomini scelti posson dare sentenza di esilio. E intorno poi alla vita stessa de’ Giudici, chi son costoro, che radunansi a consultare per uccidere prontamente? Ma ben ci sta, poiché non vogliamo apprendere noi stessi ciò, che alla nostra sanità sia opportuno. Camminiamo cogli altrui piedi; leggiamo cogli altrui occhi; salutiamo affidati alla memoria altrui; e coll’altrui soccorso viviamo, e niuna cosa crediamo, che sia propriamente nostra, fuorché il piacere. V. Qual effetto avesse il mal animo di Catone contro de’ Medici Greci, e che avvenisse di Arcagato, noi nol sappiamo, né Plinio il dice, né io so, ove abbia trovato l’autore del Diogene Moderne que’ molti Scrittori, che secondo lui asseriscono, che Arcagato fu lapidato8. Plinio solo racconta, che i Romani, cum Græcos Italia pellerent diu post Catonem, excepisse medicos. La qual parola excepisse ha data occasione a parecchie contese. Jacopo Spon dotto medico insieme e valoroso Antiquario ha voluto di una scienza valersi a difesa dell’altra, e tralle molte sue Dissertazioni d’Antichità una9 ne ha indirizzata a provare, che né i soli schiavi eran Medici, come pensano alcuni, né questi furon mai cacciati da Roma. Della prima proposizione parlerem fra non molto. Quanto all’altra, egli recato il testo di Plinio, che noi spieghiamo, traduce la parola excepisse per eccettuare; e di questo testo medesimo si vale a provare il suo parere. Anche Federigo Cristiano Cregut nella bella Prefazione da lui premessa alle Opere Mediche di Cesare e di Giambatista Magati da Scandiano, nella quale de’ meriti degl’Italiani verso le lettere parla con somma lode, in questo senso medesimo vuol che s’intenda il passo di Plinio. Ma il P. Harduino ne’ suoi Comenti a questo luogo, e più lungamente ancora gli Autori del Giornale degli Eruditi di Parigi10, mostrano, che excipere significa anzi comprendere nominatamente, nel qual senso la stessa parola più altre volte è usata. E veramente tutto il passo di Plinio sembra, che conduca a questo senso medesimo, e più chiaramente ancora si vede da ciò, ch’egli soggiugne; perciocché dopo aver dette più cose in disapprovazione di quest’arte, dice: Hæc fuerint dicenda pro Senatu illo sexcentisque populi Romani annis adversus artem. Le quali parole sarebbono al tutto fuor di proposito, quando il Senato Romano non sol non avesse cacciati i Medici Greci da Roma, ma avessegli anzi onorati eccettuandogli dal general bando portato contro de’ Greci11. In qual tempo seguisse questa espulsione de’ Greci, non è agevole a diffinire. Plinio dice, che ciò fu lungo tempo dopo la morte di Catone, che seguì al principio del settimo secolo di Roma. Dopo questo tempo io non trovo editto alcuno fatto contro de’ Greci, e convien dire, che Plinio ragioni di cosa, che dagli Storici, che ci sono rimasti, sia stata ommessa. Pare che ciò seguisse prima della metà del settimo secolo, perché verso questo tempo era in Roma il celebre Asclepiade, di cui or parleremo, il quale a tale stima innalzò l’arte della Medicina, che poscia essa non ebbe più in Roma molestia alcuna. E a questo probabilmente allude Plinio, quando, come sopra si è riferito, dice, che per oltre a secent’anni non vi ebbe Medici in Roma, non facendo egli conto di Arcagato e degli altri Medici, che per alcun tempo vi erano stati, ma poi per ordine del Senato ne eran partiti; e considerando lo stabilimento 196 della medicina come seguito solo a’ tempi del mentovato Asclepiade, di cui egli altrove parla assai lungamente12. VI. Era questi nativo di Prusa nella Bitinia, e venuto a Roma vi tenne dapprima scuola pubblica di eloquenza. Ma non parendogli di arricchirsi in essa quanto avrebbe voluto, abbandonata la scuola, si dié all’esercizio della Medicina. Convien dire, che