Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapIII

160 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo III – Storia I. Tardi assai, come abbiamo già osservato, cominciò tra’ Romani ad essere coltivata la Storia. Aveano alcuni scrittori preso a descrivere le guerre e le vicende di Roma, ma in uno stile sì arido e digiuno, che troppo male a’ loro scritti si conveniva il nome di Storia. Alcuni altri aveano scritte le loro proprie azioni. Così M. Emilio Scauro in tre libri avea narrate le sue, libri che da Cicerone si dicono utili assai1. Così avea fatto parimenti Q. Lutazio Catulo, la cui eleganza e grazia di scrivere viene assai commendata dal medesimo Cicerone2. Così L. Cornelio Silla, la cui Storia fu poi finita da Cornelio Epicado suo liberto3. Così alcuni altri ancora, che qualche parte della Storia Romana aveano descritta, che si rammentan dal Vossio4. Ma una Storia distesa con eleganza non erasi ancor veduta fino a’ tempi di Cicerone. Questo grand’uomo nato per innalzare la gloria della Romana letteratura in ogni sua parte vide con dispiacere, che per riguardo alla Storia troppo erano i suoi Romani inferiori a’ Greci; e desideroso, che in questa parte ancora si togliesse loro la gloria, di cui fin’allora avean goduto, usò d’ogni arte per invitarne al coltivamento e allo studio i suoi Concittadini. Quindi il dolersi, che più volte egli fa, che ancora non v’abbia una Storia di Roma; quindi l’esaltare il vantaggio, che dalla Storia si ricava grandissimo; quindi il rammentare l’onore, a cui i Greci scrittori eran per essa saliti; quindi il prescriver le leggi, che scrivendola si debbono osservare; quindi in somma il parlare sì spesso e con sì grandi encomj di questo studio5. Questo impegno di Cicerone pel coltivamento della Storia dovette, a mio parere, concorrer non poco ad eccitare que’ tanti, che a’ suoi giorni in essa si esercitarono. Accennerò brevemente quelli, le cui opere a nostro gran danno sono perite; e poscia più distintamente parlerò di quelli, di cui ancora abbiamo almeno in parte le Storie. II. Ortensio, di cui già abbiamo parlato, e Attico, di cui ci riserbiamo a parlare più lungamente, ove tratteremo delle Biblioteche de’ Romani, aveano amendue scritta la Storia della lor patria. Degli Annali scritti da Ortensio trovasi menzione in Vellejo Patercolo6, che ne parla con lode. Ma l’opera di Attico singolarmente era tale, che troppo dobbiam dolerci, che non sia fino a noi pervenuta. Da ciò, che ne dicono Cornelio Nipote7 e Cicerone8, noi veggiamo, che avea egli con somma diligenza raccolto quanto di memorabile era accaduto dalla fondazion di Roma fino a’ suoi tempi; le guerre, le paci, le leggi tutte, e la genealogia ancora delle più illustri famiglie, segnando in qual tempo precisamente fosse seguita ogni cosa. In oltre un libro aveva scritto in Greco della Storia del Consolato di Cicerone. Varrone ancora, di cui parleremo più sotto, molte cose avea scritte ad illustrar la Storia Romana. Ma quegli, le cui Storie sopra le altre piacer dovettero a Cicerone, fu L. Luccejo. Egli, quando ebbele in mano, tanto ne fu rapito, che invaghissi di avere un tale Scrittore delle cose da sé operate. E’ nota la lettera da lui scritta per esortarlo a intraprendere un tal lavoro9. Checché ne dica il Middleton, non si può a meno di non ravvisare in essa quella debolezza, che anche ne’ più grandi uomini produce talvolta la vanità. Ma ognuno sa, che da questa passione non seppe troppo difendersi Cicerone. Questi però non avrebbe certo bramato di aver a suo Storico Luccejo, se non avesse avute in gran pregio le storie da lui scritte. Luccejo erasi piegato alle preghiere di Tullio, e aveagli promesso di scriver la Storia del suo Consolato10. Ma non sappiamo, se conducesse ad effetto questo suo pensiero. Certo niuna cosa da lui scritta ci è pervenuta. Cicerone però non volle in tutto affidarsi alla penna altrui; ma egli stesso si prese il pensiero di narrarci le sue imprese. E una Greca Storia in primo luogo egli scrisse del suo Consolato11; inoltre un Poema latino in tre libri diviso sullo stesso argomento12; e per ultimo una Storia Latina del medesimo suo Consolato aveva intrapresa, poiché così scrive ad Attico dopo aver parlato delle altre sue opere13: Latinum, si perfecero, ad te mittam. Ma non sappiamo, s’egli la conducesse a fine. Pare 161 ancora, che una generale Storia Romana egli avesse in animo di comporre. Certo egli introduce Attico, che seco lui ragionando gli dice, che già da lungo tempo una tale opera da lui si aspetta14. Una però ci è rimasta delle opere Storiche di Cicerone, e in un tal genere, in cui egli è stato il primo a darcene esempio tra’ Latini, cioè di Storia Letteraria, che tale è appunto il suo libro più volte da noi mentovato de’ celebri Oratori, nel quale tutta svolge partitamente l’origine, il progresso, e le vicende della Romana Eloquenza; opera degna di esser proposta a modello a chiunque prende a trattare somigliante argomento. Alcuni altri Storici, che fiorirono a questo tempo medesimo, annovera il Vossio, le cui opere si son perdute. Noi senza più oltre trattenerci intorno ad essi, passeremo a parlare di tre Scrittori, de’ quali, se non tutti, alcuni almeno de’ loro libri ci son pervenuti, cioè di Cesare, di Sallustio, e di Cornelio Nipote15. III. Io parlo a questo luogo di C. Giulio Cesare, perché le sue opere Storiche sono le sole, che ci siano rimaste; ma egli potrebbe a ragione essere annoverato tra’ coltivatori di qualunque siasi scienza, poiché in fatti niuna quasi ve n’ebbe, a cui egli felicemente non si applicasse. Egli fu certamente uno de’ più grandi, e direi quasi prodigiosi uomini, che mai vivessero. E forse in tutta la Storia non sarebbe alcuno, che con lui si potesse paragonare, se la sua ambizione col renderlo fatale a Roma non ne avesse in gran parte oscurati i meriti. In lui si videro con rarissimo esempio raccolti tutti que’ pregj, che formano un gran Guerriero, un gran Principe, un gran Letterato. Ma noi nol dobbiamo considerare che sotto quest’ultimo aspetto. Non vi fu mai uomo, che dovesse naturalmente esser più rozzo nelle scienze, e a cui minor tempo sopravanzasse per coltivarle. Nell’età giovanile fu costretto a pensare alla sua sicurezza, e a nascondersi or in uno or in altro luogo per sottrarsi al furore di Silla, il quale nella sua proscrizione lo avea compreso. Quindi entrato nella milizia vi fece alcune campagne. Mischiatosi poscia ne’ maneggi della Repubblica con un genio attivo, instancabile, intraprendente, vi salì presto a tale autorità, che ogni cosa regolavasi poco meno che a suo volere. In tutte le civili discordie, in tutti i più importanti affari egli ebbe parte, sempre intento o ad abbattere l’altrui potere, o a formare partiti a suo innalzamento. Le guerre poscia e per ultimo il governo di Roma, di cui per poco non si fece arbitro e sovrano, l’occuparono per tal maniera, che non si vede, qual tempo egli avesse a coltivare l’ingegno. Del solo Apollonio di Rodi sappiamo ch’ei fu per qualche tempo discepolo. Ma un ingegno così vivace e una sì pronta e sì fervida fantasia avea egli ricevuto dalla natura, che que’ pochi avanzi di tempo, che da tante occupazioni gli rimanevano liberi, poteron formarlo uno de’ più colti uomini che fiorissero in Roma. Basta leggere ciò, che di lui narra Plinio il vecchio16, per conoscere qual prodigioso talento avesse egli sortito. Al medesimo tempo soleva egli e scrivere, e leggere, ed ascoltare, e dettare, e a quattro Scrittori allo stesso tempo dettar lettere di gravissimi affari, anzi fino a sette ancora, se allora in altra cosa non si occupava. IV. Non è perciò a stupire, che in mezzo a sì grandi