Utente:Mizardellorsa/Tiraboschi-CapII
139 Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana Tomo I, Modena 1787 Capo II – Eloquenza I. Se il diletto, che reca la Poesia, fu cagione, ch’essa prima dell’Eloquenza fosse coltivata in Roma, il vantaggio e l’onore, che a’ Romani veniva dall’Eloquenza, fu cagione, che questa prima della Poesia giungesse alla sua perfezione. Già abbiam veduto il felice progresso, ch’essa avea fatto sino innanzi all’ultima guerra Cartaginese. L’onore, in cui erano gli Oratori, il poter, ch’essi aveano nella Repubblica, e le dignità, a cui l’Eloquenza li conduceva, determinarono molti tra’ Romani a coltivarla con ardore e con impegno sempre maggiore. Ma dappoiché la conquista della Grecia, che non molto dopo la distruzion di Cartagine fecero i Romani, un libero e frequente commercio introdusse tralle due nazioni, gli Oratori Greci uditi con piacere, e letti con maraviglia da’ Romani, una lodevole emulazione risvegliarono in questi, e un vivo desiderio di pareggiarne la gloria. Auditis, dice Cicerone1, Oratoribus Græcis, cognitisque eorum literis, adhibitisque doctoribus, incredibili quodam nostri homines dicendi studio flagraverunt. Excitabat eos magnitudo & varietas multitudoque in omni genere causarum, ut ad eam doctrinam, quam suo quisque studio assequutus esset, adjungeretur usus frequens, qui omnium Magistrorum præcepta superaret. Erant autem huic studio maxima, quæ nunc quoque sunt, proposita præmia, vel ad gratiam, vel ad opes, vel ad dignitatem2. Così da tutti questi motivi portati allo studio dell’Eloquenza i Romani, non è maraviglia, che vi giugnessero a tal perfezione, che potesse destar timore ne’ Greci di esserne superati. La bellissima ed esattissima Storia, che Cicerone, come nel Capo antecedente si è detto, ci ha lasciato della Romana Eloquenza nel suo libro de’ celebri Oratori, fa che non mi sia qui necessario il distendermi a lungo. Tutti gli Oratori, che in Roma ebbero qualche nome, si trovano ivi annoverati, di tutti si forma il carattere, se ne rilevano i pregi, non se ne tacciono i difetti. Così ci fosser rimaste alcune delle migliori loro Orazioni; che noi potremmo in esse vedere i principj e i progressi dell’Arte Oratoria, e i diversi generi d’Eloquenza, che a’ diversi tempi usati furono in Roma. Io accennerò solamente alcuni di quelli, che con maggiori encomj celebrati vengono da Cicerone. II. I due famosi Tribuni della plebe Tiberio e Cajo Gracchi sono da lui nominati tra’ più valenti Oratori. E certo il poter, ch’essi ebbero presso la plebe, ne è una troppo chiara ripruova. Del primo, come pure di C. Carbone, dice Tullio3, che se il loro animo nel ben governar la Repubblica fosse stato uguale all’arte loro Oratoria, niuno avrebbeli superati in onore e in fama. Ma poco tempo ebbe Tiberio Gracco a far pompa della sua Eloquenza, ucciso l’anno 620 di Roma per sospetto di Affettata Tirannia. Del secondo de’ Gracchi, che visse fino all’anno 632, in cui fu ucciso egli pure in una popolar sedizione, grande è l’elogio, che fa Tullio, il quale uomo il chiama4 di rarissimo ingegno, e di grande e continuo studio, e aggiugne, che niuno ebbe maggior copia ed eloquenza di favellare; che grande danno ebbe la Romana letteratura dalla sua morte; che forse niuno avrebbe potuto a lui uguagliarsi nel ragionare, se avesse avuta più lunga vita; che maestoso egli era nell’espressione, ingegnoso ne’ sentimenti, e grave in tutta la dicitura; e che, benché le sue Orazioni non potessero dirsi finite, egli era nondimeno Oratore da proporsi al par di ogn’altro a’ giovani per modello. III. La menzione, che fatta abbiamo de’ due fratelli Gracchi, ci conduce ad accennar qualche cosa ancora della lor Madre Cornelia, una delle più illustri Matrone, che vivessero in Roma, e che è ben meritevole di aver luogo nella Storia Letteraria di questa Repubblica e pel sapere, di cui ella fu adorna, e per quello, di cui volle adorni i figliuoli. Era ella figlia di Scipione Africano il maggiore. Poiché ebbe perduto il suo marito Tiberio Gracco padre de’ due mentovati Tribuni, invitata alle sue nozze da Tolomeo Re di Egitto ricusonne generosamente le offerte per attendere alla educazione de’ 140 proprj figlj; il che ella fece con tale impegno insieme e con tale splendore, che essendo essi, come dice Plutarco5, per grandezza di animo a tutti i Romani superiori di assai, sembrava nondimeno, che più ancora li superassero nel sapere. In fatti narra Cicerone6, che i più valorosi Maestri della Grecia impiegò ella a tal fine, e singolarmente Diofane di Mitilene, il più eloquente uomo, che allor ci vivesse, e che fu poi ucciso insieme con Tiberio Gracco7. Non è perciò maraviglia, che i due suoi figlj ella mostrasse a una straniera matrona come il più caro e il più pregevole ornamento della sua casa8. Donna eloquente essa pure e in molte scienze istruita scrisse più lettere, che da Cicerone9 e da Quintiliano10 sono sommamente lodate. Parte di una tra esse vedesi in alcune edizioni di Cornelio Nipote tra’ frammenti di questo autore. Alcuni però muovono dubbio, se essa debba riputarsi legittima11. Ebbe ella il piacere di rimirare i suoi figlj divenuti per la loro eloquenza arbitri, per così dire, del popolo Romano; ebbe l’onore di una statua, che dal popolo nel portico di Metello le fu innalzata con questa gloriosa iscrizione: Corneliæ Gracchorum Matri12. Ma ebbe anche il dolore di vedere i suoi figlj l’un dopo l’altro barbaramente uccisi. La qual disgrazia nondimeno sopportò ella con grandezza d’animo maravigliosa. Narra Plutarco, che ritiratasi allora presso il promontorio di Miseno vi passò il rimanente de’ giorni in compagnia di molti amici, cui ella liberalmente albergava; e che molti dalla Grecia venivano di continuo, altri a trattenersi con essa in eruditi ragionamenti, altri a recarle presenti, cui molti Re stranieri mossi dalla fama di sue virtù le mandavano; e che le imprese del padre suo non meno che de’ suoi figlj e le loro vicende raccontava ella senza mostrarne turbazione di sorta alcuna per modo, che alcuni, i quali non bene intendevano, di qual grandezza d’animo essa fosse, pensavano che per veemenza di dolore fosse uscita di senno. Questa fortezza d’animo di Cornelia è celebrata con somme lodi anche da Seneca, il qual racconta13, che facendo alcuni con essa amichevoli condoglienze per la crudel morte de’ figlj, ella gravemente rispose, non doversi lei chiamare infelice, che i Gracchi avea avuti per figlj. Alcuni moderni Autori allegati dal Freytag14 hanno scritto, che Cornelia a grande e scelto numero di gioventù tenesse in Roma pubblica scuola. Ma di ciò, come osserva lo stesso Autore, non vi ha fondamento alcuno. IV. Molti altri Oratori quai più quai meno famosi nomina Cicerone, de’ quali in poche parole forma il carattere, finché giugne a L. Crasso e a M. Antonio, de’ quali sembra che finir non sappia di celebrare le lodi; perciocché egli dice di essere persuaso, che fosser questi grandissimi Oratori, e che allora cominciassero i Romani ad uguagliare nell’eloquenza la gloria de’ Greci15. Fioriron essi ne’ primi anni di Cicerone, e Antonio fu Console l’anno di Roma 654, Crasso l’anno 658. Il carattere, che di essi fa Cicerone, come maravigliosamente rileva il lor valore, così grande idea ci porge dell’ingegno di chi seppe sì ben conoscerlo e divisarlo. Io qui non posso né interamente recare ciò, ch’egli dice delle lor lodi, che troppo a lungo mi condurrebbe, né ristringerlo in poco senza sminuir molto della gloria dovuta a sì celebri Oratori. Leggasi tutto quel passo, che certamente è degno di esser letto. Di Crasso e della sua morte seguita poco innanzi al cominciamento della guerra civile tra Mario e Silla parla egli ancor nell’Esordio del terzo libro dell’Oratore, che tutto è delle lodi di questo grand’uomo, e dove Cicerone a celebrare l’Eloquenza di Crasso dispiega maravigliosamente tutta la sua. Di M. Antonio, oltre ciò che a questo luogo ne ha Cicerone, parla egli ancor lungamente altrove16, e rammenta singolarmente, qual maravigliosa forza egli avesse nel commuovere gli affetti; e ne reca in pruova ciò, ch’egli aveva fatto nella difesa di Aquilio. Ecco per qual modo Cicerone introduce lo stesso Antonio a favellare di questo fatto, il qual passo reco io qui volentieri, perché e contiene uno de’ più necessarj precetti dell’Eloquenza, e ne somministra uno de’ più rari esempj. E piacemi di recarlo tradotto nel volgar nostro linguaggio secondo la bella, e coltissima traduzione, che di questi libri ha fatta, e pubblicata negli anni addietro il Signor Abate Giuseppe Antonio Cantova, acciocché quelli, a cui essa per avventura non fosse ancor nota, ne abbiano qui un saggio, che basterà certamente a farne intendere il pregio a que’ che sanno, quanto sia malagevole il ben traslatare d’una in altra lingua gli ottimi Autori. Imperò non vogliate di me pensare, che nella causa di M. Aquilio, nella quale io non veniva a narrare le avventure degli antichi Eroi, né i favolosi lor travaglj rappresentar col mio dire, né a sostenere un personaggio da scena, ma a parlar in mia propria persona, io potessi far quel ch’ho fatto, per 141 assicurare a quel Cittadino lo star nella Patria, senza sperimentare una viva passion di dolore. Imperocché al vedermi d’avanti un uomo, ch’io mi ricordava essere stato Console, un Generale d’eserciti, a cui avea il Senato conceduto l’onor di Salire al Campidoglio in forma poco dissimile dal trionfo, al vederlo, dico, abbattuto, costernato, afflitto, in rischio di perdere ogni cosa, non prima incominciai a parlare per muover gli altri a compassione, ch’io era tutto intenerito. M’accorsi allora veramente della straordinaria commozione de’ Giudici, quando quell’afflitto e di gramaglia vestito vecchio levai da terra, e quell’altre cose feci da te, o Crasso, lodate, di stracciargli la camicia sul petto, e mostrarne le cicatrici; il che non fu effetto di arte, della quale non saprei che mi dire, ma sì d’una gagliarda commozion d’animo addolorato. E nel mirar C. Mario ivi sedente, che colle sue lagrime più compassionevol facea il lutto della mia orazione, allorché a lui mi volgea con ispesse apostrofi, raccomandandogli il suo collega, ed implorando il suo ajuto per difender la causa comune di tutti i Capitani; questi tratti patetici e l’invocar ch’io feci tutti gli Iddii, e gli uomini, cittadini, e alleati, non potean non essere da un mio gravissimo dolore e dalle mie lagrime accompagnati: e per quanto avess’io saputo dire, se detto l’avessi senza esserne passionato, non che a compassione, avrebbe il mio parlare mossi a riso gli uditori. V. Ma questo grande Oratore ebbe una sorte troppo diversa da quella, ch’ei meritava. Ne abbiamo il racconto in Plutarco17. Mario, uno di quegli Eroi, ne’ quali è malagevole a diffinire, se le virtù o i vizj fosser maggiori, nella crudel proscrizione da lui ordinata avea compreso ancora l’Oratore Marco Antonio. Questi per sottrarsi alla morte ritirossi presso di un povero ma onesto plebeo, il quale fu lieto assai di poter salvare un sì grand’uomo; e tosto mandò per un suo servo al vicin bettoliere a provvedervi il miglior vino che ci avesse. La non usata premura, che ad eseguire i comandi del suo padrone mostrava il servo, risvegliò nel bettoliere curiosità di risaperne il motivo, e gliene chiese. L’incauto servo gli confidò il segreto. Il perfido corre tosto a Mario, e gli scuopre, ove stiasi nascosto Antonio. Non si può leggere senza sdegno ed orrore il giubilo, che mostrò a tal nuova il crudel vecchio. Dié un grido d’allegrezza, batté palma a palma per plauso, e voleva egli stesso correr sul punto ad ucciderlo. Ma trattenutone a stento dagli amici mandovvi Annio Tribun militare con alcuni soldati. Giunto alla casa, ove stavasi Antonio, il Tribuno v’introdusse i soldati, perché l’uccidessero. Antonio vedutigli entrar nella stanza, e scoperto il loro disegno, senza punto turbarsi, prese a ragionare con essi in sì dolce ed eloquente maniera, ch’essi piangendo per tenerezza non si ardivano ad ucciderlo. Di che sospettando il Tribuno salito egli stesso nella stanza di Antonio, e sgridati della