Un'avventura nelle pampas

Emilio Salgari

1894 Racconti/Avventura Letteratura Un'avventura nelle pampas Intestazione 31 dicembre 2017 75% Da definire


UN'AVVENTURA NELLE PAMPAS


Tutti, più o meno, avranno udito parlare delle pampas dell'America del Sud, che dalle frontiere della Repubblica Argentina si estendono fino allo stretto di Magellano.

I più generalmente credono che le pampas — e non la pampa, come quasi sempre scrive chi non le ha visitate e udite nominare sul luogo — siano praterie immense, dall'erba alta e grassa, perfettamente piane e sprovviste di corsi d'acqua; e così infatti molti e molti le hanno descritte. Errore, ma errore assai grosso, poiché quel vasto territorio, anziché essere tutto piano, è quasi sempre ondulato, dalle coste dell'Atlantico alla gigantesca catena delle Ande; ha grossi corsi d'acqua che si chiamano il Rio Negro, il Colorado, il Desanguadero e il Cho di Euba; infinito numero di arroyas (fiumicelli o torrenti); dei laghi ragguardevoli, quali l'Urrè, il Salinas, il San Lucas, il Del Montes, il Gomez, ecc., e di tratto in tratto delle boscaglie formate da carrubi, da immensi ombù, da boyche (alberi ritenuti sacri dagli araucani), e più al sud, verso lo stretto Magellanico, da stupendi faggi dal cupo fogliame.

In queste pampas si può dire che dura senza tregua una guerra mortale fra i primi padroni del suolo, gl'indiani, ed i conquistatori bianchi, la razza ispano americana. Le tribù numerose e belligere dei patagoni, che abitano al sud, quelle dei pampa, che sono disseminate lungo la frontiera argentina, e quelle degli araucani, che occupano le balze delle Ande, non perdono una occasione qualsiasi per sfogare il loro odio secolare contro gli invasori che li hanno impoveriti occupando gran parte dei loro vasti territorii di caccia.

I cristianos, come chiamano gli ispano-americani, non devono allontanarsi troppo dai forti scaglionati lungo la frontiera, perché gl'indiani, imboscati fra le alte erbe, li attendono dovunque. Guai alla borgata che si trova a qualche giornata di cammino dai forti! Una brutta notte le orde degli uomini rossi piombano sui casolari, massacrano i difensori, rapiscono le donne ed i bambini destinati un giorno a diventare schiavi, e incendiano tutto. Compiuto l'eccidio, spariscono, s'addentrano nelle pampas, e là, fra quelle solitudini, sfidano i soldati della Repubblica Argentina, che non osano inoltrarsi, ben sapendo, del resto, che mai giungerebbero a liberare i prigionieri ed a battere i rapitori.

I gauchos però, uomini rotti a tutte le fatiche, metà selvaggi e metà inciviliti, quantunque di razza spagnola pura o incrociata con sangue indiano, battaglieri e coraggiosi, sfidano i predoni delle praterie e s'avanzano in mezzo a quelle vaste solitudini, spingendo innanzi le immense mandrie a loro affidate.

Riuniti in due o tre, montati su rapidi cavalli, armati dei loro tromboni e dei loro lazos (lacci), che sanno scagliare con matematica precisione, e seguiti da un grande carro che porta le provvigioni, si allontanano per molte e molte leghe dai forti, accampandosi all'aperto o in un piccolo recinto detto corral, improvvisato con tronchi o rami d'albero.

È ben vero che di quando in quando gl'indiani piombano su di loro e li uccidono; ma chi ci bada? Gli altri gauchos non si spaventano per questo, e si avventurano nelle grandi praterie colla stessa tranquillità come se andassero a passeggiare in una via di Roma, di Parigi o di Londra. Si deve però considerare che non fanno grande calcolo della loro pelle, e per un nonnulla si sgozzano fra di loro, anzi la loro passione favorita è il duello al coltello; e che uso ne fanno!...

