Uomo non è, che pervenuto a morte
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XXV
PER IL SIG. GIAMBATTISTA FEO.
Uomo non è, che pervenuto a morte
Non possa raccontar della sua vita
Lunghi travagli. Il cavalier di Marte
Dirà le piaghe, e lo splendor de’ brandi,
Ed il suon delle trombe: il condennato
Nelle gran reggie ad inchinar le fronti
De’ re scettrati narrerà le frodi,
Le lunghe invidie ed i sofferti affanni
Infra le schiere de’ bugiardi amici.
Io, che mi vissi in su spalmate prore,
Potrei rappresentar l’orribil faccia
Del mare irato, ed i rabbiosi sdegni
E d’Austro e di Boote. Anni cinquanta
Comandai su galere a buon nocchieri:
Dal gran Peloro all’Atlantee colonne
Non sorge monte a gli occhi miei non noto,
E gli ampj golfi veleggiai più volte:
D’ogni nube, che in Ciel fosse raccolta,
Seppi la forza, onde marino orgoglio
A’ legni miei non valse fare oltraggio.
Che nobil pompa non mirai sovente
Sue regie poppe? e pure io provo al fine,
Che le disuguaglianze un’ora adegua.
Tutti quaggiuso navighiamo in forse.
Altri ha tempesta, ed altri ha calma, e poscia
Nel porto della Morte ognun dà fondo.
Se di mia condizion saper desiri:
Fui Savonese, e nobilmente nacqui,
Corsi anni tre sopra sessanta, e forza
Di mal curata idropisia mi estinse.