lor viltà i soldati, troncogli il capo. Questo recato a Mario fu da lui esposto su que’ rostri medesimi, da cui tante volte aveva egli difesa la salvezza e la vita de’ Cittadini, come osserva Cicerone18, il quale, mentre così scriveva, non avrebbe pensato, che somigliante fine dovesse un giorno incontrare egli stesso per opera del Nipote di quel medesimo Antonio, la cui funesta sorte egli allor compiangea. VI. Lascio da parte molti altri Oratori, de’ quali fa menzione Cicerone nel più volte citato libro, e i quali si distinguevan nel foro prima ch’ei cominciasse ad oscurare la loro gloria. Tra essi però non deesi tacere di C. Licinio Calvo, perché egli ardì di contrastargli per più anni il primato sull’Eloquenza. Cicerone ne parla non brevemente, e dissimulando la gara, che già era tra loro, ne forma il carattere in modo, che ben si conosce, che questi due Oratori doveano esser rivali. Perciocché egli dice19, che Calvo aveva una sua maniera di ragionare elegante sì ed esatta, ma ricercata di troppo, e come diremmo noi, affettata; il che avveniva, perché ei voleva esser creduto Oratore Attico, e imitatore dell’eloquenza de’ Greci. Così egli riprende Calvo, il quale a vicenda, come tra poco vedremo, riprendeva Cicerone, e accusavalo di stil prolisso, e perciò languido e snervato. Convien dire, che non ostante il suo Atticismo fosse Calvo eloquente e robusto Oratore, perché di lui si racconta, che mentre giovinetto di circa vent’anni accusava Vatinio, questi fu atterrito per modo dalla facondia di Calvo, che interrompendolo, e rivolgendosi a’ giudici, e che dunque? esclamò, perché costui è eloquente, dovrò io essere condannato? Ma egli, che era anche eccellente, benché satirico e mordace, Poeta, finì di vivere in età di soli trent’anni. Di lui parla più a lungo il Funccio, che ne ha raccolte dagli antichi Scrittori le più minute notizie20. Il rivale però, che più a lungo contrastò a Tullio il primato dell’eloquenza, ma che insieme gli fu amico, fu Quinto 142 Ortensio, di cui di fatto egli parla con più gran lode. Era egli di otto anni soli maggiore di Cicerone21; e di età assai giovane, cioè di soli 20 anni, cominciò a dar saggio della sua eloquenza nel foro innanzi a’ Consoli L. Crasso da noi mentovato di sopra e Q. Scevola22. Erano questi uomini; che meglio e più sicuramente di ogn’altro potevano giudicare del valore e dell’eloquenza di alcuno; e appena udirono Ortensio, che di grandi lodi lo onorarono, e ne concepirono non ordinarie speranze. Quindi con ragione affermò Tullio23, che l’ingegno di Ortensio appena fu veduto e scoperto, a guisa appunto di una statua di Fidia fu ammirato e lodato. E di vero, prosiegue il medesimo Cicerone, avea egli tutte le doti, che a formare un valente Oratore sono richieste: memoria sì grande, che qualunque cosa avesse egli tra sé medesimo pensata e meditata spiegavala senza scriverne sillaba con quelle stesse parole, con cui l’avea pensata; e quindi di quanto avesse egli o meditato o scritto, di quanto si fosse detto dagli avversarj, ricordavasi esattamente: impegno e ardor così grande nello studio, quanto dice Cicerone di non aver mai veduto in altri, talché non era giorno, in cui o non si fosse esercitato nel Foro, o col domestico studio non si fosse coltivato; e spesso ambedue le cose faceva nel giorno stesso. Due cose all’eloquenza utilissime furon da lui prima di ogni altro introdotte, il dividere in certi punti la materia, di cui doveva trattare, e il farne alla fine un breve Epilogo. Colto, armonioso, eloquente nel favellare, ogni cosa comprendeva dapprima col suo pensiero; poscia ingegnosamente la divideva; e non eravi riflessione a provare il suo assunto, o a ribattere l’avversario opportuna, ch’egli ommettesse. La voce per ultimo anch’essa canora e dolce, e il movimento, il gesto, il portamento tutto più ancora, che a un Oratore sia necessario, artificioso e studiato. VII. Tal è il carattere, che dell’eloquenza d’Ortensio ci ha lasciato Cicerone, il quale però io non so se abbia per avventura cercato di innalzar così maggiormente la vittoria, ch’egli avea sopra lui riportata. Egli, che essendo più giovane, vedeva ne’ suoi primi anni l’universale applauso, di cui Ortensio era onorato, confessa, che da un tale esempio si sentì vivamente sospinto a intraprendere la carriera medesima24. Ma al primo intraprenderla ch’egli fece, la gloria di Ortensio cominciò ad oscurarsi e a svanire. In due delle prime cause, cioè in quella a favor di Quinzio, e in quella contro di Verre, egli ebbe a suo avversario Ortensio, e in amendue lo vinse, e nella seconda singolarmente gli fu superiore di tanto, che il reo non volle pure aspettare l’esito del giudicio, ma andossene spontaneamente in esilio. Altre volte trovossi Ortensio a trattar le medesime cause con Cicerone, or sostenendo la stessa parte, or la contraria. Ma quel dominio, che Ortensio avea nel Foro, presto gli fu rapito da Cicerone. E questa forse fu la ragione, per cui, come narra lo stesso Tullio25, Ortensio, poiché ebbe ottenuto l’onore del Consolato l’anno 684, rimise molto dell’impegno e del fervore, con cui fin allora avea trattate le cause, e prese a vivere più ozioso e più tranquillo. E se pure talvolta tornava egli a salire su’ rostri, la sua eloquenza pareva che ogni giorno venisse meno. Ne’ primi anni il cangiamento era tale, che appena da’ più colti potea ravvisarsi; ma poscia si fece ognor più sensibile, e apparve agli occhi ancora del volgo, talché egli perdette molto di quella stima, ch’erasi per l’addietro acquistata. Il veder Cicerone innalzato all’onore del Consolato risvegliò in Ortensio, ed avvivò maggiormente l’antica emulazione; tale però che non fu cagione tra essi di nimicizia o d’invidia alcuna. Anzi Cicerone racconta26, che vissero poscia per dodici anni in sincera amicizia, nutrendo l’uno per l’altro vicendevole stima ed amore. E Cornelio Nipote aggiugne27, che essendo Attico amicissimo di Ortensio insieme e di Cicerone, per tal maniera che non ben si sapeva, chi di essi gli fosse più caro, ciò non ostante tra loro non nacque mai gelosia di sorte alcuna, ut inter quos tantæ laudis esset æmulatio, nulla intercederet obtrectatio, essetque talium virorum copula. Ma comunque Ortensio procurasse di tornare all’antico onore nel Foro, egli nol poté ottenere. VIII. Qual fosse la ragione di queste vicende, a cui soggiacque la gloria di Ortensio, ricercasi da Cicerone; ed egli osserva, che l’eloquenza di Ortensio consisteva singolarmente in una cotal maniera di ragionare, ch’egli appella asiatica, cioè in uno stile fluido, gajo, e vezzoso, il quale quanto piace in un giovane, alla cui età par che convenga, altrettanto sembra disdicevole ad uom maturo. Aggiungasi, che, come altrove riflette lo stesso Tullio28, era Ortensio dicitor eccellente anzi che valoroso scrittore: Dicebat melius, quam scripsit Hortensius. La sua eloquenza era in gran parte riposta nel gesto vivace e nel grazioso atteggiamento della persona, per cui ancora tal volta ne fu 143 egli motteggiato e deriso29. Di questa affettazione di Ortensio nel portamento della persona fa menzione ancora Macrobio: Hortensius vir mollis, & in præcinctu ponens omnem decorem, vestitu ad munditiem curioso; & ut bene amictus iret, faciem in speculo ponebat, ubi se intuens togam corpori sic applicabat, ut rugas non forte sed industria locatas artifex nodus constringeret, & sinus ex composito defluens nodum lateris ambiret30. Quindi mancando col crescere dell’età ad Ortensio questi esterni ornamenti, e comparendo degni di riso in lui già vecchio que’ vezzi, che grazioso il rendevano in età giovanile, e non potendo il gesto e l’azione essere animata e viva, com’era una volta, non è maraviglia, che quanto più egli avanzava negli anni, tanto più sembrasse perder di pregio la sua eloquenza; e che giugnesse a tal segno, che un anno innanzi alla sua morte, essendo egli entrato in pien teatro, ove sperava di ricevere applauso per una causa sostenuta il dì innanzi con felice esito, vi fosse da tutto il popolo ricevuto colle risa e colle fischiate31. IX. Morì Ortensio l’anno 703 mentre Cicerone tornava dalla Cilicia; ed egli prese da esso l’argomento dell’Esordio, che poi premise al suo libro de’ Celebri Oratori, col quale egli forma un onorevole Elogio del suo emulo insieme ed amico. Le Orazioni di Ortensio gli sopravvissero per alcun tempo, ma assai meno pregiate, quando si ebbero sotto degli occhj, che non quando dalla voce e dal gesto di lui erano animate. Ejus scripta, dice Quintiliano32, tantum infra famam sunt, qui diu princeps Oratorum, aliquando æmulus Ciceronis existimatus est, novissime, quoad vixit, secundus, ut appareat, placuisse aliquid eo dicente, quod legentes non invenimus. Ma un’altra memoria non men gloriosa lasciò di sé medesimo Ortensio, che per alcun tempo ne tenne viva la fama, cioè una sua figlia detta essa pure Ortensia, degna erede della paterna eloquenza, per cui essa ancora salì a grandissimo onore. Questa, essendo stato da’ Triumviri imposto un grave tributo alle Romane Matrone, né trovandosi alcuno, che volesse prendere le lor difese, andò ella stessa coraggiosamente innanzi a’ Triumviri, e con tal eloquenza perorò per la causa comune, che ottenne, che la maggior parte dell’imposto tributo loro si rimettesse33; meritevole essa pure di aver luogo nella Storia Letteraria di Roma insieme con altre illustri Matrone, che già abbiam rammentate, e poscia ancora rammenteremo. X. Alle vicende, a cui fu soggetta la gloria di Ortensio, non fu già ella soggetta la gloria di Cicerone, di cui ora entriamo a parlare. Al primo suo comparire nel Foro comparve grande Oratore. La fama, che le prime cause da lui trattate gli conciliarono, gli fu sempre accresciuta da quelle, che venner dopo. E la sua morte, e tutto il lungo corso de’ secoli, che dopo essa è trascorso, ci ha ben potuto rapire alcune delle sue Orazioni, ma non gli ha mai potuto togliere il primo luogo tra gli Oratori; e finché durerà il buon gusto in alcuna parte del mondo, Cicerone vi sarà letto, ammirato, e, quanto è possibile, imitato. Niuno si aspetta, io credo, che io prenda qui a tessere il racconto della sua vita34. Troppo essa è nota e dall’opere di lui medesimo, nelle quali ei non è così parco in favellar di sé stesso, e da’ libri di tanti, che ne hanno diligentemente trattato. Fra questi meritano singolar lode due moderni Scrittori, Inglese l’uno, l’altro Francese, cioè i Signori Middleton e Morabin, i quali pressoché al medesimo tempo due assai erudite ed esatte Storie della vita di Cicerone han pubblicate a’ nostri giorni. A me non si appartiene il giudicare, a qual de’ due si debba la preferenza. L’Autor Inglese sembra, che abbia avuto più plauso per le molte versioni in diverse lingue, e per le replicate edizioni, che della sua opera si son fatte. Io non considero qui il Cittadino, il Console, il Senatore; ma solamente l’uom dotto. E quando si fosse questo l’unico punto di veduta, in cui si potesse collocar Cicerone, sarebbe questo bastante, perché dovessimo averlo in conto di uno de’ più grandi uomini di tutta l’antichità. Fu egli uno de’ pochi del suo tempo, che a quasi tutte le scienze allor conosciute essendosi applicato, in alcune andasse innanzi ad ogni altro, quasi in niuna rimanesse ad altri inferiore. Ma a questo luogo noi non abbiamo a parlare che dell’eloquenza. XI. Di tutte le cose, che giovar possono a divenire Oratore eccellente, niuna fu trascurata da Cicerone. Lucio Crasso, quel famoso Oratore, di cui poc’anzi abbiamo parlato, fu in certo modo il direttore della letteraria educazione di Cicerone35. I più celebri Professori, che allor fossero in Roma, furono da lui frequentati e uditi attentamente. Archia, quello stesso, che fu poscia da Cicerone difeso, Muzio Scevola, e Molone da Rodi, e innoltre varii Greci Filosofi, Fedro, Filone, Diodoto, ed altri, tutti concorsero a imbever la mente del giovane Tullio de’ più opportuni 144 ammaestramenti. A ciò congiunse l’usare di tutti quegli esercizj, che all’istruzione di un giovane sono più vantaggiosi, e singolarmente il leggere i migliori tra’ Greci Autori, e alcuni