Alcuni anni or sono, prima che il generale argentino Rocha infliggesse alle tribù dei pampa la sanguinosa sconfitta di cui si occuparono anche i giornali d'Europa, due gauchos lasciavano il forte Indipendenza, conducendo verso le praterie del lago San Lucas un armento di ottocento capi di bestiame, appartenenti al signor Josè Luanco, ricco proprietario domiciliato nei pressi del forte Blancos.

Montati sui rapidi cavalli, veri mustani di prateria, discendenti da quei settantacinque cavalli sbarcati dagli spagnoli sulle sponde del Rio della Plata nel 1537, e che poi si propagarono enormemente in tutta l'America meridionale, i due gauchos poche settimane dopo giungevano sulle rive del Guamini, piccolo corso di acqua che scaricasi nel San Lucas.

Essendo il territorio ricco di cardi giganteschi e di graminacee grasse, decisero di accamparsi alcuni giorni presso il fiume, tanto più che fino allora non avevano scoperto alcuna traccia di indiani.

Costruirono un piccolo corral, che rinforzarono colle tavole del carro contenente i viveri, improvvisarono un fornello per cucinare l'asado con cuero (bue arrostito sulla brace nella sua pelle), che forma il loro principale nutrimento e che poi innaffiano con abbondanti sorsate di matè (specie di thè che si ricava dalle foglie della yerba mate) o di câna (acquavite assai forte).

Tutto procedeva di bene in meglio: la pampa circostante al Guamini appariva tranquilla, e la numerosa mandria trovava un pascolo abbondante. Non si erano vedute passare, ma assai da lontano, che delle torme di cavalli selvaggi e delle truppe di nandù, specie di struzzi che corrono con delle mosse stravaganti che li fa rassomigliare a grossi ragni oscillanti sulle loro ragnatele, e che difficilmente si lasciano accostare.

Degli indiani non si scorgevano ancora le tracce, segno evidente che non battevano quella regione, e che si erano radunati altrove per intraprendere qualcuna delle loro ladresche imprese.

Una sera però, mentre soffiava al di fuori un furioso pampero (ventaccio freddo) e i due gauchos erano intenti a far bollire l'acqua pel matè, udirono i buoi dare segni vivissimi d'inquietudine. Si udivano a correre in direzione del corral, come se avessero voluto chiedere aiuto ai loro guardiani, e a muggire fortemente.

— Che ci sia qualche giaguaro? — chiese Martino Juarez, che era il più giovane dei due gauchos.

— Non è improbabile, camerata — rispose Rodrigo Sanchez, suo compagno.

— È meglio accertarsi; io non posso vedere quelle tigri avide — disse Martino.

Si armò del suo trombone, dopo di essersi assicurato che la pietra focaia era a posto, si sbarazzò degli speroni dalla rotella immensa, che potevano col loro tintinnìo tradirlo, e uscì, inoltrandosi fra le alte erbe.

Il pampero al di fuori soffiava con estrema violenza, curvando furiosamente le cime degli alti cardi ed atterrando i cespugli, e l'oscurità era così fitta da non distinguere una persona a soli cinque passi di distanza.

Martino però era troppo buon gaucho per smarrirsi in mezzo all'oscura pampa, e oltrepassata la mandria che si stringeva spaventata attorno al corral, si avanzò cautamente fra le erbe, nascondendosi nel mezzo di un folto cespuglio. Cosa avesse veduto dapprima non lo si potè sapere. Rodrigo Sanchez, che era rimasto nella capanna, lo udì poco dopo ritornare frettolosamente, chiamare il proprio cavallo e poi allontanarsi di galoppo.

Cinque minuti più tardi un colpo di trombone echeggiava nelle pampas, seguito poco dopo da un lontano grido, poi più nulla.


Alla detonazione strepitosa di quella grossa arma, Sanchez, che non si era mosso dal corral, balzò in piedi. Ascoltò con profonda attenzione per alcuni istanti, nella speranza di udire il galoppo del cavallo, ma, continuando il silenzio, si decise di uscire in cerca del compagno.

Prese le sue armi e uscì con precauzione dal corral. Il bestiame si aggirava presso il recinto e dava sempre segni di viva inquietudine; ma nella vasta prateria tutto era tranquillo, e non si udivano che i soffi del pampero e le lontane urla degli aguaras (lupi rossi), nemici poco formidabili, ma che talvolta diventano pericolosi se si uniscono in grosse bande.

