Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapIV

174

Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo IV – Filosofia, e Matematica I. Lo studio della Filosofia avea già cominciato a spargersi in Roma alla venuta di Panezio e di Polibio, e più ancor alla venuta degli Ambasciadori Ateniesi, come si è detto nell’epoca precedente. Ma assai più universale si fece dopo la conquista della Grecia; e per riguardo alla Filosofia singolarmente si può dire con verità, che la Grecia divenne suddita al tempo medesimo e maestra a’ Romani; e che costretta a ricever da essi comandi e leggi costrinse i suoi vincitori medesimi a soggettarle il loro spirito e il loro intendimento. Era allora la Grecia divisa in molte Filosofiche sette, tutte di nomi, di massime, di sentimenti diverse. Stoici, Epicurei, Peripatetici, Accademici, e questi ultimi ancora divisi in tre, o, come altri vogliono, cinque sette, riempivano tutta la Grecia. Ogni setta aveva i suoi seguaci; e quella era in pregio maggiore, che aveane maggior numero; e questi bramavan anzi di vincere i loro avversarj, che di scoprire la verità. Or conquistata la Grecia, molti de’ Greci Filosofi vennero a Roma, sicuri di acquistarvi fama, e di migliorar condizione, e cominciarono a fare pubblica mostra del lor sapere. Gli ampj portici, e quelli singolarmente, che qualche tempo dopo fece innalzare Lucullo innanzi a’ suoi maestosi palagi, erano, per così dire, le scuole, in cui i Filosofi Greci si raccoglievano, e tra lor disputando spiegavano le loro opinioni1. I Romani abbracciarono essi pure quali una, quali altra setta, e chi di essi era Stoico, chi Epicureo, chi Accademico. Il Bruckero annovera alcuni de’ principali, che in ciascheduna setta furono illustri2. Egli è però da osservare, che non sembra, che tra’ Romani le Filosofiche sette avessero quell’unione e quella regolar forma, che avean tra’ Greci; sicché fossero l’una dall’altra divise, e ciascheduna avesse il suo capo, e le sue assemblee, e il luogo ad esse destinato. I Filosofi Greci erano per lo più uomini, che altro impiego non aveano fuorché quel di Filosofo. I Romani al contrario rimiravan lo studio come interrompimento e sollievo de’ gravi affari della Repubblica. Quindi udivano volentieri le ingegnose dispute, che tra lor facevano i Greci, volentieri leggevano i loro libri, si mostravano agli uni più favorevole che agli altri, e prendevano ancor talvolta il nome di alcuna setta. Ma né si curavano essi di formar corpo, per così dire, da ogni altro distinto; né si cercavano partigiani e seguaci. Io non tratterrommi a nominar tutti quelli, che lo studio della Filosofia abbracciarono in Roma: lunga e inutil fatica. Molti, come si è detto, ne annovera il Bruckero, il quale a Virgilio ancora, ad Orazio e ad Ovidio tra’ Filosofi ha dato luogo. Io de’ Poeti non parlerò a questo passo, perché parmi troppo difficile l’accertare, di qual parere essi fossero nelle Quistion Filosofiche, essi, dico, che più dall’estro poetico che dalla forza della ragione si lasciano trasportare, e spesso contraddicono in un luogo a ciò, che in un altro hanno asserito. Osserverò solamente, che abbian fatto i Romani a vantaggio della Filosofia, e chi tra essi abbiala co’ suoi scritti illustrata. II. E primieramente al fervor de’ Romani nell’applicarsi allo studio della Filosofia noi dobbiamo la pubblicazione de’ libri di Aristotile, che per lungo tempo erano stati nascosti, e per così dire sepolti. Non vi è forse Autore, i cui libri siano stati a tante vicende soggetti, come Aristotele. Egli morendo gli affidò a Teofrasto suo discepolo e successore. Questi a un certo Neleo di Scepsi Città della Troade, il quale portatigli insieme con que’ di Teofrasto alla sua patria lasciolli a’ suoi eredi, uomini, che di lettere e di libri erano affatto digiuni. Quindi crederono essi di averli ben conservati, lasciandogli ammucchiati insieme alla rinfusa; anzi avendo udito, che il Re di Pergamo a grandi spese raccoglieva de’ libri per formarne una magnifica Biblioteca, e pensando, che sventura peggiore avvenir non potesse a que’ libri, che di cader nelle mani del Re, ed essere esposti alla pubblica luce, con pazzo consiglio gli ascosero in una sotterranea ed umida grotta, ove è facile a conghietturare qual danno ne soffrissero nello spazio di 130 anni, in cui vi stetter sepolti. 175 Finalmente trattini fuora guasti e malconci com’erano furon venduti a un cotale Apellicone Tejo, che avea raccolta numerosa Biblioteca in Atene. Questi avea buon gusto, quanto bastava a conoscerne il pregio, ma non tanto sapere, quanto convenuto sarebbe per intenderne pienamente il senso, ove i caratteri eran corrosi, e supplirne il testo, ove esso dall’umidità, da’ sorci, e da altri somiglianti nemici della letteratura era stato lacerato e guasto. Si accinse nondimeno all’impresa, e quel riuscimento vi ebbe, che era da aspettarne. Al danno, che i Codici sofferto aveano nello squallor della carcere, si aggiunsero gli errori e le cose finte a capriccio, di cui Apellicone gli riempié. Morì Apellicone, e poco dopo presa Atene da Silla, fralle spoglie, che il vincitore giudicò degne d’essere trasportate a Roma, vi fu singolarmente la Biblioteca d’Apellicone e con essa tutti gli scritti di Aristotile e di Teofrasto. Stettero essi per alcun tempo nella Biblioteca di Silla, senza che fossero pubblicati; finché Tirannione Gramatico, il quale da Lucullo era stato condotto schiavo a Roma, insinuatosi nell’amicizia di chi ad essa presiedeva, ottenne di avergli in mano, ne fece copia, e gli emendò, come seppe il meglio. Passaron poscia alle mani di un altro Greco Filosofo detto Andronico da Rodi, che era in Roma a’ tempi di Cicerone, il quale pure nuove diligenze adoperò a correggerli, e a riempire i voti, che vi erano ancora rimasti; e ne moltiplicò gli esemplari, perché le opere di questo illustre Filosofo fosser pubbliche in Roma. Tuttociò si può vedere più ampiamente presso il Bruckero3, e presso il Bayle4, i quali questo punto di Storia hanno diligentemente esaminato, raccogliendo, e confrontando insieme i passi degli antichi Scrittori, che ne favellano. Vuolsi però avvertire, che anche verso il fine della vita di Cicerone, quando egli scriveva il suo libro de’ Topici, non erano molto conosciuti i libri di Aristotile; perciocché egli, dopo aver riferito, che un Retore detto avea di non saper nulla delle opere di questo Autore, soggiugne: Di che io non mi fo maraviglia, che questo Filosofo noto ancora non fosse a questo Retore, poiché egli agli stessi Filosofi, tranne assai pochi, non è ancor conosciuto5. III. Questo divolgamento de’ libri d’Aristotile recò al nome di quel Filosofo gloria non ordinaria; e quindi fu egli con tante lodi celebrato da Cicerone, il quale dovette essere uno tra’ primi ad averne contezza, e che uomo il chiama d’ingegno presso che divino6, e a tutti i Filosofi, trattone solo Platone, in ingegno e in esattezza superiore7. Intorno a che due cose mi sembran degne di riflessione. La prima si è, che i Romani furono quelli, per mezzo de’ quali celebri si rendettero e conosciuti gli scritti di questo illustre Filosofo; poiché Tirannione e Andronico invano avrebbonli diseppelliti e corretti, se non avessero trovati i Romani inclinati a’ Filosofici studj, che gli accogliessero volentieri, e coll’usarne e col disputarne li rendesser più noti. La seconda si è, che in Roma prima che in Grecia si apprese la vera dottrina di Aristotile. Perciocché dopo la morte di Aristotile e di Teofrasto giacendo sepolti i libri da lor composti, la dottrina di lui passava per tradizione di bocca in bocca, e quindi necessario era, che si alterasse notabilmente. Al contrario in Roma dagli scritti medesimi di Aristotile se ne apprendevano le opinioni, e con essi alla mano si disputava. Egli è però vero, che questi scritti dovean già essere guasti e contraffatti da tante mani, che vi si erano impiegate. Apellicone, Tirannione, Andronico, vi si adoperarono intorno, ne vollero emendare gli errori, e forse ve ne aggiunser de’ nuovi, vollero riempir que’ vani, che l’umidità e il tarlo vi aveano fatto; e, ove Aristotile più non parlava, parlaron essi, come sembrò lor verisimile, che parlar dovesse Aristotile. Quindi convien confessare, che più non abbiamo gli scritti di questo famoso Filosofo, quali da lui furon lasciati, e quando veggiamo in essi alcuna cosa oscura o incoerente, e qualche mal congegnato ragionamento, vi è giusta ragione a credere, che non debbansi attribuire ad Aristotile, il quale in tante cose si mostra conoscitore grandissimo della natura e ingegnoso disputatore; ma sì a quelli, che volendogli emendare ne guastarono sconciamente i libri. Ma non appartiene al mio argomento l’esaminar la dottrina e gli scritti di un Greco Filosofo, ma solo riferire, qual parte avesse Roma nella loro pubblicazione. Or dal già detto parmi, che si possa probabilmente raccogliere, che noi non avremmo forse gli scritti d’Aristotile, se Silla non gli avesse portati a Roma, e se i Romani col loro ardor nello studio della Filosofia non gli avessero fatti celebri e noti al mondo. Così le opere di questo illustre Filosofo a’ Romani debbono la loro conservazione, a’ Greci la dimenticanza, in cui giacquero lungamente, e il guasto e l’alterazion che soffersero. 