di essi ancora recarne in Latino linguaggio. Né di ciò pago, dopo aver già cominciato a esercitarsi nel Foro, presone il motivo dalla cagionevole sua sanità, viaggiò nella Grecia e nell’Asia, e quanti vi erano Filosofi e Oratori per dottrina e per eloquenza illustri, tutti volle conoscere e trattare, conversare, disputare con tutti, raccogliendo quanto in essi trovava degno di stima e di imitazione. Basta leggere ciò, ch’egli di sé stesso racconta36, per vedere, quanto egli fosse desideroso e impaziente di crescere sempre in sapere. Un giovane, come era allor Cicerone, in età di soli ventotto anni, che viaggia, per così dire, circondato sempre da Filosofi e da Oratori, che con essi soli conversa, che innanzi ad essi si esercita, che da essi si ode volentieri ammonire de’ suoi difetti, e che non curasi di veder altro fuorché uomini dotti, egli è un modello quanto più raro ad esser imitato, tanto più degno di ammirazione. E ammirati di fatto ne rimasero i Greci, tra i quali è celebre il detto di Molone, che udito declamare il giovane Tullio, con gran dolore predisse, che da lui sarebbesi tolto alla Grecia l’unico ornamento, che omai rimanevale, l’arti e l’eloquenza37. Intorno a’ viaggi di Cicerone una bella Dissertazione abbiamo di Gian Giorgio Walchio stampata ne’ suoi Parerghi Accademici in Lipsia l’anno 1721, e intitolata: Diatriba de amoenitatibus historicis ex Ciceronis peregrinatione collectis. Né questo indefesso studio fu della sola età giovanile. Uom già maturo, e avvolto ne’ più gravi affari della Repubblica, qualunque ora ei potesse trovare di riposo e di ozio era consecrata agli studj. Subcisiva, dice egli stesso38, quædam tempora incurrunt, quæ ego perire non patior; ut si qui dies ad rusticandum dati sunt, ad eorum numerum accommodentur, quæ scribimus. Quando avremo a parlare delle Biblioteche di Roma, vedremo quanto gli fosse cara la sua. Ma senza ciò le tante e sì varie e sì eleganti opere, che di lui abbiamo, oltre tante altre in numero forse ancora maggiore, che son perite, ci fanno conoscere, qual egli avesse ardore e avidità per lo studio. Un uom privato, che tanti libri avesse scritti, quanti Cicerone, sarebbe oggetto di maraviglia. Or che diremo noi di un uomo, il quale non vi era causa di qualche momento, ch’ei non fosse pregato e costretto quasi a trattare, non pubblico affare, a cui non avesse parte, che tutte sostenne le più onorevoli e più gravose cariche della Repubblica, che trovossi in circostanze di tempi difficili sopra modo e pericolosi, ch’era in continuo commercio di lettere non solo con moltissimi de’ suoi amici, ma co’ più ragguardevoli personaggi del suo secolo, ch’ebbe ancor la sventura di dover cedere per alcun tempo all’invidia de’ suoi nemici, e allontanarsi da Roma? XII. Un sì continuo e sì sollecito studio congiunto a un vivace, penetrante, fecondissimo ingegno, non è maraviglia, che formasse in Cicerone l’oratore il più perfetto forse, che mai sorgesse. A giudicar dell’eloquenza di Cicerone io non voglio, che ad esame si chiamino le sue Orazioni. Benché agli uomini di miglior senno sian sempre parute di una forza e di un’arte maravigliosa, come però diversi sono i gusti degli uomini, ciò che avviene nelle cose, di cui son giudici i sensi, accade ancora in quelle, di cui decide lo spirito e l’ingegno; cioè che una tal cosa, la quale da alcuni è sommamente pregiata, dispiaccia ad altri, i quali pur si lusingano di aver buon gusto. Lasciamo dunque in disparte il pregio intrinseco dell’eloquenza di Cicerone, e miriam solamente gli effetti maravigliosi, ch’essa produsse; e tra questi medesimi lasciamo stare e il salire a’ più alti onori della Repubblica, che fe Cicerone, uomo nuovo, come egli stesso si chiama, cioè il primo di sua famiglia, che si facesse innanzi a richiederli, e i tanti rei, ai quali egli ottenne colla sua eloquenza salvezza e scampo, e le liete, voci d’applauso, con cui tal volta il suo parlare fu ricevuto dal popol tutto39. Io considero solamente l’autorità e il potere, che su tutto il Popol Romano si acquistò Cicerone, per cui non si accinse mai a persuadere o a dissuader cosa alcuna, che non traesse il popolo al suo parere. La prima pruova, ch’ei ne facesse, fu allor quando Pretore parlò da’ rostri, perché il comando della guerra contro di Mitridate affidato fosse a Pompeo; e l’ottenne. Ma pruove assi più gloriose ne fece nell’anno del suo Consolato. Levasi nel teatro un popolare tumulto contro di L. Ottone, che avea costretti i Plebei a starsi separati da’ Nobili ne’ più lontani sedili, e il tumulto cresce per modo, che già si viene alle mani. Cicerone vi accorre, impone autorevolmente silenzio alla Plebe, dal teatro la conduce al tempio di Bellona, e le parla; e il parlare di Cicerone ottiene, che essa tornata al teatro cambj lo sdegno in favore, e i fischj d’insulto in liete grida 145 d’applauso. Rullo Tribun della Plebe propone al popolo una legge, per cui le più ubertose campagne d’Italia dovevano ad esse gratuitamente distribuirsi. Cicerone ne conosce i rei occulti disegni, parla al popolo, e lo raggira, e lo commove per modo, ch’esso ricusa sdegnosamente il dono, che Rullo gli offre. Colla sua eloquenza finalmente spaventa, e sbigottisce l’ardito Catilina, e molti de’ suoi complici per maniera, che spontaneamente escon di Roma. Sì straordinarj e maravigliosi effetti non si ottengono, se non da maravigliosa e straordinaria eloquenza. Ma lo spettacolo a parer mio più glorioso si è quello, che ci offre la quarta delle sue Filippiche. Questo grand’uomo, a cui l’età avanzata e la lunga esperienza e la memoria delle cose operate a pro della Repubblica aggiugnevano allora autorità sempre maggiore, sale su’ rostri a ragguagliare il popolo di ciò, che dal Senato erasi decretato contro di Antonio. Appena egli comincia a parlare, il Popolo, che il rimira come il più fermo sostenitore della sua libertà, leva un alto grido d’applauso. Cicerone se ne compiace: prosiegue a parlare, e prosiegue a riscuotere applausi. Si vede, ch’egli ha in sua mano il muover il popolo a levar alto la voce, quando egli il voglia. Ne fa varie volte la pruova, e sempre l’ottiene, come si raccoglie dall’Orazione medesima, la quale ad ogni passo si vede interrotta dalle liete grida, con cui il popolo seconda, e favorisce i sentimenti del suo Oratore. XIII. Ma questa sua eloquenza medesima gli fu fatale. Antonio da lui provocato ed offeso colle amare e sanguinose sue Filippiche rimase vincitor finalmente nella guerra civile seguita dopo la morte di Cesare. Collegatosi quindi l’anno di Roma 710 con Ottavio e con Lepido, tra l’infelice numero de’ Cittadini stati già suoi nemici, e da lui perciò dannati a morte, volle ad ogni modo, che Cicerone fosse il primo. Spettacolo più atroce di questo Roma non vide mai. Il capo e le mani di quell’Oratore, che tanti rei e la Repubblica tutta avea tante volte salvata, appese su que’ rostri medesimi, da’ quali avea egli spiegata la divina sua eloquenza. Il tirannico poter di Antonio e de’ suoi Colleghi non poté impedire, che tutta Roma non inorridisse a tal vista, e che col pianto universale non dimostrasse apertamente il dolore, che essa provava per la crudele uccisione di sì grand’uomo. Il nome di Cicerone fu sempre venerabile, per così dire, e sacro presso i Romani. Finché visse Augusto, pare, che gli scrittori di quel tempo appena osassero di favellarne con lode, poiché il lodar Cicerone era lo stesso che riprendere Augusto, il quale avevane permessa, o fors’anche voluta la morte. In fatti Livio, come raccogliamo da Seneca il Retore40, il quale qualche frammento ci ha conservato de’ suoi libri smarriti, Livio, dico, non avevane parlato con quella stima, che a tant’uomo pareva si convenisse, ma avea nondimeno confessato, che uomo grande egli era stato e ingegnoso e degno di eterna memoria, e tale insomma, in cujus laudes sequendas Cicerone laudatore opus fuerit. Ma dopo la morte di Augusto chiunque degli antichi scrittori parla di Cicerone, non solo ne parla in sentimenti di altissima stima, ma sembra quasi rapito da entusiasmo sollevarsi sopra di sé stesso per celebrarne le lodi. Così Vellejo Patercolo, benché scrivesse a’ tempi del crudele e sospettoso Tiberio, dopo aver raccontata la morte di Cicerone, trasportato da sdegno contro di Antonio esclama41: Nihil tamen egisti, M. Antoni: (cogit enim excedere propositi formam operis erumpens animo ac pectore indignatio) nihil, inquam, egisti, mercedem cælestissimi oris & clarissimi capitis abscissi numerando, auctoramentoque funebri ad conservatoris quondam Reipubl. tantique Cons. irritando necem. Rapuisti tu M. Ciceroni lucem sollicitam, & ætatem senilem, & vitam inferiorem te principe, quam te Ill. viro mortem; famam vero gloriamque factorum atque dictorum adeo non abstulisti, ut auxeris. Vivit, vivetque per omnium sæculorum memoria. Dumque hoc vel forte, vel providentia, vel utcumque constitutum rerum naturæ corpus, quod ille pene solus Romanorum animo vidit, ingenio complexus est, eloquentia illuminavit, manebit incolume, comitem ævi sui laudem Ciceronis trahet; omnisque posteritas illius in te scripta mirabitur; tuum in eum factum execrabitur; citiusque in Mundo genus hominum, quam cadet &c. Nulla minore è il trasporto di Plinio il Vecchio, quando offertasegli occasione di parlare di M. Tullio, così dice42: Salve primus omnium Parens Patriæ appellate, primus in toga triumphum linguæque lauream merite, & facundiæ Latiarumque literarum parens, atque, ut Dictator Cæsar hostis quondam tuus de te scripsit, omnium triumphorum lauream adepte majorem, quanto plus est ingenii Romani terminos in tantum promovisse quam Imperii. Aggiungiam finalmente l’elogio, che di lui fa Quintiliano43. Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Græcorum 146 contulisset, effinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, jucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex seipso virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertate. Non enim pluvias (ut ait Pindarus) aquas colligit, sed vivo gurgite exundat, dono quodam provindetiæ genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur. Nam quis docere diligentius, movere vehementius potest? Cui tanta unquam jucunditas affluit? ut ipsa illa, quæ extorquet, impetrare eum credas, & cum transversum vi sua judicem ferat, tamen ille non rapi videatur, sed sequi. Jam in omnibus, quæ dicit, tanta auctoritas inest, ut dissentire pudeat: nec advocati studium, sed testis aut judicis adferat fidem. Cum interim hæc omnia, quæ vix singula quisquam intentissima cura consequi posset, fluunt illaborata: & illa, qua nihil pulchrius auditu est, oratio præ se fert tamen felicissimam facilitatem. Quare non immerito ab hominibus ætatis suæ regnare in judiciis dictus est: apud posteros vero id consecutus, ut Cicero jam non hominis sed eloquentiæ nomen habeatur. Hunc igitur spectemus: hoc propositum nobis sit exemplum. Ille se profecisse sciat, cui Cicero valde placebit; i quali passi io ho qui voluto recare nell’original loro linguaggio, perché mi è sembrato, che qualunque traduzione fosse per indebolirne di troppo la forza e il nerbo. XIV. Niuno tra’ Latini Oratori, di cui ci sian rimaste le opere, può certamente venire a confronto con Cicerone. E se vi è stato, chi ha preteso di mettergli Seneca al fianco, e di mostrarsi dubbioso, a chi de’ due si debba la preferenza, egli certo più alla sua propria fama che a quella di Cicerone ha recato danno. Tra’ Greci non vi è che Demostene, che gli si possa paragonare. Questi due Oratori ebbero nelle vicende della vita tal somiglianza tra loro, che difficilmente troverassi in altri l’uguale. Amendue possenti nella loro Repubblica dovettero il proprio innalzamento alla loro eloquenza; amendue zelanti per la libertà della patria coraggiosamente si opposero a chi pensava ad opprimerla; amendue per le civili discordie e per l’invidia de’ lor nemici costretti a andarsene in esilio, e poscia con maggior gloria richiamati; amendue più forti di lingua che non di mano, e più possenti nel foro che non nel campo; amendue finalmente vittime della pubblica libertà, insiem