Salì sul proprio cavallo e si spinse risolutamente innanzi, tenendo il trombone sulla sella per essere pronto a servirsene, e l'estremità del lazo nella mano sinistra.

Giunto a mille metri dal campo, la sua attenzione fu attirata da qualche cosa di nero e di grosso che si dibatteva in mezzo ai cardi. Pareva un grosso animale ferito.

Si diresse a quella volta, tenendo gli occhi bene aperti e gli orecchi tesi per non cadere in qualche agguato, e vide che era il cavallo del suo compagno a cui eransi spezzate le gambe.

— La matassa s'imbroglia — mormorò il gaucho. — Gl'indiani devono entrare per qualche cosa in questa faccenda.

Balzò d'arcione e si mise ad osservare attentamente il terreno. Aveva percorso pochi passi, quando inciampò in un lazo che era stato teso fra due cespugli, a pochi pollici dalla superficie.

Comprese tutto: gli indiani lo avevano senza dubbio colà teso: il cavallo di Martino, nel fuggire, vi aveva urtato contro, spezzandosi le gambe, e il povero cavaliere era stato sbalzato di sella.

S'inoltrò fra le alte erbe e rinvenne il compagno; ma in quale stato! I predoni di prateria lo avevano spogliato delle armi e delle vesti e lo avevano assassinato con tre colpi di lancia, due al petto e uno al basso ventre. Sanchez comprese subito che, se voleva salvare la propria pelle, non doveva perdere un solo istante. Forse gl'indiani si tenevano celati a poca distanza e lo spiavano.

Raggiunse rapidamente il cavallo, che dava segni d'inquietudine; con un volteggio di cui vanno famosi i gauchos, che possono chiamarsi i primi cavalieri del mondo, salì in arcione e, raccolte le briglie, partì ventre a terra verso l'est, onde raggiungere il lago del Monte e di là il forte Indipendenza, da cui distava però non meno di trecento chilometri.

Non poteva pensare a porre in salvo il bestiame, che non avrebbe potuto seguirlo in quella corsa vertiginosa; del resto sarebbe stata fatica inutile, poiché in quel momento gl'indiani dovevano averlo circondato.

Il cavallo, spronato a sangue, fuggiva colla rapidità del vento, balzando sopra i grandi cardi coll'agilità d'un cervo. Pareva che avesse compreso il grave pericolo che minacciava il suo padrone, e raddoppiava la corsa, trasportandolo sempre verso l'oriente.

Ad un tratto Sanchez trattenne violentemente il destriero ed emise un grido di rabbia.

Là, dove l'orizzonte si confondeva colla prateria, una fiamma limpida, che spiccava vivamente fra la profonda oscurità, erasi improvvisamente alzata, mandando in aria un nembo di scintille. Spinta dal pampero, camminava con incredibile velocità verso l'est, divorando i grandi cardi che si contorcevano scoppiettando.

— Sono perduto! — mormorò il gaucho, che aveva compreso la manovra degli indiani. — Incendiano la prateria per togliermi la speranza di raggiungere la frontiera argentina.

Purtroppo non si era ingannato. La vampa, trovando un acconcio alimento nelle erbe secche delle pampas, camminava con incredibile velocità, chiudendo tutto l'orizzonte orientale. Miriadi di colonne di fumo si alzavano vorticosamente da ogni parte, e si vedeva la cortina di fuoco dilatarsi, innalzarsi ed abbassarsi colla contrazione dei serpenti, mentre nembi di scintille solcavano le tenebre trasportati dal furioso pampero, minacciando altri incendi.

Da tutti i punti dell'orizzonte, svegliati dallo scoppiettìo delle piante e dall'odore dell'erba bruciata, sorgevano fra i cardi, fra le boyche, fra i gruppi di carrubi e di luma, bande di animali spaventati e di volatili. Si vedevano passare, trasportati in una corsa furiosa, gli agili guanachi, i nandù, i cavalli selvaggi, gli aguaras e i feroci coguari e giaguari, i quali in quel momento supremo pareva che più non pensassero a pascersi delle loro prede, mentre nell'aria volteggiavano schiamazzando nuvole di chimangos (specie di falchi), di pernici da campo, di casaritos (specie di tordi) e di vinditas (uccelli tutti neri col becco largo).