176 IV. Or passando a favellare di color tra’ Romani, che la Filosofia illustrarono co’ loro scritti, il primo, che ci si offre a ragionarne, è Cicerone; e quell’uom medesimo, che abbiam già veduto andare innanzi a tutti nell’Eloquenza, nella Filosofia ancora il vedremo non rimaner addietro di alcuno. Avea egli attentamente ascoltati i più famosi Filosofi, che allor fossero in Roma, e molti di essi si veggono spesso da lui nominati con somma lode. Fedro e Patrone Epicurei8, Diodoto Stoico9, Antioco Accademico10, Possidonio parimente Stoico11, ed altri sono da lui spesso onorati col nome di dotti ed acuti Filosofi, della conversazione de’ quali egli si era singolarmente giovato. Ma in particolar modo negli ultimi due anni della sua vita, quando vide la Repubblica tutta sconvolta dalle turbolenze civili, e dalla prepotenza di Cesare, egli ritiratosi, benché solo per qualche tempo, a quieto e solitario riposo, alla Filosofia applicossi con grande ardore. Né pago di istruirsi in essa, volle ancora istruirne gli altri, e scrivendo latinamente a’ suoi Concittadini far pubblico, per così dire, quanto di meglio ne’ libri de’ Filosofi Greci si stava nascosto e chiuso. Niuno eravi stato ancor tra’ Romani, che con libri nella materna sua lingua scritti illustrata avesse cotale scienza. Philosophia, dice egli stesso12, jacuit usque ad hanc ætatem, nec ullum habuit lumen literarum latinarum. Non già che niuno veramente avesse fin allora scritto cose Filosofiche in lingua latina. Molti anzi, e singolarmente Epicurei, come si è detto, eransi in ciò occupati: ma incolto e rozzo era lo stile da essi usato; e da niuno perciò eran letti i lor libri, fuorché da’ loro Autori medesimi e da alcuni loro più confidenti seguaci. Ecco come ne parla il medesimo Cicerone13: In quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi jam esse latini libri dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest, ut recte quis sentiat, & id quod sentit, polite eloqui non possit. Sed mandare quemquam literis cogitationes suas, qui eas nec disponere nec illustrare possit, nec delectatione aliqua allicere lectorem, hominis est intemperanter abutentis otio & literis. Itaque suos ipsi libros legunt cum suis, nec quisquam attingit præter eos, qui eamdem licentiam scribendi sibi permitti volunt. Varrone stesso, il dottissimo Varrone, che versato in tutte le scienze la Filosofia ancora avea co’ suoi scritti illustrata, avealo fatto in maniera, per testimonio del medesimo Tullio14, che avea bensì giovato molto ad eccitarne gli altri allo studio, ma poco ad istruirli: Philosophiam multis locis inchoasti ad impellendum satis, ad edocendum parum. V. Postosi dunque Cicerone alla grande impresa di render Latina, per così dire, la Greca Filosofia, non vi fu parte alcuna, che da lui non fosse abbracciata ed illustrata. I principj di tutte le diverse sette, nelle quali era allora la Filosofia divisa, avea egli diligentemente investigati; e tutti si veggono in varie sue opere spiegati e svolti. Ne’ libri della Natura degl’Iddii, della Divinazione e del Fato, noi troviamo quanto intorno alla Naturale Teologia erasi fin allora pensato da’ più illustri Filosofi. Quante utilissime quistioni della Morale Filosofia veggonsi dottamente da lui trattate ne’ libri singolarmente de’ Fini de’ beni e de’ mali, delle Quistioni Tusculane, delle Leggi, e degli Ufficj, e ne’ Dialoghi della Vecchiezza e della Amicizia, e ne’ Paradossi! Di quella parte ancora di Filosofia, che allo studio della Natura appartiene, benché Cicerone non abbiala espressamente trattata, pure da varj passi veggiamo, quanto attento studio avesse egli fatto. Il secondo libro della Natura degli Iddii è un illustre testimonio delle cognizioni da lui acquistate nella Storia Naturale, nell’Astronomia, nell’Anatomia, e in tutte le altre Scienze, che allo studio della Natura appartengono. Vi si incontrano, è vero, molte opinioni, che la moderna Fisica rigetta e deride; ma non vuolsene incolpar Cicerone più che gli altri più famosi Filosofi de’ tempi addietro; anzi gli si dee gran lode, che tutto ciò, che essi insegnarono, abbia egli si felicemente e sì elegantemente spiegato. Certo io non credo, che più bella e più colta descrizione si possa legger di quella, che del corpo umano egli ha fatta, per tacer di altre, che potrebbonsi con ugual lode accennare15. VI. Converrebbe ora entrare nella sì dibattuta quistione, quali siano stati i veri sentimenti di Cicerone in ciò, che alla Religione appartiene. A trattarla a dovere necessario sarebbe intraprendere un lungo esame delle sue opere, conciliare tra loro varj passi, che sembrano interamente contrarj, distinguere i sentimenti proprj di Cicerone da quelli, ch’egli attribuisce ad altri, osservare le circostanze diverse, in cui egli ragiona, ed entrare in somma in una tale discussione, che troppo lungi ci condurrebbe, e potrebbe anche parere aliena dallo scopo di questa Storia. Ci basterà dunque lo stabilire alcuni generali principj, da’ quali si potrà facilmente conoscere, quali fossero i sinceri 177 suoi sentimenti. E primieramente avea Cicerone lette ed esaminate attentamente le opere e le opinioni de’ più illustri Filosofi, ed avea osservato, quanto essi fossero fra loro discordi; da altri asserirsi l’esistenza della Divinità, negarsi da altri; alcuni volere, che dopo morte l’anima sopravviva, altri che colla morte ogni cosa abbia fine; l’anima dagli uni dirsi corporea, incorporea dagli altri; e il reggimento del mondo da chi assegnarsi alla provvidenza degli Iddii, da chi al destino, da chi al caso; alla pruova di ogni sistema addursi ragioni, addursi autorità; ed ogni sentenza aver seguaci per sapere, ed anche talvolta per probità rinnomati. Noi veggiamo Cicerone dolersi spesso di questa sì grande contrarietà d’opinioni. Itaque cogimur, dice egli16, dissensione sapientum, Dominum nostrum ignorare; e poco dopo... Qua de re igitur inter summos viros major dissensio?17 Qual maraviglia dunque, ch’egli si mostri spesso dubbioso e incerto, a qual sentenza rivolgersi! Aggiungasi inoltre, ch’egli uomo di perspicace ed acuto ingegno dovea conoscere chiaramente la fievolezza di quelle ragioni, che a pruova di molte loro opinioni da’ Filosofi si adducevano; e io penso certo, che in cuor suo ei si ridesse di que’ tanti e sì prodi Iddii, de’ quali per altro ragionando al popolo suole parlare con sì grande rispetto. E come poteva in fatti un uom saggio e ingegnoso persuadersi dell’esistenza di quegli Iddii, de’ quali sì bizzarre cose si raccontavano da coloro, che n’erano adoratori? Ma dall’altra parte, benché ei vedesse, quanto sciocca e ridicola fosse la superstizione del Gentilesimo, non avea luce bastante a scoprire il vero. I dogmi della Religion vera, parlando della sola Religion naturale, son tali, che dallo stesso lume della ragione ci vengono insegnati; ma ciò non ostante, se questo non è da soprannatural lume rischiarato, appena è mai, che l’uomo arrivi con esso a chiaramente scoprirli; perché appena è mai, che nell’uomo abbandonato a sé stesso questo lume medesimo della ragione non sia dalle ree secondate passioni oscurato e poco meno che estinto. In tale stato d’oscurità e d’incertezza dovea trovarsi Cicerone; conoscere la falsità delle Filosofiche opinioni intorno la Religione; vedere, ma come da lungi, e involto in dense tenebre, il vero, che egli andava cercando; e non arrivare giammai ad accertare, qual cosa ei creder dovesse, e qual rigettare. VII. In questa diversità di opinioni, in questo suo incerto ondeggiar di pensieri, l’unico partito, a cui Cicerone dovea credere di potersi appigliare, era quello appunto, ch’ei prese, di non legarsi, per così dire, ad opinione alcuna determinata; ma di esaminar ogni cosa, di ponderar le ragioni d’ogni sentenza, e di astenersi dal pronunciar decidendo ciò, che si avesse a creder per certo, ma solo abbracciare come verisimile quell’opinione, che con probabili ragioni si sostenesse. Questo era il costume della Setta, che dicevasi Accademica. Cum Academicis, dice egli stesso18, incerta luctatio est, qui affirmant, & quasi desperata cognitione certi, id sequi volunt, quodcunque verisimile videatur; nel che distinguevansi da altri più antichi Accademici, che a miglior ragione Sceptici avrebbon dovuto chiamarsi, i quali di ogni cosa volevano che si dubitasse, senza pur dire, qual opinione verisimile fosse o probabile. A questa Setta dunque si appigliò Cicerone, come egli stesso in più luoghi si dichiara, singolarmente ove dice19: Geram tibi morem, & ea, quæ vis, ut potero, explicabo; non tamen quasi Pythius Apollo, certa ut sint ea & fixa, quæ dixero, sed, ut homunculus unus e multis, probabilia conjectura sequens. Ultra enim quo progrediar, quam ut videam verisimilia, non habeo. E altrove20: Sed ne in maximis quidem rebus quidquam adhuc inveni firmius quod tenerem, aut quo judicium meum dirigerem, quam id quodcumque mihi simillimum veri videretur, cum ipsum illud verum in occulto lateat. VIII. Ma quali erano le sentenze, che a Cicerone sembravan probabili e verisimili? L’esistenza della Divinità, l’immortalità dell’anima, la provvidenza sovrana, ammettevansi elleno da Cicerone come probabili, o rigettavansi come improbabili? Questo è ciò appunto, che non è sì agevole a diffinire; e se riflettiamo a diversi passi delle sue opere, pare che Tullio stesso non avrebbe potuto determinare, che cosa ei si credesse. Di fatto altri pongon Cicerone tra gli Atei, e trovano ne’ suoi libri tai sentimenti, che spirano il più puro e il più libero Ateismo. Altri il ripongono tra’ più zelanti difenditori della Religion naturale; ed essi ancora confermano l’opinion loro colle parole stesse di Cicerone. A spiegare una sì grande contrarietà di sentimenti e di espressioni, convien riflettere a ciò, che dice S. Agostino, essere stato costume degli Accademici di non iscoprire giammai quali fossero le opinioni, e cui essi inclinassero, se non ad alcuno de’ più 178 familiari amici, quando fossero insieme giunti alla vecchiezza. Mos fuit Academicis occultandi sententiam suam, nec eam cuiquam, nisi qui secum ad senectutem usque vixissent, aperiendi21. Non è dunque a stupire, se Cicerone nelle sue Filosofiche opere altro non faccia comunemente, che disputare e produr le ragioni delle diverse sentenze, senza decidere cosa alcuna; e non è pure a stupire, che parli in diverse occasioni diversamente, e che sembri ora ammettere la Divinità, ora negarla, e che in un luogo e’ si mostri inclinato a pensare, che l’anima viva ancor dopo morte, nell’altro si mostri persuaso, che colla morte ogni cosa abbia fine. Di queste opposte opinioni niuna secondo i principj della sua Setta egli stimava certa; e se una gli pareva più verisimil dell’altra, non ardiva egli, o non voleva, secondo gli stessi principj, dichiarare apertamente il suo parere. Perciò secondo le circostanze diverse ei parla diversamente, e se alcuna cosa afferma, afferma ciò, che sapeva piacere a quelli, a cui i suoi libri o le sue lettere erano indirizzate. Così veggiamo, che le massime Epicuree o le Stoiche egli sembra adottare talvolta, quando scrive a Stoici o ad Epicurei. IX. Nondimeno, esaminando attentamente ogni cosa, a me pare, che Cicerone inclinasse alle opinioni di una soda e verace Filosofia, quale dallo stesso lume della ragione ci viene insegnata. I sei libri della Repubblica, i quali a nostro gran danno si son perduti, sembra che fosser l’opera più di tutte cara al suo autore22, e in cui più chiaramente