ciò accadesse poco dopo la metà del settimo secolo, perciocché l’Orator Crasso, il quale morì l’anno 662, dice presso Cicerone13 di aver avuto Asclepiade e a Medico e ad amico, e che egli superava in eloquenza gli altri medici di quel tempo14. E nondimeno non avea egli fatto studio alcuno di Medicina; ma giovandosi della sua naturale facondia, e di una cotal aria di sicurezza, o a meglio dir d’impostura, prese a contraddire a tutte le leggi da Ippocrate e da’ migliori Medici finallora prescritte, e un nuovo metodo introdusse, pretendendo di ridurre la Medicina a’ suoi veri principj, i quali secondo lui consistevano in risanare gli infermi sicuramente, e prontamente, e piacevolmente. I suoi più usati rimedj erano l’astinenza dal cibo, e talvolta ancora dal vino, i fregamenti del corpo, il passeggio e la gestazione. I quai rimedj facili essendo e nulla penosi, e perciò essendo creduti di sicuro effetto, per poco non venne egli riputato qual Dio dal Ciel disceso. E molto più, che non solo egli cercava di risanare gli infermi, ma di secondarne ancora i desiderj e le voglie, ordinando lor cose, che recasser piacere. Concedeva loro a’ tempi opportuni l’uso del vino e dell’acqua fresca, li facea porre su letti pensili, i quali dimenandosi o sminuissero i dolori, o almen conciliassero il sonno; raccomandava l’uso de’ bagni; e rigettando certi penosi e molesti rimedj, che da alcuni si usavano, come l’aggravare gli infermi di panni, il riscaldarli presso le ardenti fiamme, o l’esporli a’ cocenti raggi del Sole per trarne a forza il sudore, altri rimedj sostituiva piacevoli e dolci. Ad accrescergli fama molto gli giovò ancora l’impostura e la sorte. Narrava effetti maravigliosi di alcune erbe. Trasse dal feretro un uomo creduto morto, che portavasi al rogo, e gli rendette la sanità, talché si credette quasi, che renduta gli avesse la vita. Disse più volte, che egli era pronto a perder la stima di illustre Medico, che erasi acquistata, se mai fosse caduto infermo, e in fatti aggiugne Plinio15, che nol fu mai, e sallo il Cielo, quando sarebbe egli morto, se la caduta da una scala non gli avesse in estrema vecchiezza tolta la vita. Quindi non vi ebbe mai forse Medico alcuno, che in tanto onore salisse, quanto Asclepiade. Mitridate Re di Ponto avendone avuta contezza mandò chi facessegli grandi offerte, perché a lui ne andasse; ma egli non volle partir da Roma16. Di lui parla ancora con lode Cornelio Celso in più luoghi17. Ma Galeno, che allor quando venne a Roma a’ tempi di Marco Aurelio trovò ancor viva la memoria d’Asclepiade, e vide, ch’egli avea non pochi seguaci, parlonne assai diversamente, e in più luoghi delle sue opere ne combatté l’opinioni, e talvolta ancora con assai pungenti parole18. Anzi ei rammenta19 otto libri da sé scritti ad esaminare le opinioni tutte di Asclepiade. Essi sono periti; ma egli è verisimile, che in essi ei ne avesse scoperti gli errori, e più ancor l’impostura, di cui Asclepiade avea usato. VII. Molti discepoli ebbe Asclepiade in Roma; ma due singolarmente si renderono sopra gli altri famosi, Temisone, e Antonio Musa20. Temisone nativo di Laodicea nella Siria si dice da Plinio sommo Autore21, e varj libri scritti da lui si rammentano presso gli antichi Autori22. Ma egli non fu troppo grato al suo Precettore; perciocché morto Asclepiade, abbandonando gli insegnamenti da lui appresi, di un’altra setta si fece Autore e Maestro23, cioè di quella, che si chiamava Metodica, come raccogliesi da Galeno24, e come più chiaramente ancora si afferma da Celso25. Perciò da Seneca il Filosofo egli è nominato tra’ Fondatori di una nuova setta di Medicina diversa da quelle d’Ippocrate e di Asclepiade26. VIII. Più celebre tra’ Romani è il nome di Antonio Musa. Era