colla quale caddero estinti, benché più gloriosamente Cicerone, il quale con coraggio sostenne la morte recatagli, che non Demostene, il quale disperatamente da sé stesso si uccise. Si è disputato assai, a chi di questi due Oratori si debba il primato dell’eloquenza. Nella qual quistione, come in altre ancora, è avvenuto, che alcuni non tanto abbian pensato a esaminare attentamente e a riflettere su’ diversi pregi dell’eloquenza di Demostene e di Cicerone, e a farne un esatto confronto, quanto a sostenere in qualunque modo venisse lor fatto quella opinione, di cui già si erano imbevuti. Ma poco conto è a fare di quelle Dissertazioni, in cui lo spirito di partito anziché l’amore del vero regge la mente e la penna degli Scrittori. Di questo difetto non si può riprendere il P. Rapin nel bellissimo paragone ch’egli ha fatto di questi due grandi Oratori, in cui parmi che abbia giudiziosamente raccolto, quanto si può dire in tale argomento, e in cui, benché non osi decidere, anzi saggiamente pensi non potersi da alcuno decidere, a chi si debba la preferenza, giudica nondimeno, e, per quanto io penso, a ragione, che l’eloquenza di Tullio più che quella di Demostene sia opportuna a persuadere e a convincere il popolo ragionando. Troppo lungo sarebbe l’entrare in questo confronto; né io qui farò altro, che recare il breve ma saggio paragone, che ne fa Quintiliano44. Oratores vero vel præcipue Latinam eloquentiam parem facere Græcæ possunt. Nam Ciceronem cuicumque eorum fortiter opposuerim. Nec ignoro, qua tam mihi concitem pugnam, cum præsertim id non sit propositi, ut eum Demostheni comparem hoc tempore: neque enim attinet, cum Demosthenem in primis legendum, vel ediscendum potius putem. Quorum ego virtutes plerasque arbitror similes, consilium, ordinem dividendi, præparandi, probandi rationem, omnia denique, quæ sunt inventionis. In eloquendo est aliqua diversitas: densior ille, hic copiosior: ille concludit adstrictius, hic latius: pugnat ille acumine semper, hic frequenter & pondere: illi nihil detrahi potest, huic nihil adjici: curæ plus in illo, in hoc naturæ. Salibus certe & commiseratione (qui duo plurimum affectus valent) vincimus. Et fortasse epilogos illi mos Civitatis abstulerit: sed & nobis illa, quæ Attici mirantur, diversa Latini sermonis ratio minus permiserit. XV. Io penso, che Quintiliano abbia ristretto in breve, quanto a questo punto appartiene. Nondimeno, se mi è lecito l’aggiugnere qualche cosa, io rifletto, che Demostene usa sempre di un 147 medesimo genere d’eloquenza, forte, conciso, vibrato. Egli è a guisa di fulmine, che scoppia in un momento, ferisce, e passa; non mai a guisa di vasto incendio, che ampiamente si sparge per ogni parte, ed ogni cosa consuma. Ma Cicerone, benché abbia il più delle volte un’eloquenza più sciolta, e uno stil più copioso e sonante, sa nondimeno, ove gli sembri opportuno, cambiar maniera, e usare di un’eloquenza forte e stringente. In fatti non solo le Filippiche sono scritte in questo stile, ma in altre Orazioni ancora egli ce ne somministra bellissimi esempj. Qual forza, qual precisione, non ha egli in una gran parte della seconda Orazione contro la legge Agraria, di quella a favor di Milone, e in altre ancora, allor quando si tratta di confutare, e di stringere l’avversario! Pare veramente, ch’egli lo assalti, lo urti, lo spinga, finché nol vegga costretto a cedergli il terreno. Se egli vuole sfogare il suo mal talento contro de’ suoi nimici, qual violenza, qual impeto non hanno allora le sue orazioni! Tali son quelle contro di Verre, di Vatinio, di Pisone, e quella a favore di Sestio. Se egli vuol finalmente esaltare i meriti e le gloriose imprese di alcuno, o spiegare que’ sentimenti di gratitudine e d’allegrezza, che convengono alle occasioni, in cui parla, come nelle Orazioni a favore della legge Manilia e di Marcello, e in quelle fatte al suo ritorno dall’esilio, la sua eloquenza piena è allora di pompa, di maestà, di decoro. Ma l’eloquenza di Cicerone trionfa singolarmente nel perorare; e io non temo di dire, che se di tutte le Orazioni di Cicerone, altro non ci fosse rimasto, che la sua perorazione a favor di Milone, potrebbe questa bastare a dargli il primo luogo tra gli Oratori. In fatti tale era la stima, che in ciò aveasi di Cicerone, che quando una stessa causa era da più Avvocati difesa, tutti a lui lasciavano il luogo a perorare, nel che, dic’egli stesso modestamente, il mio dolor medesimo più che il mio ingegno era cagione ch’io sembrassi eccellente45. In questa parte non vi ha luogo a paragon con Demostene, che non era in Atene lecito il perorare, come osserva Quintiliano46; e in questa parte perciò non poté certo Demostene essere a Cicerone modello e maestro. Egli è però a confessare, che molto della sua eloquenza dovette Cicerone a Demostene, le cui Orazioni avea egli con somma attenzione studiate, e alcune anche recatene in lingua Latina. Quindi ancorché voglia concedersi a Cicerone la preferenza sopra Demostene, di che io non ardisco decidere, si potrà sempre affermare a grande onor di Demostene, che egli è stato vinto da chi avea appreso a vincere da lui medesimo. XVI. Troppo dovrei allontanarmi dal mio argomento, se tutti annoverar volessi, e rispondere a tutti quelli, che la loro Critica hanno esercitata contro di Cicerone. Fin da quando egli viveva, Bruto e Calvo, come Quintiliano afferma47, ne riprendevan lo stile, e singolarmente, come lo stesso Autore racconta48, dicevasi da alcuni, che troppo gonfio e ridondante e asiatico esso fosse; a’ quali si può vedere come saggiamente risponde questo giudizioso Scrittore. Al tempo d’Augusto principalmente contro di lui si rivolse, e infierì quasi, Asinio Pollione; il quale ogni arte adoperò per oscurarne la fama. Ma di lui e di questo suo odio contro di Cicerone avremo da favellare tra poco. Qui aggiugnerò solamente, che il figliuolo ancora di Asinio Polliuone, nominato Asinio Gallo, seguì in ciò gli esempj paterni, e un libro scrisse, per testimonianza di Plinio il giovane49, in cui paragonando suo Padre con Cicerone al primo avea data la preferenza. L’Imperador Claudio, che in mezzo a grandissimi vizj era nondimeno uom colto e amante della letteratura, prese egli stesso ad impugnar questo libro, e a fare l’Apologia di Cicerone50. Ebbevi ancora un Largio Licinio, che divolgò, al riferire di Gellio51, un libro contro di sì grande Oratore, coll’ingiurioso titolo di Ciceromastix. Ma la miglior risposta, che a questi ed altri somiglianti saccenti si possa fare, si è il riflettere collo stesso Gellio, che se persino, com’egli dice, contro gli Iddii si è scritto da alcuni, non è maraviglia, che i più grand’uomini stessi divengan talvolta il bersaglio di un’indegna e disdicevole maldicenza. Di Cicerone si parla ancora nell’antico Dialogo De Caussis Corruptæ Eloquentiæ, di cui tra poco avremo a parlare, ove un certo Apro biasima l’eloquenza di Cicerone, la quale poscia da altri è difesa e lodata. Il sentimento di Apro è stato esaminato ancora e confutato in una Dissertazione inserita nelle Memorie di Trevoux52. Non tratterrommi qui a favellare d’alcuni altri moderni, che di Cicerone hanno portato non troppo favorevol giudizio. A me basta il riflettere, che niuno di essi ha avuto fama di grande Oratore, né di colto ed elegante Scrittore. Così essi, mentre han voluto riprendere e screditar Cicerone, ne hanno insieme fatta l’Apologia, mostrando 148 col loro esempio medesimo, che un tal disprezzo non può cadere che in uomo di mediocre e travolto ingegno. XVII. Né solo abbiamo in Cicerone un perfetto esempio, ma sì ancora un eccellente Maestro di eloquenza. I libri da lui scritti intorno all’Arte Oratoria contengono i più giusti, i più esatti, i più minuti ammaestramenti, che giovar possano a formare un valente Oratore. E mentre egli vien svolgendo, quali virtù gli convengano, in quali scienze debba essere istruito, a quante cose debba por mente nello scrivere e nel favellare, viene al medesimo tempo formando una perfetta immagine di sé stesso, a cui niuna mancò certamente di quelle doti, che egli in un perfetto Oratore richiede. Egli non si sdegna di scendere fino alle più minute circostanze della collocazione delle parole, della quantità delle sillabe, dell’armonia diversa, che ne risulta, e di altre somiglianti cose, che solo da’ piccioli ingegni si stiman picciole. So che alcuni rigettano come importuni Pedanti tutti gli Scrittor di precetti. Io spero, che essi non vi involgeranno ancor Cicerone, e que’ pochi, che nello scriver precetti ne han seguito l’esempio. XVIII. Cicerone fu il primo, ma non il solo Oratore, che a’ suoi tempi fosse in Roma. Sarebbe a desiderare, ch’egli nel suo libro de’ celebri Oratori, dopo averci data la Storia degli antichi, anche di quelli, che con lui vivevano allora in Roma, ci avesse parlato. Ma egli sfugge di ragionar de’ viventi, e solo alcuna cosa accenna intorno a Marcello, e più lungamente parla di Giulio Cesare. Del primo dopo avere annoverati i pregi, di cui era fornito, conchiude dicendo, ch’egli pensa, che niuna gli mancasse di quelle virtù, che proprie sono di un Oratore53. Del secondo forma un magnifico elogio, e fralle altre cose afferma, che col grande e attento studio era egli giunto a tal perfezione, che era il più elegante tra gli Oratori Latini54. Un altro passo di Cicerone in lode di Cesare ne ha conservato Svetonio55, tratto da una lettera a Cornelio Nipote, che più non abbiamo, in cui così gli scrive: Chi potrai tu antiporre a Cesare tra quegli Oratori ancora, che solo in quest’arte sonosi esercitati? Chi avvi, che più di lui usi frequenti ed ingegnose sentenze? Chi più colto e più elegante nel favellare? Bellissimo ancora è l’elogio, che di Cesare fa Quintiliano. Questi, egli dice56, se solamente al foro si fosse applicato, sarebbe tra’ nostri il solo da opporsi a Cicerone. Tal forza egli ha, tale ingegno e tal impeto nel ragionare, che ben si vede, che lo stesso animo recò egli a perorare che a combattere. A tutto ciò inoltre si aggiugne una maravigliosa eleganza e proprietà di stile, di cui fu singolarmente studioso. Ma di Cesare più lungamente favelleremo, ove degli Storici ci converrà tenere ragionamento. Molti altri Oratori potrei qui annoverare, che fiorirono al tempo stesso di Cicerone; poiché di molti troviam contezza in varie sue opere, e in quelle di altri Autori. Ma dirò io ancora ciò, che in somigliante argomento dice Quintiliano57: Sunt & alii scriptores boni; sed nos genera degustamus, non bibliothecas excutimus. XIX. Prima però di passare più oltre, vuolsi qui congiungere a Cicerone un suo carissimo schiavo prima e poscia liberto, cioè Tullio Tirone, uomo anch’esso di non volgare sapere, e dal suo Padrone perciò teneramente amato. Basta legger le lettere, che Cicerone gli scrisse58, per vedere quanto esso gli fosse caro. Io penso, che più affettuose espressioni non usasse mai Tullio né colla stessa sua moglie da lui per altro per lungo tempo amata teneramente, né col fratello, né con verun altro di sua famiglia. Era in fatti Tirone uom colto nelle belle arti, e di costumi insieme piacevoli e dolci al sommo; e grande vantaggio recava a Cicerone ne’ suoi studj, come egli medesimo si dichiara scrivendo ad Attico59. Veggo, dice, che tu se’ sollecito per Tirone. Quanto a me, benché egli mi sia di maraviglioso ajuto, allorquando è sano, ne’ miei negozj e ne’ miei studj d’ogni maniera, nondimeno per la piacevolezza e modestia sua più ancora che pel mio vantaggio io desidero ch’egli sia sano. E a lui stesso scrivendo il chiama con Greca voce Regola de’ suoi scritti60; e altrove: Sono innumerabili i servigi, che tu mi rendi e in casa e nel foro, e nella Città e nelle Provincie, e ne’ privati e ne’ pubblici affari, e nelle mie lettere e ne’ miei studj61. Gellio ancora il dice uomo di elegante ingegno, e nell’antica Storia e nelle belle arti bene istruito; benché poi riprenda62 una lettera da lui scritta in biasimo di un’Orazione del vecchio Catone. Più libri ancora egli scrisse, che dagli autori vengono mentovati. Lo stesso Gellio afferma, che parecchi volumi avea egli scritti