che in ogni altra spiegasse i suoi sentimenti. Or nel bellissimo frammento, che di essi ci è rimasto, intitolato il Sogno di Scipione, noi veggiamo l’immortalità dell’anima spiegata e confermata sì fortemente, che ci può essere un sicuro pegno de’ sinceri sentimenti di Cicerone. Alcuni altri passi ce ne han conservati Lattanzio e S. Agostino, che anche al più saggio tra’ Cristiani Filosofi potrebbonsi attribuire. Rechiamone un sol passo sulle legge di natura riferito da Lattanzio23, in cui vedremo i più importanti dogmi della Religion naturale maravigliosamente spiegati: Est quidem vero lex, dic’egli, recta ratio, naturæ congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet, aut vetat, nec improbos jubendo, aut vetando movet. Huic legi nec abrogari fas est, neque derogari ex hac aliquid licet, neque tota abrogari potest. Nec vero aut per Senatum aut per populum solvi hac lege possumus. Neque est quærendus explanator aut interpres ejus alius: nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac; sed & omnes gentes, & omni tempore una lex & sempiterna & immortalis continebit; unusque erit communis quasi magister & Imperator omnium Deus ille legis hujus inventor, disceptator, lator: cui qui non parebit, ipse se fugiet, ac natura hominis aspernabitur, atque hoc ipso luet maximas poenas, etiamsi cetera supplicia, quæ putantur, effugerit. Veggasi inoltre il suo Trattato delle leggi, nel quale parlando egli col suo amicissimo Attico e con Quinto suo fratello non dovette certo usare di dissimulazione, veggasi, dico, con qual gravità egli parli di Dio, negando che nazione alcuna vi sia, la quale qualche notizia non abbia dell’Esser Supremo24: Nulla gens est neque tam immansueta, neque tam fera, quæ non, etiamsi ignoret, qualem habere Deum deceat, tamen habendum sciat; ex quo efficitur illud, ut is agnoscat Deum, qui, unde ortus sit, quasi recordetur ac noscat. E in un frammento del libro de Consolatione da lui scritto due anni soli innanzi morte, serbatoci da Lattanzio25: Nec vero Deus ipse, qui intelligitur a nobis, alio modo intelligi potest, nisi mens soluta quædam ac libera, segregata ab omni concretione mortali, omnia sentiens ac movens26. Da tutte le quali cose a me apre di poter conchiudere probabilmente, che né Ateo né Sceptico fu Cicerone, ch’egli ebbe lume a conoscer que’ dogmi, che dalla ragione ci vengono insegnati, e che, se ne’ suoi libri sembra talor dubitarne, ciò non fu, perché veramente ne dubitasse, ma o perché non voleva, secondo il costume della sua Setta, troppo chiaramente spiegarsi, o perché si adattava alle persone, a cui volgeva il discorso, o perché finalmente le tenebre del Gentilesimo, fralle quali era involto, e le passioni sue stesse talvolta lo ingombravan per modo, che quel lume ancora in lui oscuravano, che soleva comunemente risplendergli alla mente. Veggasi su questo proposito una bella Dissertazione dell’Oetellio27, in cui pruova, quanto giustamente sentissero Cicerone e Platone intorno l’immortalità dell’anima, e confuta le ragioni dell’Inglese Warburton, che di questi due valentuomini avea fatti due Atei. E veggansi ancora i più recenti Apologisti della Religione, i quali trattando di questo argomento medesimo hanno ribattuto il sentimento di alcuni moderni Filosofi, e 179 particolarmente degli Enciclopedisti, i quali28 hanno affermato, che quasi tutti gli antichi filosofi, e nominatamente Cicerone, negarono che l’anima fosse immortale. X. Per ciò che appartiene alla Morale di Cicerone, che egli espresse singolarmente ne’ suoi libri degli Ufficj, so che da alcuni ella è stata censurata severamente. Il P. Buffier tra gli altri nel suo Trattato della Società Civile molte cose ha trovato a riprendere in questi libri, e quanto al metodo, che in essi tien Cicerone, e quanto alle massime, che v’insegna. E l’anno 1695 fu stampato in Parigi un libro di Autor Anonimo con questo titolo: Discernimento della vera e della falsa Morale, in cui si fa vedere il falso degli Ufficj di Cicerone, de’ libri dell’Amicizia, e della Vecchiezza, e de’ Paradossi. Ma altri ne sentono diversamente; né è mancato chi a’ libri degli Ufficj abbia dato il nome di Evangelio della Legge di Natura29. Il celebre Barbeyrac nella Prefazione premessa all’Opera del Puffendorf Del Diritto delle Natura e delle Genti dice30, che questo eccellente Trattato noto a tutti è il miglior Trattato di Morale di tutta l’antichità, che noi abbiamo, il più regolare e il più metodico, e quello che più si accosta a un sistema compito ed esatto. Veggansi anche la Prefazione premessa da M. du Bois alla Traduzion Francese da lui fatta di questi libri. Non vuol già negarsi, che alcune massime false siano in essi sparse. Ma qual maraviglia, che un uom Gentile non giugnesse in alcune cose a conoscere il vero! Ciò che sopra si è detto della Religione, vale a questo luogo ancora. XI. Molte delle Opere Filosofiche di Cicerone si son conservate; ma molte altre ne sono infelicemente perite. Tralle altre i soprammentovati suoi libri della Repubblica, una delle migliori opere da lui composte, e i celebri libri della Gloria, ne’ quali è verisimile, che tutta la sua eloquenza egli dispiegasse nel ragionare di un argomento, che troppo era per lui desiderabile e dolce. Così pure si è smarrito il suo Ortensio, ossia un libro delle lodi della Filosofia, il quale era ben degno di essere conservato, poiché S. Agostino racconta31, che alla lettura, ch’egli ne fece, sentissi fortemente per la prima volta eccitare allo studio della sapienza. XII. Prima di passar oltre in questo argomento, due punti di Storia Letteraria ci si offrono qui ad esaminare, che ad esso appartengono, cioè le accuse date a due Letterati Italiani, Pietro Alcionio e Carlo Sigonio, tacciato il primo di aver soppressa l’Opera De Gloria di Cicerone fino a lui pervenuta. dopo essersi fatto bello de’ migliori passi di essa nel suo libro de Exilio, l’altro di aver dato alla luce un suo Trattato De Consolatione, fingendo che fosse quel desso, cui sappiamo, che da Ciceron fu composto nella morte della diletta sua Tullia. E quanto al primo è certo, che a’ tempi di Francesco Petrarca conservavasi ancora almeno un esemplare de’ libri de Gloria. Narra egli stesso assai lungamente32, in qual maniera eragli esso venuto alle mani, e come poscia l’avea smarrito. Raimondo Soranzo, ch’egli latinamente chiama Superantius, e il dice venerabile vecchio, in una copiosa sua Biblioteca avea i suddetti libri di Cicerone, e di questi insieme con alcuni altri fe dono al Petrarca. Questi aveali cari soprammodo, e stimavasene ricco non altrimenti che di un tesoro. Quando quel Convenevole da Prato, che eragli stato Maestro ne’ suoi primi anni, e che avealo sopra tutti gli altri discepoli amato sommamente e pregiato, glieli chiese in prestanza, fingendo di abbisognarne al lavoro di un’Opera, che meditava. Il Petrarca per gratitudine non glieli seppe negare. Dopo molti anni non udendone più novella, ne chiese al maestro più volte; il quale or con uno or con altro pretesto si andava schermendo. Pressato confessò finalmente, che stretto da povertà aveali dati a pegno. Avrebbe pur voluto sapere il Petrarca, in cui mani si fossero, pronto a riscattarli anche a danaro; ma il maestro per rossore non mai si condusse a nominarglielo, né quegli ebbe cuore ad usare più forti mezzi. Morì finalmente il Maestro in Toscana, mentre il Petrarca stavasene in Francia; e questi tentò poscia in vano ogni via per averne contezza, e per ricuperarli. D’allora in poi non si fece per lungo tempo menzione di questo libro. Abbiamo bensì una lettera di Beato Renano scritta al Pirckaimero l’anno 1531, dalla quale veggiamo, ch’egli si lusingava, che il detto Pirckaimero ne avesse una copia. Expectamus, gli scrive egli33, aliquid veterum librorum a te; Ciceronem de Gloria, eumdem de Vita beata, quasdam ejus oratione &c. nisi tanto thesauro solus frui vis. An fabulam narravit ille noster? Le quali ultime parole, che dal Fabricio34 non sono state avvertite, ci fan conoscere, che il Renano solo per altrui relazione sapeva di tai libri esistenti presso 180 l’amico, e che nascevagli qualche dubbio, che colui non gli avesse narrata una fola. E così convien dire, che fosse, poiché di questa copia più non si udì motto. XIII. Non così di quella, che per testimonio di Paolo Manuzio era nella Biblioteca di Bernardo Giustiniani; poiché da questa è venuta l’accusa contro l’Alcionio. Veggiamo prima ciò, che ne narra il Manuzio. Questi libri, egli dice35, durarono fino all’età de’ nostri Padri. Perciocché Bernardo Giustiniani nell’Indice de’ suoi libri registra Cicerone de Gloria. Avendo questi lasciata per legato tutta la sua Biblioteca a un Monastero di Monache, questo libro cercato poscia con gran diligenza non si poté mai rinvenire. Tutti ebber per fermo, che Pietro Alcionio, a cui essendo egli lor Medico, permettevano le Monache di ricercare la loro Biblioteca, l’avesse scaltramente involato. E certo nella sua Operetta dell’Esilio alcune cose si incontrano, che sembrano non già dell’Alcionio, ma di qualche più valente Scrittore. Fin qui egli. Verso il medesimo tempo la stessa accusa fu data all’Alcionio da Paolo Giovio ne’ suoi Elogj stampati la prima volta l’anno 1546, benché ei non racconti, in qual maniera egli venisse ad ottenere l’opera di Cicerone, né affermi costantemente il fatto, ma dica solo, che ne fu gran sospetto. Il Fabricio36 e dopo lui il Conte Mazzuchelli37 citano per confermatori dello stesso letterario furto dell’Alcionio Cristoforo Longolio nelle sue lettere, il Giraldi nel libro de’ Poeti del suo tempo, e Pier Vettori nella Prefazione a’ suoi Comenti sopra la Poetica di Aristotile, oltre altri recenti, l’autorità de’ quali non giova, se non quanto è sostenuta dagli antichi. Ma quanto a’ tre mentovati autori, io ho cercati e letti i passi dal Fabricio e dal Conte Mazzuchelli allegati, e non vi ho trovato vestigio di questo furto attribuito all’Alcionio: così poco convien fidarsi alle altrui citazioni, a chi vuole scrivere esattamente. Tutta la forza adunque di tale accusa si riduce al testimonio e all’autorità del Manuzio e del Giovio. Ma quante cose si uniscono a combatterla, e ad atterrarla! Essi narrano cosa da’ loro tempi lontana assai; perciocché Bernardo Giustiniani, di cui si dice, che lasciasse per testamento alle Monache con altri libri quelli ancora de Gloria, era