questi per testimonianza di Dione27 stato già schiavo, e poscia, probabilmente pel suo sapere in Medicina, posto in libertà, ed egli ancora era stato discepolo di Asclepiade. Ma ad imitazione di Temisone stabilì egli pure una nuova setta di Medici. Così in Roma cambiavasi pressoché ogni giorno metodo e legge di medicare; e nondimeno non era comunemente né più breve né più lunga la vita degli uomini. Il principal vanto di Antonio Musa si fu l’aver salvata la vita ad Augusto. In due occasioni ne parla Plinio, forse perché ciò accadde due volte e con diversi rimedj. Dice in un luogo28, ch’egli fu da Musa sanato coll’uso delle lattuche, mentre un altro Medico giurava, ch’ei sarebbene morto. E altrove narra29, 197 che essendo Augusto condotto a tal segno, che omai se ne disperava, punto non giovando i bagni e i fomenti caldi finallora usati, Musa vi sostituì i freddi, e sanollo. Di queste guarigioni d’Augusto per opera di Antonio Musa fa menzione ancora Svetonio30, e aggiugne, che tale fu il trasporto e l’allegrezza de’ Romani perciò, che a comuni spese fu innalzata una statua a Musa, e posta a fianco a quella di Esculapio. Dione ancora ne parla31. Egli però non fa motto di statua, ma solo di gran quantità di denaro datagli dal Senato, e dell’anello d’oro, che gli fu permesso di usare. La gratitudine di Augusto e del Senato Romano non si estese solo ad Antonio Musa, ma per riguardo di lui a tutti gli altri Medici ancora. Avea già Giulio Cesare conceduto a’ Medici il diritto della Cittadinanza32, e il privilegio medesimo fu loro in questa occasion confermato33. Di Antonio Musa fa menzione anche Orazio, e rammenta, che vietatigli i caldi bagni di Baja, costringevalo ad usare de’ freddi anche di mezzo verno34, col qual rimedio credeva Musa di prevenire o di cacciare qualunque sorta d’infermità; ma non sempre gli venne fatto; che usandone col giovane Marcello Nipote d’Augusto, ei ne morì35. Francesco Atterbury Vescovo di Rochester in un libro stampato in Londra dopo sua morte l’anno 1740 pretende, che Virgilio ancora abbia voluto parlare di Antonio Musa, e che abbial descritto sotto il nome di Japi36 Medico di Enea. Ma le pruove da lui addotte non son sembrate abbastanza probabili agli Autori della Biblioteca Britannica37; e io penso, che si possa dire a questo luogo lo stesso, che detto abbiamo altrove della menzione, che vuolsi da alcuni, che lo stesso Virgilio abbia fatta di Orazio38. IX. Questi furono i più illustri Medici, che al tempo, di cui parliamo, fiorirono in Roma. Altri ne troviam nominati da varj Autori. Un Marco Antonio Asclepiade Medico di Augusto si nomina da molti antichi Scrittori39, e un’onorevole Iscrizione da que’ di Smirne sua patria innalzatagli leggesi nella Raccolta del Muratori40. Un Cratero veggiam nominato da Cicerone41. Un Glicone Medico del Console Pansa trovasi presso Svetonio42; e abbiamo una lettera di Bruto a Cicerone43, in cui glielo raccomanda, poiché era caduto in sospetto di avere avvelenata la ferita da quel Console ricevuta nella battaglia di Modena. Antistio Medico di Cesare si nomina dallo stesso Svetonio44. Molti ancora ne annovera Plinio alla rinfusa45: Multos prætereo Medicos, celeberrimosque: ex iis Cassios, Calpetanos, Arruntios, Albutios, Rubrios. Ma ei non distingue, a qual tempo vivessero. Molti certo doveano essere in Roma al tempo stesso; perché pare, che vi fosse ancora divisione di cure e d’impieghi. Così noi troviamo nominato in un’antica Iscrizione di questi tempi Silicius Medicus ab oculis46, e in un’altra Ti. Claudio Medico Oculario47. Anzi alcune Medichesse ancora noi troviam nominate nelle antiche Iscrizioni presso il Rutero48; ma forse questo nome si dava alle levatrici. Ben soggiugne Plinio una cosa, la qual ci