Trattato dei governi/Libro quinto/V

Libro quinto - Capitolo V: Della musica per via di disputa

../IV ../VI IncludiIntestazione 17 settembre 2008 75% filosofia

Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro quinto - Capitolo V: Della musica per via di disputa
Libro quinto - IV Libro quinto - VI


Ma della musica dubitai io ancora innanzi per via di ragioni, e al presente di nuovo vo’ io ripigliando questo ragionamento allungarlo, acciocchè e’ possa dare occasione a chi volesse di lei ragionando discorrerne. Che invero e’ non è agevole impresa a dimostrare la forza, ch’ella abbia, nè la cagione, perchè ella debba essere partecipata, s’ella sia dico lo spasso o la relassazione dell’animo, siccome è il sonno e l’ebrietà. Perchè tali cose, per loro stesso considerate, non hanno del virtuoso, ma sibbene del piacevole, e insieme quietano l’animo, siccome dice Euripide. E perciò sono stati ordinati questi rimedî, e usati da ogni uomo, il vino, dico l’ebrietà, e la musica; e èssi ancora posto infra queste cose l’arte dei balli.

Ovvero è meglio stimare, che la musica serva qualcosa alla virtù, come quella, che non altrimenti che la ginnastica, che può ire disponendo il corpo a qualche abitudine, parimente ella possa ire in qualcosa disponendo il costume, con avvezzarlo cioè a rallegrarsi con virtù, ovvero ch’ella sia buona per far passare bene il tempo, e per fare l’uomo prudente. Chè questa terza cosa ci si debbe aggiugnere. È chiaro adunche, che li giovani non debbino imparare la musica per fine di spasso, perchè nell’imparare non s’ha spasso, anzi ogni disciplina s’acquista con dolore, nè ancora sta bene, che e’ l’imparino per fine di passare tempo virtuosamente, perchè a simile età non sta bene un tal fine. Imperocchè e’ non si conviene il perfetto a una cosa imperfetta.

Ma forse potrà parere, che questo studio fanciullesco debba essere messo da loro nella musica per cagione d’averne spasso poi ch’ei sieno uomini fatti, e venuti in perfezione; ma se la cosa è di tal natura, a che fine debbono essi impararla? E perchè non piuttosto, siccome fanno li re dei Persi e dei Medî, si pigliano essi questo piacere, e questa disciplina mediante altri, che la sappia usare? Essendo necessario, che molto meglio l’usino quegli, che esercitano l’arte solamente tanto tempo, quanto serva ad impararla. E se pure noi vogliamo porre, che ancora questi tali vi si debbino esercitare dentro, e’ sarà bene ancora porre, che e’ si esercitino nell’arte del cucinare; ma ciò è pure disconvenevole.

Questo medesimo dubbio nasce ancora, posto che ella si faccia mutare i costumi, imperocchè a che fine bisogna impararla? E perchè non si può egli bene rallegrarsi, e ben giudicarne, udendo cantare altri, siccome fanno gli Spartani? Perchè essi, sebbene non l’imparano, pure sanno di lei fare buon giudizio, se ella è buona musica o cattiva, come si dice. E questa medesima ragione si può usare, posto che ella fusse buona a fare passare il tempo virtuosamente, cioè a che fine bisogni impararla; e non piuttosto sia meglio servirsi delle fatiche d’altri che la sappino.

E questo parere si può confermare con la credenza, che s’ha degli Dii, perchè nè Giove stesso canta, nè suona la citara, siccome dicono li poeti, anzi, tali arti tutte si chiamano vili, e il farle è da uomo, che sia o ebro, o che scherzi. Ma forse sia meglio di queste cose considerarne dappoi.

E il primo dubbio è vedere, se la musica si debbe mettere infra le discipline o no, e quello ch’ella possa più infra le tre cose dette: cioè o fare disciplina, o spasso, o intrattenimento onesto. E certo che con ragione ella s’ordina a fine di tutte queste cose, e di tutte tre partecipa, perchè lo spasso è per fine di riposo, e il riposo ha il piacevole per necessità, essendo egli una medicina del dolore cagionato dalle fatiche, e lo intrattenimento, a detto d’ogni uomo, dovendo non pure avere l’onesto, ma ancora il piacevole, conciossiachè la vita felice sia un misto d’amendue queste cose. E la musica ogni uomo la confessa per cosa piacevolissima, e stietta da sè, e congiunta col suono.

Museo ancora in confermazione del mio detto afferma questo dicendo:

Il canto a’ mortali è dolce e suave.

Onde la musica ragionevolmente è tenuta in pregio per intrattenere gli uomini insieme, e per far passare l’ozio onestamente; come cosa, che abbia forza di dilettare. E però di qui si può cavare ancora, che e’ si sia ben fatto ammaestrare i giovanetti, e non pure in questa, ma in tutte l’altre cose, che infra le piacevoli mancano di nocumento, e servono non tanto al fine quanto al riposo. Ma perchè di rado avviene, che gli uomini sieno nel fine, e che sovente e’ si riposino, e piglinsi degli spassi, non per l’eccesso, ma per quanto serva al ricrearsi, perciò è utile di dilettarsi in quei ricreamenti che dalla musica sono derivanti.