Come dicemmo, Sanchez si era bruscamente arrestato, ritenendo impossibile la traversata di quell'immenso braciere che sempre più si estendeva, minacciando perfino di distruggere il corral. Sentiva per istinto che al di là di quel formidabile ostacolo dovevano trovarsi gli indiani appiattati fra le grandi erbe.

Volse risolutamente il cavallo, deciso a guadagnare il Guamini, di passarlo a nuoto e di fuggire al nord in direzione del lago di San Lucas, per poi raggiungere il forte Blancos e Veinte-y-cinco Mayo, che trovansi a circa duecento chilometri di distanza il primo, e trecento il secondo.

Il cavallo, animato dagli immensi speroni del cavaliere e dalla voce, aveva ripreso la corsa; ma percorsi appena due chilometri, Sanchez lo tratteneva nuovamente. Anche in quella direzione erano apparse delle vampe, le quali si estendevano verso il Guamini. Volgendosi verso il sud, il gaucho vide che anche in quella direzione la prateria bruciava.

Ormai non gli rimaneva altra speranza che di dirigersi verso l'ovest, ma là, senza dubbio, dovevano trovarsi gl'indiani imboscati fra i cardi. Sanchez, che cominciava a sudar freddo e che ormai reputavasi perduto, lanciò il cavallo in quella direzione, deciso ad aprirsi il passo a colpi di trombone.

Uno schiamazzo infernale che si alzava fra le erbe lo costrinse nuovamente a trattenere il cavallo. Al chiarore dell'incendio che divorava la prateria, egli vide apparire improvvisamente una cinquantina di cavalieri dalla tinta rossastra, il capo adorno di penne variopinte e il corpo riparato da larghi ponchos1 dai mille colori.

Una palla di pietra del peso di due o tre chilogrammi, un vero bola, gli passò fischiando a pochi pollici dal capo. Non volle saperne di più: scaricò il trombone nel folto della truppa, volse il cavallo e fuggì verso l'est, deciso ad affrontare l'incendio piuttosto che di cadere nelle mani degli indiani.

I nemici, sicuri di averlo presto o tardi, s'erano accontentati di scagliargli dietro i loro bolas senza inseguirlo. Il gaucho però udiva le loro grida echeggiare fra i soffi del pampero, alle quali rispondevano altre grida lontane.

Attraversò di gran galoppo la prateria, nascose fra le pieghe del poncho la fiaschetta della polvere, onde non scoppiasse al contatto delle fiamme, avvolse la testa del cavallo colla grossa gerga (coperta di lana), si calò sugli occhi il largo cappello di feltro e si slanciò attraverso le prime fiamme, mormorando:

— Il Cielo mi aiuti!

Come passò? Non lo seppe mai dire con precisione. Si sentì avvolgere da un'immensa fiamma che gli calcinava le carni e che bruciava i peli al cavallo, vide dinanzi agli occhi, socchiusi per l'immenso calore, volare miriadi di scintille, poi un buffo d'aria fresca lo colpì in viso rianimandolo prontamente. Il braciere era stato attraversato; il cavallo nitriva dolorosamente sotto la coperta che gli avvolgeva il capo, il poncho bruciava, ma cosa importava? La barriera di fuoco era passata e, forse, al di là nessun pericolo lo attendeva.

Disgraziatamente il destino aveva disposto altrimenti, poiché mentre Sanchez, che si rallegrava di averla fatta agl'indiani, stava per ricaricare il trombone, udì un fischio seguito da un nitrito acuto.

Il cavallo colpito al capo da una di quelle tremende palle di pietra, che gl'indiani sanno lanciare così abilmente, stramazzò pesantemente al suolo, come se avesse ricevuto una scarica elettrica.