mostra, a quanto prezzo ponessero allora i Medici la loro assistenza. Perciocché dice, che gli Imperadori pagavan loro ogni anno ducento cinquanta mila sesterzj, che corrispondono a un dipresso a seimila ducento cinquanta scudi Romani. Anzi continua Plinio a dire, che un cotale Quinto Stertinio pretese di mostrarsi benemerito della Corte servendola al prezzo di cinquecentomila sesterzi, ossia dodici mila cinquecento scudi Romani, mentre poteva, servendo il pubblico, averne fino a seicento mila; e finalmente aggiugne, che lo stesso annuale stipendio fu dall’Imperador Claudio assegnato a un fratello del mentovato Stertinio, ed altri somiglianti esempj produce di Medici coll’arte loro stranamente arricchiti. Tutte queste notizie ho io qui voluto raccogliere, benché alcune appartengano a età posteriore, per mostrare, a qual prezzo si conducessero allora i Medici; e perché si vegga, quanto noi siam tenuti a’ valorosi Medici d’oggidì, che non essendo certamente inferiori in merito agli antichi, pur nondimeno non ci fanno costar sì caro la cortese opera loro. Per ultimo è ad avvertire, che in una Iscrizione riferita nella gran Raccolta del Muratori trovasi nominata Schola Medicorum49; dal che egli raccoglie, che fin da’ tempi di Augusto vi avesse in Roma pubblica scuola di Medicina; perciocché sembra, che ivi si parli di un Liberto di Livia moglie di Augusto50. X. Rimane ora a vedere, come di sopra si è accennato, se tutti i Medici in Roma fossero schiavi: quistione assai agitata da alcuni moderni scrittori, singolarmente in Inghilterra; poiché avendo il Middleton l’anno 1726 pubblicata in Londra una Dissertazione De Medicorum apud veteres Romanos conditione, in cui si sosteneva, che tutti erano schiavi, Carlo della Motte gli rispose con un libro stampato pure in Londra l’anno 1728, intitolato: Essai sur l’état & sur la 198 condition des Medecins chez les Anciens. E avendo il Middleton replicato in sua difesa, un’altra Opera in Latino attribuita a M. Ward uscì alla luce in Londra nello stesso anno col titolo: Dissertationis V. R. Middletoni de Medicorum Romæ degentium conditione ignobili & servili defensio examinata. Anche Daniello Winck pubblicò l’anno 1730 in Utrecht una Latina Dissertazione contro l’opinione del Middleton con questo titolo: Amoenitates Philologico-Medicæ, in quibus Medicina a servitute liberatur; per tacere di altri libri su questo argomento medesimo pubblicati, intorno a’ quali si può vedere il libro di Giulio Carlo Schlegero stampato l’anno 1740 in Helmstad: Historia litis de Medicorum apud veteres Romanos degentium conditione. Prima di tutti i sopraccitati Autori avea scritto su questo argomento Jacopo Spon, come sopra si è detto, con una Dissertazione51, in cui entra a provare, che i Medici tra’ Romani non erano schiavi, ma Cittadini Romani52. Troppo ampio trattato richiederebbesi ad esaminare tutte le ragioni, che dall’una e dall’altra parte sono state recate. A dire in breve ciò, ch’io ne sento, è certo primieramente, che molti Medici erano schiavi, benché poi da’ lor padroni medesimi posti in libertà. Tale abbiam veduto che fu Antonio Musa; e tali pure eran que’ molti Medici, i quali nelle Iscrizioni dallo Spon pubblicate a mostrare, che i Medici non erano schiavi, son detti Liberti. Anzi attualmente schiavo sembra che fosse il Medico di Domizio a’ tempi di Cesare rammentato da Seneca53: Imperavit (Domitius) Medico eidemque servo suo, ut sibi venenum daret. E’ certo inoltre, che Medici vi erano in Roma, i quali non avevano il diritto della Romana Cittadinanza. Cesare ed Augusto, come si è detto, concederon loro un tal privilegio: dunque non l’avevan essi dapprima; e quindi è falso ciò, che lo Spon ed altri affermano, che tutti i Medici fossero Cittadini