morto l’anno 148938, e questi due autori scrivevano verso la metà del secolo seguente. Inoltre il Giustiniani visse venti e più anni, dacché la stampa era introdotta in Italia. E’ egli possibile, che un uomo colto, come egli era, non cercasse di dare alla luce quest’opera di Cicerone, sapendo singolarmente, quanto ella fosse rara? Inoltre l’Alcionio non fu di ciò accusato, se non quando più non poteva difendersi. Il suo libro de Exilio fu stampato dal vecchio Aldo nel 1522, ed egli morì o alla fine del 1527 o al principio del 152839, cioè molti anni prima, che il Manuzio e il Giovio lo accusassero. Degli Autori, che scrissero lui vivente, niuno gli rimproverò questo letterario delitto; il che certamente non avrebbon lasciato di fare, trattandosi di un uomo, che era odiato ed invidiato al sommo dalla più parte de’ dotti, che allor vivevano40. Anzi Pierio Valeriano, che visse al tempo stesso dell’Alcionio, lo accusa bensì di aver soppressa un’opera Matematica di Pietro Marcello; ma di quest’altro fatto non dice motto. E il Longolio, che pur gli era contemporaneo e poco amico, come dalle sue lettere si raccoglie, nulla ne accenna egli pure. Anzi abbiamo una Lettera di Celio Calcagnino a Gianfrancesco Pico Principe della Mirandola41, in cui, mandandogli copia di questo libro dell’Alcionio, gliene dice gran lodi. Quindi par verisimile, che sia questa una calunniosa accusa da’ nimici dell’Alcionio divolgata, quando egli non poteva fare più le sue difese. E certo quel legato di libri fatto dal Giustiniani a un Monastero di Monache (che Monacharum veramente leggesi in tutte le edizioni del Manuzio, e non Monachorum, come ha letto il Fabricio) parmi troppo ridicolo ed improbabile; e molto più che non dicesi precisamente, qual fosse il Monastero. XIV. Queste ragioni hanno determinato molti de’ moderni Scrittori a difendere l’Alcionio da tale accusa; e si può vedere, quanto su ciò hanno scritto il Menckenio42, Giovanni le Clerc43, gli autori del Giornale d’Italia44, ed altri. Due lettere su questo argomento aveva scritte il celebre Magliabecchi al Menckenio, le quali molti lumi ci avrebbono somministrato; ma esse giunsero al Menckenio, quando già il citato suo libro era uscito alla luce45; né poi sono state, ch’io sappia, date alle stampe. Il Fabricio cita una lettera intorno a questo punto del Magliabecchi, come stampata negli Atti di Lipsia dell’anno 1707, ma io non vi ho potuto trovare, che la notizia di queste lettere stesse, con un brevissimo cenno di ciò, che vi si conteneva46. Ancorché nondimeno ci mancassero tutte queste ragioni, io credo, che la sola lettura dell’opera dell’Alcionio possa bastare a difenderlo 181 da questa taccia. Io ho voluto leggerla interamente, e confesso, che non so intendere, come siasi potuta dare all’Alcionio sì fatta accusa. Perciocché o pretendesi, che egli tutta l’opera di Cicerone, o una gran parte di essa, abbia nella sua incorporata e trasfusa, o che solo qualche picciol frammento ne abbia qua e là inserito. Quanto al primo, io sfido chiunque ha letta l’opera dell’Alcionio, a dire, se ciò possa affermarsi colla menoma apparenza di probabilità. L’opera di Cicerone intorno alla Gloria altro non doveva essere certamente, che un Trattato di ciò, in che essa consista, de’ mezzi per conseguirla, de’ vantaggi, che se ne traggono, e d’altri sentimenti di tal natura. Or che ha ciò che fare coll’opera dell’Alcionio, in cui di null’altro si tratta che dell’esilio, e si mostra, che esso e gli effetti, che l’accompagnano, non sono così gravosi e molesti, come volgarmente si crede? Se si parla degli onori, ciò non è che a mostrarne la vanità, e a spiegare, come l’uom possa agevolmente viverne lungi, di che diverso certamente dovea essere il sentimento di Cicerone. Aggiungasi, che moltissimi fatti e moltissimi Autori vi si arrecano de’ tempi posteriori; che molte cose vi si raccontano dell’età stessa, a cui scrivea l’Alcionio; e che una gran parte del secondo Dialogo è indirizzata a confutare il libro di Plutarco della Vita illustre; talché, quando se ne voglian raccogliere tutti que’ passi, che a Cicerone poté involar l’Alcionio, appena se ne formeran poche pagine. Questo medesimo dunque rimarrà a dire, come abbiamo accennato, cioè che l’Alcionio abbiane alcuni periodi qua e là inseriti nella sua opera. Ma ciò a qual fine? O egli era uomo ad imitare nella sua Opera lo stile di Cicerone, e qual gloria venivagli da qualche picciola parte de’ libri de Gloria, che egli avesse inserita ne’ suoi, che tutti sarebbon sembrati di un medesimo stile? O non era uomo da tanto; e poteva egli forse sperare, che per qualche elegante periodo sarebbe paruta degna di lode l’opera tutta? O potea lusingarsi egli forse, che conosciuto non fosse il furto; e che molti non si accorgessero, non esser sue le penne, di cui andava adorno, benché forse non sapessero dire, a qual uccello fosser rapite? Come per ultimo assicurasi, che l’esemplare del libro di Cicerone, che egli avea, fosse unico veramente, e niun altro se ne potesse trovare in qualche altra Biblioteca? XV. A me dunque non sembra punto probabile, che l’Alcionio si facesse reo di tal delitto; né io leggendo il suo Trattato dell’Esilio vi scorgo quella diversità di stile, che vi ravvisava il Manuzio. Anzi, s’io debbo dire ciò che ne sento, tutto il libro dell’Alcionio a me sembra scritto con uno stile elegante per lo più e colto, ma che nondimeno troppo sia lungi dalla forza, dalla maestà, dall’eloquenza di Cicerone, il che in molti altri Scrittori di quel secolo parimenti si osserva. Io ne recherò qui un passo, cui certo non poté l’Alcionio togliere a Cicerone, e per cui io spero, che chiunque sa qualche cosa di stil Latino converrà meco nel medesimo sentimento. Così dunque, essendo caduto il discorso sul Re di Napoli Federigo, a cui di fresco era stato tolto il suo Regno, così, dico, di lui ragiona presso l’Alcionio il Cardinal Giovanni de’ Medici interlocutor principale di quel Dialogo: Invitus quidem hujus Regis mentionem feci, sed institutus de nostrorum Italorum calamitate sermo memoriam de tanto Rege refricavit. Fuit ille justis de caussis familiæ nostræ amicissimus, nec solum ante, cum Princeps Tarentinus esset, sed etiam mox quandiu Regno Neapolitano potitus est. Ita numquam me meæ fortunæ suppoenituit, ut novem ferme ab hinc annos, cum eum Mediolani vidi, quanto meo cum dolore non dico. Excesserat Neapoli anno superiore Rex ille & humanissimus & sapientissimus, summaque virtute præditus, ne regnum illud, quod conservarat, sua pertinacia aliquando everteret, ad Ludovicumque Galliæ Regem accesserat, sperans illum passurum, ut imperatis certis rebus regnum etiam obtineret suum, cum præsertim non minus gloriosum ei esset constitutum ab eodem ipso Regem, quam constrictum videri. Mediolanum autem venerat officii caussa secutus Ludovicum Regem, qui in Italiam transierat, arma extimescens Cæsaris Borgiæ, qui Imperii fines in Galliam usque Togatam protulerat. Meæ quidem fortunæ tum, ut dicebam, me maxime suppoenitebat, quod intelligebam nullam opem afflictis illius rebus nos amplius ferre posse, quemadmodum Parens noster Ferdinando Regi illius patri fecerat, cum Principum & Primorum conjuratione omni propemodum regno spoliatus esset. O spectaculum illud non modo hominibus, sed parietibus etiam ipsis & feris, luctuosum! Cedere e Regno Italico Regem Italum, atque adeo conservatorem illius; manere exteras gentes, quæ popularentur agros, vexarent 182 Urbes, non ad spem constituendi stabiliendique imperii, quod tenere non poterant, sed ad præsentem pastum mendicitatis suæ. XVI. Ribattute così le accuse date all’Alcionio dal Manuzio e dal Giovio, rimane a dir qualche cosa di alcuni Autori Francesi, che hanno voluto essi pure entrare in questo argomento. Uno è il famoso Storico, o anzi, come gli stessi Francesi il chiamano, Romanziere Varillas. Questi in un frammento della Vita di Luigi XI stampato verso l’anno 1685 avea francamente asserito, che il Filelfo (il cui nome ancora avea egli malconcio, chiamandolo Philosophe) avea soppressi i libri di Cicerone de Gloria per inserirli nelle sue opere, ed avea citato il testimonio del Giovio. Nelle Novelle della Repubblica delle Lettere47, dandosi l’estratto di questo frammento, si avvertì, che il Giovio non avea mai scritta tal cosa. Quindi negli Anecdoti di Firenze stampati l’anno 1687 il Varillas attribuì tal furto all’Alcionio, da lui trasformato in Algionus48, aggiugnendo di più un solenne errore, cioè che questi avea composto il suo libro dell’Esilio per consolare il Provveditor Cornaro esiliato da’ Veneziani per l’infelice successo della guerra contro de’ Turchi, cosa, di cui non v’ha indicio né nel libro dell’Alcionio, né presso Storico alcuno. Finalmente nella Vita intera di Luigi XI da lui stampata in Parigi l’anno 1689 (se pure non ve ne ha più antica edizione da me non veduta) tornò a ripetere la stessa fola intorno al Filelfo49; e poi soggiunse, ciò non esser ben certo, e da altri narrarsi tal cosa dell’Alcionio. Si può egli trovare Storico esatto e fedele e coerente a sé medesimo al par di questo? E nondimeno lo stesso sogno intorno al Filelfo è stato ripetuto ancora dall’Editore della Raccolta intitolata Menagiana50, benché poi nelle note siasi corretto l’errore, ripetendo ciò, che ne ha il Manuzio, senza punto esaminare il fatto. Eppure erasi già allora e dal Menckenio e dal le Clerc e dagli Autori degli Atti di Lipsia e da que’ del Giornale d’Italia posta in dubbio la verità di tal fatto. Un altro Autore Francese, il cui libro non ho potuto vedere, ma le cui parole citate son dal Fabricio51, cioè il Morlier ne’ suoi Saggi di Letteratura per la cognizione de’ libri stampati l’anno 1702, fortemente si scaglia contro coloro, che hanno asserito, che il Trattato de Gloria non è altro che quello dell’Osorio, cui un plagiario del XVI secolo pubblicò sotto il nome di questo Vescovo. Io temo però, che tutti i suoi colpi cadano a voto, perché non trovo Autore, che abbia ciò affermato. Ma è tempo di passare all’altro Autore Italiano, che di diverso delitto, ma di somigliante natura, viene accusato, cioè a Carlo Sigonio, di cui si dice, che sotto nome di Cicerone spacciasse un suo libro intitolato De Consolatione52. XVII. Di questo punto ci spedirem facilmente, che molti sono, e nelle mani di tutti, gli Scrittori, che ne favellano, Veggasi tra gli altri la Vita