Il cavaliere, liberatosi prontamente dalle staffe, si slanciò attraverso alla prateria, cercando di guadagnare un gruppo di cardi; ma non aveva percorso quindici passi che si sentì cadere addosso una funicella e stringere a mezzo corpo con tale violenza da cadere sulle ginocchia.

Un indiano, sorto improvvisamente fra le alte erbe, gli aveva lanciato il lazo. Visto cadere il nemico, spronò il cavallo, e il povero gaucho, mezzo soffocato, stordito, si sentì trascinare in una corsa vertiginosa attraverso la prateria, finché svenne.

Quando Sanchez tornò in sé, l'incendio si allontanava in direzione del lago di San Lucas e l'alba cominciava a spuntare.

Il povero uomo non era più libero: era stato strettamente legato ad un palo del piccolo corral, ma in modo da non poter muovere né le braccia, né le gambe. Attorno a lui otto indiani dalla pelle color del rame sporco, dalla testa grossa, i capelli lunghi e di statura alta, vegliavano appoggiati alle loro lunghe lance dalla punta acutissima.

Più lontano una sessantina di altri indiani, montati su rapidi cavalli di prateria, andavano e venivano, affacendati a radunare la numerosa mandria e a saccheggiare il grande carro delle provvigioni.

Sanchez, trovandosi ancora vivo, non dubitò più della propria sorte. Era ormai certo che lo serbavano per la schiavitù, e fremette pensando agli orrori, ai patimenti inenarrabili a cui era destinato.

Radunato il bottino, il capo della banda, un indiano pampa di statura gigantesca, adorno di orpelli d'argento e coperto di un ricco poncho dai mille colori, gli si avvicinò, e fattolo sdraiare gli denudò i piedi, facendogli sotto la pianta due incisioni non troppo profonde, intaccanti la sola pelle.

— Ora mi appartieni — disse il selvaggio, quando ebbe finita l'operazione. — Ti avverto che al primo tentativo di fuga ti farò mangiar vivo dai mondongueros.2

— È meglio che tu mi uccida subito — rispose Sanchez. — Conosco gli orrori della vostra schiavitù.

Il capo alzò le spalle e si allontanò senza rispondere. Il povero gaucho venne sollevato di peso e, legato com'era, posto su di un cavallo; poi la banda si mise in cammino verso il sud, spingendo innanzi i buoi rubati.

Prima di abbandonare quei luoghi, Sanchez volse uno sguardo verso il corral. Il recinto bruciava, e laggiù verso l'ovest scorse uno stormo di rapaci falchi piombare schiamazzando in mezzo ad un gruppo di cardi.

— Povero Martino — mormorò sospirando il prigioniero. — Ecco la tua tomba!

La banda, che pareva avesse molta fretta, continuò a marciare tutta la giornata, e così fece nei giorni seguenti. Al prigioniero non passavano che delle magre razioni, tanto da mantenerlo appena in vita; però, durante le fermate, gli accordavano una certa libertà e lo lasciavano passeggiare a suo comodo.

Quei volponi sapevano però che non poteva fuggire, poiché le incisioni che gli avevano fatte ai piedi lo mettevano nell'impossibilità d'intraprendere una lunga marcia. Infatti se quelle incisioni accordano al prigioniero una certa libertà e non producono vivi dolori, gl'impediscono di fare soverchio moto, poiché allora si aprono, i piedi si gonfiano e sanguinano, e si rifiutano di proseguire. Gl'indiani non dimenticavano però di visitarle ogni due o tre giorni, e di riaprirle onde non si chiudessero.

Dopo due settimane la banda giungeva sulle rive del Rio Negro, grossa fiumana chiamata dagli indigeni Gusu-Leuvu, formata dall'unione del Rio Sanguel e Como-Leuvu, i quali scaturiscono sui versanti orientali delle Ande. Dapprima si dirige verso l'est, poi verso il sud-est, e scaricasi nell'Atlantico sotto il 41° di latitudine sud ed il 65° 10' di longitudine ovest, dopo un corso di circa centocinquanta leghe.