affari fosse egli in tutte quasi le scienze egregiamente istruito. Già abbiam veduto, che nell’Eloquenza egli solo forse avrebbe potuto gareggiare con Cicerone, se la sua ambizione non gli avesse fatto abbandonare il foro; e che colla stessa forza diceva egli da’ rostri, con cui combatteva nel campo. Coltissimo nello stile volle ancora svolgerne i precetti ne’ due libri da lui composti, e intitolati de Analogia, libri, ciò che è più da ammirarsi, da lui scritti, come narra Svetonio17, mentre viaggiava per l’Alpi passando dalla Gallia Cisalpina nella Transalpina. Egli li dedicò a Cicerone; ed ecco con qual elogio questi introduce Attico a ragionarne, e come destramente vi inserisce ciò, che Cesare aveva scritto in sua lode18: Quin etiam in maximis occupationibus cum ad te ipsum (inquit in me intuens) de ratione Latine loquendi accuratissime scripserit, primoque in libro dixerit, verborum delectum originem esse eloquentiæ, tribueritque, mi Brute, huic nostro (cioè a Cicerone), qui me de illo maluit, quam se dicere, laudem singularem nam scripsit his verbis, cum hunc nomine esset affatus: Ac, si cogitata præclare eloqui possent, nonnulli studio & usu elaboraverunt, cujus te pene principem copiæ atque inventorem bene de nomine ac dignitate populi Romani meritum esse existimare debemus), hunc facilem & quotidianum novisse sermonem, nunc pro relicto est habendum. Anzi nel tempo medesimo, in cui egli vie maggiormente pensava a stabilire in Roma il suo indipendente dominio, e a riformare gli abusi della Repubblica, avendo Cicerone pubblicato un libro in lode di Catone, che 162 da sé medesimo si era ucciso anziché arrendersi a Cesare, questi, non altrimenti che se fosse uomo ozioso in tutto e tranquillo, prese a rispondergli, e due libri compose intitolati Anti-Catone, ne’ quali rispondendo a ciò, che Tullio diceva in commendazion di Catone, parlava nondimeno con termini di stima e di rispetto grande pel medesimo Tullio19. Suida attribuisce a Giulio Cesare anche una Metafrasi de’ Fenomeni di Arato. inoltre alcuni libri di Apoftegmi, o sia Detti notabili, avea egli raccolti20. Svetonio afferma, che questi furon lavoro de’ giovanili suoi anni21. Ma dalla sopraccitata lettera di Cicerone è chiaro, che questi ancora furono da lui scritti, mentre già era arbitro della Repubblica. Augusto però non so per qual cagione li volle soppressi insieme con alcune Poesie da lui scritte ne’ primi anni di sua gioventù22, nel qual genere di componimento non pare, che e’ fosse molto felice23. V. Ma questi non furono, per così dire, che studj scherzevoli e leggieri in confronto di altri più serj e più difficili, in cui Cesare in mezzo alle sue imprese occupossi. Il gran ponte da lui fatto innalzare sul Reno, e la bellissima descrizione, ch’egli ce ne ha lasciato, mostra, quanto versato egli fosse nello studio della Matematica. La Riforma del Calendario Romano da lui intrapresa, e felicemente condotta a fine, è un sicuro monumento del suo sapere in Astronomia. Ma di ciò avrem di nuovo a parlare più sotto. Un’altra cosa ancora ci scuopre il genio grande e il sapere di Cesare; cioè l’esatta descrizione di tutto il Romano Impero, che per mezzo d’uomini periti ei volle che si facesse24. Anche allo studio della Giurisprudenza era egli inclinato. Certo di lui narra Svetonio25, che avea in pensiero di dare una nuova forma al diritto civile, e dall’immensa e disparata moltitudin di leggi, che allor vi erano, scegliere le migliori, e le più necessarie, e ridurle a pochissimi libri. Da questo suo amor per le scienze nasceva il favore da lui prestato agli uomini dotti; e io penso, che Cicerone al suo saper dovesse singolarmente la bontà e l’onore, con cui fu trattato da Cesare, il quale per altro sapeva di avere in lui, anche dopo il fine della guerra civile, un occulto e pericoloso nimico. Ma un più splendido contrassegno del suo amore per le scienze egli diede, quando a tutti i Medici e a tutti i Professori delle Arti Liberali egli accordò il diritto e i privilegj della Romana cittadinanza26. Che più? Anche a fare magnifiche collezioni di monumenti antichi e di libri d’ogni maniera ei rivolse il pensiero. Quanto alle antichità narra di lui Svetonio27, Gemmas, toreumata, signa, tabulas operis antiqui semper animosissime comparasse. E per riguardo a’ libri vedremo a suo tempo, che il bel pensiero avea egli già formato di aprire a comune vantaggio una pubblica Biblioteca. Ma questo e tanti altri magnifici suoi disegni interrotti furono dall’immatura morte, che per mano de’ congiurati incontrò l’anno di Roma 709. VI. De’ molti suoi libri i Commentarj soli ci son pervenuti; ma questi bastano a dimostrarci, qual fosse la grazia, la nettezza, la forza dello stile di Cesare. Facile, chiaro, eloquente usa di un’eleganza di scrivere tanto più ammirabile, quanto meno vedesi ricercata. Nelle varie Edizioni, che ne abbiamo, intorno alle quali si può vedere il Fabricio28, si trovano comunemente otto libri della guerra Gallica, tre della Civile, e tre altri delle tre guerre d’Alessandria, d’Africa, e di Spagna. Ma quali di questi libri scritti fosser da Cesare, quali da altri, e da chi, udiamolo da Svetonio29: Lasciò ancora i Commentarj delle cose da sé operate, cioè della Guerra Gallica, e della Civile contro di Pompeo, perciocché delle guerre d’Alessandria, d’Africa, e di Spagna, non si sa certo l’Autore; alcuni pensano che fosse Oppio, altri Irzio, il quale compié ancora l’ottavo libro della Guerra Gallica, che Cesare lasciò imperfetto. Di questi libri di Cesare niuno ha parlato con maggior elogio di quello, che fece Cicerone, il cui giudizio io penso, che ognuno seguirà volentieri. Eccone le precise parole30: Commentarios quosdam scripsit rerum suarum valde quidem, inquam, probandos: nudi enim sunt, recti, & venusti, omni ornatu orationis, tamquam veste, detracto; sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent, qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volunt illa calamistris inurere; sanos quidem homines a scribendo deterruit: nihil enim est in historia pura & illustri brevitate dulcius. Dopo il qual Elogio, qualunque cosa dicasi Pollione, il quale, come già si è detto, tacciava di negligenza i Commentarj di Cesare, egli soffrirà in pace, che a Cicerone più che a lui prestiam fede. Forse più giustamente egli accusò Cesare di avere in alcune cose alterata la verità, poiché non è inverisimile, che l’amor della gloria gli reggesse talvolta la penna, e lo inducesse o a dissimulare, o a rivestire di più favorevol colore alcune cose. E 163 il Vossio alcuni passi in particolare ha osservati31, ne’ quali Cesare di qualche dissimulazione ha usato. Ma in ciò, che è eleganza e proprietà di stile, egli è certo, che non vi ha forse autore, che a lui si possa paragonare, detto per ciò a ragione da Tacito Summus auctorum32. Ciò che è più a stupire si è, ch’essi per detto di Irzio, che ne fu testimonio, furono da lui scritti con somma fretta. Del che, dic’egli33, noi più che ogn’altro abbiamo a maravigliarci. Perciocché gli altri veggono solo, quanto bene ed esattamente egli abbia scritto; noi abbiamo ancora veduto, con qual facilità e con qual prestezza egli scrivesse. Dopo ciò in non posso rammentar senza stomaco la prodigiosa sciocchezza di qualche moderno Scrittore rammentato dal Fabricio e dal Vossio, che de’ Commentarj di Cesare volle fare autore Svetonio. Di un’altra opera intorno alla sua propia vita scritta dallo stesso Cesare, di qualche dubbioso frammento de’ suoi Commentarj, e di ciò che intorno ad essi abbia adoperato un cotal Giulio Celso, si posson vedere i due mentovati Scrittori, che l’entrar in sì spinose e sì minute quistioni e