Una vita/III
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III
La famiglia Lanucci, presso la quale Alfonso stava a fitto, abitava un piccolo quartiere di una casa di città vecchia, verso San Giusto. Egli aveva perciò da camminare per oltre un quarto d’ora per andare all’ufficio da casa.
La signora Lucinda Lanucci aveva dimorato per un’estate, poco prima di maritarsi, nel villaggio, in compagnia di una famiglia presso la quale stava quale governante. Aveva fatto allora la conoscenza della madre di Alfonso, la quale le aveva raccomandato il figliuolo. Forse la lettera di raccomandazione della signora Carolina non sarebbe valsa gran che, se i Lanucci non fossero stati alla ricerca d’un inquilino per una stanzuccia che v’era in casa oltre il bisogno della famigliuola. Alfonso capitò dunque a proposito e venne accolto bene.
Negli ultimi anni, traviato dall’ambizione dell’indipendenza, il signor Lanucci aveva abbandonato un impiego non splendido ma ch’era bastato a nutrire la famigliuola e s’era messo a fare l’agente, a rappresentare ogni e qualunque specie di case, in tutti gli articoli. Il poveretto scriveva tutto il giorno offerte a case di cui toglieva gl’indirizzi dalle quarte pagine dei giornali, ma guadagnava sempre meno che a suo tempo da impiegato, e perciò l’umore in famiglia era triste, le sue condizioni essendo precarie dopo di essere state discrete.
Quest’umore aveva aumentato la nostalgia in Alfonso, perché è la gente triste che fa tristi i luoghi.
Lo trattavano affettuosamente, ma in Alfonso il signor Lanucci destava una compassione dolorosa, specialmente quando lo vedeva costringersi a usargli cortesie, a sorridergli, a dimostrare interessamento ai fatti suoi, mentre comprendeva che non ne poteva venir considerato che quale un cespite di rendita.
La signora Lanucci, avvezza da lungo tempo a consolare il marito dell’infruttuosità dei suoi sforzi, aveva assunto la medesima parte con Alfonso e finito col partecipare tanto intensamente delle sorti del giovine, che ne parlava come di affari proprii. L’invito del signor Maller, di cui Alfonso le aveva parlato, aveva destato in lei le maggiori lusinghe; ne parlava come se da quell’invito la fortuna dell’impiegato venisse assicurata. Ci era tanto poco avvezza, che la buona fortuna la sorprendeva.
Lucinda poteva avere quarant’anni forse, ma, piccola e grassa e pel grigio abbondante dei capelli, ne dimostrava di piú. Non era stata mai bella. Aveva apportato al marito qualche poco di dote ch’era stata assorbita da una speculazione in lotti turchi. Era intelligente, vivace, amava di parlare molto e la sua faccia pallida da sofferente le aveva subito conquistata la simpatia di Alfonso.
Pareva volesse bene al marito; al figliuolo Gustavo, diciottenne, il buona lana come ella lo chiamava, diceva di volerne poco; il suo maggior affetto era per la figliuola Lucia, sedicenne, la quale lavorava da sarta in case private. La madre guadagnava piú di tutti quale maestra in una scuola popolare, ma senza i proventi di Lucia i mezzi non sarebbero bastati. La signora Lucinda era desolata di veder la figliuola costretta a passare la gioventú sulla macchina da cucire mentre ella l’aveva passata meglio, perché, da benestante, aveva studiato e s’era divertita. Nelle ristrettezze ella non aveva potuto far nulla per l’educazione di Lucia, ma di questo non si lagnava non avvedendosi che il risultato corrispondeva alla spesa fatta. Ella era intelligente e non s’accorgeva che il discorrere della figliuola era insipido, disgraziato. La vedeva bella mentre allora Lucia era magra, anemica, come tutti in famiglia, bionda di un biondo tendente al rosso e, causa la magrezza, con la bocca che voleva arrivare alle orecchie. La madre, per deliberato proposito, — era democratica sfegatata, — aveva un contegno da popolana e bestemmiava anche; la figliuola aveva appreso con facilità, nelle case borghesi ove frequentava, le forme esterne da signorina, le quali in quella casa stonavano. Gustavo, rozzo e semplice, spesso la derideva; si guadagnò l’antipatia della madre piú per questo che per la sua scioperataggine.
Alfonso trovò il suo vestito nero steso sul letto, piegato accuratamente. La signora Lanucci aveva pensato a tutto, dalla cravatta agli stivali lucidi preparati a piedi del letto. Anche Alfonso si sentiva agitato dalla visita che doveva fare. Non aveva le illusioni nutrite dalla signora Lanucci, ma, per contagio, era agitato piú che la cosa non valesse. Smise il suo vestito d’ogni giorno e lo gettò sul letto come se non avesse avuto da indossarlo piú.
