Trattato de' governi/Libro settimo/III

Libro settimo
Capitolo III:
Come s'abbia ad osservare il giusto nello stato popolare

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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro settimo
Capitolo III:
Come s'abbia ad osservare il giusto nello stato popolare
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[p. 263 modifica]Dubitasi dopo questo discorso in che modo s’avrà il pari in tale stato, o facendo che ’l censo di cinquecento cittadini si divida in mille, e che li mille possino quanto li cinquecento; ovvero non si dee porre la parità in questo modo, ma bene dividergli in cotal modo. E poi preso dei cinquecento, e dei mille tanti d’ogni membro, ugualmente fargli padroni delle elezioni dei magistrati, e dei giudizî. Questo adunche sì fatto modo sarà ei quel modo che è secondo il popolare giusto, ovvero sarà ei piuttosto quello che sia per via della moltitudine delle facultà? Che li popolari invero affermano essere giusto quello, che pare alle più; e li pochi all’incontro quello, che pare a chi ha più facoltà: dicendo che e’ si debbe giudicare il giusto dalla eccellenza delle facoltà.

Ma l’un modo e l’altro (per dire il vero) ha il disuguale, e l’ingiusto. Che se e’ si pone per giusto quello che pare alli pochi, ella fia tirannide; conciossiachè se infra loro ricchi vi sia uno più ricco degli altri, secondo tale giusto e’ sarà solo principe. E se e’ si pone il giusto nel modo, che vogliono i più, e’ ne conseguiterà, che e’ torranno ingiustamente la roba ai suoi possessori, e che sono di loro manco per numero; siccome io ho detto, innanzi. Qual sia adunche la parità, che l’uno e l’altro stato confessa, considerisi dalla difinizione, onde amendue questi stati fanno il giusto: che l’uno afferma quello dovere essere valido, che pare alli più cittadini.

E sia (diciamo) questo vero, ma [p. 264 modifica]non sia interamente. Ma essendo la città di due parti composta, cioè di ricchi e di poveri; vaglia però quello che pare ad amendue queste parti, o alli più d’esse. E se queste due parti non concorderanno nei pareri, vaglia allora quello che pare alli più e a quegli che hanno più censo. Sieno verbigrazia questi dieci, e gli altri sieno venti, e concordino in un parere sei dei ricchi, e in un altro quindici dei poveri; e aggiungasi ai poveri quattro dei ricchi, e ai ricchi cinque dei poveri; sia dico in tale caso valido quel parere, e prevaglia agli altri, di coloro dico, che contati insieme in tale modo aranno più censo.

E in caso che e’ riesca pari, stimisi che la sentenza sia dubbia, come è verbigrazia oggidì, se la concione e il giudicio si divide in due parti; che in tale caso allora e’ si debbe o ritrar la sorte, o in altro simil modo si debbe fare. Ma del pari e del giusto ancora che e’ sia difficile cosa a ritrovarne la verità, contuttociò egli è più agevole a conseguire questo per via della sorte, che non è a persuadere quei che hanno possanza d’aver più degli altri; perchè invero chi ha manco sempre cerca d’aver quanto gli altri, e il dovere. E chi ha più, di ciò si cura poco.