dell’indole e dell’uso della lingua latina, e di molte e diverse quistioni, e alcuni singolarmente ne loda da lui con Greca voce intitolati Pandette63. La vita ancora dell’amato 149 suo Padrone avea egli scritto, di cui cita Asconio Pediano64 il quarto libro. Anzi un altro libro di Tirone citasi ancora, in cui egli avea raccolti i faceti motti di Tullio, benché Macrobio65 e Quintiliano66 muovano qualche dubbio, che forse lo stesso Cicerone ne sia l’autore; anzi Quintiliano si duole, che poca scelta siasi usata in quella raccolta, e che più al numero che alla grazia de’ motti siasi posta mente. Il Middleton aggiunge, che a lui dobbiamo la conservazion delle lettere di Cicerone, ch’egli diligentemente raccolse. Ella è ancora comune opinione fondata sull’autorità della Cronaca Eusebiana, che Tirone fosse il primo inventor delle cifere, ossia delle abbreviature, trovate a fine di scrivere prestamente ciò, che prestamente da altri si dice. Ma come questo ritrovamento non appartiene propriamente a Storia letteraria, io non ne parlerò più oltre. Si posson su ciò vedere i molti autori dal Fabricio indicati67, ma singolarmente la dotta opera uscita posteriormente in luce del P. Carpentier Benedettino intitolata Alphabetum Tyronianum, stampata in Parigi l’anno 1747. Or torniamo alla Storia dell’Eloquenza. XX. L’Eloquenza latina giunse in Cicerone alla sua maggior perfezione; ma, come spesso accade, poiché vi fu giunta, non ci si tenne gran tempo, e cominciò subito a dicadere. Il secol d’oro della Latinità si fa continuare comunemente fino alla morte d’Augusto, e a ragione per ciò, che appartiene singolarmente alla Poesia e alla Storia. Ma per riguardo all’Eloquenza egli è certo, che dopo la morte di Cicerone più non sorse Oratore, che a lui si potesse uguagliare, o che almeno non molto da lungi il seguisse. Cicerone medesimo se ne avvide ne’ suoi ultimi anni, e chiaramente disse, che la latina Eloquenza andava dicadendo miseramente. La lode, egli dice68, degli Oratori per tal modo è salita dall’imo al sommo, che ormai, come naturalmente avviene in tutte le cose, ella viene mancando, e sembra che in poco tempo ridurrassi al nulla. Questo medesimo è il sentimento di Seneca il Retore69: Tutto ciò, che la Romana Eloquenza può contrapporre o preferire alla superba Grecia, fiorì a’ tempi di Cicerone. Gl’ingegni, che luce e ornamento recarono a’ nostri studj, tutti nacquero allora. D’indi in poi le cose han sempre piegato in peggio. Questo dicadimento adunque dell’Eloquenza Latina appartiene a’ tempi, di cui parliamo; e a questo luogo perciò se ne vogliono attentamente esaminare l’origine e le cagioni. Molto si è scritto su questo argomento; ma a mio parere esso non è ancora stato rischiarato abbastanza. Io non so, quale sarà il frutto delle mie ricerche. Qualunque esse siano, varranno forse ad eccitare alcuno a trattare profondamente una tal quistione in modo, ch’egli riesca a ciò, ch’io avrò inutilmente tentato. XXI. Abbiamo un Dialogo, che da altri si attribuisce a Tacito, da altri a Quintiliano, da altri ad altro Scrittore, di che a suo luogo ragioneremo, ma certo è di Autore antico, che scriveva, com’egli stesso attesta, nel sesto anno di Vespasiano; abbiamo, dico, un Dialogo intitolato De caussis corruptæ Eloquentiæ, nel quale si va disputando, qual possa essere la ragione, per cui l’eloquenza era già dicaduta di tanto. Molte se ne arrecano. E primieramente l’educazion de’ fanciulli troppo diversa da quella, che prima si usava. Ne’ tempi andati, dice l’Autor del Dialogo, le madri stesse avean cura della educazione de’ lor figliuoli, e qualche matura e onesta donna sceglievasi, sotto a’ cui sguardi fossero di continuo, e in cui né parola alcuna meno che onesta non udissero mai, né mai vedessero cosa disdicevole e sconcia. Ora a qualche Greca fantesca si abbandonano i fanciulli, e ad uno o due de’ più vili schiavi, da’ quali nulla possono apprendere fuorché fole ed errori; e ne’ lor genitori medesimi altri esempj non veggono che di ozio e di libertinaggio. Riflette in oltre lo stesso Autore sulla maniera, con cui nelle lettere venivano ammaestrati i fanciulli. In vece d’istruirli, egli dice, nella lettura de’ migliori Scrittori, e nello studio dell’Antichità e della Storia, si conducono alle scuole de’ Retori, uomini, che nella nostra Città non hanno mai avuto gran nome. Quindi rammenta ciò, che narra di sé medesimo Cicerone, cioè dell’infaticabile ardore, con cui egli si rivolse allo studio della Filosofia, delle Leggi, e di ogn’altra scienza necessaria a formare un perfetto Oratore; e mostra, che tale non sarà mai chiunque non sia in tutte le scienze diligentemente istruito. Or come apprenderle, dice, da cotesti Retori, uomini, che nulla sanno non che di Filosofia e di leggi, ma nemmeno di colto ed eloquente parlare? Queste son certamente ragioni tali, che a gran passi conducono all’ignoranza; ma nondimeno esse non fanno al nostro proposito. Qualunque fosse l’educazion de’ fanciulli al tempo d’Augusto, ogni altra scienza fu allora coltivata felicemente; e l’Eloquenza sola fu quella, che venne meno, e dicadde dall’antica 150 sua gloria. Convien dunque cercarne ragioni tali, che sian proprie dell’Eloquenza, e per cui s’intenda, come potessero gli altri studj fiorir tuttora, e la sola Eloquenza soffrir danno sì grande. XXII. Prosiegue di fatto lo stesso Autore, e altre ragioni arreca, alle quali a miglior diritto possiamo attribuire questo fatale dicadimento. Ne’ tempi addietro, egli dice, quando un giovane ammaestrar volevasi nell’Eloquenza, poiché nelle scienze era stato istruito, veniva condotto dal padre ad uno de’ più celebri Oratori, che fossero in Roma. Sotto la direzione di questo continuava egli i suoi studj, e con lui interveniva alle cause, che da lui o da altri si trattavan nel foro. Quale spettacolo era questo, e quanto opportuno a formare un perfetto Oratore! Vedeva il popolo affollato pendere dalle labbra degli Oratori, che ragionavano; vedeva quale impressione facesse negli Uditori il lor favellare, quali fosser le cose, a cui più si applaudisse, e quali venissero disprezzate e ancora derise; vedeva, quali fossero i mezzi più opportuni a destar nell’animo degli Uditori o de’ Giudici que’ movimenti e quegli affetti, che più piacesse. Quindi ammaestrato da tale esperienza, e animato dall’esempio degli altri Oratori, facevasi egli pure in età ancor giovanile a trattar cause e a perorare da’ rostri. Grande ed arduo cimento, ma lusinghevole e dolce, a un giovane di vivace spirito e d’indole generosa! Trovarsi innanzi ad una moltitudine immensa, che benché non avesse in gran parte coltivate le scienze, provveduta nondimeno di ottimo senso, ed avvezza a decidere del merito degli Oratori, era disposta o ad innalzare co’ plausi, o a rigettare colle fischiate, chi la prima volta facevasi ad arringare. Qual ardore e qual fuoco dovea accendere negli animi giovanili un tal cimento! Sapevano essi, che l’eloquenza era una delle più certe e delle più onorevoli vie per giugnere alle più ragguardevoli cariche, e per raccogliere insieme non ordinarie ricchezze. Aveano sotto gli occhj gli esempj di tanti, che per questa via eransi renduti celebri per tal maniera, che giunti a’ più grandi onori, e divenuti gli arbitri, per così dire, del Senato e del Foro, nello stato di Cittadini privati uguagliavano l’autorità, la gloria, e le ricchezze ancora de’ più potenti Monarchi. Quale stimolo a usar di ogni sforzo per seguire le loro traccie! Aggiungansi i magnifici argomenti, de’ quali spesso aveano a trattar ragionando. Molte volte, è vero, eran cause private di Cittadinanza, di furti, di eredità. Ma quante volte aprivasi loro innanzi una carriera, la cui sola veduta risvegliava loro in cuore il più nobile e generoso coraggio! Prender la protezione di un’intera provincia, e sostenerla contro chi voleva recarle danno e rovina; combattere ed atterrare la prepotenza, l’ambizione, i rei disegni di qualche torbido Cittadino; persuadere o dissuadere l’approvazione di qualche legge; eccitare il popolo a desiderio o di guerra o di pace secondo il bisogno. Quindi gli affari della Repubblica divenivano in certa maniera affari proprj dell’Oratore, che li trattava; poiché egli ne avea tutto l’onore, se conduceagli a termine felicemente. Or una tale costituzione di cose, come dovea necessariamente produrre, e produsse di fatto partiti, impegni, discordie, e fazioni ancor sanguinose, così era opportunissima per animare coloro, che dalla natura sortito avessero ingegno pronto e animo generoso, ad applicarsi con ogni studio all’Eloquenza, da cui sapevano, che sarebbono stati condotti ad essere poco meno che reggitori sovrani della Repubblica. XXIII. Ma al contrario dappoiché alla Repubblica succedette la Monarchia, e tutto quasi il potere venne alle mani di un solo, questi motivi cessarono, e quindi quella eloquenza maestosa e vivace, che sin allora avea dominato nella Repubblica, cambiossi in un’eloquenza languida e fredda, e adattata agli argomenti, su’ quali si raggirava. Tutte le cause appartenenti a’ pubblici affari, e le più importanti ancora tralle private, dipendevano dal volere non più del Senato e del Popolo, ma dall’Imperadore; e benché questi per non affettare un dispotico impero mostrasse talvolta di lasciar libera la decisione di alcun affare al Senato, sapevasi nondimeno, a qual parte l’Imperador inclinasse, e niuno ardiva di opporglisi. Quelle stesse cause, di cui faceasi giudizio, si trattavano per lo più innanzi a privati Giudici, e consistevano anzi nell’esaminare i testimonj, nel recitar le scritture, nel rispondere alle quistioni, che nel discorrere e nel perorare. Gli onori e le cariche, oltrecché erano quasi di mero nome, e prive omai di quel frutto, che per l’addietro se ne traeva, erano per lo più conferite non a ragione di merito, ma ad arbitrio di chi regnava. Quindi non è maraviglia, se essendo pressoché inutile l’eloquenza, pochi la coltivassero; e se questi ancora non avendo che tenui argomenti, su’ quali esercitarsi, e non più animati né dal folto popolo spettatore, né dalla speranza di cariche e di onori, perdessero nel favellare quella forza e quel brio, che ne’ 151 Romani Oratori erasi per l’addietro ammirato; e se i giovani non avendo più sotto gli occhj né modelli ed esemplari di perfetta eloquenza, né oggetti valevoli a risvegliare in essi ardore di emulazione, o punto non si curassero di tale studio, o non ne uscissero che freddi e languidi Oratori. All’esercizio del Foro, che più aver non potevasi, succedette quello delle Suasorie, come dicevanlo, o delle Declamazioni, che erano insomma come quelle brevi orazioni, in cui nelle pubbliche scuole or su uno or su altro argomento si esercitano i giovani per formarli a quella eloquenza, i cui perfetti modelli lor si propongono ne’ classici Autori. Ma qual differenza fra una privata declamazion fanciullesca, in cui l’animo non è riscaldato da alcun grande oggetto, che abbia presente, e il pubblico esercizio del Foro, in cui tutte le circostanze concorrevano a risvegliare idee grandi e magnifiche ne’ teneri animi de’ giovinetti! XXIV. Queste son le ragioni, che dall’Autore del citato Dialogo si adducono a spiegare il dicadimento della Latina eloquenza. Si possono esse vedere più ampiamente distese nello stesso Dialogo, e presso l’Ab. le Moine, il quale nel libro da noi altre volte citato, trattando di questo punto medesimo, ne ha fatto un lungo estratto. Nondimeno, s’io debbo dire ciò che ne sento, a me pare, che queste ragioni non siano ancora bastevoli a spiegare un sì gran cambiamento, quale nell’Eloquenza accadde dopo la morte di Cicerone. E io ben intendo, come per le suddette ragioni dovesse indebolirsi, per così dire, e illanguidir l’Eloquenza; ma non intendo, come potesse ella condursi a quel cattivo gusto, a cui pur veggiamo, che fu allora condotta. Minore esser doveva il numero degli Oratori, né essi dovevan più esser compresi da quell’ardore e da quell’impegno, con cui dicevano a’ tempi della Repubblica; ma ciò non ostante giusto poteva essere il lor ragionare, sodo il discorso, chiaro, facile, ed