ci ritarderebbe di troppo, e di troppo annojerebbe i Lettori. Aggiugnerem qui solamente, che il primo libro della Guerra Gallica ebbe l’onore di esser recato in lingua Francese dal Re Luigi XIV, e fu stampato in Parigi l’anno 1661. Anzi Arrigo IV ancor avealo già tradotto, come affermano Isacco Casaubono34 e il P. Rapin35. VII. Più brevemente favellerem di Sallustio e di Cornelio Nipote. C. Sallustio Crispo nacque in Amiterno ne’ Sabini l’anno di Roma 668, e morì l’anno 71936. Chi ne legge le Storie, facilmente si persuade, ch’ei fosse un altro Catone; così severamente egli inveisce contro de’ vizj, e così spesso in lui s’incontrano sentimenti pieni di gravità e di senno. Ma egli era pago di aver la costumatezza nella sua penna, e nella sua vita fu uomo guasto affatto e licenzioso. Gellio recando l’autorità di Varrone37 racconta, che colto una volta in delitto fu malconcio di battiture per man di Milone. Ammesso nel ruolo de’ Senatori, ne fu poscia disonorevolmente cassato38; ma poi rimessovi da Cesare, fu da lui onorato di varj impieghi. Mandato al governo della Numidia, vi dié a conoscere la sua rapace ingordigia, e tornossene a Roma carico di rapine39. L’Abate le Masson nella Prefazione premessa alla traduzion Francese di Sallustio da lui pubblicata in Parigi l’anno 1716 ha voluto difendere il suo autore da tali accuse, e ha preteso di mostrare, ch’egli ne’ suoi scritti faccia il vero carattere di sé stesso. Ma non vi ha alcuno degli antichi Scrittori, che lodi Sallustio pe’ suoi costumi; e niuna fama sarebbeci di lui rimasta, se celebre ei non si fosse renduto colle sue opere. Tra queste la più pregevole era una Storia della Romana Repubblica dalla morte di Silla fino alla congiura di Catilina. Ma questa è perita; e due altre brevi Storie soltanto ci son rimaste, una della guerra de’ Romani contro Giugurta, l’altra della congiura di Catilina. E queste ci fan conoscere, quanto abbiamo a dolerci della perdita, che fatta abbiamo dell’altra. Lo stil di Sallustio è breve, conciso, e vibrato al sommo; ciò ch’egli dice, non si può dire né con maggior brevità né con forza ed evidenza maggiore. In pochi tratti descrive i caratteri delle persone così, che con lunga narrazione non si potrebbe andare più oltre. Le sue Orazioni hanno un nerbo e un’energia singolare. Vero è nondimeno, che la brevità il rende talvolta oscuro, e tanto più che alcune parole egli usa e alcune espressioni tratte dagli antichi autori, che ora difficilmente s’intendono, e che anche a’ suoi tempi erano già disusate. E questo è ciò, di che riprendevalo Asinio Pollione, come di sopra si è detto, e un distico ci è stato conservato da Quintiliano, in cui questo difetto medesimo gli si rimprovera. Et verba antiqui multum furate Catonis, Crispe Jughurtinæ conditor historiæ40. Ma ciò non ostante egli è a ragion riputato uno de’ migliori Scrittori di tutta l’antichità. Marziale di lui dice: Crispus Romana primus in historia41. Ma forse il primato di tempo, e non quello di merito, vuol qui accennare Marziale, affermando, che fu egli il primo, che in colto e ornato stile scrivesse le cose Romane. Quintiliano ne parla con grandi elogj, e non teme di paragonarlo a Tucidide, e immortale chiama la velocità42 da lui usata, cioè l’ammirabile brevità, con cui in poche linee grandi cose racconta e descrive. Abbiamo ancora due orazioni ossia lettere a Cesare intorno al bene ordinar la Repubblica, e due declamazioni, l’una contro di Catilina, l’altra contro di Cicerone, che da alcuni gli vengono attribuite. Ma delle prime, 164 benché il Fabricio le creda opere di Sallustio, il Vossio però ed altri ne pensano diversamente; le seconde da tutti i buoni Critici si giudican lavoro di qualche Declamatore, come pure l’Orazione di Cicerone contro di Sallustio. Questi ancora ebbe un onor somigliante a quello di Cesare; cioè di avere una Regal destra impiegata a farne la traduzione; perciocché la celebre Lisabetta Regina d’Inghilterra lo volse in Inglese43. VIII. Di Cornelio Nipote sono incerti gli anni e della nascita e della morte. Solo sappiamo, che a’ tempi di Catullo egli era già noto per le sue Storie, e che essendo vissuto per lungo tempo in istretta familiarità con Attico, gli sopravvisse, come egli stesso afferma nella vita, che ne compose, e che amicissimo fu ancora di Cicerone, di cui pure avea scritta in più libri la vita44. I Veronesi il vogliono loro concittadino, e ne adducono in pruova l’amicizia, ch’egli avea con Catullo, e la frequente menzione, che ne fa Plinio il vecchio. Niuno però degli antichi Scrittori lo asserisce; e Plinio lo dice solamente Padi accola45, dal che si è da alcuni argomentato, ch’ei fosse nativo di Ostilia, Terra allora del Veronese, ora del Mantovano, alle rive del Po46. Di lui abbiamo le Vite degli Eccellenti Capitani attribuite già per errore ad Emilio Probo, e quelle di Catone l’Uticense e di Attico; le quali come nella purezza ed eleganza dello stile non cedono alle opere di altro Scrittore, così in ciò che è forza e vivacità sono inferiori alle Storie di Sallustio e di Cesare. Più altri libri Storici avea egli composti, e quel compendio singolarmente di Storia Universale, che tanto da Catullo vien commendato con que’ versi: Cum ausus es unus Italorum Omne ævum tribus explicare chartis Doctis, Jupiter! & laboriosis47. Di questa e di altre opere da lui scritte, ma che non ci son pervenute, veggansi il Vossio48, il Fabricio49, e il Marchese Maffei50. IX. Questi furono i principali Storici, che fiorirono a’ tempi di Cesare, e di Cicerone. Il Regno d’Augusto non ne fu meno fecondo; ma di tutti, trattane solo una parte di quelle di Livio, sono infelicemente perite le Storie. Rammenterem brevemente alcuni de’ principali Scrittori, come di sopra si è fatto; e poscia più lungamente ci tratterremo intorno a Livio. E in primo luogo quell’Asinio Pollione, di cui già più volte abbiam favellato, uomo dotto, ma di altri dotti del suo tempo biasimator fastidioso, più libri di Storie aveva scritti, che da varj antichi autori vengon citati, le testimonianze de’ quali sono state dal Vossio diligentemente raccolte51. Seneca il Retore ci ha conservato un passo di questo Storico, in cui fa l’elogio di Cicerone, benché gli fosse implacabil nemico; ed egli ci assicura, che passo più eloquente di questo non v’era nelle Storie di Pollione, in tal maniera che sembra, soggiugne egli, che abbia voluto non già lodar Cicerone, ma con lui gareggiare. Veggiamo dunque qual sia questo, a parer di Seneca, sì eloquente passo, che ci gioverà ad avere un saggio dello stile di questo Scrittore52: Hujus ergo viri tot tantisque operibus mansuris in omne ævum prædicare de ingenio atque industria supervacuum. Natura autem pariter atque fortuna obsecuta est. Ei quidem facies decora ad senectutem, prosperaque permansit valetudo: tum pax diutina, cujus instructus erat artibus, contigit, namque a prisca severitate judicis exacti maximorum noxiorum multitudo provenit, quos obstrictos patrocinio incolumes plerosque habebat. Jam felicissima consulatus ei sors petendi, & gerendi magna numera, Deum consilio, industriaque. Utinam moderatius secundas res, & fortius adversas ferre potuisset, namque-utræque cum venerant ei, mutari eas non posse rebatur. Inde sunt invidiæ tempestates coortæ graves in eum, certiorque inimicis aggrediendi fiducia: majore enim simultates appetebat animo, quam gerebat. Sed quando mortalium nulli virtus perfecta contigit, qua major pars vitæ atque ingenii stetit, ea judicandum de homine est. Atque ego ne miserandi quidem exitus eum fuisse judicarem, nisi ipse tam miseram mortem putasset. Ella è cosa troppo pericolosa il giudicare dello stile, e più ove