Quando entrò nel piccolo tinello ove desinava la famigliuola, poté illudersi di essere vestito molto bene. Il signor Lanucci lo guardò e volle apparire ammirato dell’aspetto di Alfonso. Gustavo, sucido, con la bocca piena, gli si avvicinò con un sorriso veramente benevolo. A lui il signorino non destava invidia, perché egli aveva tutt’altri desiderî: qualche soldo in tasca per poter passare la serata in osteria e null’altro. Allora Gustavo era inserviente presso un gabinetto di lettura e sembrava stesse per far giudizio nel nuovo posto, ove, purtroppo, poco c’era da guadagnare ma pochissimo da lavorare.
Con la camicia di bucato, il solino alto, l’abbondante capigliatura bruna ravviata, vestito di nero, Alfonso era un bel giovanotto. Teneva in mano i guanti chiari comperati quel giorno per consiglio di Miceni. Un occhio piú esercitato avrebbe scorto su quel vestito nero qualche tratto lucido logoro, e di piú che il taglio non era moderno, il collo troppo aperto, la stoffa poi non buona, tanto che cedeva alla rigidezza della camicia. In famiglia Lanucci non si aveva l’occhio esercitato a queste piccolezze.
La giovinetta Lucia aveva terminato di mangiare, s’era allontanata un poco dal tavolo, appoggiata allo schienale della seggiola, le mani incrociate. Non fece motto che rivelasse ch’ella si fosse accorta della teletta speciale di Alfonso. Le sue relazioni col giovine erano ottime, e quando era in casa lo serviva volentieri. Le piaceva renderglisi utile perché per ogni passo ch’ella per lui facesse, egli la ringraziava in modo sempre ugualmente vivace. Del resto la gentilezza di modi fra di loro divenne anche eccessiva, perché Lucia trovava finalmente la persona con cui trattare nel modo spiato ai borghesi e incoraggiato dalla madre. Gustavo diceva ch’ella con Alfonso si sfogava.
Il signor Lanucci doveva aver passato la cinquantina. Si tingeva, avendo la tintura gratis in campioni ch’egli si faceva rimettere da case che offriva di rappresentare, e i suoi capelli erano neri dove l’età non li aveva imbianchiti, giallognoli dove senza tintura sarebbero stati bianchi. Portava una barba piena lunghetta, condizionata in quanto a colore come la capigliatura. Di sera, per leggere, si metteva degli occhiali rozzi, troppo grandi per la distanza fra’ due occhi, piccoli, grigi che quasi poggiavano al naso.
Fece dei complimenti ad Alfonso e lo pregò di sedere accanto lui, onore non accordato piú a Gustavo dopo che aveva perduto un impiego discreto procuratogli con somma fatica. Era l’unico castigo che sapeva infliggergli, non avendo per altri né energia, né testa.
Gustavo, senza parlare, — teneva il broncio al padre perché questi lo teneva a lui, — consegnò ad Alfonso una lettera. Alfonso non l’aprí con grande premura. Era tanto preoccupato che non ebbe la pazienza di decifrare i caratteri malsicuri della madre; rimise in tasca la lettera dopo averla scorsa rapidamente.
— Che presto! — disse la signora Lanucci con leggero accento di rimprovero.
— È molto piccola! — rispose Alfonso arrossendo; — vi saluta tanto!
Il vecchio aveva cominciato a raccontare dei lavori della sua giornata. Era la storia di ogni sera. Per giustificarsi dinanzi alla moglie, raccontava quanto avesse brigato per fare affari. Tutto sommato, quel giorno aveva guadagnato un grosso pacco d’aghi che una piccola fabbrica gli aveva inviato in natura per senseria di un affare conchiuso da lui. Nella mattina aveva fatto delle visite in case private, presentandosi con una lettera di raccomandazione datagli da un suo amico procuratore in una casa commerciale, il quale egli riteneva avesse dell’influenza in paese. Aveva offerto del Cognac, ma senza esito. In tavola faceva bella mostra di sé il campione. A mezzodí il Lanucci aveva ricevuto la posta, cioè il pacco d’aghi e la lettera di una Società d’assicurazioni, che lo costituiva suo rappresentante. Subito al pomeriggio s’era messo alla ricerca di persone che volessero assicurarsi. Con la nota dei conoscenti ch’egli aveva sempre seco, il vecchio aveva percorso la città. Gli amici gli avevano spiegato perché non volessero assicurarsi, dimostrandogli d’essere già assicurati o di non poter sottostare a una spesa tanto elevata; gli altri o non l’avevano accolto, — Lanucci amava recarsi dalle persone che tenevano domestici alla porta, — o rimandato con poche e secche parole come si fa coi mendici. Quest’ultima osservazione non era del Lanucci, il quale raccontava con la calma dell’uomo perseverante pronto a ricominciare il giorno dopo. Però nella giornata aveva fatto qualche cosa: aveva scritto alla sua Società d’assicurazioni comunicandole che nulla ancora aveva concluso, ma che sperava bene e che la senseria non gli bastava, visto ch’era tanto difficile di fare affari.
— Poveri i centesimi della posta! — mormorò la signora Lanucci facendo l’occhietto ad Alfonso, col quale aveva già parlato delle speranze e delle maníe del marito.