elegante lo stile. Eppur sappiamo, che questi pregi medesimi cominciò allora a perdere l’Eloquenza; pregi, che pur non sembran dipendere dalle accennate ragioni. E di vero osserviamo ciò, che accade anche al presente. Ode tuttora l’Italia non men che la Francia molti Sacri Oratori, i cui ragionamenti si posson proporre a modello di perfetta eloquenza. E nondimeno niun de’ motivi, che concorrevano ad accendere l’entusiasmo de’ Romani Oratori, non può certo concorrere ad infiammare i nostri. Il desiderio solo di applauso non riputerassi, io credo, da alcuno valevole a compensare il difetto di tanti altri motivi. Lo spirito di Religione e di zelo è certamente più d’ogn’altro mezzo efficace ad accendere l’Oratore non meno che gli Uditori. Ma si può egli dir veramente, che i più religiosi e zelanti Predicatori siano sempre ancora gli Oratori più eloquenti? Che più? Le stesse o intrinseche o estrinseche circostanze, che posson ora concorrere a render perfetti i Sacri Oratori, eran certo le stesse anche nel passato secolo, eran le stesse nel secolo decimosesto. Eppur qual diversità tra gli Oratori di questa età, e quelli dell’età trapassate! Come dunque nelle medesime circostanze pur vi hanno sì diversi generi di Eloquenza, così potrebbe lo stesso genere conservarsi anche in circostanze diverse. Convien dunque entrare ancora più addentro in questo argomento, e trovare qualche altra ragione, a cui il dicadimento dell’Eloquenza si possa più probabilmente attribuire. XXV. Seneca entra egli pure a trattarne; e appresso le parole da noi già recate, in cui afferma, che dopo Cicerone l’Eloquenza cominciò a venir meno, così prosiegue recandone le ragioni: Sive luxu temporum, nihil est enim tam mortiferum ingeniis quam luxuria; sive cum præmium pulcherrimæ rei cecidisset, translatum est omne certamen ad turpia multo honore quæstuque vigentia; sive fato quodam, cujus maligna perpetuaque lex est, ut ad summum perducta rursus ad infimum, velocius quidem quam quod ascenderant, relabantur. Arreca egli per prima ragione il lusso introdotto in Roma; e certo è difficile assai, che lusso e scienza convengano insieme. Ma questa non è ragione particolare a far cader l’eloquenza, ma universale a rovina delle scienze tutte. Più particolare all’eloquenza è la ragione de’ premj, che non potevansi più sperare: di questa già abbiam perlato di sopra. Lasciamo a Seneca il suo destino, che adduce per terza ragione. Ma benché rigettisi il destino, vero è nondimeno, che vedesi comunemente avvenire, che ove qualche arte o qualche scienza è giunta alla sua perfezione, cominci a dicaderne di nuovo, e non ritorni per poco nell’antica rozzezza. Quindi il progresso nelle scienze da un ingegnoso e profondo moderno Scrittore70, a cui il vasto sapere singolarmente nelle Matematiche scienze ha acquistata non nell’Italia solamente ma nell’Europa tutta non ordinaria fama, viene paragonato a una linea 152 curva, che giunta alla maggior sua altezza di nuovo scende e si abbassa fino al piano medesimo, ond’era salita. Dal che egli con Geometrica dimostrazione gentilmente scherzando deduce, che le scienze, le quali in questa nostra sì colta età sembrano giunte alla lor perfezione, fra non molto cominceranno a decader di bel nuovo, e forse il mondo troverassi un’altra volta sepolto nell’antica ignoranza. Ma io spero, che il chiarissimo Autore di questa, com’ei la chiama, Geometrica predizione, mi permetterà di dire, che egli stesso sarà in gran parte cagione, ch’essa dall’esperienza medesima de’ tempi avvenire sia convinta di errore. Troppo omai sono celebri le belle scoperte, che nella Geometria, nella Fisica, nella Astronomia egli ha fatte, perché possano un giorno essere dimenticate. Né io penso perciò, che questa Geometrica predizione non debba in qualche parte avverarsi. Ma ad intendere, come debba ciò accadere, ci conviene investigar la natura e l’indole delle Scienze e delle Arti. Questa ricerca non è punto estrania al mio argomento; anzi da essa unicamente si può dedurre lo scioglimento della quistione, di cui ora trattiamo. XXVI. Benché i nomi di Scienze e di Arti liberali si prendano talvolta promiscuamente l’uno per l’altro, nondimeno a parlar con rigore hanno tra lor notabile diversità. Scienze diconsi quelle, che hanno il vero per loro primario oggetto; Arti liberali si dicon quelle, che per loro primario oggetto hanno il bello71. Nelle prime si adopra singolarmente la ragione e la sperienza: nelle seconde l’immaginazione. Alle prime perciò appartengono la Teologia, la Filosofia, la Matematica, la Storia (in quanto è ricerca delle cose avvenute), le Antichità, ed altri somiglianti generi di dottrina, co’ quali l’uom si prefigge di giugnere allo scoprimento di una verità non ancor conosciuta. Alle seconde appartengono l’Eloquenza, la Poesia, la Pittura, la Scultura, l’Architettura; nelle quali l’immaginazione usa ogni sforzo per giungere a quel bello, che alla lor perfezione è richiesto. Or io penso, che la riferita Geometrica predizione possa avverarsi nelle seconde solamente, non nelle prime. Nelle Scienze v’ha luogo all’errore, finché esse non son giunte alla lor perfezione, cioè finché non è scoperta ed accertata la verità. Ma quando ciò accada, parmi che non vi sia luogo a decadimento, purché non si dimentichino i fondamenti, a cui la verità si appoggia. Svolgiamo questo pensiero con qualche pratica riflessione. Quanti errori si sono anticamente spacciati sull’orrore del voto! Molti fenomeni della natura se ne credevano essere un necessario effetto. Questa parte di scienza non era ancor giunta alla sua perfezione. Ma finalmente vi è giunta, e mille diverse sperienze ci hanno evidentemente dimostrato, che i fenomeni, che si attribuivano all’orrore del voto, sono necessarj effetti della pressione dell’aria. Vi ha egli luogo a temere, che si torni a sostener l’antica opinione? Somiglianti rivoluzioni nelle scienze possono essere accadute ne’ tempi andati, quando lo scarso numero de’ libri era cagione, che facilmente si perdesse la memoria di ciò, che da altri erasi osservato e scoperto. Ma come puossi temer ciò al presente, che col mezzo delle stampe tanto sono moltiplicati i libri in ogni parte del mondo? Non vi vorrebbe meno o di un nuovo universale diluvio o di un generale incendio, che tutti i libri consumasse e tutti i begli stromenti e le ingegnose macchine, che or sono in qualunque anche men colta provincia. Per altra parte l’uomo, che naturalmente desidera di poggiar più alto, che non fecero que’, che l’han preceduto, nelle scienze ritrova sempre nuovo pascolo alla sua curiosità e alla sua ambizione. Il regno della Natura è tanto vasto e spazioso, che, per quante scoperte si facciano, sempre assai più son quelle, che ancor restano a fare. Noi veggiamo in fatti, che nuove proprietà ognor si osservan ne’ corpi, nuove scoperte si fanno nell’immenso spazio de’ Cieli, e nuova perfezione si aggiunge alle macchine e agli stromenti. Quindi uno può avanzarsi sempre in tali cognizioni, né mai trova confine, oltre il quale se egli si avanza, ricada al basso. Io dunque, per usare de’ termini del valoroso e profetico Geometra, paragonerò io pure il progresso delle scienze a una linea curva, ma a una linea curva infinita, su cui salendo non si arriva giammai alla più alta cima, sicché vi sia pericolo di ricadere colà, onde si cominciò a salire72. XXVII. Ma non così vuol ragionarsi delle Arti liberali, che hanno il bello per loro primario oggetto. Questo consiste nella unione, nella distribuzione, nell’ordine, nell’espression delle parti, e quando in ciò arrivi a quella perfezione, che costituisce il bello, il volere ancora avanzarsi più oltre è il medesimo che dare addietro. Così abbiam veduto accadere nelle tre Arti sorelle, la Pittura, la Scultura, l’Architettura. Queste, allorquando risorsero dopo i secoli barbari, vennero a lenti passi 153 crescendo per ben due secoli, finché nel decimo sesto poteron dirsi perfette. Que’ che vennero dopo, non vollero essere imitatori, ma nuove bellezze e nuovi ornamenti vi vollero aggiugnere, e con ciò essi le fecero decadere da quella perfezione, a cui eran salite. Lo stesso dee dirsi dell’Eloquenza. Mi si dia un Oratore perfetto, in cui la forza del sentimento sia congiunta alla grazia dello stile, la facondia alla precisione, la coltura e la eleganza alla chiarezza e alla semplicità; che tutte insomma abbia quelle virtù, che in un Oratore sono richieste. Se un altro gli venga dietro, e voglia giugnere a una perfezione ancora maggiore, questi verrà ad essere Orator vizioso. Una maggior facondia diverrà nojosa e languida prolissità; una maggior precisione diverrà un gergo misterioso ed oscuro; una maggior eleganza diverrà un affettato raffinamento; una chiarezza per ultimo e una semplicità maggiore verrà degenerando in umiltà e bassezza. Nelle Arti Liberali solo adunque e nel loro progresso ha luogo la linea curva, nella quale, ove uno sia giunto alla più alta cima, non può andar oltre senza ricadere al basso. Or questo è appunto, s’io non m’inganno, ciò che accadde per riguardo all’Eloquenza. Aveala Cicerone condotta alla maggior perfezione, a cui fosse mai arrivata. Que’ che vennero dopo, se fossero stati paghi di seguirne le tracce, e solo si fosser prefissi di schivare qualche leggier difetto, in cui egli era caduto, sarebbono stati essi pure perfetti Oratori. Ma vollero andar oltre; vollero esser migliori di Cicerone; vollero condurre l’eloquenza a una perfezione ancora maggiore. Or che ne avvenne? Questa maggior perfezione non fu che il principio di un totale decadimento. Ripresero lo stile di Cicerone come troppo sciolto e diffuso; e cominciossi allora a introdurre quello stile tronco e conciso e oscuro e pieno di sottigliezze; il ripresero come non abbastanza elegante e colto, e si prese allora ad usare di parole e di locuzioni affettate; pensarono in somma di levarsi più in alto di Cicerone, e vennero a cadere più basso di assai73. XXVIII. Così spiegata l’origine del dicadimento della Romana Eloquenza, rimane a vedere chi ne fossero i principali Autori. Molti ne incolpano Seneca; ma assai prima di lui avea l’Eloquenza sofferto un rovinoso tracollo. L’Abate Gedoyn nella bella Prefazione premessa alla Traduzion Francese di Quintiliano da lui pubblicata in Parigi l’anno 1718 ne accusa singolarmente Ovidio e Mecenate. Ma l’esempio di Ovidio non poteva certo aver forza su gli Oratori, che non volevano da un Poeta apprendere l’Eloquenza. Mecenate egli pure non fu Oratore, e benché possa aver concorso a introdurre uno stil languido e ricercato, di cui già abbiamo veduto ch’ei si compiacque, pare nondimeno, che dalla schiera stessa degli Oratori si debba sceglier l’autore di questo decadimento; e io penso, che questi fosse singolarmente Asinio Pollione74. Era egli uom colto e di non ordinario sapere, e della Romana letteratura benemerito singolarmente per la pubblica Biblioteca da lui prima che da ogni altro aperta in Roma. Ma pare, che egli volesse innalzar la sua gloria sulla rovina di quelli, che aveanlo preceduto. I migliori tra’ Romani scrittori furon da lui presi di mira. I Comentarj di Cesare, che tanto sono lodati da Cicerone, diceva egli che negligentemente erano scritti e con poca veracità: Pollio Asinius parum diligenter, parumque integra veritate compositos putat75. Contro di Sallustio scrisse un libro, riprendendolo come affettato ricercatore di antiche parole: Asinius Pollio in libro, quo Sallustii scripta reprehendit, ut nimia priscorum verborum affectatione oblita76. In Tito Livio ancora trovava egli una cotal aria Padovana, quamdam Patavinitatem77, che niuno né allora né poi ha osservata in questo elegante Scrittore. Ma contro di Cicerone singolarmente, come già abbiamo accennato, mostrossi egli pieno di fiele e d’invidia. Seneca il Retore dice, ch’egli fu sempre nimicissimo della gloria di Cicerone78, e che dopo aver raccontato nelle sue Storie, che Verre morì con singolare costanza, avea poi narrata la morte di Cicerone in maniera odiosa e maligna79. L’eloquenza di questo grand’uomo era quella, che sopra ogni altra cosa gli dettava in cuore