Romani, quando parlar si voglia de’ tempi anteriori a Cesare. Anzi io credo, che si possa con certezza affermare, che fino a’ tempi di Plinio niun de’ Romani esercitò quest’arte. Egli il dice apertamente: Solam hanc artium Græcarum nondum exercet Romana gravitas in tanto fructu54. Quindi soggiugne, che pochi assai ancora erano que’ Romani, che di essa avessero scritto; e questi ancora si erano in certo modo gittati tra’ Greci grecamente scrivendo: Paucissimi Quiritium attigere, & ipsi statim ad Græcos transfugæ. Pare, che dopo un tal detto di Plinio non vi abbia più luogo a dubitarne. Egli è vero, che alcuni Medici trovansi nominati nelle Iscrizioni pubblicate dallo Spon, che hanno nomi Romani. Ma in primo luogo alcune di quelle Iscrizioni non hanno indicio alcuno, da cui si possa conoscere, se sian di tempo anteriore a quello, di cui parla Plinio, ovver posteriore; anzi alcune son certamente di più tarda età, e appartenenti all’Impero di Domiziano, di Trajano, e de’ lor Successori. Inoltre il nome Romano non basta a provare l’origine e la Cittadinanza Romana. Abbiam veduto di sopra nominarsi da Plinio parecchi Medici, che al nome sembran Romani, i Cassii, gli Alvuzii ec., e nondimeno essi non eran certo Romani; poiché Plinio stesso soggiugne, che niun de’ Romani avea finallora esercitata quest’arte. Gli schiavi, quando erano manomessi, prendevano comunemente il nome del loro liberatore, e talvolta dimenticavano in tutto il loro nome natio. Chi sa qual fosse l’antico nome Africano del Poeta Publio Terenzio? Ei non vien mai chiamato altrimenti che dal nome dell’antico suo Padrone. La stretta e intrinseca amicizia, che co’ più ragguardevoli Cittadini ebbero alcuni Medici in Roma, è anch’essa troppo debole pruova a mostrare, che questi ancora fossero Cittadini. Chi più accetto a’ Grandi di Roma di Panezio, di Polibio, e di altri Greci? Anzi anche per riguardo agli schiavi, basta legger le lettere di Cicerone al suo Liberto Tirone per conoscere, che questi ancora, quando se ne rendevano degni, godevano della più amichevole confidenza de’ lor Signori. Egli è vero finalmente, che l’arte della Medicina da Cicerone si dice onesta, ma in confronto di quelle, che son vergognose e vili, e onesta per riguardo a quella classe d’uomini, che la esercitano: Minimeque, dice egli55, artes hæ probandæ, quæ ministræ sunt voluptatum, cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores, ut ait Terentius... Quibus autem artibus aut prudentia major inest, aut non mediocris utilitas quæritur, ut Medicina, ut Architectura, ut doctrina rerum honestarum, hæ sunt iis, quorum ordini conveniunt, honestæ. Si può dunque a mio parere concedere allo Spon e a’ suoi seguaci, che non tutti i Medici fossero schiavi; ma che tutti fossero Cittadini innanzi al privilegio di Cesare e di Augusto, e che tra essi ve ne avesse ancora de’ veri Romani, questo non sembra che essi il provino, né che si possa sì agevolmente provare.

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Note

1 L. XXIX c. I.
2 L. XXV c. I.
3 Lib. XX c. IX.
4 Recherch. d’Antiquité Diss. XXVII.
5 Art. Medicine.
6 L. X c. LIII.
7 L. XX c. IX.
8 T. I Lettre XXV.
9 Récherches Curieuses d’Antiquieté Diss. XXVII.
10 An. 1735 p. 13 &c.
11 Questo celebre passo di Plinio, e quelle parole excepisse Medicos, sono state da me spiegate nel senso del P.
Harduino, e di alcuni altri, cioè, che quando i Greci furon cacciati di Roma, i Medici vi furon nominatamente compresi.
Contro questa spiegazione alcune ingegnose difficoltà mi ha proposte il Ch. Sig. Ab. Giuseppantonio Cantova, noto per
l’eleganti sue traduzioni de’ libri dell’Oratore, e di alcune Orazioni di Cicerone, ed io riporterò qui le parole medesime,
con cui egli me le ha proposte.