si tratti, come diciamo, di lingua morta, di cui non possiamo appieno conoscere l’indole e la proprietà. Nondimeno, se mi è lecito il dire sinceramente ciò ch’io ne sento, a me pare che Pollione, che trovava assai che riprendere in Cicerone, che credeva negligentemente scritti i Commentarj di Cesare, e che scopriva in Livio un certo stil Padovano, di cui altri non si avvedeva, non possa in 165 questo passo, il più eloquente di tutte le sue Storie, venire al confronto né con Livio, né con Cesare, né con Cicerone. Ma ritorniamo agli Storici. X. Ottavio Augusto vuole egli ancor tra gli Storici essere annoverato. Svetonio racconta53, che parte della sua vita aveva egli scritto divisa in tredici libri. Pare, che fosse questo il costume di tutti gli uomini grandi del tempo, di cui parliamo, di scrivere essi stessi le loro imprese. Emilio Scauro, Lutazio Catulo, Cornelio Silla, Cesare, e Cicerone ne avean dato l’esempio. Augusto, ed anche M. Vipsanio Agrippa di lui Genero, come pruova il Vossio54, gli imitarono. Volevan essi tramandare il lor nome e la memoria delle cose da essi operate alla posterità; ma consapevoli a sé stessi, che non tutte le loro azioni eran degni di encomj, volevano essi stessi farne il racconto, e formare il proprio loro ritratto con tal destrezza, che coprendo le macchie il rendesse vago a vedersi. Ma troppi erano gli Scrittori a quel tempo, perché la loro arte ottenesse il bramato effetto. Plinio ci ha conservato un frammento di Augusto, che sembra tratto dalla vita, che di sé medesimo egli scrisse. Ed io qui recherollo, perché ognun veda, che colto ed elegante era lo stile, di cui egli usava. Così dunque ha Plinio55: Cometes in uno totius orbis loco colitur in templo Romæ, admodum faustus Divo Augusto judicatus ab ipso, qui, incipiente eo, apparuit ludis, quos faciebat Veneri Genitrici, non multo post obitum patris Cæsaris, in Collegio ab eo instituto; namque his verbis id gaudium prodidit: iis ipsis ludorum meorum diebus sidus crinitum per septem dies in regione cæli, quæ sub septemtrionibus est, conspectum. Id oriebatur circa undecimam horam diei, clarumque & omnibus terris conspicuum fuit. Eo sidere significari vulgus credidit, Cæsaris animam inter Deorum immortalium numina receptam; quo nomine id insigne simulacro capitis ejus, quod mox in foro consecravimus, adjectum est. Anche M. Valerio Messala Corvino, l’amico e il protettor di Tibullo, una voluminosa opera intorno alle famiglie Romane avea composta, che è rammentata da Plinio il Vecchio56. Aggiungasi Trogo Pompeo, che scritte avea in quarantaquattro libri le Storie Filippiche, di cui abbiamo il solo compendio fattone da Giustino. Dice egli stesso57, che i suoi maggiori erano oriondi dalla Gallia Narbonese; ma che suo padre sotto Giulio Cesare avea militato, e che suo Avolo in tempo della guerra Sertoriana avea da Pompeo ricevuta la Romana Cittadinanza. E io spero perciò, che gli Autori della Storia Letteraria di Francia, che tra’ loro Scrittori non senza ragione l’han registrato, ci permetteran volentieri, che il ponghiamo noi pure tra’ nostri. Innoltre. L. Fenestella, che visse a’ tempi d’Augusto, e morì nel sesto anno di Tiberio, come abbiamo da Plinio, e più chiaramente dalla Cronaca Eusebiana58, alcuni Annali avea scritto, e un libro de’ Magistrati Romani. Vuolsi però avvertire, che il libro di tale argomento, che col nome di Fenestella si vede in alcune edizioni, a lui punto non appartiene; ma è di Andrea Domenico Fiocco Fiorentino59. Altri ancora si aggiungono di minor nome, che son rammentati dal Vossio, presso il quale si potrà vedere ciò, che di essi, e di que’ che abbiam nominati, eruditamente raccoglie. A questo secolo finalmente lo stesso Vossio attribuisce il celebre Storico Cremuzio Cordo; e sembra certo, che al tempo d’Augusto egli scrivesse, almeno in parte, le sue Storie. Ma perché egli visse parecchi anni ancora sotto Tiberio, e allora singolarmente più note si renderono a suo gran danno le sue opere, ci riserberemo a parlarne nel seguente volume. Rimane dunque, che prendiamo a dire di Tito Livio. XI. A me non appartiene l’entrare nella quistione tra alcuni Scrittori dibattuta, se Livio fosse veramente nativo di Padova, o anzi di Abano villaggio nel Padovano, quistione del cui scioglimento non debb’essere sollecito chi tratta generalmente la Storia della Letteratura Italiana. Poco o nulla sappiamo della vita da lui condotta. Pare, che qualche parte egli avesse nell’istruzione di Claudio, che fu poi Imperadore; perciocché Svetonio narra60, che a persuasione di Livio egli ancor giovane prese a scrivere la Storia Romana, incominciandola dalla morte di Cesare. Ma la scarsezza di notizie intorno alla vita di Livio sarebbe agevole a sofferirsi, se tutta se ne fosse conservata la Storia. Niuno avea ancora intrapresa o condotta a fine opera di sì gran mole. In cento quarantadue libri aveva egli compresa tutta la Storia Romana dalla fondazione di Roma fino alla morte di Druso. Qual danno, che di sì grand’opera solo trentacinque libri siano a noi pervenuti! Tutti gli antichi Autori ne parlano con somme lodi. Seneca il Filosofo lo chiama eloquentissimo uomo61; Plinio il Vecchio lo dice Autore celebratissimo62. Ma Quintiliano singolarmente ne fa grandissimi encomj, e oltre il dirlo uomo di maravigliosa facondia63, oltre il chiamare lattea facondia quella, di che egli 166 usa64, così ne forma il carattere: Né sdegnisi Erodoto, che Livio gli venga paragonato. Scrittore mirabilmente grazioso e terso nelle sue narrazioni, e nelle parlate sopra ogni credere eloquente; così ogni cosa egli sa adattare, e alle persone e alle cose, di cui ragiona. Quanto agli affetti, e a quelli singolarmente, che son più dolci, niuno degli Storici, a parlare modestamente, ha saputo esprimergli meglio. In tal modo la immortale brevità di Sallustio ha egli potuto con diverse virtù uguagliare. Perciocché parmi, che ottimamente dicesse Servilio Noniano, che questi due Scrittori sono uguali, anziché somiglianti. Dopo questi Elogj poco ci dee muovere il detto già rammentato di Asinio Pollione, che diceva di trovare in Livio una non so qual aria di Padovano. Si è cercato da molti, che cosa intendesse così parlando Pollione; e il Morhofio una Dissertazione o anzi un ampio trattato ha pubblicato su questo argomento, in cui lungamente esamina, qual fosse il vizio, che a Livio opponevasi. Ma a me non pare, né che di sì lunga Dissertazione vi avesse bisogno, né che possa rimaner dubbio sul senso della parola da Pollione usata. Leggansi i due luoghi, in cui Quintiliano fa menzione di un tal detto65, e vedrassi, che egli ivi ragiona dello studio, che usar dee un colto Scrittore a sfuggire ogni parola ed ogni espressione, che sappia dello straniero. Dal che è manifesto, che Pollione riprender voleva in Livio certe espressioni Padovane più che Romane; come farebbe al presente un Toscano, il quale leggendo un libro di Scrittore Lombardo, e trovandovi parole e frasi, che in Toscana non sono usate, dicesse, che quello stile sa di Lombardo. Noi non possiamo ora conoscere, quali siano queste parole, che da Pollione dicevansi Padovane; e non si posson leggere senza risa le gravissime decisioni, che alcuni moderni Aristarchi autorevolmente han pronunciato, diffinendo questa e quell’altra voce di Livio esser quella, che da Pollion fu ripresa; quasi che nella perdita che abbiamo fatta della più parte degli Scrittori Latini possiamo determinare, quai voci siano Latine, quali nol siano. Io concederò bensì, che non dobbiamo usare se non di quelle, che troviamo ne’ buoni Autori, che ci sono rimasti; perciocché altrimenti non vi avrebbe regola e legge alcuna di scrivere. Ma il