Colà, in una vasta pianura cosparsa di graminacee, aveva preso stanza la tribù della banda. Un due o trecento toldos, specie di tende di pelle, di forma quadrata, lunghe dai tre ai quattro metri, si estendevano lungo il corso d'acqua, senza ordine, in una confusione indescrivibile, e fra un numero immenso di cavalli e di buoi, i quali pascolavano liberamente pel campo.

Il drappello fece l'entrata trionfale, spingendo la massa degli animali rubati al signor José Luanco e mostrando il prigioniero, che veniva accolto dovunque con dimostrazioni ostili, con ingiurie e percosse. Senza la presenza del capo quei selvaggi avrebbero senza dubbio fatto passare un brutto quarto d'ora al povero cristianos, come lo chiamavano.

L'indomani veniva assegnato ad un guerriero, che nel campo non passava certo per uno dei migliori, e la sua schiavitù cominciò; ma quale schiavitù! Il disgraziato doveva più volte augurarsi la morte ed invidiare la fine del suo compagno.

Gli fu strappata la barba, poiché gl'indiani così usano, poi le sopracciglia, poiché credono che così facendo la vista diventi più acuta; fu percosso a sangue un infinito numero di volte dal feroce suo padrone, che odiava non meno degli altri i cristianos, e trattato peggio dell'ultimo cane dell'accampamento.

Stritolava il grano dalla mattina alla sera, lo si mandava a far legna nei boschi che crescono lungo le rive del Rio Negro, lo si incaricava dei lavori più faticosi, e lo si manteneva in vita con un pugno di farina o con qualche pezzo di madi, specie di gomma che trasuda dal bolax glebaria.

Il povero uomo, abituato alla vita libera delle pampas, soffriva orribilmente a tutte quelle umiliazioni e calava a vista d'occhio. In capo a tre settimane era ridotto a un vero scheletro. Più volte aveva cercato di ribellarsi, ma lo spietato padrone lo aveva mezzo accoppato a colpi di bastone; più volte aveva cercato di fuggire gettandosi nel Rio Negro per guadagnare il territorio dei patagoni, ma era stato costretto a tornare alla sponda colla pelle insanguinata e tagliuzzata dagli acuti denti dei mondongueros, che si trovano colà numerosissimi.

Ormai aveva perduto ogni speranza di riacquistare la libertà, quando un avvenimento inatteso venne in suo soccorso. Un giorno, mentre si trovava presso la riva del fiume occupato a far legna, udì a breve distanza delle grida disperate che parevano emesse da una giovane donna.

Spinto dalla curiosità si diresse rapidamente a quella volta, e vide un giaguaro che stava per slanciarsi contro una giovane donna indiana, la quale si era rifugiata nel mezzo d'un gruppo di cespugli.

Non badando che al proprio coraggio, il gaucho impugnò la scure che gli aveva servito a far legna, e slanciatosi contro la belva, con un colpo ben assestato le spaccava il cranio.

Stava per caricarsi la fiera sulle spalle onde portarla al campo, quando l'indiana, uscendo dalla macchia, lo chiamò.

Era una giovane bella, dalla tinta ramigna assai sbiadita, dai lineamenti regolari e dagli occhi grandi e neri. Sanchez con un solo sguardo capì d'aver dinanzi una meticcia, nata senza dubbio da padre indiano e da una donna bianca, forse da una prigioniera.

— Chi sei? — chiese la donna.

— Un povero schiavo — rispose il gaucho.

— Mi hai salvato la vita.

— Qualunque uomo al mio posto avrebbe fatto altrettanto.

— Ma tu sei un bianco e devi odiare gli uomini che ti tengono prigioniero.

— Sospiro la libertà, è vero.

— Io mi chiamo Coquitra, e mia madre era bianca come te e schiava come te. Pensa qualche volta a me e spera.

La giovane indiana lo salutò colla mano e sparve sotto il bosco.

Sanchez stette un po' immobile, pensando a quelle parole, che non riusciva bene a comprendere, e raggiunse il campo.


Erano passate due settimane da quella avventura.

Il gaucho non pensava più alla giovane indiana e continuava la sua vita di tribolazioni e di percosse, augurandosi ogni giorno di morire presto, non avendo ormai più speranza di abbandonare quelle praterie.