“Ecco le mie riflessioni sul passo di Plinio Lib. 29 Cap. I. Non rem antiqui damnabant, sed artem; maxime vero
quæstum esse immani pretio vitæ recusabant. Ideo templum Æsculapii, etiam cum reciperetur in Deus, extra urbem
fecisse, iterumque in Insula traduntur. Et cum Græcos Italia pellerent, excepisse Medicos. Augebo providentiam illorum
&c. Il membro, dove dicesi excepisse Medicos, è una continuazione del membro antecedente, col qual si unisce colla
semplice congiunzione &. Adunque per conoscere, se l’excipere ha senso favorevole a’ Medici, o, come voi
l’intendente, contrario, è da vedere, se ciò che precede faccia senso contrario o favorevole. Ora potrebbe dirsi chi il fa
favorevole, 1. Perciocché ivi si dice, che furon due Templi eretti ad Esculapio: il che certamente non può aver notato
Plinio quasi cosa significante avversione a’ Medici. Che se vi venisse in mente di dire, che per l’avversione a’ Medici
fossero quelli eretti non dentro la Città, ma fuori: primieramente dico, che se ciò indicasse avversione, sarebbe questa
anzi verso Esculapio (il che fa a’ calci coll’erezione de’ Templi) che verso i Medici. Ma poi tal riflessione è sventata da
ciò, che nota P. Vittore Regione 4. In Insula Ædis Jovis & Æsculapii,, & Ædes Fauni. Direm noi, che fossero i Romani
contrarj a Giove ed a Fauno? Plutarco alla quist. 94 delle Romane tre ragioni accenna, perché si fabbricasse il tempio
d’Esculapio fuor di città. 1. Perché i Greci il solevano fabbricare fuori in aria aperta e salubre. II. Perché gli Epidaurii,
da’ quali erasi avuto quel Nume, ne aveano il Tempio lungi di Città. III. Perché essendo dalla nave, che il portava,
uscita una serpe, credettesi, ch’Esculapio stesso avesse con ciò segnato il sito del tempio.
2. Confermasi la stessa cosa da quel, che immediatamente precede al testo sopracitato, dove Plinio dice: Quid ergo
damnatam ab eo rem utilissimam credimus? minime hercules; poi seguita a dire, che ivi Catone riferisce, con qual
medicina egli e la moglie si conducessero ad una lunga vecchiezza: e dichiara d’aver un libro di rimedj per curar il
figlio e i famigliari. Questo racconto dinota, che non la Scienza e l’uso della Medicina, ma sibbene la guadagneria si
condannava, e la viziosa maniera d’esercitarla; come ora parlerebbe chi ragionasse de’ cavillosi artifizj de’ Causidici:
non rem damno sed artem. Col nome d’Arte non intendesi la Scienza de’ mali e de’ rimedj, alla quale Catone stesso
erasi applicato, ma si prende in mala parte per cattivo e sordido artifizio. Comprovasi colle parole che seguono dopo
l’excepisse Medicos, cioè Augebo providentiam illorum, quasi dicesse: tanto son lungi dal togliere a’ Romani il
vantaggio, che può venire da’ Medici, ma l’accrescerò eziandio: non vo’ togliere l’Arte Medica, ma migliorarla anzi ed
ampliarla; il che avea già Plinio accennato poco sopra col dire: quæ nunc nos tractamus... quem nos per genera usus sui
digerimus; e tanto eseguisce spiegando ordinatamente i varj generi di medicine: la onde dice alla Sezione nona:
Ordiemur autem a confessis &c. In somma tutto sembra camminar bene, quando in poco riducasi il discorso di Plinio
così: Catone avvisa il figlio di guardarsi da’ Greci massimamente da’ Medici. Che dunque! Crederem noi, ch’egli una
cosa tanto utile riprovasse? (coerentemente a quel che precede, adopera Plinio il vocabolo rem per dinotar la Scienza e
l’uso della Medicina). Mai no. Conciossiaché Catone stesso ha scritto di questa Scienza, e se n’è valuto per sé e pe’
suoi, e quello, ch’ei notò brevemente, verrà da noi più ampiamente trattato. Non la Scienza e l’uso di Medicina
dannavasi da’ Maggiori, ma la furberia de’ Medici Greci. Però è, che eressero un Tempio ad Esculapio, e quando
cacciarono i Greci, ne eccettuarono i Medici. Ed io stesso intendo di promuovere questa facoltà ed accrescerla.