Ella aveva seguito però con grande attenzione il racconto e gli occhi le brillavano d’ira all’udire di tanti sforzi fatti invano. Il signor Lanucci raccontava con lentezza, parlando continuava a mangiare, deponeva la forchetta dopo ogni boccone e scandeva le sillabe per far risaltare maggiormente la sua attività e la sua astuzia. Ridiceva tutti gli argomenti da lui adoperati per convincere. Con l’uno aveva parlato in genere dei vantaggi delle assicurazioni e della colpa che commette chi non si assicura; con l’altro — era un amico o un noto filantropo — del proprio bisogno di venir incoraggiato; con tutti aveva esaltata la Società che rappresentava. La signora Lanucci lo stava ad ascoltare allontanandosi alquanto dal tavolo e sgretolando accanitamente coi denti dei pezzettini di pane.
Ogni parola nella famigliuola provocava facilmente delle dispute.
— Poveri i centesimi? Perché? Hai un modo curioso tu di trattare le cose! Come se fosse impossibile che io faccia degli affari!
L’ira accumulatasi in lui durante la giornata si scatenò. Rimaneva fermo al suo posto senza gesticolare, ma gli tremavano le labbra. Gustavo rideva nel piatto.
Alfonso lo calmò; trovandosi anche lui di tempo in tempo in imbarazzi finanziarî, comprendeva il dolore del vecchio. Gli disse che la signora aveva voluto scherzare, non offenderlo, e che certamente essa piú di tutti aveva il desiderio di veder prosperare i suoi affari.
Dalle parole di Alfonso il Lanucci fu portato a tutt’altro ordine d’idee; si rammentò che il confortatore poteva divenire un suo cliente e gli chiese se non avesse l’intenzione di assicurarsi, — forse contro gli accidenti?
La signora Lanucci protestò:
— Eh! vuoi lasciarlo in pace con i tuoi affari?
Il Lanucci rimase interdetto; altrettanto imbarazzato era Alfonso, dolente dell’imbarazzo del Lanucci che supponeva fosse già pentito della poca delicatezza dimostrata.
— Lo lasci parlare, — disse alla signora, — è interessante e non ci si perde niente!
Aveva trovato il modo di ridurre la cosa a una questione puramente accademica.
— Ma sí! — accentuò il Lanucci, — io non lo costringo mica ad assicurarsi o ad assicurarsi per mio mezzo! Farà lui dove vorrà! Però una persona che può è male abbastanza che non si assicuri. Può cadergli una tegola sul capo; se non è assicurato non guadagna nulla dovendo stare a letto, mentre se è assicurato fa un buon affare.
Alfonso, per cavarsela, con tutta sincerità gli spiegò le sue condizioni finanziarie. La signora Lanucci protestava, il vecchio invece con tutta calma cercava obbiezioni, però negando anche lui che il rifiuto avesse bisogno di motivazioni.
Ogni sera la famiglia Lanucci usciva dopo cena per pigliare, dicevano, un po’ d’aria. Non era questo solo lo scopo della passeggiata. La signora ne aveva introdotto l’uso per compensare Lucia dell’oretta sul Corso in compagnia delle altre sartine cui l’aveva costretta di rinunziare. Anche Gustavo li accompagnava, ma poi non rientrava. Alfonso lui pure qualche volta, annoiandovisi ma fingendo tanto bene di divertirsi da finire col crederci lui stesso.
La signora Lanucci si alzò da tavola e, indossato uno zambelucco sdruscito ma greve, attese in piedi che Lucia avesse terminata la sua toletta piú complicata di molto. Il vecchio nel suo pastrano troppo piccolo che la moglie gli aveva aiutato ad infilare continuava a parlare, sempre ancora sperando di terminare la giornata con un affare; ma Alfonso, che per un istante era stato là là per cedere, si rammentò ad un tratto di tutte le dolorose difficoltà del suo stato finanziario e con voce alquanto alterata espose in cifre le sue entrate e i suoi esborsi concludendo che assolutamente non poteva neppur sognarsi di aumentare le spese. Per timore di vedersi gettato in nuovi imbarazzi finanziarî ebbe frasi incisive; non voleva udire altri ragionamenti diffidando della propria fermezza. Poi gli parve che il signore ed anche la signora Lanucci lo salutassero piú freddamente del solito, quantunque la signora non omettesse di augurargli la buona fortuna. Lucia lo salutò con un inchino e, augurandogli il buon divertimento, gli porse con gesto studiato la mano affilata.
Alfonso rimasto solo, per lasciar trascorrere ancora qualche poco di tempo prima di recarsi dai Maller che, forse, ancora non avevano terminato di cenare, rilesse la lettera della madre.
Nella lettera la vecchia Nitti parlava molto delle speranze ch’ella riponeva in Alfonso; diceva di aver scritto alla signorina Francesca Barrini governante di casa dei Maller per raccomandarlo. Poi, per tutta la lettera aveva sparso saluti da singoli amici del villaggio di cui la vecchia signora con tutta pazienza indicava nome e cognome con l’aggiunta — ti saluta tanto, — infine due linee di baci ed abbracci e la firma: — tua madre Carolina.
Di sotto però, preceduta da un P.S. c’era la frase: — Da due giorni non sto molto bene; oggi però sto meglio.