non trovarsi in essi una cotal voce o una cotal locuzione, come ci dee bastare, perché non ci facciamo ad usarla, così non può bastare a decidere, ch’essa al buon secolo non fosse usata. Or tornando all’accusa di Pollione, se egli sol contro Livio si fosse rivolto, si potrebbe credere a ragione, che giusta fosse l’accusa. Ma come per l’una parte sappiamo, ch’egli non la perdonava ad alcuno, e per l’altra non sappiamo, che altri scorgessero in Livio un tal difetto, par verosimile, che in questo ancora si lasciasse Pollione travolgere e trasportare dal suo mal talento, e dal desiderio di acquistar fama a sé stesso coll’oscurare l’altrui. XII. Altri di altri difetti hanno accusato questo insigne Scrittore. E prima di troppa credulità nel raccontare gli strani prodigj, che dicevansi accaduti. Giovanni Toland per liberarlo da questa taccia un’altra troppo peggiore gli n’ha apposta, spacciandolo per Ateo in una Dissertazione da lui pubblicata all’Aja l’anno 1708. Ma e l’accusa e la discolpa peggior dell’accusa non son ragionevoli. Livio riferisce ciò, che gli antichi Scrittori aveano riferito, e ciò, di che correva costante voce tra il popolo; ma nel riferirlo egli mostra più volte di essere persuaso della falsità di cotali prodigj. Così in un luogo egli dice66: Hæc ad ostentationem scenæ gaudentis miraculis aptiora quam ad fidem neque affirmare, neque refellere operæ pretium est. E altrove, raccontati alcuni prodigj, soggiugne67: Nam & vera esse, & apte ad repræsentandam iram Deum ficta possunt. Le parlate, che a’ Generali d’armata e ad atri ragguardevoli personaggi attribuisce Livio, sono pur condennate da alcuni, come da lui immaginate e composte sul verisimile solamente, e non sul vero. Ma se Livio è degno per esse di riprensione, egli può consolarsi, che questo difetto gli sia comune con tutti gli altri più accreditati Scrittori antichi; e noi pure di questo difetto medesimo possiam compiacerci; perciocché per esso abbiamo tante Orazioni piene di forza e d’eloquenza maravigliosa, e che posson essere perfetto modello a tali componimenti. Né punto miglior fondamento ha un’altra accusa, che veggo farsi a Livio da alcuni, cioè, ch’ei non accenni gli Autori, da’ quali ha tratti i racconti, ch’egli inserisce nella sua Storia. A ciò si risponde comunemente, e con ragione, che questo era lo stile degli antichi Scrittori, e solo in questi ultimi secoli si è introdotto da’ più esatti Storici il costume di allegare di mano in mano le autorità e i monumenti, a cui le lor narrazioni sono appoggiate. Ma a me sembra, che Livio possa ancor meglio esser difeso. Perciocché egli veramente assai di spesso cita gli Autori o i documenti, onde egli trae le cose, che ne racconta. Il Fabricio68 annovera i luoghi, 167 in cui Livio cita le testimonianze di Fabio Pittore, di Valerio d’Anzio, di Licinio Macro, di Quinto Tuberone, di Polibio; e più altri ancora se ne potrebbono addurre. Spesse volte egli nota la discordanza degli Storici, spesso si duole della mancanza de’ monumenti necessarj a provare la verità di alcun fatto; e si mostra in somma Storico esatto, che scrive, quanto più gli è possibile, appoggiato a monumenti sicuri e a probabili fondamenti. XIII. Né io voglio perciò sostenere, che esente d’ogni macchia sia Livio. In alcuni errori egli è certamente caduto. E quale Storico vi è stato mai, che si possa vantare di non avere mai inciampato? Pare ancora, che talvolta esalti di troppo le grandezze e le imprese de’ suoi, e deprima e abbassi le altrui; difetto che suol esser proprio di coloro, che le cose della lor patria scrivono o del loro Impero. Viene inoltre tacciato, e non senza ragione, di qualche ingratitudine verso Polibio, da cui avendo egli preso moltissimo, pure non ne fa che poche volte menzione, ed è alquanto parco in lodarlo. Ma di questi ed altri difetti attribuiti a Livio veggasi il Vossio69, e più ancora il Crevier nella bella ed erudita sua Prefazione premessa all’edizione, ch’egli ha fatta di questo Storico. Il certo si è, che Livio, comunque non sia senza difetti, viene meritevolmente considerato come uno de’ migliori Autori, e de’ più perfetti modelli, che a Scrittore di Storia si possan proporre. Ancor quando viveva, egli fu in tale stima, che, come narra Plinio il giovane70, uno Spagnuolo venne fin da Cadice a Roma unicamente per veder Livio, e vedutolo, senza curarsi d’altro, fe ritorno alla patria. In grande stima lo ebbe anche Augusto, e benché Livio liberamente scrivesse ciò che sentiva intorno alle ultime guerre Civili, e favorevole si mostrasse al partito di Pompeo, egli chiamavalo bensì scherzando col nome di Pompejano, ma non perciò scemò punto il favore, di cui l’onorava71. Morì egli in Padova l’anno di Roma 770, come si ha dalla Cronaca Eusebiana. Oltre la Storia alcuni Dialoghi ancora aveva egli scritto e alcuni libri Filosofici72. XIV. Potrebbe parer questo il luogo opportuno a cercare, se sia vero ciò, di che alcuni moderni Scrittori hanno accusato il Pontefice S. Gregorio soprannomato il Grande, cioè, ch’egli facesse gittare al fuoco quanti poté trovare esemplari della Storia di Livio. Ma come non di Livio soltanto, ma di altri antichi Scrittori si dice aver ciò fatto questo Pontefice, ed anzi egli viene accusato di aver distrutti i più bei monumenti, che ancor restassero in Roma, ci riserveremo a parlarne, quando sarem giunti a trattare della Letteratura Italiana de’ tempi, a cui egli visse. Ciò, che con verità si può dire, si è, che non vi è mai stato Scrittore, de’ cui libri tanto si sia compianta la perdita, e tante volte si sia avuta speranza di riaverli, quanto di que’ di Livio. Non dispiacerà, io credo, a’ Lettori il fare una breve digressione sulle follie, che intorno alle Opere di Livio si sono sparse più volte; e l’interrompere con un piacevol racconto le serie e fors’anche nojose ricerche, in cui spesso ci conviene entrare. Sembra, che alcuni abbian voluto prendersi giuoco degli Eruditi; e in tali luoghi hanno affermato trovarsi intera la Storia di Livio, ove forse il nome di questo autore non è mai giunto, e ove fors’anche il nome di Libro è barbaro e sconosciuto73. Tali sono coloro, che ci assicurano essere sì gran tesoro nell’Arabia74; a’ quali si può aggiungere ancora Paolo Giovio, che dice75, trovarsi esso in una delle Isole Ebridi all’Occidente della Scozia, portatovi per avventura da Fregusio Regolo degli Scozzesi, quando insieme con Alarico Re de’ Goti dato il sacco a Roma seco ne riportò le migliori spoglie, e che gli Scozzesi avendol di fresco scoperto l’aveano offerto a Francesco I Re di Francia. Può egli un uom saggio pensar vegliando, e scrivere seriamente tai cose? Più verisimile potrebbe parere il racconto, che da una Cronaca manoscritta di Brema ha tratto il Morhofio76, nella quale si legge questo racconto: L’anno 1521 morì Martino Gronning di Brema Cantore di quel Capitolo e uomo dottissimo, il quale era stato pubblico Professore del Collegio della Sapienza in Roma. Aveva egli le Decadi e i libri smarriti di T. Livio scritti a mano, i quali aveva ei ricevuti dalla Biblioteca di Druntgeim nella Norvegia, ove fin allora erano stati nascosi. Di che avendo egli ragguagliato Filippo Beroaldo primo Bibliotecario del Papa, questi gli rispose, che portasse seco que’ libri a Roma, e che egli avrebbe procurato, che oltre le spese del viaggio se gli contassero subito mille scudi d’oro. Ma essendo frattanto morto Martino, que’ libri dispersi furono e lacerati da’ fanciulli e da altri non intendenti di tali cose. Ma a mostrare la falsità di questo racconto basta il riflettere, che qui si afferma, che il Gronning morisse l’anno 1521 mentre di 168 ciò trattava col Beroaldo. Or