un’invidia e una gelosia indegna d’uomo nobile e dotto. Pare, ch’egli si fosse prefisso di oscurarne la gloria, e di superarlo in onore. E questo suo disegno si fe palese singolarmente in un’occasione, di cui parla lo stesso Seneca80. Un certo Popilio Ena avea preso a recitare un suo Poema sulla morte di Cicerone in casa di Messala Corvino, ove con altri era presente Pollione. Dié principio il Poeta a’ suoi versi con questo: Deflendus Cicero est, Latiæque silentia linguæ. Il che appena udito da Pollione, sdegnatone altamente, e rivoltosi a Messala, Di ciò, gli disse, che si convenga fare in tua casa, tu stesso ne giudica. Ma io certo non tratterrommi a udire costui, a cui 154 sembra ch’io sia mutolo. Voleva egli in somma esser creduto Orator troppo migliore di Cicerone, e perciò, come racconta Quintiliano, egli e ancora il di lui figliuolo Asinio Gallo presero a morderne l’eloquenza e lo stile, e a volervi trovar difetti: Vitia orationis ejus etiam inimice pluribus in locis insequuntur81. E abbiam già veduto di sopra, che il figlio ardì poi di scrivere un libro, in cui l’eloquenza di suo Padre anteponeva a quella di Cicerone. Così Pollione di tutti i migliori e più colti scrittor Romani parlava con biasimo e con disprezzo per tal maniera, che S. Girolamo82 indicar volendo un maligno mormoratore chiamollo più volte col nome di Pollione. Questi adunque, per isfuggir que’ difetti, che vantavasi di avere scoperti negli altri, un altro genere di eloquenza prese a seguire diverso da quello, che a’ tempi di Cicerone si era seguito. XXIX. Or quale era ella l’eloquenza di Pollione? Udiamolo da Quintiliano, uno de’ migliori Giudici in tale argomento: Multa in Asinio Pollione inventio, summa diligentia, adeo ut quibusdam etiam nimia videatur: & consilii & animi satis: a nitore & jucunditate Ciceronis ita longe abest, ut videri possit seculo prior83. Seneca il Filosofo ancora, benché battesse una via affatto diversa da quella di Cicerone, e concorresse egli ancora al decadimento sempre maggiore della Latina Eloquenza, nondimeno facendo il confronto di Pollione con Cicerone, così dice: Lege Ciceronem: compositio ejus una est, pedem servat, curata, lecta, & sine infamia mollis. At contra Pollionis Asinii salebrosa & exiliens, & ubi minime expectes, relictura. Denique apud Ciceronem omnia desinunt; apud Pollionem cadunt84. E parimenti l’autor del Dialogo De Caussis corruptæ eloquentiæ ne forma questo carattere: Asinius quoque, quamquam propioribus temporibus natus sit, videtur mihi inter Menenios & appios studuisse. Pacuvium certe & Attium non solum tragoediis, sed etiam orationibus suis expressit; adeo durus & siccus est. Finalmente Seneca il Retore, dopo aver detto, che l’ambizione dava in certo modo regola agli studj di Pollione, e che perciò fu egli il primo tra’ Romani, che, raccolta una scelta schiera di amici, leggesse loro i suoi componimenti, aggiugne85: illud strictum ejus & asperum & nimis ratum in dicendo judicium adeo cessabat, ut in multis illi venia opus esset, quæ ab ipso vix impetrabatur; accennando così, e quanto egli fosse difficile ad approvare le cose altrui, e quanto avesse egli bisogno di trovare negli uditori quella piacevole sofferenza, ch’egli negava di usare a riguardo degli altri. Così Pollione volendo oscurar la fama di Tullio, e condur l’Eloquenza a una perfezion maggiore di quella, a cui quel grand’uomo l’avea condotta, venne a ricadere in que’ difetti medesimi, da cui Tullio aveala diligentemente purgata; e abbandonando la facondia, la grazia, la naturale eleganza di Cicerone, uno stile introdusse arido, tronco, affettato, e somigliante a quello, che usavasi dagli antichi Oratori. XXX. Or essendo Pollione uomo di gran sapere, e che godeva in Roma di molta stima, non è maraviglia, che seducesse col suo esempio molti altri; e che quindi l’aurea eloquenza di Cicerone si venisse poco a poco oscurando, per così dire, e cadesse in dimenticanza, e si prendesse a battere la nuova strada, che da Pollione erasi aperta. Al che le circostanze de’ tempi concorsero a mio parere non poco, non tanto per le ragioni di sopra arrecate, quanto per due altre, ch’io accennerò brevemente. E in primo luogo, se il nuovo genere di Eloquenza, che da Pollione e da’ suoi imitatori fu introdotto, si fosse preso ad usare a’ tempi della Repubblica, il popolo, che era in Roma il più giusto ed imparzial giudice della vera Eloquenza, avrebbe co’ fatti mostrato, quanto fosse superiore all’Eloquenza di Pollione quella di Tullio; e i nuovi Oratori avrebbono dalla sperienza loro medesima appreso, che ad essere arbitro della Repubblica conveniva seguir le vestigia di Cicerone. Ma il sistema del governo era cambiato: i grandi affari regolavansi secondo il volere dell’Imperadore; e il popolo più non aveva che un’ombra apparente di libertà e di potere; né era perciò in istato di dare pubblicamente a conoscere, qual genere d’eloquenza fosse il più opportuno a muoverlo e a piegarlo. In secondo luogo il mostrarsi seguace e imitatore di Cicerone, cioè di un uomo, che della pubblica libertà erasi sempre mostrato tanto zelante, di un uomo, il cui nome e la cui eloquenza rimproverar doveva ad Augusto la suprema autorità da lui usurpata, di un uomo per ultimo, di cui egli avea permessa, o fors’anche voluta la morte, non era cosa, che si potesse credere cara ad Augusto; e quello spirito d’infingimento e di adulazione, che a questo tempo cominciò ad introdursi in Roma, e che tanto poscia si accrebbe sotto i seguenti Imperadori, dovette 155 probabilmente condurre gli Oratori a tenersi lontani dall’imitazione di Tullio, di cui non credevasi cosa sicura il favellare con lode, ed a seguire in vece gli esempi di Pollione e di altri di lui seguaci. XXXI. Queste a mio parere si furono le principali cagioni, per cui la Latina Eloquenza dopo la morte di Cicerone degenerò e venne meno. Io so, che altri ne incolpano Cassio Severo Orator celebre a’ tempi di Augusto, e si appoggiano a un passo dell’Autor del Dialogo De caussis corruptæ Eloquentiæ da noi poc’anzi citato, ove si dice; Cassium Severum... primum affirmant flexisse ab illa vetere atque directa dicendi via. Ma vuolsi riflettere, che questi non fiorì che verso il fine dell’Impero di Augusto; perciocché la Cronaca Eusebiana ne pone la morte seguita sotto Tiberio, e dopo 25 anni di penosissimo esilio, l’anno 784 di Roma, ossia nel quarto anno dell’Olimpiade CCII86. E il cambiamento dell’Eloquenza par che accadesse subito dopo la morte di Cicerone. Innoltre può essere, che Cassio Severo fosse un de’ primi ad allontanarsi dall’eloquenza di Cicerone; ma egli non era uomo di tal credito e di tal potere in Roma a operarvi sì gran cambiamento. Certo tutte le cose, che finora abbiam dette di Pollione, ci rendon assai più probabile, che egli e non altri fosse il principale autore di questa rivoluzione. XXXII. Quintiliano nomina alcuni Oratori87, che al tempo di Augusto ebber fama di eloquenti. Ma da ciò, ch’egli stesso ne dice, raccogliesi chiaramente, che troppo lungi essi furono dal poter venire in confronto cogli Ortensi, co’ Cesari, co’ Ciceroni. Noi perciò lasceremo di dirne più oltre. Per quali ragioni poi l’Eloquenza Latina non mai risorgesse, ma andasse sempre vieppiù decadendo, il vedremo, quando de’ tempi seguenti avremo a ragionare. 156 Note 1 L. I de Orat. n. 4. 2 Alle cagioni, che concorsero a fare, che l’Eloquenza avesse in Roma sì pronti e sì felici progressi, si può aggiugnere ancor quella, che recasi dall’Ab. du Bos (Réflexions sur la Poesie &c. t. III p. 134 &c.). L’Eloquenza, dice egli, non sol conduceva alla più luminosa fortuna, ma era ancora, per così dire, il merito alla moda. Un giovane nobile, e di que’ che talvolta leggiadramente si dicono il fior più fino di Corte, vantavasi di perorar bene, e di difendere con applauso le cause degli amici ne’ Tribunali, come oggi si vanta di avere un bell’equipaggio ed abiti di buon gusto, e ne’ versi, che in lode di lui si facevano, rammentavasi ancor l’arte di ben parlare. Ei ne cita in prova questi versi di Orazio (Carm. lib. III od. I), con cui egli parlando a Venere di un cotal giovane, così le dice: Namque & nobilis & decens Et pro sollicitis non tacitus reis, Et centum puer artium Late signa feret militiæ tuæ. In tal maniera il genio ancora e la moda concorre a promuovere le Scienze, e il desiderio di piacere rende dolce a soffrirsi quella fatica nel coltivarle, che altrimenti sembrerebbe gravosa troppo e insopportabile. 3 De Cl. Orat. n. 27. 4 Ib. n. 33. 5 Vit. Tib. & C. Gracch. 6 De CL. Orat. n. 27. 7 Plutarch. l. c. 8 Valer. Max. l. IV c. IV n. 1. 9 l. c. n. 58. 10 L. I C. I. 11 V. Freytag Specimen Hist. Liter. p. 43. 12 Plutarch. l. c. & Plin. Histor. L. XXXIV C. VI. 13 Consol. ad Helv. p. 199 edit. Elzevir., & Consol. ad Marc. p. 271. 14 L. c. p. 45. 15 De Cl. Orat. n. 36. 16 De Orat. lib. II n. 45 &c. 17 Vit. C. Marii. 18 De Orat. l. III n. 3. 19 De Cl. Orat. n. 82. 20 De Virili Ætate Lin. Lat. Vol. II p. 10 &c. 21 De Cl. Orat. n. 64. 22 Ibid. 23 Ibid. n. 88. 24 Ibid. n. 92. 25 Ibid. n. 93. 26 Ibid. n. 94. 27 Vit. Attici. 28 Orator. n. 38. 29 Gellius. lib. I c. V. 30 Saturn. lib. II c. IX. 31 Cic. l. VIII ad Famil. ep. II. 32 L. XI c. III. 33 Quintil. l. I c. I; Valer. Max. l. VIII c. III. 34 A intender meglio le cose, che qui e altrove raccontiamo di Cicerone, ecco una breve notizia delle principali epoche della sua Vita, secondo il Middleton. Nato in Arpino l’anno di Roma 647 da Marco e da Elvia di lui moglie, e istruito ne’ buoni studj, cominciò verso l’età di 26 anni a trattar le cause nel Foro. Viaggiò poscia in Grecia e tornatone fu nominato Questore l’anno 678, e con tal titolo stette l’anno seguente in Sicilia. Fu eletto Edile l’anno 683, fu Pretore nel 687 e Console nel 690, nel qual anno scoprì, e sciolse la congiura di Catilina. Ma questa stessa congiura, e l’odio, in cui per essa egli cadde presso i congiurati rimasti vivi e presso i loro fautori, gli fu poscia cagion dell’esilio da Roma, che dovette sostenere cinque anni appresso. Richiamatone l’anno seguente fu nel 702 mandato Proconsole nella Cilicia, ove ei lunsigossi di aver date pruove di valor militare, ed ebbe dall’esercito il titolo d’Imperadore. Giunto di ritorno a Roma sul cominciare del 704 vide poco dopo accendersi la guerra Civile tra Cesare e Pompeo, nella quale fu nel partito del secondo, ma in modo che seppe ancor conciliarsi il favore del primo, della cui morte però, s’ei non fu complice, fu certo approvatore e lodatore. Nella nuova guerra, che arse poscia fra Ottavio e Antonio, stette pel primo. Ma poiché essi e Lepido si riunirono insieme, Cicerone fu una delle vittime alla loro amicizia sagrificate, e per volere di Antonio fu ucciso a’ 7 di Dicembre dell’anno di Roma 710. 35 De Orat. lib. II n. 1. 157 36 De Cl. Orat. n. 91. 37 Plutarch. Vit. Cicer. 38 Lib. I de Legib. n. 3. 39 V. Quintil. l. VII c. III. 40 Suasor. VI. 41 Lib. II. 42 Lib. VII c. XXX. 43 L. X c. I prope fin. 44 L. X c. I. 45 Orator. n. 37. 46 Loc. cit. 47 l. XII c. I. 48 Ib. c. X. 49 Lib. VII epist. IV. 50 Sveton. in Claud. c. XLI. 51 L. XVII c. I. 52 An. 1718 Mars p. 552. 53 Num. 71. 54 Num. 72. 55 In Julio c. LV. 56 L. X c. I. 57 Ibid. 58 L. XVI ad Famil. 59 L. VII ep. V. 60 L. XXI ad Famil. ep. XVII. 61 Ib. ep. III. 62 L. VII c. III. 63 L. XIII c. IX. 64 Comment. in Orat. pro Mil. 65 L. II Saturn. c. III. 66 L. XI c. III. 67 Bibl. lat. t. I p. 431 Edit. Ven. 68 Tusculan. lib. II n. 2. 69 Præfat. ad lib. I Controv. 70 P. Rog. Jos. Boscovich Societ. J. in Supplem. ad Philosoph. Recente. Benedicti Stay tom I p. 352. 