del Sigonio scritta dall’eruditissimo Muratori, e premessa alla edizione di tutte le opere di quel grand’uomo fatta in Milano dalla Società Palatina, la Prefazione al Tomo sesto delle stesse opere, e la Dissertazione di Goffredo Baldassarre Scharsio stampata prima nel sesto Tomo delle Miscellanee di Lipsia, e poscia nel suddetto Tomo dell’Opere del Sigonio, ove pure si leggono e il Giudicio di Antonio Riccoboni, con cui pruova non esser quella opera di Cicerone; e due Orazioni e un Dialogo dello stesso Sigonio a provare, non che essa sia veramente di Cicerone, ma che non vi è ragion bastevole a negarlo. A ridurre in breve la serie tutta del fatto, l’anno 1583 Francesco Vianelli (non Carlo, come dice il Fabricio), uomo colto e amico assai del Sigonio, diede alla luce in Venezia il libro De Consolatione, attribuendolo a Cicerone; e molti gli dierono fede. Antonio Riccoboni prima, e poscia Giano Guglielmi, seguito poi ancora da Giusto Lipsio, scrissero a provare, che degno di Cicerone non era quel libro. Il Sigonio prese a difendere caldamente l’opposta sentenza, e a sostenere, come si è detto, che non v’era fondamento bastevole a negare, che Cicerone ne fosse Autore. Il tempo ha deciso contra l’opinion del Sigonio, ed ora non vi è uomo intendente di Critica e di buona Latinità, che reputi quel libro opera di Cicerone. La quistione ancora indecisa si è, se il Sigonio ne sia stato l’Autore, e se egli abbia voluto imporre alla sua e alle seguenti età col far credere, che fosse scritto da Cicerone un libro da lui stesso composto. L’amicizia del Sigonio col Vianelli, e il calore, con cui egli prese a combattere in questa causa, sono i soli, e a mio parer troppo deboli argomenti a provarlo; che quanto a ciò, che dice il Fabricio, essere sentimento di alcuni, che lo stesso Sigonio confessasse finalmente la sua frode, di ciò, come osserva il Muratori, non vi ha pruova né indicio alcuno; e molto meno di ciò, che altri affermano, che quando ei vide, che il suo disegno non eragli riuscito, di 183 dolor ne morisse. Non vi ha dunque, a mio credere, argomento che basti a provare il Sigonio reo di tale impostura; e quando ancora il fosse, sarà a lui di non mediocre onore l’avere scritto in maniera, che molti di fatto in sulle prime si ingannassero; e a gloria pur dell’Italia dovrassi ascrivere, che la frode di un Italiano da un altro Italiano prima che da altri fosse scoperta53. Or ritorniamo a’ Filosofi del tempo, di cui ragioniamo. XVIII. Contemporaneo e amicissimo di Cicerone fu Publio Nigidio soprannomato Figulo, il quale seguito avendo nella guerra civile il partito di Pompeo fu costretto ad andarsene in esilio, e vi morì, secondo la Cronaca Eusebiana, l’anno di Roma 709. E’ celebre il fatto, onde si dice, ch’ei traesse il soprannome di Figulo, ossia Cretajo; cioè, ch’egli volendo mostrare, che diverso poteva essere il destino dalle Costellazioni fissato a due gemelli, benché nati quasi a un punto medesimo, recatosi alla bottega di un Cretajo, mentre più velocemente si aggirava la ruota, segnovvi subito un dopo l’altro due punti, i quali pareva perciò, che dovessero essere tra’ lor contigui; e nondimeno fermata la ruota si videro l’uno dall’altro discosti assai; argomento, come dice S. Agostino54, che a difendere l’Astrologia Giudiciaria è assai più fragile degli stessi vasi di creta, da cui è tratto. Ma questo racconto ancora, come osservano il Bayle55 e il Bruckero56, ha tutta l’apparenza di favoloso. Di Nigidio parla Cicerone con somma lode in una lettera a lui scritta57: Uni omnium doctissimo & sanctissimo, & maxima quondam gratia, & mihi certe amicissimo. Ma nelle lodi di Nigidio maggiormente ancor si diffonde nell’esordio da lui premesso al Timeo di Platone, ch’egli recò in latino, ove così ne ragiona: Molte cose ne’ nostri libri Accademici abbiamo noi scritto de’ Fisici (che qui si prendono per Astrologi), e molto disputato ne abbiamo con Publio Nigidio secondo il costume e il metodo di Carneade. Perciocché egli fu uomo di tutte le belle arti, che di ingenuo Cittadino son degne, erudito, e singolarmente ingegnoso e diligente ricercatore di quelle cose, che sembrano più ascose nella natura. Ed io penso, che dopo que’ celebri Pittagorei, la cui setta fiorita già per alcuni secoli in Italia ed in Sicilia ora è come svanita, fosse questi il primo, che la rinnovasse. Né con minor lode ne parla Aulo Gellio, il quale chiama Nigidio uomo eccellente nello studio delle bell’Arti58, e uno de’ sostegni della multiplice erudizione e delle scienze, che vissero al tempo di Cicerone59. XIX. Questi Elogj ci conducono agevolmente a un’alta stima del saper di Nigidio. Ma, se io debbo sinceramente dire ciò che ne sento, in questo sapere a me pare, che molto vi avesse dell’impostura. Affettava Nigidio una cotal sua maniera di favellare sottile, misteriosa, ed oscura, quale spesso si usa da chi dicendo cose da nulla vuol nondimeno sembrare di dir cose grandi. Ne abbiamo un testimonio in Gellio, il qual dice, che le Opere di Nigidio per la sottigliezza e oscurità loro eran quasi dimenticate: Nigidianæ commentationes non proinde in vulgus exeunt, & obscuritas subtilitasque earum, tamquam parum utilis, derelicta est60, e prosiegue recandone un saggio tratto da certi suoi libri Gramaticali. Con questa maniera di scrivere enigmatica e oscura non è maraviglia, che tanto più dotti venissero riputati gli scritti di Nigidio, quanto meno erano intesi. Innoltre Nigidio fu superstizioso coltivatore dell’Astrologia Giudiciaria. Il Bruckero rigetta come favolosi racconti que’, che si spacciano intorno alle cose da lui con tal arte predette61. E sono anch’io ben lungi dal credere, che alcuna cosa ei potesse raccogliere dalle stelle a predire le umane vicende. Ma che nondimeno ei si prendesse l’inutil pena di consultarle, e credesse di poter con tal mezzo conoscere le cose avvenire, parmi che non si possa rivocare in dubbio. Le cose che Dione62, Svetonio63, Apulejo64, e Lucano65 narrano essere state da lui predette, benché io le creda false, bastano nondimeno a farci conoscere la fama di valente Astrologo, ch’egli si era acquistata; e parmi, che l’oscurità stessa, che Gellio gli attribuisce, e l’esame delle cose più occulte della natura, di che lodalo Cicerone, confermi questo mio pensiero, che è ancora del Bayle, il quale lungamente ne tratta66. E a ciò dee ascriversi quel che narra Dione67, ch’egli fu da alcuni creduto versato nelle Arti Magiche. In fatti a questi tempi, in cui non erano ancora i Romani nello studio della Fisica e della buona Astronomia molto innoltrati, era assai facile ad avvenire, che uno, il qual si vantava di leggere, per così dir, nelle stelle, e che con oscuri enigmi, di cui probabilmente non intendeva egli pure il senso, prediceva le cose avvenire, salisse perciò a grandissima stima. In fatti delle altre superstizioni ancora era Nigidio grande ricercatore; e ne abbiamo in pruova i titoli di molti libri da 184 lui scritti de animalibus, de extis, de auguriis, de hominum naturalibus, e di altri somiglianti argomenti68. A me sembra, che queste ragioni abbastanza ci persuadano, che Nigidio era anzi un Astrologo superstizioso che un dotto Filosofo. Confesso nondimeno, che grande difficoltà si muove a questa opinione dalle lodi, di cui Nigidio è stato onorato da Cicerone, uomo certamente difficile ad ingannarsi in ciò che è sapere, e della Astrologia Giudiciaria saggio disprezzatore. E quindi ci convien confessare, che troppo è oscuro ciò, che appartiene a Nigidio, perché di lui e della sua dottrina si possa parlare sicuramente. Intorno a lui si può ancora vedere l’estratto di una Dissertazione di M. de Burigny, che ne ha diligentemente raccolte le migliori notizie69. XX. L’essersi a questo luogo per la prima volta da me mentovata l’Astrologia Giudiciaria mi dà occasione di esaminar qui brevemente, qual origine e qual successo avesse ella presso i Romani. Io non ne trovo indicio in Roma fino all’anno 614. Perciocché Valerio Massimo narra70, che in quest’anno il Pretore C. Cornelio Ispalo comandò, che entro dieci giorni i Caldei partisser di Roma, uomini, soggiugne questo scrittore, i quali coll’ingannevole osservazion delle stelle avvolgevano entro una lucrosa caligine le lor menzogne. Convien dire adunque, che verso quel tempo alcuni o veramente Caldei, o così chiamati, perché ad imitazion di que’ popoli consultavan le stelle, cominciassero ad introdursi in Roma, e ad esercitarvi la loro arte. Ma non pare, che questo Editto, con cui furono gli Astrologi cacciati da Roma, fosse lungo tempo in vigore. Il Freinshemio racconta71, che quando il Console Gneo Ottavio fu crudelmente ucciso per ordine del suo Collega Cinna l’anno 666, se gli trovarono in seno alcune tavolette di segni celesti, quali appunto usavansi da’ Caldei, indicio dello studio, ch’ei faceva di quest’arte. Egli cita per testimonio di ciò Diodoro Siculo; Ma io non vi ho potuta trovare tal cosa. Certo è però, che a’ tempi di Cicerone molti Caldei erano in Roma. Quam multa ego, dic’egli72, Pompejo, quam multa Crasso, quam multa huic ipsi Cæsari a Chaldæis dicta memini, neminem eorum nisi senectute, nisi domi, nisi cum claritate esse moriturum! E poco prima nomina un certo L. Taruzio Fermano, di cui dice, che in cotali studj era versato assai. Due volte nell’Impero di Augusto fu di nuovo comandato a’ Caldei di uscir da Roma, la prima volta per ordine del Pretore Agrippa l’anno 72173, la seconda per ordine dello stesso Augusto l’anno 76174. Ma questi replicati comandi non bastarono ad estirpare questa superstizione; e noi vedremo, che somiglianti Editti pubblicati ancora più volte ne’ tempi avvenire furon sempre inutili, e vi ebbe ad ogni tempo in Roma e Astrologi impostori e sciocchi adoratori degli Astrologi. XXI. Altri illustri coltivatori della Filosofia vissero a questo tempo, fra’ quali celebri furono singolarmente i due Sestii Padre e Figlio. Il Padre vissuto a’ tempi di Giulio Cesare ricusò gli onori, a cui questi volea sollevarlo75. Di lui parlano con molta lode Seneca76, Plinio il Vecchio77, e Plutarco78, e il primo singolarmente esalta fino alle stelle un libro da lui composto79. Egli insieme col Figlio volle una nuova Setta Filosofica introdurre in Roma, la quale doveva essere in gran parte composta dal sistema Pittagorico, ma misto collo Stoico; e che da Seneca dicesi80 Setta nuova e di Romana fortezza. Ma