Trattato dei governi/Libro quarto/III

Libro quarto - Capitolo III: In qual parte dell'anima consista maggiormente la felicità, o nella attiva o nella speculativa

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro quarto - Capitolo III: In qual parte dell'anima consista maggiormente la felicità, o nella attiva o nella speculativa
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Ma io vo’ disputare alquanto con chi confessa la vita virtuosa essere la desiderabilissima, ma che non conviene nell’uso d’essa virtù, e vo’ dire le ragioni dell’una parte e dell’altra. Dall’una sono dannati li magistrati civili, come da chi stima la vita d’uno uomo libero esser diversa da quella di chi amministra le cure civili; e così la prima vita essere la desiderabilissima. Dall’altra si tiene in contrario per ottima vita questa altra, con allegare che egli è impossibile cosa a farsi bene da chi non fa nulla, e che la buona operazione, e la felicità è una cosa medesima. E certamente che l’una parte, e l’altra dice bene, e non dice bene. Dice bene quella che afferma la vita d’un uomo libero essere migliore di quella di chi governa violentemente. E ciò è vero, imperocchè e’ non è cosa alcuna generosa a usare il servo, come servo; perchè il comandamento delle cose necessarie non ha in sè cosa alcuna d’onesto.

Ma e’ non è già vero il giudizio di chi stima ogni imperio per violento, perchè e’ non è men differente l’imperio sopra gli uomini liberi da quello che è sopra li servi, che sia differente il libero per natura dal servo per natura. Ma di tal materia è stato determinato a sufficienza nei primi discorsi. Ma il volere piuttosto lodare lo starsi che l’operare, è ben falso; conciossiachè la felicità sia una operazione. Oltra di questo l’azioni dei giusti, e delli temperati hanno per fine molte cose oneste.

E forse qui, fattasi da me simile determinazione, potrebbe sospettare uno, che e’ fusse cosa ottima l’essere padrone d’ogni uomo; perchè in tal modo sarebbe uno signore di far cose onestissime e giuste. Per la cui cagione non dovere uno, che li ne sia porto occasione d’essere sopra gli altri, lasciarla al compagno, anzi piuttosto togliernela; nè il padre dovere lasciarla al figliuolo, nè il figliuolo al padre, nè insomma l’amico dovere avere rispetto all’altro amico, nè di ciò tenere alcuno conto. Perchè l’ottimo è cosa desiderabilissima, e il ben fare è cosa ottima.

E questo sarebbe forse vero, se e’ restasse in chi usurpa gli imperî, e in chi forza gli altri a stare sottoposti, quella cosa che infatto è ottima; ma e’ non è forse possibile che ella resti in loro. Ma fassi qui un presupposto falso, conciossiachè e’ non sia lecito a un tale di operare cose oneste, se già e’ non è tanto sopra gli altri per virtù, quanto è l’uomo dalla donna, o il padre dai figliuoli, o il padrone dai servi. Onde chi trapassa il segno nel voler dominare a chi non si conviene, non può mai tanto correggere un simile errore dappoi col bene fare, che e’ non sia maggiore il peccato; perchè l’onesto, e il giusto è infra li simili, e infra quegli che scambievolmente comandano. E questo è pari e simile. Ma il non pari al pari, e il non simile ai simili è cosa fuori di natura, e nessuna cosa è buona, che sia fuori dell’ordine della natura. Onde se ei si trovasse uno, che per bontà avanzasse gli altri, e per potenza da poter mettere in atto cose ottime, a costui sarebbe onesta cosa di cedere, e sarebbe giusta cosa ubidirgli. Ma e’ non basta a tale ancora la virtù, che ancora li fa mestieri di possanza, mediante la quale e’ possa operare.

Ora, se queste cose sono bene dette, si può conchiudere che la felicità sia una buona operazione, e che la vita ottima sia quella che opera bene e nella città universalmente e in particolare in ciascuno. Ma e’ non è già necessario, che la operazione sia ad altri, come molti si stimano, nè che quei pensieri soli siano attivi, che sono per fine di quelle cose che risultano dallo operare, ma molto più quegli, che sono in loro stessi perfetti, e che considerano, e che discorrono per cagione di loro stessi e non d’altri: perchè la buona azione è fine. Onde egli è fine ancor la azione. Ma di più in esse azioni esterne quegli veramente si dice operare, che è architettonico, e che col pensiero attende all’opera.

Che e’ non è già necessario che quelle città, che da per loro stesse si vivono, e che hanno preso una simile elezione, si dichino private d’operazioni, perchè una tal cosa può accadere nelle parti loro, avendo le parti della città molte comunicanze l’una con l’altra. E questo medesimo può accadere in ciascuno uomo verso sè stesso, imperocchè Dio ottimo altrimenti a pena starebbe bene; e il mondo tutto che è privato d’azioni esterne, e che ha solamenta le sue propie. Che adunche una vita medesima per necessità sia ottima alla città, e a ciascuno uomo in particolare è manifesto per le cose dette.