Una sera, mentre al di fuori soffiava impetuoso il pampero e rullava il tuono fra le nubi, che il vento spingeva furiosamente sopra l'oscura prateria, un ragazzo indiano entrò nel toldo e gli disse:

— Seguimi.

— Dove? — chiese il gaucho.

— Obbedisci, se ci tieni alla libertà.

Sanchez s'alzò di scatto, e per la prima volta dopo due settimane pensò a Coquitra.

Il ragazzo gli fece attraversare il campo, che pareva addormentato, lo fece strisciare in mezzo alle ultime tende onde non venisse scorto dalle sentinelle che vegliavano verso la prateria, e dopo un lungo giro lo conduceva nei boschi che coprono le rive del Rio Negro. Colà, legati al tronco d'un albero, Sanchez scorse due robusti e agili cavalli che s'impennavano e scalpitavano ad ogni lampo, e presso di loro una donna avvolta in un'ampia corconilla (coperta).

— Tu, Coquitra! — esclamò egli.

— Sì, sono io, che mantengo la promessa — rispose la giovane indiana.

— Mi doni la libertà?

— I cavalli sono pronti, e sotto la gualdrappa del tuo si trova un trombone per difenderti.

— E tu?

— Io vengo con te, se lo vuoi. Mio padre è morto, mia madre dorme il sonno eterno sulle rive del Colorado; io qui sono straniera e voglio diventare cristiana come lo era mia madre. Mi vuoi condurre nel paese degli uomini bianchi?

— Vieni, coraggiosa ragazza, e che Dio ti benedica!

— Partiamo, prima che gl'indiani si accorgano della tua fuga.

Baciò il ragazzo, che era fratello di una sua amica indiana, e balzò in sella. Sanchez, dopo di aver staccato il trombone e di averselo gettato in ispalla, onde essere pronto a tutto, la imitò, e i due cavalli vigorosamente percossi partirono di galoppo, trasportando i fuggiaschi verso il nord.


L'uragano che imperversava sulle pampas favoriva la fuga. I due cavalli, che Coquitra aveva scelto fra i migliori e più veloci, divoravano lo spazio, quasi volessero gareggiare col pampero, che soffiava sempre più impetuoso, contorcendo come fuscelli di paglia i cardi ed i cespugli.

I fuggiaschi non tralasciavano del resto di animarli, poiché erano certi che gl'indiani non avrebbero mancato, all'indomani, d'inseguire il prigioniero, e sapevano che, se riuscivano a raggiungerli, non li avrebbero risparmiati.

All'alba giungevano sulle rive del Rio Colorado, il fiume più grande che solchi le pampas, che nasce sotto il 30° parallelo e che, dopo aver attraversato la Laguna Guanachuache e la Laguna Grande, scaricasi nell'Oceano Atlantico meridionale, a 39° 50' di latitudine sud.

Fecero una sosta di alcune ore per dar riposo ai cavalli e per assaggiare le provviste che la giovane indiana aveva avuto la precauzione di portare con sé, poi attraversarono il fiume in un punto guadabile e ripresero la corsa verso il nord.

Due settimane più tardi essi giungevano sani e salvi al forte Blancos, dove vennero cordialmente ricevuti dal signor José Luanco, proprietario del bestiame, e dal comandante della stazione.

Il signor Luanco trattenne presso di sé la coraggiosa indiana, la quale rinunciò per sempre alla vita selvaggia delle pampas e alla religione barbara degli indiani, diventando cristiana.

Ora Coquitra si chiama Carmen Alvaez, ed è una delle più rispettabili signore di Buenos-Ayres, avendo sposato il capitano Alvaez, che passa per uno dei più bravi e istruiti ufficiali di quella giovane repubblica; e Sanchez è uno dei più ricchi proprietari della pampa argentina.


Note

  1. Poncho, pezzo di panno con un buco nel mezzo, e che serve da coperta e da mantello.
  2. Pesci piccoli, ma dai denti d'acciaio, che abbondano nei fiumi delle pampas e che divorano vivo l'uomo o l'animale che osa bagnarsi nei luoghi ove questi pesci si trovano.