Ma gli uomini si son fatti fine li giuochi, e li spassi. Nè forse è falso che il fine abbia qualche piacere, ma è falso, ch’egli abbia qual un si voglia. E gli uomini ricercando del piacere, che è proprio del fine, pigliano questo per quello, per aver ei similitudine col fine delle azioni. Chè a dire il vero il fine non è eligibile per cagione di cosa alcuna, che abbia ad essere; nè li piaceri detti ancora sono per cagione d’alcuna cosa, che abbia a venire, ma per cagione di cose state; e che sono le fatiche e i dolori. E tal cagione si può ragionevolmente conjetturare, che sia di far credere agli uomini che la felicità s’acquisti per mezzo di questi piaceri.

E quanto al partecipare della musica non solamente per questo, cioè, perchè ella sia utile appunto pel vivere nello ozio, è da cercare s’e’ può intervenire, ch’ella serva ancora ad altro. Chè invero la natura sua è più degna, che non è il bisogno detto, e debbesi mediante lei non solamente partecipare del comune piacere da lei derivante, e del quale ogn’uomo ha sentimento perchè la musica ha un piacer naturale, e però l’uso d’essa è amato da ogni età, e da ogni costume. Ma veggiamo se in modo alcuno ella serve al costume dell’animo.

E questo ci interverrà, se noi diventeremo per suo mezzo di qualche costume. Ma per le melodie d’Olimpo è certo che noi diventiamo, chè tale certamente astrae l’anima dai sensi, e l’astrazione non è altro che una affezione di costume intorno all’anima. Ancora e’ si vede, che nell’udire le imitazioni gli uomini hanno compassione a quei casi, e benchè elle sieno senza numero, e senza melodia.

Ma essendo la musica infra le cose piacevoli, e la virtù consistendo intorno al ben rallegrarsi, e al bene amare, e al bene portar odio, perciò bisogna imparare e avezzarsi a nessun’altra cosa più che a poter giudicare rettamente, e a pigliarsi piacere dei costumi buoni, e delle azioni oneste. Sono oltra di ciò nei numeri e nelle melodie le similitudini quasi delle vere nature dell’ira, e della mansuetudine, e della fortezza, e della temperanza, e di tutti i loro contrarî, e d’ogn’altra virtù morale. E questo ci si manifesta per l’opere stesse, conciossiachè udendo tai melodie noi mutiamo l’animo. Ma l’avvezzarsi nei casi simili a dolersi, e a rallegrarsi è quasi quel medesimo che avere quel costume da vero, come è verbigrazia, se uno si piglia piacere di vedere una imagine di qualcuno non per altro, che per quella stessa figura, di necessità conseguita, che la vista di quella cosa, di cui egli vede volontieri l’imagine gli sia piacevolissima.

Ma in nessun’altra cosa sensibile è tanta similitudine di costumi, quanto ella è in quelle dell’udito, perchè nei tangibili e nei gustabili oggetti non è ella, e nei visibili è ella debolmente, perchè tali son figure, e ciascuno alquanto partecipa di tal sentimento. Più oltre tali non sono similitudini di costumi, ma le figure, e i colori son piuttosto segni dei costumi, e tali s’appartengono agli affetti del corpo. Contuttociò per quanto s’appartenga a tale differenza delle cose visibili debbono li giovani guardare non le figure di Pausone, ma quelle di Polignoto, o se, d’alcuno altro dipintore, o scultore si trova nulla, che abbia del morale.

Ma in esse melodie sono l’imitazione dei costumi. E ciò è manifesto, che subito si vede la differente natura delle armonie, di sorte che chi l’ode si dispone altrimenti, e non sta in un modo medesimo nello udire ciascuna d’esse, ma in udire certe sta più rammarichevole, e più raccolto in sè stesso, come è nella melodia chiamata la lidia mista, e nell’udirne certe altre ha la mente più abbandonata, come interviene nelle armonie, che hanno il molle, e mezzanamente sta disposto, quando e’ n’ode certe altre, come pare che faccia solo l’armonia dorica, e la frigia ha più il furioso.

E queste cose sono bene avvertite da quei che intorno a questa disciplina sono iti filosofando, e le ragioni pigliano qui il testimonio dalle opere stesse, perchè il medesimo interviene intorno ai numeri, facendo certi d’essi il costume più stabile. E certi facendolo più leggeri, e di questi alcuni avendo li moti più vili, e alcuni più da liberi. Per queste cose adunche sia manifesto, che la musica ha forza di preparare costume nell’anima, e se ella può fare un tale effetto, per certo ch’ella si debbe pigliare, e debbonvisi dentro disciplinare i giovanetti.

Perchè oltra di questo la disciplina musicale è convenientissima a simile natura fanciullesca, perchè li giovanetti mediante l’età non fan volentieri cosa alcuna, dove non sia attaccato il piacere, e la musica ha da natura il piacevole. E pare ancora, che infra noi e l’armonie, e li numeri sia una certa parentela, e però hanno detto molti filosofi, alcuni cioè, che l’anima è armonia, e alcuni ch’ella ha l’armonia.