egli è certo, che Filippo Beroaldo il giovane, di cui qui si parla, morì tre anni innanzi, cioè l’anno 151877. XV. Ma a dare nuovo fomento alla curiosità de’ semplici, non bastava il collocare l’opera intera di Livio nell’Arabia, nell’Ebridi, nella Dacia, nella Norvegia, e in Brema. Conveniva cercarle ancora qualche cospicua Biblioteca. E qual più cospicua di quella del Gran Signore? cui per altro non so, se sia mai toccato in sorte ad alcuno di vedere, benché molti viaggiatori pur ne ragionino78. Eppure udiamo il celebre viaggiatore Pietro della Valle, il quale così scrive da Costantinopoli a’ 21 di Giugno del 161579: Nella Libreria Ottomana del Serraglio, che è di qualche considerazione, perché è quella, che era già degli ultimi Imperadori Greci, con aggiunta anche di altri trovati per l’impero in diverse parti, si sa di certo, che c’è un Tito Livio intero con tutte le Deche. Il gran Duca alcuni anni sono trattò, secondo che ho inteso, di averlo, e ne offrì cinque mila piastre: non glielo volsero dare, o perché non avesse chi qui negoziasse o sapesse negoziare a verso, o perché i Turchi dall’offerta entrassero in sospetto, che valesse assai più, e che non si dovesse dare. Noi ora, cioè il nostro Signor Ambasciadore (di Francia), ne abbiamo fatti offerir sotto mano dieci mila scudi al Custode de’ libri, se lo piglia, e ce lo dà... Ce lo ha promesso, e l’avremmo senz’altro; ma la mala sorte di Tito Livio vuole, che questo barbagianni del Custode non lo ritrova, ed è molti mesi, che lo cerca, e non possiamo immaginarci, che Domine se ne possa aver fatto. Ma era pur facile l’immaginarselo; e il della Valle, invece di parlare con sì grande disprezzo del Bibliotecario di Sua Maestà Ottomanna, meglio avrebbe fatto a conchiudere, che in quella sì ragguardevole Biblioteca non vi era l’Opera tanto sospirata, e cercata tanto. E nondimeno questo gran tesoro si trovò pur finalmente. L’anno 1682 eccoti comparire a Parigi innanzi al Duca d’Aumont un Greco di Scio detto Giustiniano80, il quale lo assicura, aver egli nella sua patria l’opera intera di Livio; nell’incendio seguito in Costantinopoli questo libro essere stato gittato dalle finestre, raccolto da uno schiavo, venduto a’ Greci, passato in man d’un Calocero, e da questo prima per pegno, poscia nell’impotenza di riscattarlo per debito ceduto a lui. Il Duca d’Aumont volle presentarlo a Luigi XIV e questo gran protettore delle Lettere, che ben conosceva il pregio di tale scoperta, diede a conoscere la Reale sua munificenza insieme e il suo accorgimento, poiché promisegli cinquantamila scudi da sborsarsegli di mano in mano, ch’egli col recar l’opera compiesse le sue promesse. Ma convien dire, che il Greco di Scio non fosse più felice del Bibliotecario Turco nel ritrovarla, poiché né egli né il promesso libro non si videro più. Il citato Baudelot dice di aver egli stesso parlato col detto Greco, e di aver udito da lui la maniera, con cui narrava di esser venuto al possedimento di Codice così prezioso. XVI. Al Bibliotecario Turco e al Greco di Scio succeda ora una Badessa e uno Speziale amendue Francesi. Il Colomiés81 ha pubblicata una lettera a lui scritta dal Chapelain l’anno 1668, in cui gli racconta di aver egli stesso udito narrar seriamente a un onestissimo uomo (ma non ne dice il nome) Ajo del Marchese di Rouville, che essendo egli col suo allievo in una delle sue terre presso Saumur, e volendolo esercitare al giuoco della palla, mandò a Saumur a provvedervi racchette, e che avutene alcune, considerando la pergamena, di cui eran coperte, gli parve di vedere nella maggior parte di esse de’ titoli in lingua latina della ottava, decima, e undecima Decade di Tito Livio. Volò tosto al mercante, da cui aveale comperate, e chiesegli, onde, e come quelle pergamene; a cui quegli venne narrando, che lo Speziale della Badessa di Fontevraldo avendo a caso trovato nell’angolo di una camera di detta Badia un ammasso di volumi scritti in pergamena, e avendo conosciuto, ch’era l’opera di Livio, egli chiesegli alla Badessa, adducendo per ragione, essere quell’opera già stampata, e inutili perciò essere quelle pergamene; da questo Speziale averle egli comperate e fattene molte racchette; e in fatti gliene mostrò oltre a dodici dozzine, che ancor gli restavano, nelle quali pure vedevansi titoli e parole somiglianti in lingua latina. A questo Codice dunque non giova pensare; poiché la prosontuosa ignoranza dello Speziale, e la semplice dabbenaggine della Badessa lo han lacerato. Ma ci potremmo almen consolare, colla speranza di vederne finalmente venire a luce un altro, che Abramo Echellense nella Dedica premessa al suo libro de summa sapientia vorrebbe farci credere, che esista nella celebre Biblioteca di S. Lorenzo dell’Escurial; cui converrebbe dire, che tanti per altro dottissimi uomini, i quali finora l’hanno avuta 169 in cura, avessero o sconosciuto o dimenticato. Io non ho veduto il libro, in cui egli afferma tal cosa, e solo lo asserisco sull’autorità della raccolta intitolata Menagiana82. Sembra quasi impossibile, che tanti Scrittori siansi quasi per congiura uniti insieme, chi a sognare, chi a credere tante follie83. XVII. Né solo gli scritti, ma le ceneri ancora di Livio dovean risvegliare negli uomini una specie di fanatismo. Verso l’anno 1340, come narra l’erudito Cavaliere Sertorio Orsato84, fu scoperta nel Monastero di S. Giustina di Padova una Lapida Sepolcrale, in cui vedevasi nominato un T. Livio. A que’ tempi, in cui le Iscrizioni leggevansi assai velocemente, e quel senso se ne raccoglieva, che veniva prima al pensiero, singolarmente se era qual sarebbesi desiderato, si credette senza punto esitare, che fosse quello il sepolcro del celebre Storico. Ma per allora non si cercò più oltre. Quando l’anno 1413 scavandosi ivi il terreno, eccoti una cassa di piombo con entrovi ossa umane. Più non vi volle, perché tosto si credesse indubitatamente, esser quelle le ossa di Livio. Non è a dire, quali fossero a questa scoperta i trasporti de’ Padovani. Il Pignoria ci ha conservata una lettera85 scritta in Padova l’anno 1414 da Secco Polentone a un cotal Niccolò Fiorentino, in cui gli descrive il tripudio de’ Cittadini, l’accorrere in folla, che da ogni parte si fece a vedere sì gran tesoro, e la magnifica pompa, con cui furono quelle ossa portate per le pubbliche vie. Niuno aveva ancora ardito di risvegliar sospetto d’errore ne’ Padovani. Quando dopo la metà dello scorso secolo essendo venuto a Padova Marquardo Gudio, fu egli condotto dal mentovato Cav. Orsato a vederne le cose più ragguardevoli, e fralle altre, come a valoroso Antiquario, gli fu mostrata l’accennata Iscrizione, che qui soggiungo. V. F. T. LIVIVS LIVIÆ T. F. QVARTÆ L. HALYS CONCORDIALIS PATAVI SIBI ET SVIS OMNIBVS Il Gudio face intendere all’Orsato, che questa Iscrizione non poteva in alcun modo intendersi dello Storico Livio, e che la lettera L. dovea necessariamente significare un Liberto, e che perciò di Livio Ali Liberto di Livia era il sepolcro. Fuvvi su ciò tra essi un erudito contrasto; ma finalmente l’Orsato confessa di essere stato costretto ad arrendersi alle ragioni del Gudio. Né egli perciò lascia di credere, che le ossa scoperte sian veramente di Livio lo Storico. Quali ragioni ne adduca, si può vedere nella sopraccitata sua Lettera. Esse certo non soddisfecero al le Clerc, che facendo un diligente estratto della Lettera stessa86 impugnò questa opinion dell’Orsato; la quale, quando non avesse fondamento bastevole a sostenersi, non verrà a sminuirsi punto la gloria di Padova; che a maggior onore deesi ascrivere, s’io non m’inganno, l’aver dato alla luce un sì valoroso Scrittore, che non l’averne