questa fortezza non era adattata a tempi troppo corrotti, e perciò questa Setta, come soggiugne Seneca, dopo aver cominciato con grande ardore venne subito meno; di che Sestio il Padre fu così afflitto, che poco mancò, che non si gittasse in mare81. Egli, benché Romano, scrisse in Greco; e un libro abbiam di Sentenze sotto il nome di Sesto Pittagoreo, che fu già recato in latino da Rufino, e da lui attribuito al Pontefice Sisto II. S. Agostino per l’autorità di questo traduttore credette, che esse fossero veramente di Sisto; ma poi avvertitone da S. Girolamo ritrattò il suo errore82. Nondimeno Urbano Goffredo Sibero, che una nuova edizione ne fece in Lipsia l’anno 1725 ha usato di ogni sforzo per persuaderci, ch’esse son veramente opera del detto Pontefice, e non già del Filosofo Sestio, di cui parliamo. Veggansi presso il Bruckero83 le ragioni da lui allegate colle osservazioni, ch’egli vi aggiugne a mostrare, ch’esse non sono sì convincenti, come il Sibero si lusinga. Aggiungansi inoltre M. Bruto e M. Catone lo Stoico, degni amendue di lode per l’impegno, con cui difesero l’antica libertà di Roma, ma degno non men di biasimo per le disperate risoluzioni, a cui per ciò si condussero. Di Catone non sappiamo, che scrivesse alcun libro. Bruto lodato ancora per eloquenza avea scritto opere Filosofiche, delle quali parla con somma lode Cicerone dicendo, che in tal maniera avea trattata la Filosofia in Latino linguaggio, che nulla avea omai da invidiare a’ Greci84. Degli argomenti da Bruto in essa trattati, e di altre cose a lui appartenenti si vegga il 185 Bruckero85, il quale rammenta ancora altri Romani Filosofi di varie sette, che vissero a’ tempi di Cesare e di Augusto, e molti stranieri ancora, che a Roma accorsero per ottenervi e fama e ricchezze. Troppo nojosa cosa mi sembra il trattenermi o in ripetere o in compendiare ciò, che da altri in questo genere è già stato diligentemente raccolto, e diffusamente narrato. Io dunque, rimettendo chi è vago di più saperne al lodato Bruckero, accennerò qui solamente una Matrona Romana, che nello studio della Filosofia andò del pari co’ più dotti uomini di quel tempo, cioè Cerellia, di cui più volte fa menzion Cicerone, e la dice mirifice studio Philosophiæ flagrans86. Dell’amicizia, che Cicerone mostrò per Cerellia si valse poscia Dione87 a calunniarlo. Ma ognun sa, qual fede si debba in tale argomento a uno Storico, il quale pare che si prendesse di mira l’oscurare, quanto più gli era possibile, la fama di sì grand’uomo. XXII. Rimane ora a esaminare i progressi, che fecero a questo tempo i Romani nelle scienze Matematiche, prese in quella parte ancora, in cui alla Fisica appartengono. Nell’Epoca precedente si è recato un passo di Cicerone, in cui si duole, che la Matematica assai poco, singolarmente ne’ tempi più antichi, coltivata fosse in Roma. Egli stesso nondimeno rende quest’onorevole testimonianza a Sesto Pompeo figlio di Sesto Pompeo Strabone, che essendo uomo di singolare ingegno, non solo ne Diritto e nella Stoica Filosofia, ma nella Geometria ancora divenne illustre: Dicebat etiam L. Scipio non imperite, Gnæusque Pompejus Sex. filius aliquem numerum obtinebat. Nam Sextus frater ejus præstantissimum ingenium contulerat ad summam juris civilis & ad perfectam Geometriæ & rerum Stoicarum scientiam88; e altrove: in Geometria Sex. Pompejum ipsi cognovimus89. Ma intorno a questo Geometra null’altro sappiamo. Il dotto Varrone, che in tutte le scienze avea fatti non ordinarj progressi, di questa ancora avea lasciato a’ posteri qualche monumento; perciocché tra’ nove libri intitolati Delle Discipline uno ve ne avea di Aritmetica, di cui il Fabricio col testimonio di Vetranio Mauro afferma90, essersi conservata copia in Roma fino al secolo XIV. Ed è ben verisimile, che la Geometria ancora avesse trattata in quell’opera, perché vedremo or ora, che scrisse anche intorno all’Architettura, la quale ne suppone una non leggier cognizione91. Noi troviamo innoltre nominato in Boezio un certo Albino, che scritti avea libri di Geometria e di Dialettica, benché di questi ultimi dica Boezio, che non avea mai potuto vederne esemplare alcuno: Albinus quoque de iisdem rebus scripsisse perhibetur; cujus ego Geometricos quidem libros editos scio, de Dialectica vero diu multumque quæsitos reperire non valui92. Chi fosse questo Albino, e a qual tempo vivesse Boezio nol dice; ma parlandone egli come di antico autore, ci si rende verisimile, ch’egli vivesse presso al tempo, di cui trattiamo. XXIII. Pruove ancora più chiare del suo sapere nelle Matematiche e nella Geometria singolarmente ci ha lasciate il celebre Marco, o come altri vogliono, Lucio Vitruvio Pollione, i cui libri di Architettura sono felicemente fino a noi pervenuti. Di questo valentuomo scrisse già la vita Bernardino Baldi, che fu poi con note illustrata dal Marchese Giovanni Poleni93. Più diligentemente ella è stata scritta dal Marchese Berardo Galiani nella magnifica edizione di Vitruvio da lui tradotto e comentato eruditamente fatta in Napoli l’anno 1758. Ciò non ostante assai poco è ciò, che di lui noi sappiamo. E fin la sua patria non è abbastanza certo qual fosse. Il Marchese Maffei inclina a crederlo Veronese94, non già appoggiato all’Iscrizione di un Arco ivi ancor sussistente, in cui si fa menzione di un L. Vitruvio Cerdone Architetto; perciocché confessa lo stesso dotto scrittore, non potersi essa intendere del nostro Vitruvio; ma sì all’antica e universal tradizione de’ Veronesi. A questa tradizione però sembra che non troppo si affidi il Marchese Galiani, perciocché egli pensa più verisimile, che Vitruvio nativo fosse di Formie, oggi Mola di Gaeta; ed è certamente assai buona la ragione, ch’egli ne adduce, cioè le parecchie Iscrizioni ivi disotterrate, appartenenti alla Gente Vitruvia. Checchessia di ciò egli è certo, che Vitruvio fiorì a’ tempi di Augusto, a cui dedicò i suoi libri, e che da lui fu impiegato alla cura delle macchine militari, com’egli stesso afferma95. Pare nondimeno, che grande fama egli non ottenesse vivendo, come spesso ai più grandi uomini è avvenuto. Certo e’ si duole, che la protezione e il favore agli ignoranti veniva accordato anzi che a’ dotti: Et animadverto, potius indoctos quam doctos gratia superare; non esse certandum judicans cum indoctis ambitione, potius his præceptis editis ostendam nostræ scientiæ virtutem96. Di quella fama però, che vivo per avventura ei non ottenne, la posterità gli è stata più liberale; come ben si 186 raccoglie e dalle tante edizioni, che si son fatte de’ suoi libri, e da’ tanti comenti, con cui da dotti uomini è stato illustrato. Di lui veggasi ancora il Fabricio97. XXIV. A Vitruvio siamo ancor debitori della memoria, ch’egli ci ha lasciata di alcuni altri, che innanzi a lui sull’argomento medesimo aveano scritto. Duolsi egli dapprima, che i Greci più che i Romani siano stati solleciti di illustrare quest’arte co’ loro libri: Animadverti in ea re ab Græcis volumina plura edita; ab nostris oppido quam pauca98. Quindi annovera questi pochi, che tra’ Romani aveano scritto libri d’Architettura. Fussitius enim mirum de his rebus primus instituit edere volumen; item Terentius Varro de novem disciplinis, unum de Architectura; Publius Septimius duo. Amplius vero in id genus scripturæ nemo incubuisse videtur, cum fuissent & antiqui cives magni Architecti, qui potuissent non minus eleganter scripta comparare. A qual età vivesse Fussizio, non possiamo indovinarlo. Varrone, e quindi ancora Settimio, che dopo Varrone vien nominato, furono alla stessa età che Vitruvio. Altri ancora si trovano nominati da questo scrittore, che furono famosi Architetti, e che del loro sapere lasciarono bensì monumenti nelle lor fabbriche, ma non ne’ libri. Di questi perciò noi avremo a trattare, ove parleremo del fiorire che fecero tra’ Romani le belle Arti. XXV. Tra’ matematici più illustri di Roma io non temerò di annoverare ancor Giulio Cesare. Già abbiam di sopra osservato, che il maraviglioso ponte da lui fatto innalzare sul Reno, ed ancora le sue macchine militari, e le descrizioni, ch’egli ce ne ha lasciato, ci fan conoscere, quanto egli fosse versato in tali studj. Ma un monumento assai più illustre noi ne abbiamo, cioè la riforma del Calendario Romano. Fra i molti studj, a’ quali in mezzo alle gravissime sue occupazioni attese Cesare, fu quello dell’Astronomia. Quindi Lucano ce lo rappresenta intento ad osservare i movimenti delle stelle, e così gli fa dire: Media inter prælia semper Stellarum coelique plagis superisque vacavi; Nec meus Eudoxi vincetur fastibus annus99. Di lui dice Macrobio100, che intorno al corso delle stelle lasciò scritti libri eruditi, i quali rammentati vengon più volte da Plinio il vecchio101. Veggasi l’erudito Giulio Pontedera, che ha raccolti ed illustrati i diversi passi di Cesare su tal argomento102, i quali da Plinio ci sono stati conservati. Egli è vero, che Giulio Firmico afferma103, che poche linee egli ne scrisse, e queste ancora prese dagli altrui libri. Ma ancorché ciò fosse vero, non si potrà certo negare, che questo studio non fosse da lui diligentemente coltivato. Or questa scienza Astronomica fece, che Cesare conoscesse, in qual disordine fosse allora il regolamento dell’anno. Romolo e Numa avean prescritte su questo articolo quelle leggi, che allor si crederono opportune. Ma né esse bastavano, perché i tempi dell’anno fossero, come si conveniva, regolatamente distribuiti, e queste ancora da’ Pontefici, a’ quali ne era affidata l’esecuzione, non furono fedelmente osservate. Quindi al tempo di Cesare era la confusione giunta a tal segno, che le stagioni non corrispondevano punto a’ lor proprj tempi dell’anno. Egli adunque coll’opera di Sosigene104 celebre Astronomo Alessandrino, e di altri Filosofi e Matematici rinomati, fra’ quali Macrobio nomina singolarmente un Romano, detto Marco Flavio105, intraprese la riforma del Calendario. Convenne all’anno, che allor correva, che era il 708 di Roma, aggiugnere due mesi interi e più, cioè 67 giorni, ch’egli frappose fra il Novembre e il Dicembre106. Quindi ordinò, che l’anno fosse in avvenire composto di 365 giorni, e perché allor si credeva, che l’anno fosse composto di 365 giorni e 6 ore precisamente, volle che ogni quarto anno, in cui queste sei ore quattro volte unite insieme avrebbon formato un giorno intero, un giorno appunto si aggiugnesse, ponendolo fra i 24 e i 25 di Febbrajo. Ma i Pontefici, che non sapevan troppo d’Astronomia, non ben eseguirono i comandi di Cesare; e pel corso di 36 anni aggiunsero il giorno intercalare, non ogni quarto, ma ogni terzo anno; dacché ne venne, che nello spazio di que’ 36 anni, in cui nove giorni solo avrebbon dovuto interporsi, se ne interposero veramente dodici. Del quale errore avvedutosi poscia Augusto, a correggerlo, e a togliere que’ tre giorni, che fuor di legge eransi aggiunti, ordinò che per lo spazio di dodici anni niun giorno s’interponesse. Questa fu in somma la riforma del Calendario fatta da Cesare, che io ho qui voluto solo accennar brevemente, poiché tutti gli antichi e moderni Storici, e gli Astronomi e i Cronologi tutti ne parlano diffusamente107. 