Potrebbono a taluno far forza in contrario al sin qui detto quelle parole: Etiam cum reciperetur is Deus, quasi che i
Romani anche allora che ammisero Esculapio dimostrassero la lor avversione co’ Medici, col volerlo fuor di Città. Ma
tralasciando, che l’etiam può anche congiungersi colle parole precedenti, non sembra contro gli addotti testi di P.
Vittore e di Plutarco bastevole fondamento una formola non ben chiara in uno Scrittore, il cui stile è sovente oscuro ed
equivoco, oltre gli errori, che tanto sono frequenti ne’ copiatori antichi.
Finalmente non si adduce altro testo di Plinio, dove usi l’excipere nel senso inteso dall’Harduino: anzi i passi de’
Giuristi non sono chiari abbastanza per assicurarci, che tal significato, quale pretendesi, avesse quel verbo presso i
Latini. lascio a voi il decidere, qual delle due opinioni sia meglio provata. Io non veggo provata bastantemente quella
dell’Harduino. Bastami, che veggiate l’impegno mio per le cose vostre”. Io lascio agli eruditi l’esame di queste
riflessioni, le quali certo sembrano aver molta forza, e, benché io non ci vegga ancora sì chiaro, che mi senta costretto a
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cambiar sentimento, confesso però, che la spiegazione del P. Harduino non mi sembra più così certa, come una volta
pareami.
12 L. XXVI. c. III.
13 De Orat. l. I n. 14.
14 M. Goulin non ha avvertito, che il passo di Cicerone, in cui ragiona d’Asclepiade, è posto in bocca di Crasso, il quale
essendo morto nell’anno di Roma 662 parlando di Asclepiade, come d’uom già defunto: Asclepiades, quo nos Medico
amicoque usi sumus, tunc cum eloquentia vincebat ceteros Medicos &c., ci mostra con ciò, ch’ei gli era premorto.
Quindi credendo il suddetto Scrittore, che di Cicerone fossero quelle parole, e osservando che l’Opera de Oratore fu da
lui scritta l’anno di Roma 698 ne ha inferito, che solo alcuni anni prima fosse morto Asclepiade (Mem. pour servir à
l’Hist. de la Medic. an 1775 p. 224); dal qual primo calcolo non giustamente stabilito è poi venuto, che anche nel fissare
l’età di Temisone e degli altri Medici venuti appresso ei non sia stato molto esatto.
15 L. VII c. XXXVII.
16 Plin. Ib.
17 Præf. lib I & c. III, lib. II c. XIV, Præf. lib. V.
18 Method. Medend. l. I & II; De Natural. Facult. l. I & II; De Crisibus l. III c. VIII.
19 Lib. de libris propriis.
20 Osserva M. Goulin, che Plinio dice veramente Temisone scolaro di Asclepiade, ma che Celso lo dice sol successore, e
vuole, che credasi a Celso anzi che a Plinio (Mem. pour servir à l’Hist. de la Medic. an. 1775 p. 225 &c.). E io gli
crederei, se Celso negasse, che Temisone fosse stato scolaro del detto Medico. Ma ei col dirlo seguace non esclude che
gli fosse ancora scolaro; e Plinio era troppo vicino a que’ tempi, perché a lui ancora non debbasi fede. Se però fosse
vero ciò, che afferma come certo lo stesso M. Goulin, cioè che Temisone vivesse ancora l’anno decimo dell’Era
Cristiana, che combina coll’anno 763 di Roma, e anche più tardi, converrebbe necessariamente seguire l’opinione di M.
Goulin; perciocché Asclepiade era morto almeno cent’anni prima. Ma io non veggo, qual pruova egli arrechi di
quest’epoca della vita di Temisone, la quale anzi sembra distrutta da ciò, che nel Tomo secondo diremo parlando di
Celso.
21 L. XIV c. XVII.
22 V. Indic. Auct. ad calcem L. I Plin. edit. Harduin.
23 Plin. lib. XXIX c. I.
24 Method. Medend. lib. I prope fin.
25 Præf. lib. I.
26 Ep. XCV.
27 L. LIII.
28 L. XIX c. VIII.
29 L. XXIX c. I.
30 In Aug. c. LIX & LXXXI.
31 Loc. cit.
32 Svet. in Jul. c. XLIII.
33 Dio loc. cit.
34 L. I Epist. XV.
35 Dio loc. cit.
36 Æn. XII.