le ceneri e l’ossa. Di altre pruove, che diedersi dagli uomini eruditi della loro stima per Livio nello stesso XV secolo, parleremo ove sarem giunti a que’ tempi. XVIII. Da questi ameni e dilettevoli studj ci converrebbe ora far passaggio a’ più serii e gravi, e mostrare, quanto felicemente fossero questi ancora coltivati da’ Romani. Ma in questo confine, per così dire, tra gli uni e gli altri, mi sia lecito di riporre uno de’ più dotti uomini, che a questo tempo medesimo fiorissero in Roma, e che negli uni ugualmente che negli altri si rendette illustre, benché la più parte delle sue opere siano infelicemente perite. Fu questi Marco Terenzio Varrone, il quale dopo aver sostenute lodevolmente le più ragguardevoli cariche della Repubblica, in tempo delle guerre civili seguì dapprima Pompeo; ma poscia abbandonatosi prontamente a Cesare, visse a lui caro e accetto per modo, ch’era egli stato destinato a raccogliere la pubblica Biblioteca, che voleva Cesare aprire in Roma87. Dopo la morte di Cesare involto egli pure nelle comuni turbolenze fu compreso nella proscrizion de’ Triumviri, e riuscito pure a stento a camparne la vita, non poté camparne i suoi libri, che furono dissipati e dispersi88. Cessati pur finalmente i tumulti, ritirossi a passar fra gli studj, de’ quali sempre erasi dilettato, il rimanente de’ giorni. Visse fino all’estrema vecchiezza; e Plinio il vecchio narra89, che in età di 88 anni continuava Varrone a scriver libri. Finalmente in età di presso a novant’anni morì l’anno di Roma 72790. Vuolsi qui 170 avvertire un errore, in cui per inavvertenza è caduto il Fabricio91, e che è stato trascritto dal Bruckero92, poiché fissando la morte di Varrone all’anno 727 di Roma, aggiungono, ch’esso corrisponde all’anno 27 dopo la nascita di Cristo; dovendosi forse dire innanzi, secondo l’opinione di quelli, che fissan la nascita di Cristo all’anno 754; la qual opinione però se sia la più probabile fra tutte le altre, io non voglio qui disputare. XIX. Gli Elogj amplissimi, con cui dagli antichi è stato onorato Varrone, ci fanno abbastanza conoscere, in quale stima egli fosse. E’ noto il verso di Terenziano Mauro in lode di lui: Vir doctissimus undecunque Varro. Il qual verso adducendo S. Agostino, di Varrone93 dice, che tanto ei lesse, che è a stupire, che pur gli rimanesse tempo a scrivere alcuna cosa, e che tanto scrisse, quanto appena crederebbesi, che si potesse legger da alcuno. Lattanzio il chiama94 l’uomo il più dotto tra’ Latini e tra’ Greci. Seneca parimenti lo dice dottissimo tra’ Romani95; e Quintiliano dopo averlo detto eruditissimo tra’ Romani così soggiugne96: Questi compose moltissimi e dottissimi libri, uom peritissimo della Latina favella e di tutta l’antichità e delle cose Greche e delle Romane. I suoi scritti nondimeno più alle scienze che all’eloquenza son vantaggiosi. Ma niuno vi ha tra gli antichi Scrittori, che nelle lodi di Varrone siasi più ampiamente diffuso che M. Tullio. Perciocché dopo averne in più luoghi parlato con sommi encomj, così a lui stesso ragiona97: Nos in nostra urbe peregrinantes errantesque, tamquam hospites, tui libri quasi domum deduxerunt, ut possemus aliquando, qui, & ubi essemus, agnoscere. Tu ætatem patriæ, tu descriptiones temporum, tu sacrorum jura, tu sacerdotum, tu domesticam, tu bellicam disciplinam, tu sedem regionum, locorum, tu omnium humanarum divinarumque rerum nomina, genera, officia, caussas aperuisti; plurimumque Poetis nostris omninoque latinis & literis luminis attulisti & verbis; atque ipse varium & elegans omni fere numero poema fecisti; philosophiamque multis locis inchoasti ad impellendum satis, ad edocendum parum. Delle quali ultime parole avremo di nuovo a favellar tra non molto. XX. E che queste sì ampie lodi non siano punto esagerate, chiaramente si scorge dal gran numero di libri d’ogni maniera, che sappiamo da lui essere stati scritti. Un passo tratto da una sua opera abbiam presso Gellio98, in cui narra di sé medesimo, che giunto all’anno settantottesimo di sua vita aveva già scritti 490 libri, ed egli continuò poscia a vivere e a scrivere, come si è detto, fin presso a novant’anni. In questi libri non v’era scienza, di cui ei non avesse trattato. La Gramatica, l’Eloquenza, la Poesia, il Teatro, la Storia, l’Antichità, la Filosofia, la Politica, l’Agricoltura, la Nautica, l’Architettura, la Religione ancora, e tutte in somma le scienze e le arti liberali furono ne’ suoi scritti illustrate da questo grand’uomo, come si può vedere dal Catalogo delle sue opere smarrite, che dal Fabricio è stato diligentemente tessuto99. Fu egli ancora il primo Autor tra’ Latini di quella sorte di Satire, che da un certo Menippo Greco primo inventore di esse dette furono Menippee. Erano esse scritte in prosa, ma vi si frammischiavano ancora versi di varj metri. Il qual genere di componimento da alcuni moderni ancora è stato imitato, e singolarmente nella famosa Satira Menippea pubblicata in Francia nei tempi torbidi della Lega. I titoli di queste Satire di Varrone, altre scritte in Greco, altre in Latino, sono stati raccolti dal mentovato Fabricio. Tutti questi libri da Varrone composti e scritti in maniera, che ben vedevasi in essi il dottissimo uomo, ch’egli era, gli conciliarono sì grande stima, che avendo Asinio Pollione aperta in Roma a’ tempi d’Augusto la prima pubblica Biblioteca, e avendo in essa locate le immagini de’ più dotti uomini d’ogni età, di que’, che allora vivevano, Varrone solo ebbe da lui quest’onore. Udiamone il testimonio di Plinio il vecchio, che non può essere più onorevole per Varrone100: M. Varronis in Bibliotheca, quæ prima in orbe ab Asinio Pollione de manubiis publicata Romæ est, unius viventis posita imago est, haud minore, ut equidem reor, gloria, Principe oratore, & cive, ex illa ingeniorum, quæ tunc fuit, multitudine, uni hanc coronam dante, quam cum eidem Magnus Pompejus piratico ex bello navalem dedit. Ma di tante dottissime opere da Varrone lasciateci solo sei libri de’ ventiquattro, ch’egli ne aveva scritti, intorno alla lingua latina, e questi ancora imperfetti, i tre libri intorno all’Agricoltura, e alcuni pochi frammenti degli altri ci son rimasti. 171

1 De Cl. Orat. n. 29.
2 Ibid. n. 35.
3 Svet. de Ill. Gramm. c. XII.
4 De Hist. lat. lib. I.
5 De Orat. l. II n. 9, 12, 13 & De legib. l. I n. 2, 3 &c.; De finib. l. V n. 19; De Cl. Orat. n. 75.
6 Histor. lib. II.
7 In Vit. Attici.
8 De Cl. Orat. n. 3, 4 & Orat. n. 34.
9 L. V ad Famil. Ep. XII.
10 Lib. IV ad Attic. epist. VI.
11 Lib. I ad Attic. ep. XIX & l. II ep. I.
12 Ib. lib. I ep. XIX & l. II ep. III.
13 Lib. I ep. XIX.
14 De Leg. l. I n. 2.
15 Il Sig. Ab. Lampillas mi sgrida qui aspramente (T. II p. 29) perché io non ho parlato di Cornelio Balbo Spagnuolo,
vissuto in Roma, uom dotto, protettore de’ dotti, e autore di alcune opere Storiche ora perdute, e valendosi del suo
diritto di penetrare le altrui intenzioni afferma francamente, ch’io non l’ho nominato, perché non poteva annoverarlo
trai Corruttori dell’Eloquenza. Io protesto innanzi agli uomini onorati e saggi, che il solo motivo, per cui non l’ho
nominato, è stato, perché me ne sono dimenticato: cosa che mi è accaduta anche riguardo ad alcuni dotti Italiani, come
il seguito di queste giunte farà palese. Se il Sig. Ab. Lampillas non mi vuol dar fede, io nol costringerò a farlo.
16 Lib. VII c. XXV.
17 In Jul. c. LVI.
18 De Cl. Orat. n. 72.
19 Plut. Vit. Cicer.; Cic. lib. XIII ad Att. ep. I & II.
20 Cic. lib. IX ad Famil. ep. XVI.
21 In Jul. c. VI.
22 Sveton. Ibid.
23 Dial. de Caussis Corr. Eloquent.
24 V. Bergier Des Grands Chemins de l’Empire l. III c. 4.
25 Cap. XLIV.
26 Svet. c. XLIII.
27 c. XLVII.