187 XXVI. All’Astronomia ancora appartiene il famoso Obelisco da Augusto fatto trasportar dall’Egitto, e innalzato nel Campo di Marte, e gli ornamenti, che egli vi aggiunse. E’ celebre per le contese tra’ Matematici e tra altri uomini eruditi insorte il passo di Plinio, in cui ne ragiona; controversie, a cui han data occasione e le diverse maniere, con cui in diversi Codici si legge il detto passo, e il vario senso, in cui si possono intendere le parole stesse di Plinio. Io qui recherollo secondo l’edizione del P. Harduino108. Ei (obelisco), qui est in Campo, Divus Augustus addidit mirabilem usum ad deprehendendas solis umbras, dierumque ac noctium ita magnitudines, strato lapide ad magnitudinem Obelisci, cui par fieret umbra brumæ confectæ die, sexta hora; paulatimque per regulas (quæ sunt ex ære inclusæ) singulis diebus decresceret, ac rursus augescert; digna cognitu res & ingenio foecundo Mathematici. Apici auratam pilam addidit; cujus umbra vertice colligeretur in se ipsa, alias enormiter jaculante apice, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta. Or due sono singolarmente le cose, che a questo luogo cadono in quistione. La prima si è, se Plinio ci voglia qui descrivere un Orologio solare, ovvero un gnomone, ossia una linea meridiana. A me non appartiene il decidere tal contesa, che nulla ha di comune coll’argomento, di cui ho preso a trattare. Solo rifletto, che il parere di molti uomini eruditi, e singolarmente de’ più dotti Matematici di questo secolo, è, che un gnomone sia quello, che qui da Plinio ci vien descritto. Veggasi su ciò il dottissimo libro, che il Canonico Angiolo Maria Bandini, ora Bibliotecario della Laurenziana in Firenze, su quest’argomento pubblicò in Roma l’anno 1750, cioè due anni soli, da che quest’obelisco medesimo era stato disotterrato a’ tempi di Benedetto XIV, per opera del celebre Niccolò Zabaglia. In questo libro egli ha prodotto le lettere di molti chiarissimi uomini, e tra essi del P. Boscovich, del Marchese Poleni, del Marinoni, dell’Eulero, e di Cristiano Wolfio, per tacer d’altri non Matematici, i quali tutti concordemente sostengono, che di un gnomone e non di un Orologio solare debbansi intendere le allegate parole. Ciò non ostante il chiarissimo Conte Antongiuseppe della Torre di Rezzonico nelle erudite sue Disquisizioni Pliniane appoggiato all’autorità di alcuni Codici, ne’ quali leggesi dierumque ac noctium horas, sostiene109, che di un Orologio solare si debba intendere quel passo. Io lascio, che ognun segua qual opinion più gli piaccia; poiché ugualmente versato in Astronomia esser doveva l’inventore di quella macchina, o essa fosse un gnomone, o fosse un Orologio solare. XXVII. L’altra quistione, che è più propria del nostro argomento, si è, chi sia il Matematico valoroso, a cui la gloria della costruzione di questo o orologio o gnomone si debba concedere. Le antiche edizioni di Plinio ne davan la lode a un certo Manlio; perciocché ove nell’edizione del P. Harduino si legge: Ingenio foecundo Mathematici. Apici auratam &c., nelle antiche leggevasi: Ingenio foecundo. Manlius Mathematicus apici auratam &c. Il P. Harduino afferma, che niuno de’ Codici manoscritti da lui veduti nomina Manlio; e che tutti hanno quel passo, come egli l’ha riferito. Resterebbe dunque incerto, chi fosse il Matematico da Plinio disegnato. Ma il soprallodato Canonico Bandini un’altra lezione ha trovata in due Codici antichissimi delle celebri Biblioteche di Firenze, la Laurenziana e la Riccardiana, ne’ quali così sta scritto: Digna cognitu res ingenio Facundin. L. Mathematicis (così è stampato, forse in vece di Mathematici) apici auratam &c. Ed ecco un Facundino Matematico e Liberto (perciocché, che la lettera L. così debba spiegarsi, l’esempio di mille Iscrizioni cel persuade), a cui secondo la lezione di questi Codici sembra, che una tal lode debbasi attribuire. Confesso però, che non parmi ancor la cosa così accertata, che non possa rivocarsi in dubbio. Comunque grande sia l’autorità de’ due Codici Fiorentini, troppo grande è il numero degli altri, in cui si legge diversamente. Così riflette anche il soprallodato celebre Autore delle Disquisizioni Pliniane, il quale pensa, che seguir si debba la lezione di varj Codici da lui veduti, che hanno Manilius110. Onde a me pare, che su questo punto ci sia forza il restare tuttora al bujo. XXVIII. La menzione, che fatta abbiamo di questo Obelisco, ci conduce a dir ancor qualche cosa degli Orologi Solari, ed a ricercare, a qual tempo cominciassero ad essere usati in Roma. Niuna cosa ci fa meglio conoscere la rozzezza de’ Romani ne’ primi secoli, quanto ciò, che della loro maniera di misurare le ore ci narra Plinio111. Nelle leggi delle XII Tavole non facevasi menzione alcuna di ore, come se non se ne avesse idea; e solo vi si nominava il nascere e il 188 tramontare del Sole. Alcuni anni dappoi cominciarono i Romani ad avvedersi, che eravi anche un tempo, il quale chiamar potevasi mezzo giorno, e che opportuna cosa sarebbe stata, se gli uomini ne fossero avvertiti. Diedesi dunque l’incarico al banditore ossia trombetta del Console di darne pubblicamente avviso, quando avesse veduto il Sole giunto a un tal segno; il che pure facevasi all’ultima ora del giorno. Così duraron lo cose per alcun tempo, cioè almeno fino all’anno di Roma 460. Perciocché un antico Storico detto da Plinio Fabio Vestale avea lasciato scritto, che Lucio Papirio Cursore era stato il primo, che un Orologio Solare avea fatto costruire in Roma dodici, o, come legge il P. Harduino, undici anni innanzi la guerra di Pirro, che ebbe principio l’anno 472. Ma pare, che l’introduzione degli Orologi Solari in Roma debbasi di alcuni anni ancor ritardare. Perciocché Plinio soggiunge, diverso essere il sentimento di M. Varrone, e che questi narrava, che M. Valerio Messala era stato il primo, che avendone trovato uno in Catania da lui espugnata, aveal seco dalla Sicilia portato insiem colle spoglie del trionfo, e fattolo poi collocare nel Foro vicino a’ Rostri, trent’anni dopo l’Epoca sopraccitata, cioè l’anno 491. Il che pure confermasi da Censorino112. Ma così valenti in Astronomia erano allora i Romani, che buonamente crederono, che un Orologio Solare adattato al Meridiano di Catania, e posto alla ventura nel Foro di Roma, dovesse esattamente segnare le ore. Videro con maraviglia, che la cosa non riusciva; e forse crederono, che gli Iddii fossero con loro sdegnati, perché da Catania trasportato avessero quell’orologio. Certo, come Plinio dice, per novantanove anni niuno vi ebbe, che pensasse a correggerlo, o a sostituirne un migliore. Finalmente l’anno 590 essendo Censore Q. Marcio Filippo, questi uno più esatto ne fece formare, e vicino all’altro il pose, di che il popolo fu sommamente lieto. Ma l’orologio era tale, come necessariamente doveva, che, se il Sole si stava ascoso tralle nubi, i Romani non potevan conoscere, qual ora corresse; finché l’anno 595 Scipione Nasica Censore cominciò ad usare degli orologi ad acqua. Tutto ciò da Plinio. XXIX. Non posso qui dissimulare gli errori, che a questo luogo ha commessi il Montucla113, il quale allega questo medesimo passo di Plinio, ma ne travolge il senso per modo, ch’io non so intendere, come uno Scrittore sì dotto e diligente, quale ei si mostra, abbia potuto in poche linee radunar tanti falli. Plinio reca le due diverse opinioni di Fabio e di Varrone, il primo de’ quali attribuisce a Papirio, l’altro a Messala il primo orologio Solare; e il Montucla dice, che Messala sostituì l’orologio preso in Catania a quel di Papirio. Plinio dice, che questo poco esatto orologio durò annis undecentum; e il Montucla traduce undici anni. Plinio dice, che Q. Marcio Censore l’anno 590 ne formò uno più esatto: e il Montucla trasmuta il Censore in Console, e l’anno 590 nell’anno 275. Plinio finalmente dice, che nel prossimo lustro, cioè cinque anni dopo, Scipione Nasica cominciò ad usare gli orologj ad acqua; e il Montucla cambia il lustro in un secolo, dicendo, che circa un secolo dopo Scipion Nasica introdusse l’uso di detti Orologi. Io rilevo talvolta gli errori e le inesattezze de’ moderni Scrittori, non già per oscurarne la fama, che anzi io confesso di essermi delle erudite loro fatiche giovato assai, ma per mostrare, che a chi vuole esattamente saper di ciò, che appartiene agli antichi, troppo è necessario il consultare le stesse opere loro, e non fidarsi ciecamente all’autorità de’ moderni, i quali, benché uomini dotti, hanno nondimeno errato non poche volte nel rapportare i lor sentimenti. Ma rimettiamoci in sentiero. XXX. A questa prima introduzione degli Orologi Solari in Roma alluse scherzevolmente Plauto, quando nella Commedia intitolata Boeotia, di cui un frammento ci è stato conservato da Gellio114, così fa parlare un Parasito: Ut illum Dj perdant, primus qui horas reperit, Quique adeo primus statuit hic Solarium, Qui mihi comminuit misero articulatim diem. Nam me puero uterus hic erat Solarium Multo omnium istorum optimum & verissimum, Ubi iste monebat esse, nisi cum nihil erat. Nunc etiam quod est, non estur, nisi Soli lubet. Itaque adeo jam oppletum est oppidum solariis; Major pars populi avidi reptant fame. 189 Nel qual luogo, benché fingasi, che il Parasito ragioni in un borgo della Beozia, chiaro è nondimeno, che il Poeta allude all’uso di Roma, ove è probabile, che a somiglianza del primo altri Orologi Solari fosser poi disegnati. Di fatti Plauto fiorì verso la metà del sesto secol di Roma, e poté perciò introdur sulla scena un uomo dolentesi degli Orologi verso la fine del secolo precedente introdotti