Trattato de' governi/Libro terzo/VII

Libro terzo
Capitolo VII:
A chi si debba dare lo stato in mano

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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro terzo
Capitolo VII:
A chi si debba dare lo stato in mano
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[p. 114 modifica]Ma egli è ben dubbio di chi debba essere padrone nelle città, e il popolo, dico, o li ricchi, o li buoni, o un solo, che sia sopra di tutti gli altri per virtù eccellente, o il tiranno. E tutte le cose dette, pare che abbino non picciola difficoltà. Imperocchè se li poveri, per essere più di numero, si distribuissino i beni de’ ricchi, questa cosa non sarebbe ingiusta: perchè ella parrebbe fatta giustamente a chi fosse padrone del governo. Ma ella sarebbe (a dire il vero) la maggiore ingiustizia, che sia al mondo. E [p. 115 modifica]di nuovo pigliando tutto il popolo, se li più si distribuissino li beni di quei, che sono manco di numero, egli è chiaro, ch’ei distruggerebbono la città: ma la virtù non distrugge chi l’ha, nè il giusto è della città distruttivo.

Onde è manifesto, che una tal legge non può esser giusta. Oltre di questo ne seguiterebbe, che ogni azione fatta dal tiranno sarebbe per necessità giusta; perchè, essendo ei più possente, e’ potrebbe sforzare, non altrimenti che il popolo si potesse sforzare li ricchi. Ma se noi diremo dall’altra banda, che e’ sia giusto di dare il governo in mano de’ pochi, e dei ricchi; se essi ancora faranno li medesimo danni, e se e’ dissiperanno, e s’ei torranno la roba al popolo, fia questo giusto? e se e’ fia: e’ fia ancora il primo. Ond’è manifesto, che tutte le predette usanze sono cattive, e non giuste.

Ma se noi diremo ch’e’ si debba dare il governo di tutte le cose in mano dei cittadini modesti, fia di necessità fare tutti gli altri cittadini disonorati, e non partecipi degli onori civili: e onori civili dico io essere i magistrati. Ora, regnando sempre li medesimi, è forza che gli altri ne restino privati. Ma e’ si potrebbe dire, che e’ fosse me’ fatto dare il governo in mano d’uno solo, che fusse virtuosissimo. Ma tale ordine non ha egli dello stato dei pochi potenti molto più degli altri? Perchè li più restano senza onori. Ma forse qui direbbe uno essere male ordine, che l’uomo sia padrone, e non la legge; perchè nell’uomo sono le perturbazioni dell’animo; ma se questa legge avesse rispetto ai pochi potenti o al popolo, in che sarebbe ella mai differente dalli dubbî proposti? Conciossiachè li medesimi inconvenienti accadere ci potessino?

Ma sia delle altre materie altro tempo da ragionare. E dicasi ora, che l’affermare per migliore ordine il dare il governo in mano al popolo più presto che agli ottimati, ma pochi, si possa risolvere; e forse che e’ ci sia qualche dubbio: anzi ci sia forse il vero. Imperocchè li più (nel qual numero è ciascuno, che non è virtuoso cittadino) contuttociò li più, dico, insieme accozzati possono essere migliori di quegli ottimi, non considerati in [p. 116 modifica]particolare; ma tutti insieme: siccome interviene in quei conviti, dove ogni uomo porta, ch’ei son migliori di quegli, che sono fatti da uno che sia solo a spendervi. E così ne’ più accozzati insieme può essere, che ciaschedun abbia una particella di virtù e di prudenza. Siccome avverrebbe in un solo uomo, il quale avesse assai piedi, e assai mani, e assai sentimenti (che una tal cosa ancora potrebbe essere, e nei costumi e nel discorso) e per questo intervenire, che li più danno buon giudizio sopra la musica e sopra le cose di poesia; veggendo chi una cosa e chi un’altra, e tutti veggendo ogni cosa.

Ma gli uomini virtuosi in questo sono differenti da qualunque altro del popolo, siccome si dice essere differenti i belli dalli non belli: e le cose dipinte per arte dalle vere e naturali: per essere nelle cose dell’arte raccozzato insieme quello, che era dispersè di bello. Dove a separarlo ciascuna cosa è più bella dispersè nella natura, ch’ella non è nell’arte; siccome è l’occhio o qualcuna altra parte del corpo. Ora adunche se una tale differenza si può mettere, che sia infra ogni popolo, e infra ogni moltitudine d’uomini inverso di pochi virtuosi, è non bene manifesto; anzi è forse per mia fè chiaro, che in certe moltitudini tale differenza è impossibile a darvisi; conciossiachè una tale ragione si potesse ancora accomodare in una moltitudine d’animali bruti. E che differenza è egli da certi uomini agli animali bruti per via di dire? Ma in certi popoli niente proibisce, che e’ non sia vero il mio detto.

Laonde il primo dubbio proposto si può solvere per questo [p. 117 modifica]verso, e così il conseguente; di che cose cioè debbino essere padroni gli uomini liberi, e la moltitudine dei cittadini, i quali non sieno nè ricchi, e non abbino qualità rilevata: cioè, che e’ non è sicura cosa a fare partecipi tali uomini dei sommi magistrati. Conciossiachè mediante l’ingiustizia e l’imprudenza e’ potrebbono parte commettere dell’ingiurie, e parte commettere degli errori: e il non darne loro, e il non fargli partecipi di quegli sarebbe ordine spaventoso. Imperocchè dove li più, e poveri rimangono privati degli onori, quivi è forza ch’e’ si riempia d’inimici della republica. Restaci adunche a dire, che tali debbino partecipare dei giudizî e dei consigli.