28 Bibl. Lat. l. I c. X.
29 C. LVI.
30 De Cl. Orat. n. 75.
31 De hist. Lat. l. I c. XIII.
32 De Morib. German. c. XXVIII.
33 Præf. ad l. VIII Bell. Gall.
34 Præf. ad Polyb.
35 Reflex. sur l’histoire § XXVIII.
36 V. Voss. de hist lat. l. I c. XV.
37 L. XVII c. XVIII.
38 Dio lib. XL.
39 Id. l. XLIII.
40 L. VIII c. III.
41 L. XIV epigr. CXCI.
42 L. X c. I.
43 V. Fabric. Bibl. Lat. l. I c. IX.
44 Gellius lib. XV c. XXVIII.
45 L. III c. XVIII.
46 V. Maffei Ver. Illustr. P. II lib. I.
Una nuova opinione intorno alla patria di Cornelio Nipote ci ha di fresco proposta il Ch. Conte Giambatista Giovio, cioè
ch’ei sia Comasco (Gli Uomini Illustri Comaschi p. 297, 360). Egli ne pone per fondamento una lettera di Plinio a
Severo, in cui gli scrive, che Erennio Severo desidera di porre nella sua Biblioteca imagines municipum tuorum Cornelii
Nepotis & Titi Cassii; e aggiugne, ch’egli spera, che Severo volentieri si prenderà la cura di proccurargliele, quod
patriam tuam, omnesque, qui nomen ejus auxerunt, ut patriam ipsam veneraris ac diligis (Lib. IV Ep. XXVIII).
Dunque, ne inferisce egli, e la conseguenza è giustissima, Severo, Cassio e Cornelio Nipote aveano una medesima
patria. Ma qual fu la patria di Severo? Fu Como, dice l’ingegnoso illustratore delle glorie della sua patria, e ne abbiamo
la pruova in un’altra lettera di Plinio allo stesso Severo, in cui gli scrive, che avendo acquistata una statua di bronzo
172
Corintio, egli vuol farla collocare in patria nostra, celebri loco... ac potissimum in Jovis templo, e soggiugne, che
manderalla, o porteralla egli stesso a Severo, da cui ben si lusinga, che avrà in ciò tutta l’assistenza e l’ajuto opportuno
(L. III Ep. VII). Era dunque Comasco Severo, ne inferisce egli, chiamandosi Como da Plinio loro patria comune: in
patria nostra, ed ivi abitando di fatto Severo, come la lettera stessa ci manifesta. Ma io confesso sinceramente, che
questa seconda conseguenza non mi sembra giusta al par della prima. Che Severo abitasse allora in Como, non può
negarsi; ma ei poteva abitarvi o per Magistrato o altro impiego affidatogli, o per qualunque altra ragione, senza che
quella fosse la sua patria. Tutta dunque la forza riducesi a quelle parole: patria nostra, come se Plinio volesse con ciò
indicarci, che Como fosse patria di lui non meno che di Severo. Ma ognun sa, che i Latini usavano talvolta il plurale pel
singolare parlando della lor sola persona. Così lo stesso Plinio: Sabinam quæ nos reliquit hæredes (L. IV Ep. X); e
altrove: accipies hendecasyllabos nostros (Ib. Ep. XIV). Troppo dunque è debole la congettura tratta da quelle parole; e
a me sembra, che più assai che questa espressione a provar Severo Comasco, abbia forza a negarlo quell’altra usata
nella prima lettera, ove Plinio, di cui non v’ebbe forse l’uomo più amante della sua patria, parlando della patria di
Severo, dice solamente patriam tuam, ove, se la patria di Severo era veramente Como, come lo era di Plinio, era ben
verisimile, che ei si lasciasse sfuggire qualche sentimento del suo amor patriottico. Ad accrescere qualche forza al suo
argomento aggiugne il C. Giovio, che tutte le edizioni hanno nel titolo della seconda lettera: Severum municipem suum
rogat. Ma oltre che cotai titoli son troppo recenti per poter fare autorità alcuna, nella bella edizione, ch’io ho alle mani,
delle lettere di Plinio fatta in Amsterdam nel 1734 quelle parole municipem suum non si leggono; e sembra, che gli
Editori saggiamente ne le togliessero, perché non appoggiate ad alcun fondamento.
47 Carm. I.
48 De histor. Lat. l. I c. XIV.
49 Bibl. lat. l. I. c. VI.
50 Loc. cit.
51 De hist. Lat. l. I c. XVII.
52 Suasor. VI.
53 In Aug. c. LXXXV.
54 De hist. lat. l. I c. XVIII.
55 L. II c. XXV.
56 L. XXXIV c. XIII, l. XXXV c. II.
57 L. XLIII.
58 V. Voss. l. I c. XIX.
59 V. Voss. loc. cit. & Fabric. Bibl. lat. l. IV c. IV § VII.
60 In Claud. c. XLI.
61 L. I de Ira. C. XVI.
62 Præf. ad hist. nat.
63 L. VIII c. I
64 Lib. X c. I.
65 L. I c. V & l. VIII c. I.
66 L. V c. XXI.
67 L. VIII c. VI.
68 T. I p. 193 edit. Ven.
69 De Hist. Lat. l. I c. XIX.
70 L. II Epist. III.
71 Tacit. l. IV Annal.
72 Senec. epist. C.
73 La prima menzione, che a me è avvenuto di ritrovare di un preteso Codice di tutta intera la Storia di Livio, è quella,
che ne fa Poggio Fiorentino, il quale scrivendo al March. Leonello d’Este gli narra, che un certo Niccolò venuto da
quelle parti gli avea con giuramento affermato, che in un Monastero dell’Ordine Cisterciense nella Dacia avea egli
stesso veduti tre gran tomi, ne’ quali in caratteri Longobardi misti di alcuni Gotici leggevansi tutte le diedi Decadi di
questo Storico. E Poggio sembra prestar fede a un tal racconto, e molto più, che ciò da un altro ancora era stato
affermato (Post. lib. de Variet. Fortun. ep. XXX). Ma anche questo sì raro Codice ha avuta la stessa sorte degli altri.
74 V. Conring. Antiq. Acad. Suppl. XIX.
75 In Descript. Hebridum.
76 De Livii Patavinitate c. I.
77 V. Mazzuchell. Scritt. Ital. In ejus Elogio.
78 V. Struvii Introd. ad notit. rei liter. c. III § I.
79 Viaggi T. I lett. VII.
80 Baudelot de l’utilité des Voyages T. II p. 404; Fabric. & Morhof. loc. cit.
81 Biblioth. Choisie pag. 407 Edit. an. 1709.
82 T. IV.
83 Più felice è stata la scoperta di un bel frammento del libro XCI di Livio fatto nella Biblioteca Vaticana l’anno 1773.
La Storia di questa scoperta fatta a caso dal. Sig. Paolo Giacopo Bruns di Lubecca, e le diligenze e le fatiche da lui e dal
173
Sig. Ab. Vito Maria Giovenazzi usate in copiarlo, si posson leggere nella elegante prefazione premessa dal Sig. Ab.
Francesco Cancellieri al frammento stesso pubblicato in Roma nel detto anno colle note del medesimo Ab. Giovenazzi.
Il frammento appartiene alla Storia della guerra Sertoriana, e lo stile di esso è così chiaramente lo stil di Livio, che ogni
Critico ancora più scrupoloso non può dubitarne.
84 Marmi Eruditi Lett. VIII.
85 Origini di Padova p. 124.
86 Biblioth. Univ. t. IX p. 49 &c.
87 Svet. in Jul. c. XXXIV & XLIV; Flor. l. IV &c.
88 Gell. lib. III c. X.
89 Lib. XXIX c. IV.
90 Chron. Euseb.
91 Bibl. Lat. lib. I c. VII.
92 Hist. Crit. Phil. t. II p. 31.
93 De Civ. Dei l. VI c. II.
94 L. I Instit. c. VI.
95 Consol. ad Helv. c. VIII.
96 L. X c. I.
97 Acad. Quæst. lib. I n. 3.
98 Lib. III c. X.
99 Loc. cit.
100 L. VII c. XXX.