in Roma, i quali egli dice, che alla fame ancor pretendevano di dar legge e misura. Vuolsi qui però avvertire, che di due sorte eran l’ore presso i Romani, naturali le une e di ugual misura tra loro, le quali dagli Orologi Solari venivano regolate; le altre civili e tra loro ineguali, perciocché sempre in dodici ore dividevano il giorno non men che la notte; e quindi in tempo d’inverno brevissime erano le ore diurne, lunghissime le notturne, e al contrario in tempo di state. In non fo che accennar queste cose, le quali al mio argomento propiamente non appartengono; che non de’ costumi de’ Romani io ragiono, ma delle loro scienze. Si possono consultare molti de’ moderni Scrittori, e quelli singolarmente, che sono stati inseriti nel Tomo X della gran Raccolta delle Antichità Romane, i quali trattano presso che tutti dell’anno, del giorno, e dell’ore de’ Romani. Quanto agli oriuoli ad acqua, che abbiam veduto nominarsi da Plinio, in qual maniera fossero essi formati, veggasi presso il Pitisco115, l’Arnay116, gli Enciclopedisti117, e singolarmente nell’erudita Dissertazione dell’Abate Sallier sopra gli Orologi degli Antichi118. Sul qual proposito veggansi ancora due Dissertazioni, una del celebre P. Boscovich, l’altra del P. Zuzzeri, amendue Gesuiti, stampate quella nel Giornale di Roma l’anno 1746, questa nello stesso anno in Venezia119. XXXI. Agli Scrittori di Filosofia in questo Capo ricordati voglionsi aggiugnere quattro Scrittori d’Agricoltura, che vissero sulla fine del secol d’Augusto, e che dall’eruditissimo Consiglier Bianconi, di cui diremo più sotto, ci sono stati indicati120. Essi sono Cajo Giulio Igino Bibliotecario d’Augusto, di cui in altri luoghi si è detto, e che avea scritto fralle altre cose un trattato delle Api e degli Alveari, Giulio Attico amico di Ovidio, e molto lodato da Columella, il quale due libri avea pubblicati sulla coltura delle Viti, Pomponio Grecino, che un altro trattato avea scritto sullo stesso argomento, e Celso Scrittore egli pure d’Agricoltura, il quale a giudizio del detto Autore non dee distinguersi dallo Scrittore di Medicina. 190 Note 1 Plutarch. in Vit. Luc. 2 T. II p. 16 &c. 3 T. I p. 798, t. II p. 19 & 60. 4 Diction. Art. Andronic de Rhod. & Art. Tyrannion. 5 Topic. n. 1 6 De Divin. lib. I n. 25. 7 Tusculan. Qu. lib. I n. 10. 8 Ep. Fam. l. XIII ep. I. 9 Acad. Qu. l. IV n. 36. 10 De Cl. Orat. n. 91. 11 Tusc. Qu. lib. II n. 25. Possidonio natio di Apamea nella Siria fu uno de’ più dotti Filosofi e de’ più ingegnosi Astronomi, che a que’ tempi vivessero in Roma, ove egli ebbe lungamente soggiorno, e ove propagò non poco lo studio della buona Filosofia. Intorno alle opinioni singolarmente Astronomiche di esso veggansi le diligenti osservazioni di M. Bailly (Hist. de l’Astron. Mod. T. I p. 118 &c., 164 &c.). 12 Tusc. Qu. lib. I n. 3. 13 Acad. Qu. l. I n. 3. 14 Ibid. 15 De Nat. Deor. l. II n. 54. 16 Acad. Qu. l. IV n. 41. 17 Loc. cit. n. 42. 18 De Finib. l. II c. 14. 19 Tuscul. Qu. l. I n. 9. 20 Orat. n. 71. 21 L. III contra Academ. 22 V. Middleton Vit. di Cic. ad an. 696. 23 Instit. l. VI c. VIII. 24 De leg. l. I n. 8. 25 Instit. l. I c. V. 26 Fra i passi, i quali ci mostrano, che Cicerone, quando parlava seriamente, e secondo i sinceri sentimenti dell’animo suo, seguiva i principj di una vera e ragionevole Filosofia, si può ancora recar quello, ove dice: Nam mihi cum multa eximia divinaque videantur Athenæ tuæ peperisse, atque in vita hominum attulisse, tum nihil melius illis mysteriis, quibus ex agresti immanique vita exculti ad humanitatem & mitigati sumus, initiaque, ut appellantur, ita revera principia vitæ cognovimus, neque solum cum lætitia vivendi rationem accepimus, sed etiam cum spe meliore moriendi (De Legib. lib. II c. XIV). 27 In Actis Academ. Elect. Mogunt. Vol. II p. 458 &c. 28 Art. Ame. 29 V. Act. Erud. Lips. 1727 p. 48. 30 § XXVII. 31 Confess. lib. III cap. IV & Prooem. de Vita Beata. 32 Epist. Senil. l. XVI ep. I. 33 Ad calcem Rerum Germanicarum. 34 Bibl. lat. t. I p. 143 edit Ven. 35 Comment. in Epist. ad Att. lib. XV ep. XXVII. 36 Loc. cit. 37 Scritt. Ital. in Elogio Alcion. 38 V. Foscarini Letter. Venez. p. 245. 39 V. Mazzuch. loc. cit. & Pier Valerian. de Infelic. Litterat. 40 V. Valerian. ibid. 41 Lib. VIII Epist. I. 42 Præf. ad Analect. de Cal. Liter. 43 Bibl. Chois. t. XIV p. 120. 44 T. III p. 26. 45 V. Ep. Cl. German. ad Maliab. t. I p. 165. 46 pag. 278. 47 An. 1685 Juin p. 604. 48 pag. 168. 49 L. I p. 70. 50 T. III p. 163 edit. Paris. 1715. 191 51 Loc. cit. 52 Dopo aver favellato delle contese nate pe’ libri de Gloria, e de Consolatione di Cicerone, potevasi aggiugnere alcuna cosa delle Lettere di Cicerone e di Marco Bruto, sulle quali pure si è disputato assai, se debbano o no aversi in conto di vere, oppur di supposte. Ma il celebre Middleton mi ha in ciò prevenuto colla bella Dissertazione aggiunta alla sua vita di Cicerone, in cui felicemente ribatte le ragioni tutte allegate fra gli altri dal Tunstall a provarle finte, e reca evidenti ragioni a mostrarle sincere. Presso lui dunque si potrà leggere tutto ciò che appartiene a tale argomento. 53 Io debbo ora su questo punto cambiar sentimento, e confessare, che il libro de Consolatione fu veramente un’innocente impostura o dello stesso Sigonio, o del suo amico Vianelli. Presso il Sig. Marchese Lodovico Coccapani conservansi qui in Modena molte lettere originali del Sigonio a Cammillo Coccapani uomo assai dotto di quell’età, e di lui amicissimo. Or in una de’ 12 di Novembre del 1582, così gli scrive: Ella dimandi alla Signora Tarquinia (Molza), se ha havuto una mia lettera con un mio libro de Consolatione, il quale scrivea ch’Ella mostrasse a V. S., il parere della quale desidero intorno a quello. Questa lettera, che è tutta di man del Sigonio da me ben conosciuta, e che fu scritta un anno prima che l’operetta de consolatione si pubblicasse sotto il nome di Cicerone, non ci lascia più dubitare, che il Sigonio non avesse veramente scritto un libro su questo argomento; e distrugge la contraria testimonianza di Antonio Gigante da me recata nella Biblioteca Modenese (T. V p. 107). E forse il Sigonio l’avea scritta per pubblicarla come opera sua; ma stimolato poi dagli amici, a’ quali parve, ch’egli avesse imitato perfettamente lo stile di Cicerone, determinossi a tentare la sorte, e a vedere, se venivagli fatto d’ingannar gli eruditi. E quando poi si vide impegnato l’affare, non gli parve più convenevole il dare addietro, e sostenne esser veramente quella opera di Cicerone. Un nuovo dubbio potrebbe forse destarsi contro di ciò da un picciol Codice in pergamena, che trovasi in Bergamo presso l’ornatissimo Sig. Conte Giuseppe Beltramelli, il quale ha voluto gentilmente trasmettermelo, perché con più agio il vedessi. Contiene esso l’Opuscolo de Consolatione sotto il nome di Cicerone, ma imperfetto, e con parecchie lacune singolarmente nelle ultime pagine, e il carattere, in cui è scritto, può a prima vista sorprendere ed ingannare. Ma a me non pare, che un’attenta riflessione sopra di esso scuopra e renda indubitabile l’impostura; e che esso sia il carattere di chi vuol contraffare l’antico; ma non è abbastanza abile per tale inganno. Le lacune vi furono forse poste con arte per render più verisimile l’antichità del Codice; e io penso, che nel caldo della contesa allor nata taluno volesse con ciò accrescere autorità all’opinione di chi riconosceva come opera di Tullio quel picciol trattato. E forse vedendo poscia, che non era troppo felice nell’esecuzione del suo disegno, desisté dal lavoro e lasciollo imperfetto. 54 De Civ. Dei lib. V c. III. 55 Diction. Art. Nigidius Rem. G. 56 T. II p. 24. 57 L. IV Famil. ep. XIII. 58 L. X c. XI & l. XI c. XI. 59 L. XIX c. XIV. 60 L. XIX c. XIV. 61 T. II p. 25. 62 L. XLV init. 63 In Aug. c. XCIV. 64 In Apologia. 65 Pharsal. l. I v. 639 &c. 66 Loc. cit. 67 Loc. cit. 68 V. Bayle & Brucker. loc. cit.; Fabric. Bibl. Lat. t. I p. 241 Edit. Ven. 69 Hist. de l’Acad. des Inscript. t. 29 p. 190. 70 Lib. I c. III. 71 Suppl. ad Liv. l. LXXX c. XXVII. 72 De Divin. l. II n. 47. 73 Dio l. XLIX. 74 Id. l. LVI. 75 Senec. Ep. XCVIII. 76 Loc. cit. 77 L. XVIII c. XXVIII. 78 Lib. Quomodo sentias te proficere. 79 Epist. LXIV. 80 Nat. Qæst. l. VII c. XXXII. 81 Plut. loc. cit. 82 Retractat. l. II c. XLII. 83 Hist. Phil. t. II p. 90 &c. 84 Acad. Qu. l. I n. 3. 85 T. II p. 29. 86 L. XIII ad Att. ep. XXI, XXII; l. XV ep. I; l. XIII ad Famil. ep. LXXII. 87 L. XLVI. 192 88 De Cl. Orat. n. 47. 89 De Offic. l. I n. 6. 90 Bibl. lat. t. I p. 26. 91 Alle lodi di Varrone deesi aggiugnere ciò, che ha osservato M. Bailly, recandone la testimonianza di Censorino, ch’ei fu il primo, che facesse uso delle Ecclissi per regolare la Cronologia (Hist. de l’Astron. Mod. T. I p. 128, 495, ec.). 92 Præf. Commen. in Aristot. de Interpr. 93 Exercitationes secundæ in Vitruv. 94 Verona Illustr. P. II lib. I. 95 Prooem. l. I. 96 Ibid. lib. III. 97 Bibl. Lat. l. I c. XVII. 98 Prooem. l. VII. 99 L. X v. 185 &c. 100 L. I Saturn. c. XVI. 101 Lib. XVIII c. XXVI, XXVII, XXVIII. 102 Antiq. Lat. & Græc. Ep. XLIV. 103 Mathes. lib. II. 104 Intorno a Sosigene e alla riforma del Calendario da Cesare coll’opera di esso introdotta veggasi il poc’anzi citato M. Bailly (L. c. p. 126 ec., 494). 105 L. I Saturn. c. XIV. 106 Il Sig. Landi accenna (T. I p. 340) una recente Opera di M. Guichard da me non veduta, nella quale egli ha preso a provare, che Cesare oltre il solito mese intercalare non aggiunse che quarantacinque giorni. 107 Svet. in Jul. c. XL; Plut. in Cæs.; Plin. l. XVIII c. XXV; Dio l. II Petav. de Doctr. Temp.; Noris Epoch.; Syro Maced.; Blondel Storia del Calend. Rom.; Blanchin. de Calend. & Cyclo Cæs. &c. &c. 108 L. XXVI c. X. 109 Vol. II lib. IX p. 198 &c. 110 Ib. p. 200 &c. 111 L. VII c. LX. 112 De die Natali c. XXIII. 113 Hist. des Math. t. I p. 407, 408. 114 L. III c. III. 115 Lexic. Antiq. Rom. ad V. Clepsydra. 116 Vie privée des Rom. chap. I. 117 Art. Clepsidre & Art. Horloge. 118 Mem. de l’Acad. des Inscr. t. IV p. 148. 119 Tra gli Orologi, ch’erano in uso presso gli antichi, merita particolar menzione quello assai ingegnoso, che descrivesi da Vitruvio (L. IX c. IX). A me basta il qui accennarlo, perché non sappiamo, se l’invenzion di esso si debba a Vitruvio, o ad altro Romano, o se sia esso pure invenzione di qualche Greco. 120 Lettere Celsiane p. 160 &c.