71 La distinzione, ch’io fo a questo luogo tralle Scienze e le Belle Arti, dicendo, che quelle hanno per lor primario oggetto il vero, e che queste hanno per lor primario oggetto il bello, e che perciò nelle prime si posson sempre far nuovi passi, sì vasto essendo il regno della natura, che riman sempre nuovo paese a scoprire, ma che quando le seconde son giunte a quella perfezione, in cui consiste il bello, il volere ancora avanzarsi più oltre è il medesimo, che dare addietro; questa distinzione, io dico, e questa mia opinione è stata ingegnosamente impugnata dal Sig. Conte Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato Passerano (Saggio sopra l’Arte Storica, Torino 1773, p. 291 ec.). Questo valoroso Cavaliere con quella urbanità, che è propria della sua nascita, e che a tutti gli uomini di lettere dovrebbe esser comune, dopo aver onorata la mia Storia troppo più ch’ella non merita, si fa a esaminare e a combattere ciò, ch’io affermo. E in primo luogo egli pruova, che il Bello non è proprio solamente delle Arti, ma ancor delle Scienze, e che con ugual ragione si dice bella una dimostrazione, una scoperta ec., che un Poema o un’Orazione, e a tal fine assai giustamente distingue il Bello della Natura, il Bello intellettuale, e il Bello d’imitazione. Ciò ch’egli dice su tale argomento fa ben conoscere, quanto giuste e chiare siano l’idee, ch’egli ne ha; e io confesso, che assai meglio di me egli ha analizzata questa materia. Mi lusingo nondimeno, che se si esamini attentamente ciò, ch’io ne ho detto, si vedrà che quanto alla sostanza io non mi discosto molto dal sentimento di questo eruditissimo Cavaliere, perciocché io non affermo, che l’unico oggetto delle Scienze sia la scoperta del vero, ma solo ch’essa è l’oggetto loro primario, il che non esclude, che in esse anche il bello non abbia la sua parte, e che potendosi sempre fare nuove scoperte, nuove bellezze si possan sempre aggiungere. Quanto all’altro punto, cioè, che nelle Belle Arti il voler andare più oltre di quel che han fatto i più perfetti modelli, che ne abbiamo sotto gli occhj, sia il medesimo che il condurre l’arte medesime al loro decadimento, egli osserva, che per quanto eccellenti siano cotai modelli, non son però tali, che qualche maggior perfezione non possa loro aggiungersi, e questa sua proposizione ancora provasi da lui molto ingegnosamente. Egli poscia conchiude: La cagione per tanto della decadenza di queste (delle Belle Arti), quando sono giunte ad un certo segno, non è che limitato sia il Bello, ma è che limitato è l’ingegno umano; perciò bisogna cercarla nella natura dell’uomo, non nella natura delle medesime... L’esser posti dalla ristretta natura dell’ingegno umano limiti, mentre l’uomo desidera e procura ad onta delle sue poche forze di andar avanti, è quello che cagiona la decadenza delle Belle Arti, massime in quelle che imitano il Bello Metafisico della Natura, e le fa cadere nel ricercato e nel manierato. Gli sforzi, che si fanno da’ mediocri, ed anche, ove non sieno regolati, da’ grandi ingegni, per andar oltre nella espressione del Bello, producono 158 il gusto falso, che sembra bello, perché nuovo e difficile, benché il nuovo solo e il solo difficile non bastino per costituire maggior grado di Bellezza. Questa fu la cagione della depravazione in Italia della Poesia, della Eloquenza, dell’Architettura nel secolo scorso, e della Musica nel nostro. Così il Ch. Autore, alle cui riflessioni io ben volentieri mi arrendo. Anzi interrogando me stesso, parmi che ciò appunto volessi io dire, e che se taluno mi avesse fatta l’obbiezione, che il mio cortese e valoroso avversario mi ha fatta, avrei io pure spiegata la cosa in somigliante maniera. Rileggendo però ciò ch’io ho scritto in questo e in altri passi della mia Storia, conosco, che non ho spiegato abbastanza il mio sentimento, e mi compiaccio di aver con ciò data occasione a questo dotto Scrittore di mettere in tanto miglior luce l’accennata quistione. V. la nota seguente. 72 Anche il Sig. Ab. Andres ha combattuta, e con quelle gentile maniere, che a lui son proprie, questa mia opinione (Dell’origine e progressi d’ogni Letter. T. I p. 489 ec.). Egli crede in primo luogo, che anche nelle scienze possa avvenire un funesto decadimento, perciocché, egli dice, può accadere, che gli uomini abbandonando le verità scoperte già e conosciute tutti si rivolgano a inutili sottigliezze e a vane speculazioni, e può anche avvenire, a cagion d’esempio, che non curando punto le osservazioni e le esperienze di tanti illustri Filosofi, si torni all’antica opinione dell’orrore del voto. A me pare, che due cose sian queste molto tra lor diverse. Che gli uomini lasciati in disparte i buoni ed utili studj si possan volgere solo a coltivare gli inutili, né io il negherò, né alcuno vorrà negarlo. Ma non è questo il decadimento, di cui si parla. Che in un secolo si studj più, meno in un altro, che in una età le frivole cognizioni si antipongano alle serie, e trascurate le gravi scienze non si occupin gli uomini che in ridicole inezie, può nascer da mille cagioni, che a questo luogo non appartengono. La quistione, di cui qui trattasi, è quella, che in secondo luogo accenna l’Ab. Andres; cioè se allor quando una verità è scoperta, e con evidenti ragioni o con replicate infallibili sperienze provata e confermata, si possa temere, che lasciandosi essa cadere in dimenticanza si torni all’antico errore, da cui per essa eravamo usciti. Or questo è ciò, di che io non so persuadermi, e parmi impossibile, che nelle circostanze da me descritte, nelle quali ora viviamo, ciò sia per accadere generalmente. Dico generalmente, perché potrà certo avvenire, che qualche ingegno troppo amante di novità si allontani dal vero, ancor quando esso è condotto alla evidenza; ma che questo traviamento si possa render comune e universale, io il ripeto, non so indurmi a pensarlo. Crede innoltre l’Ab. Andres, che non debba ripetersi la decadenza dell’amena Letteratura, come io ho affermato, dal desiderio di voler superare que’ rari genj, che alla lor perfezione l’avean condotta; e afferma, che benché sembri, a cagion d’esempio, l’eloquenza condotta alla sua perfezione, sempre nondimeno può trovarsene una maggiore, a cui perciò è lecito l’aspirare. Così, egli dice, poteva un genio uguale a Tullio sollevar l’eloquenza a grado ancor più sublime di quello, a cui egli l’avea condotta. Io nol nego. Ma questi genj capaci d’innalzarsi cotanto sopra que’ genj medesimi, che si considerano come originali e perfetti, quanto son rari? E quanto è perciò più facile ad avvenire, che gli uomini, quali essi sono comunemente, volendo superare que’ gran modelli, cadano nel vizioso, e troppo da essi si allontanino! Io prego innoltre il mio valoroso Avversario a riflettere, che io dico ciò accadere non quando le arti sembrano, ma quando veramente sono giunte alla lor perfezione. Si può dare, a cagion d’esempio, una tal precision di discorso, che il volerla render maggiore il faccia divenire oscuro, una tale eleganza, che volendola spinger più oltre divenga raffinamento. Egli sa troppo bene, che sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum. In tal caso potrà egli negare, che il voler superare cotai perfetti modelli sia lo stesso che il dare addietro? Ma forse è questo un oggetto degno di più lunga Dissertazione, e forse se egli ed io svolgessimo più ampiamente i nostri pensieri, ci accorgeremmo di non esser così l’uno dall’altro discosti, come ci sembra. Così ha osservato anche il valoroso Sig. Ab. Gioachimo Millas, il quale ingegnosamente ha trattato di questo argomento medesimo (Dell’unico e massimo principio ec. T. I Vol. II C. V). 73 L’Ab. Andres, a cui non piace, come si è detto, l’origine da me assegnata al decadimento della Romana Eloquenza, che è comune anche alla Poesia, un’altra ne assegna (Origine, e progressi d’ogni Letter. T. II p. 128 ec.), cioè perché nelle scolastiche Declamazioni era apprezzato il falso sublime, e lo stile affettato, ridondante, e ampolloso, e quindi, come quell’esercizio di declamare contribuì al corrompimento della eloquenza, così contribuì a quello ancora della Poesia. Giustissima è l’osservazione di questo valoroso Scrittore; ma non mi sembra, che basti a spiegare il decadimento, di cui si tratta. Le scuole dell’Eloquenza erano in Roma anche a’ tempi di Cicerone, che le frequentò, come narra Plutarco, e in esse ancora si declamava, e nondimeno l’Eloquenza era sì diversa da quella dell’età susseguente. Rimane dunque ancora a cercare, per qual ragione nelle Scuole e delle Declamazioni il falso sublime succedesse al vero, e invece dello stil grave ed elegante si introducesse l’affettato e il vizioso. 74 Torna qui in campo l’Ab. Lampillas (T. I p. 84) e mi oppone, che Mecenate assai più che Pollione fu l’Autore della corruzione dell’eloquenza. Ciò poco monta al mio e al suo argomento, ed è inutile il disputarne più oltre. Si legga ciò, ch’io ne ho detto, si legga ciò, che ne dice l’Ab. Lampillas; si confrontin tra loro i due passi, si esamini se lo stile languido e effeminato di Mecenate abbia avuti imitatori e seguaci, e ognun tenga l’opinione che più gli piace. Non è qui luogo d’esaminare un’altra obbiezione, che poco prima m’avea egli fatto (pag. 73), cioè, che benché io non neghi, che prima de’ Seneca avesse l’Eloquenza sofferto un rovinoso tracollo, da essi però affermo, ch’ebbe ella il maggior danno; il che dic’egli esser falsissimo, perché fin dagli ultimi anni di Cicerone l’Eloquenza avea cominciato a decadere. Su questo argomento tornerò nelle Giunte al Tomo secondo della mia Storia, ove ritratterò un errore da me commesso nell’annoverare Seneca il Retore tragli Scrittori del secolo di Tiberio, e mostrerò, che ad assai miglior ragione appartiene a que’ di Augusto, e ne trarrò quelle conseguenze, che spontaneamente si offriranno. 75 Sveton. in Jul. c. LVI. 76 Idem de Ill. Gramm. c. X. 77 Quintil. l. I c. V & l. VIII c. I. 159 78 Suasor. VI. 79 Suasor. VII. 80 Ibid. 81 L. XII c. I. 82 Apol. in Rufin. Comment. in Jonam. Epist. LXXXIV ad August. 83 L. X c. I. 84 Epist. C. 85 Prooem. in Excerpt. lib. IV Controv. 86 Ecco un’altra accusa dell’Ab. Lampillas. Ei si stupisce (T. I p. 91) di una mia infelice argomentazione, ove a questo luogo dal vedere, che Cassio Severo morì l’anno 784 di Roma, cioè diciotto anni dopo Augusto, dopo 25 anni d’esilio, ne cavo per conseguenza, ch’ei fiorì verso la fine dell’Impero d’Augusto. Io confesso, che non so vedere la falsità di questa illazione. Cassio fu esiliato l’anno 759 sette anni prima della morte di Augusto il cui assoluto impero cominciò al più tardi nel 726, e durò perciò quarant’anni. Se Cassio fiorì dopo i primi venti o venticinque anni dell’Impero di Augusto, non si può egli dire, che fiorì verso la fine di esso? Egli poi impiega più pagine della sua opera a dimostrare, che molti degli Oratori e de’ Retori corruttori dell’eloquenza, de’ quali io ho parlato nel secolo di Tiberio, fiorirono veramente in quello d’Augusto, e dice (spertissimo, com’egli è nel penetrar gl’interni disegni degli uomini), che ciò io ho fatto, perché non ho creduto (p. 93) dover oscurar la gloria di quel secolo (d’Augusto) coi difetti di questi Scrittori, e per ciò ho differito a parlarne fino a poterli accoppiare co’ due Seneca, pretesi corruttori dell’Eloquenza. Piacevole accusa per vero dire. E donde mai trae il Sig. Ab. Lampillas, ch’io abbia voluto rimuovere dal secol d’Augusto la taccia di aver corrotta l’Eloquenza? Non ho io detto or ora, che dopo la morte di Cicerone più non sorse Oratore, che a lui si potesse uguagliare, o almeno non molto da lungi il seguisse, e che Cicerone medesimo se ne avvide ne’ suoi ultimi anni, e chiaramente, disse, che la latina Eloquenza andava dicadendo miseramente? Non ho io detto nel luogo medesimo: Questo dicadimento dell’Eloquenza Latina appartiene ai tempi di cui parliamo (cioè d’Augusto)? E non ho io a questo fine esaminata in quest’Epoca l’origine di tal decadenza? Io ho differito a parlar di que’ Retori al secolo di Tiberio, perché volendo in esso parlar di Seneca il Retore, ho creduto di dovere ad esso accoppiare gli altri, de’ quali egli ragiona, ed ivi ho nominati indistintamente e Romani e Spagnuoli, secondo che l’occasione ha richiesto. Ma se il Sig. Ab. Lampillas vuole, che in una nuova edizione della mia Storia io ponga nel secol d’Augusto tutti que’ Retori, ubbidirò al suo comando, né dovrò perciò cambiare alcuna delle massime da me stabilite, e sarà sempre vero, che i Seneca hanno recato il maggior danno alla latina Eloquenza, di che dovremo ragionar poscia di nuovo. 87 L. X c. I.