37 T. XV p. 377.
38 Alcune delle cose qui dette intorno al Medico Antonio Musa voglionsi qui correggere dopo le belle riflessioni, che
intorno ad esso ha fatte il Consiglier Gio: Luigi Bianconi da troppo acerba morte rapitoci il I di Gennajo dell’anno 1781
due anni soli dappoiché egli ebbe pubblicate le sue eleganti non meno che erudite Lettere Celsiane. In primo luogo
Antonio Musa non può essere stato scolaro di Asclepiade, perciocché questi era già morto, come egli ha ben provato,
prima dell’anno 663 di Roma, e Antonio Musa viveva ancora circa settant’anni dopo, cioè nel 731 in cui cadde la
malattia d’Augusto, dalla quale egli il sanò, e la quale crede il medesimo Autore, che fosse la sola, a cui amendue i
rimedj oppose Antonio, le lattuche, e i bagni freddi. Egli ha osservato ancora, che Antonio scrisse diversi trattati
dell’Arte Medica, de’ quali parla con molta lode Galeno, e che egli ebbe un fratello per nome Euforbo, il quale era
Medico di Juba Re della Mauritania. Egli finalmente ha prima di ogni altro scoperto, e confutato l’errore non mio
soltanto, ma di tutti i moderni Scrittori, cioè che Marcello morisse pe’ bagni freddi da Antonio Musa ordinatigli, ed ha
mostrato, ch’egli finì di vivere a’ caldi bagni di Baja, e che è anche poco probabile, che questi gli fosser prescritti da
Antonio.
Ma ciò, che a questo luogo è più degno d’osservazione, si è, che il Cons. Bianconi nelle suddette lettere ha con molti
argomenti assai ben dimostrato, che il Medico Cornelio Celso deesi annoverare tra gli Scrittori del secolo d’Augusto
contro a ciò, che io, seguendo la comune opinione degli Scrittori, avea asserito. Di ciò nondimeno mi riserbo a parlare
nel Tomo II, in cui anche in questa seconda edizione si troverà ciò, che a Celso appartiene per le ragioni nella
Prefazione accennate.
39 Svet. in Aug. c. XCI; Vell. Paterc. lib. II c. LXX.
40 T. II p. DCCCLXXXVIII.
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41 L. XII ad Att. Ep. XIII.
42 In Aug. c. XI.
43 Ep. Cic. ad Brut. VI.
44 In Jul. c. LXXXII.
45 L. XXIX c. I.
46 Murat. Thes. Inscr. t. II p. CMXXVII.
47 Ib. p. CMXLV.
48 Vet. Inscr. pag. DCXXXV, DCXXXVI.
49 Thes. Inscr. t. II p. CMXXIV.
50 Nel Museo Vaticano riprendesi la spiegazion da me data a quella voce Schola, e si afferma, che non significa scuola,
come io l’ho interpretata, ma portico o sala, ove le persone di una determinata professione o di un qualche Collegio si
radunavano (T. II p. 72), e citasi la spiegazione che ne ha data il Ch. Sig. Ab. Amaduzzi, e potevansi anche citare il
valoroso Ab. Gaetano Marini (Giorn. di Pisa T. III p. 143), il Pitisco (Lexic. V. Schola) ec. Io non mi ostinerò a
sostenere la mia opinione; perché a provare, che la Medicina fiorisse in Roma, giova ugualmente una pubblica scuola, e
una pubblica adunanza. Ma si può anche vedere ciò, che in difesa di questa opinione ha scritto l’erudito Biagio
Garofalo, il quale vuole egli pure, che di Scuola si parli nell’accennata Iscrizione (Caryoph. Dissert. Miscell. p. 343).
51 Récherches Curieuses d’Antiquité Diss. XXVII.
52 Agli Autori, che hanno scritto in difesa della condizione de’ Medici presso i Romani, deesi aggiugnere il Ch. Sig.
Dott. Giuseppe Benvenuti nella sua erudita Dissertazione su questo argomento stampata in Perugia nel 1779.
53 De Benef. l. III c. XXIV.
54 L. XXIX c. I.
55 De Offic. l. I n. 42.