E perciò Solone, e alcuni altri legislatori instituiscono, che il popolo sia padrone della creazione dei magistrati, e di correggere gli errori di chi è in magistrato, ma che dispersè e’ sia principe non consentono. E la ragione è, che tutto il popolo ragunato insieme viene ad avere un sufficiente giudizio, e mescolato con li prudenti viene a giovare alla città, non altrimenti che un nutrimento non buono mescolato con un buon fa tutto insieme il nutrimento più utile al corpo, che se ei fusse quel poco. Che qui medesimamente ciascuno dispersè considerato è disutile a dare giudizio.

Ma in questo ordine detto di governo nasce un dubbio. Imprima, perchè e’ potrebbe parere, che al medesimo s’appartenesse dare giudizio di chi avesse bene medicato, che sapesse ancora ei medicare, e fare sano l’infermo dal presente male; e questi è il medico. E questo simile avviene in tutte l’altre esperienze e arti. Così adunche come al medico sta bene rendere conto delle sue azioni agli altri medici, parimente sta bene fare questo agli altri nelle simili corrispondenze; ma il medico è e quegli che opera da sè, e quegli che è architettonico. E ecci ancora un terzo, che è [p. 118 modifica]quegli che è esperimentato nell’arte; conciossiachè certi se ne dia di tale fatta in ciascuna arte per via di dire; e il giudizio si concede non meno agli esperimentati, che a chi sa per teorica.

Così nella elezione ancora pare, che la cosa stia similmente; conciossiachè l’eleggere bene sia uffizio d’uomo perito; come è verbigrazia, il geometra lo scerrà bene chi arà l’arte della geometria, e il nocchiere chi sarà instrutto negli esercizî navali. E avvenga che in certe faccende e arti s’impaccino ancora quei che non fanno di tali cose, contuttociò e’ non le trattano meglio di chi sa. Laonde per tale verso al popolo non si debbe dare l’autorità nè di creare li magistrati, nè di correggerli.

Ma forse le cose dette non stanno tutte bene, per la ragione di sopra allegata: dove il popolo non sia interamente vile. Chè egli è ben vero, che ciascuno dispersè fia più cattivo giudice di chi sa; ma tutti insieme o e’ fieno migliori, o e’ non saran peggio. E così è vero, che di certe cose non chi l’ha fatte ne giudica meglio di chi conosce l’opera, e non ha l’arte; com’è della casa, che non pure la giudica bene chi l’ha fatta, ma meglio ancora dell’artefice d’essa la giudica colui che l’usa: e quegli è il padre di famiglia. E il medesimo interviene nel timone, che meglio ne giudica il nocchiere dell’artefice: e delle vivande meglio il conviva, che non fa il cuoco. Questo tale dubbio adunche in simile modo si potrebbe risolvere abbastanza. Ma e’ ne li conseguita un altro; che e’ pare, cioè, cosa disconvenevole che gli uomini cattivi più delli buoni sieno padroni di cose di maggiore importanza; nel quale grado sono le correzioni, e l’elezioni dei magistrati. Le quali due cose in certi stati si concedono al popolo, perchè la concione è d’amendue queste cose padrona; conciossiachè chi ne partecipa giudichi, e consigli e benchè egli abbia picciol [p. 119 modifica]valsente, e sia di qualsivoglia età giovenile. È ben vero che la dipositeria, la commesseria negli eserciti, e che gli altri grandi magistrati vi si danno a chi ha un gran valsente.

Ma questo dubbio nel medesimo modo si può ancora solvere, perchè tali cose forse stanno bene; conciossiachè nè il giudice, nè il consigliere, nè il concionatore sia padrone dello stato; ma il giudizio, il senato e la concione. Dei quali tre membri conti ciascuno è una particella. Io chiamo essere una particella delle cose dette, il giudice, il senatore, e il concionatore; onde ragionevolmente si concede al popolo la autorità suprema nel governo. Imperocchè la concione, il senato e il giudizio sono composti di molti; ed il censo di tutti questi è maggiore di qualsivoglia particolare; e di quei pochi ancora, che amministrano i magistrati grandissimi.

Queste materie adunche in tal maniera siensi determinate da noi, e per il primo dubbio racconto ci sia manifesto, come nessuna cosa più si debba fare padrona negli stati, che le leggi, che fieno bene poste; e che ’l cittadino di magistrato (o sia egli uno o più) debba essere padrone di tutte quelle cose, delle quali è impossibile che fia stato chiarito dalle leggi esattamente, per non si potere agevolmente da loro dir tutte le cose in universale. Ma e’ non è già ancor manifesto, qualmente debbino essere fatte le buone leggi; ma restaci ancora questo dubbio mosso imprima: anzi si può solvere tali dovere essere le leggi, o buone, dico, o ree, o giuste, o ingiuste, quali sono li stati.

Nè questo ancora ci debbe esser nascosto, che le leggi si debbino indirizzare al fine di quel modo di stato. E se così è, ne conseguita di necessità che le leggi indiritte al fine degli stati buoni fieno giuste; e le indiritte ai

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contrari manchino di giustizia.