Ulalume (Poe-Ragazzoni 1956)
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I cieli eran foschi e cinerei
le foglie calpeste e appassite,
le foglie cadute e appassite!
Ed era una notte di un livido ottobre
5lontano, in un anno di duolo e mister,
ed era giù in riva del gran lago d’Hobre
nel triste e nebbioso paese di Wer!
giù, lungo il silente, letal stagno d’Hobre
nei boschi stregati e profondi di Wer.
10E là tra i cipressi di un viale titanico
erravo coll’anima mia,
con Psiche, coll’anima mia:
e il cuore, in quei giorni, il mio cuore vulcanico,
siccome la lava bollìa,
15le lave e gli zolfi bollìa,
che scorrono eterni sui fianchi del Yaniko
tra i picchi e le rupi dei fiord,
che gemono e sprizzano sui fianchi del Yaniko
negli ultimi climi del Nord!
20E i nostri discorsi eran stati solenni e severi,
ma i nostri pensieri ripieni d’affanno
e i nostri ricordi un inganno,
perché ci eravamo scordati
che quello era il mese d’ottobre,
25né più rammentato la notte dell’anno.
(Ah! notte fra tutte le notti dell’anno!).
Non più ravvisammo le rive deserte dell’Hobre,
ben ch’ivi altra volta ci fossimo aperto un sentier,
non piú ravvisammo il fatal lago d’Hobre,
30né i boschi stregati e profondi di Wer.
E poi che nel cielo in oriente
le stelle annunciavano l’alba,
le stelle indicavano l’alba,
dal fine del nostro sentiero un nascente
35ci giunse nebbioso baglior;
la stella di Venere allora saliente
ci avvinse in un raggio d’amor,
la stella di Venere allor dolcemente
ci strinse in un raggio d’amor.
40«Oh! — dissi — Ella certo più fida che Diana
si leva frammezzo alla bruma,
ci appare frammezzo alla bruma!
Certo Ella ha saputo che l’anima umana
nel duol si consuma!
45che eterni nei nostri cervelli d’infermi
si annidano i vermi,
e in alto, fra gli astri maligni è comparsa
amica, squarciando ogni vel,
fra gli astri maligni nell’alto è comparsa
50mostrandoci amica la strada del ciel!»
Ma Psiche, levando la candida mano,
mi disse: «Io diffido dell’astro di Venere,
diffido del triste, bell’astro di Venere.
Oh! non arrestiamoci, fuggiamo lontano,
55lasciam questi luoghi d’orrore e di duol!».
Così mi parlava piangendo, e man mano
le grandi sue ali piegavansi al suol.
Così mi parlava, lasciando man mano
che l’ali battute volgessero al suol,
60volgessero chiuse e tristissime al suol.
Ed io le risposi: «Quest’è solo un sogno,
seguiamo, seguiamo la tremula luce,
bagniamoci in questa benefica luce!
Il suo tremolante bagliore s’accende
65stanotte di gioia e di speme.
Non vedi? esso surge, s’avvia, si distende,
vien dunque, ed al raggio volgiamoci insieme.
Ei solo guidarci può a porto fedel;
poich’esso s’accende di gioia e di speme
70traverso le vie profonde del ciel».
Così calmai Psiche, la strinsi al mio core
e vinsi i suoi dubbi con baci tremanti
e meco la trassi in un sogno d’amore.
Ed ecco, all’estremo del viale, rizzarcisi innanti
75la porta glacial d’una tomba,
la porta istoriata e glacial di una tomba!
«Oh — dissi — sorella, che è scritto sui freddi e pesanti
battenti di quella tristissima tomba?».
Ed Ella rispose: «Ulalume! Ulalume!
80In questo sepolcro perduto fra boschi e brume
riposa la morta, tua bella Ulalume!».
Allora il mio cuore si strinse funereo
siccome le foglie contorte e appassite,
siccome le foglie calpeste e ingiallite!
85«E certo, — urlai pazzo — cert’era l’ottobre
in questa medesima notte dell’anno,
che sono disceso per questo sentier!
In quella terribile notte d’affanno.
Oh! quale demonio mi fe’ qui cader?
90Or sì riconosco le brume e le rive dell’Hobre
e il triste e deserto paese di Wer!
Conosco ora il cupo, fatal stagno d’Hobre
e i boschi stregati e profondi di Wer!».
Nota
Poë, poeta, è il cantore della morte; i suoi versi non vibrano che in quest’unica corda.
Egli non invoca il Nulla, la Quiete Suprema, come il Leopardi o lo Shelley; non crede nel renaître ailleurs, come Victor Hugo; non si compiace di scheletri e di terrore come il Burger. L’autore del Corvo, davanti alla tomba, subisce unicamente il fascino, la vertigine del dolore. Egli non piange, non prega, non impreca, non filosofeggia. Di fronte al rovinare della sua fede, del suo amore, egli resta immoto, vinto dal destino, e mormora con monotona litania, ed annovera, ed analizza, con triste insistenza, i dolori suoi, le ferite che gli sanguinano nel cuore.
La sventura lo stupisce, la fatalità lo accascia. Egli è come il prigioniero del pozzo, nella sua celebre novella, che al parossismo della disperazione quasi sorride, seguendo, coll’occhio, l’oscillare, l’abbassarsi lento ed implacabile della lama d’acciaio che deve passargli sul petto.
Mai un barlume di speranza: nel completo abbandono di tutto egli ben sa che il passato non può piú tornare, che la morte è per sempre, che la Desolazione sarà eterna.
E così in questa misteriosa e selvaggia Ulalume, la stella dell’alba, della gioia, dell’amore, non conduce — fatalmente — che ad un sepolcro, ed il raggio di Venere, che un istante aveva diradato la tenebra, non serve ad altro che a svelare il nome di una morta adorata, e ad evocare un passato irrimediabile.
Ulalume, scrive il Whitman, rassomiglia a certi paesaggi di Turner: «al primo sguardo non presentano che tenebre, sembrano informi».
Il triste scenario del tempo e del luogo è abbozzato dal Poë, sin dal principio, con straordinaria potenza suggestiva.
Le ripetizioni che s’inseguono, che si succedono con pazza ostinazione, quasi confessione dell’impotenza di un maniaco sublime che non sa e non vuole e non può strapparsi dall’idea fissa che lo seduce, danno subito al lettore un’impressione vaga d’angoscia, e poi, a poco a poco, nella solennità di quella notte di ottobre, nel mistero di quel paese druidico e spettrale di Wer, sulle rive tenebrose di quella sconosciuta palude d’Hobre, rinnovandosi, crescendo, moltiplicandosi come rintocchi funebri, sopraffanno l’anima e l’avvincono in un incubo, in un fascino a cui non le è più possibile sfuggire.
Il poeta, quasi trascinato da un ricordo, indolente si lascia vincere dalla propria parola e dal proprio pensiero e passa, come senza avvedersene, da una semplice descrizione, da impressione ad impressione, fino a svelare tutto l’intimo spasimo dell’anima sua.
Edgard Poë compose Ulalume nella solitudine di Fordam, nel 1847. Gli era morta la moglie pochi mesi prima.
E. R.