Trattato di architettura civile e militare I/Trattato/Libro 1/Capo 3

Trattato - Libro 1 - Capo 3

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CAPO III.

Della bontà delle acque.

Quanto alla terza parte, occorre il trattare delle acque per la medesima cagione, dove è da sapere, che benchè l’acqua di sua natura sia fredda e umida, niente di meno per le ragioni assegnate delle alterazioni della terra, e perchè passando per alcuni terreni piglia la complessione e sapore di quelli e si trasmuta e altera di sua natura, e seco molte maligne qualità trasporta. Onde per conoscere quando queste acque sono convenienti per il vitto, metterò tre vie per le quali si conseguirà questo fine, e ultimatamente due esperienze. La prima via e modo è questa, che ogni volta che l’acqua ha in sè sapore alcuno si può senza errore tenere che non sia pura, perocchè l’acqua pura, come ciascuno elemento, non debba contenere sapore, perchè il sapore resulta di quattro qualità prime, cioè, calidità, frigidità, umidità e siccità; delle quali il puro elemento non ha se non due, e tanto più è puro quanto di quelle che ad esso non sono naturali manco partecipa: per la qual cosa il sapore dimostra l’acqua essere minerale, o con superfluità, terrestrità maligna alla sanità degli animali. La seconda via è considerare se l’acqua ha in sè colore, sicchè i corpi colorati non [p. 136 modifica]appaiano del medesimo colore dentro dell’acqua e di fuori: e quando questo fosse, è da indicare l’acqua non essere di sua naturale disposizione, perocchè per la medesima ragione essendo il colore qualità che risulta delle quattro prime, non può l’elemento puro partecipare vero colore. La terza e ultima è considerare il suo pondo per rispetto di qualche acqua già approvata sana; perocchè quanto l’acqua è più leggera, tanto è più pura e immista, seclusa la calidità estranea, e tanto più terrestre quanto più grave1. Questo nella città di Tibori per l’esperienza si vede, dove l’acqua discendendo per un grande precipizio, più sana assai si trova quella che per la caduta è alquanto assottigliata, che quella che innanzi al discendere si piglia, e similmente di molto minor pondo2.

Non è da pretermettere due esperienze, per le quali con arte facilmente si conosce di che corpo o natura partecipano. La prima: piglisi alcuna quantità di quell’acqua della quale desideri di conoscere la proprietà e altrettanta lisca3, e insieme si facciano bollire per lo spazio d’un quarto d’ora, di poi lascialo infrigidare per spazio di sei ore, in fondo del vaso quel corpo (col quale l’acqua era mista) si troverà. La seconda: piglisi l’acqua, e posta in una boccia, e turate bene le giunture, e posta sopra al lambicco, a quella mediocre fuoco si dia, tanto che tutta stilli: la qual cosa fatta, quel corpo del quale l’acqua partecipava, in fondo della boccia apparrà manifesto. E in questo sia dato modo alla terza parte principale.

Note

  1. Queste cautele sono prescritte da Vitruvio (lib. VIII, cap. III); e da Plinio (lib. XXXI, cap. XXII e seg.) L’avviso degli antichi, di tener come migliore l’acqua più leggera (quantunque questa non bene si applichi agli usi domestici) è specialmente spiegato da Ateneo (Deipnosophist. lib. II, cap, IV e V) e da un’iscrizione romana presso il Rucellai (Comment. de urbe Roma.), che dice Curandis aegritudinibus statera iudicat.
  2. Tibori o Tiboli chiamavasi allora la città di Tivoli. L’osservazione qui fatta è confermata dalla giornaliera esperienza.
  3. La lisca è quella materia legnosa e grave agli occhi, che staccasi dalla canapa e dal lino maciullati o spogliati.