Trattatelli estetici/Parte prima/IX. Arte e mestiere
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IX.
ARTE E MESTIERE.
Un tessitore, in una città non gran fatto lontana da questa nostra, venne chiamato da un tale, a cui occorrevano de’ fazzoletti, perchè gliene facesse non so che dozzine. Disse il tessitore, uomo piuttosto semplice, come udirete: e quanto a’ disegni, che campione me ne dà la signoria vostra? A cui l’altro: fate al solito; siano i quadri più o meno grandi di questo (e traeva di tasca un suo fazzoletto), ciò poco importa. Qui il buon uomo non fece che crollare il capo, e soggiugnere: la vuol duuque che io lavori di fantasia? — Da questa risposta appariva che in quel momento il tessitore pensasse del suo mestiere come fosse arte.
Ad un giovane, che per certo suo impeto fanciullesco erasi dato a recitare tragedie all’improvviso, sopra temi che gli venivano proposti sul fatto, un vivente letterato, poeta, prosatore, filologo, comico, romanziere, e avvezzo tutta la vita ad improntare i proprii lavori sull’altrui stampo, ebbe a dire: nulla avervi di più meccanico di quegli improvvisi; stante che, poste tre o quattro passioni generali, in una delle quali deve necessariamente concorrere l’argomento di qualsivoglia tragedia, altro non rimaneva a fare all’improvvisatore, fuorche il rimpolpare e colorire col dialogo e colla versificazione uno di quegli scheletri, per averne la così detta tragedia. - Costui riduceva l’arte dell’improvvisatore a mestiere.
Molto fu detto in generale sopra le arti, e a distinguerne alcune da alcune altre, che più propriamente si chiamerebbero mestieri, fu dato a quelle il nome d’arti liberali, o meglio d’arti belle. Ma non è di questa divisione che intendiamo discorrere presentemente vogliamo invece vedere se sia dato all’uomo, e per quali mezzi, innalzare alcuna volta il proprio mestiere alla dignità dell’arte; come accade pur troppo assai spesso di abbattersi in chi abbassa l’arte propria fino a ridurla mestiere. In questa guisa, oltrechè nell’arti stesse, vedremo risiedere nell’animo di chi le coltiva le ragioni per cui l’arti suddette sian tali e noa piuttosto mestieri.
Quando ci dicono i sottili trattatori di queste materie, che i principii dell’arti sono eterni ed incommutabili; che in ciò differiscono dalle scienze, in quanto queste si adagiano sovra principii diversi nel progredire de’tempi, laddove le arti immobili si rimangono sopra la base ove furono collocate a principio; quando ci dicono tutto questo, intendono altro fuorchè le regole generali dell’arte non essere state trovate, ma essere, direm quasi, forme anticipate d’ogni umano lavoro cui sia per convenire il nome di bello? Ciò posto, non sarà ragionevole il cercare nell’uomo stesso quelle disposizioni ond’egli si rende atto a sentire certe consonanze e certe dissonanze, dallo scontro delle quali deriva ogni più squisita armonia?
Noi non giudicheremo mai l’artista al pennello che ha in mano, o a que’ spruzzi neri che frammette alle righe tracciate sopra una carta più salda dell’ordinario; si bene a que’ tipi di bellezza musicale o pittorica che porta nell’anima, e cui incarna colorando o scrivendo. Quanta miglior musica quella di certe popolari canzoni, le cui melodie che furono forse a caso create da qualche uomo del volgo, ignaro del contrappunto, che non è quella che alcune volte ci tormenta fastidiosamente le orecchie tra il caldo e gli altri incomodi del teatro! Quanta miglior pittura ci sarà stata ne’ modelli che, giacendosi in letto a sedere, il Teocrito svizzero abbozzava, scompigliando le lenzuola, di quella che si vede in certi quadri in cui la natura è cadavere!
Una gran lotta c’è sempre stata tra il ventre e l’ingegno; e Chi non può errare sempre che parli, minacciava d’ingrassare nelle membra cui voleva far stremo dell’intelletto. I latrati del ventre sono alle volte si fieri e continui, che si scambiano da moltissimi per inspirazioni. E non che sciogliersi dalle regole eterne, fuori delle quali è pazzia il cercare bellezza, vengono immaginati certi aforismi di stitica filosofia per cui la comune de’ critici leva la fronte, e gl’intelletti privilegiati soffrono lunghi e noiosi interrogatorii.
Chi ama nel proprio lavoro la corrispondenza di esso coll’archetipo generale che gli somministra la fantasia, è quegli l’artista; chi studia il gusto dominante, o i proprii bisogni, per assoggettare ad essi l’opera che ha per le mani, costui è lavoratore meccanico. Per questa parte potrebbe credersi artista il fabbro-ferraio, il muratore, o altro tale, in preferenza dello scultore e dell’architetto. Non si credano condannati per altro gli onesti guadagni che un uomo d’ingegno si studia ritrarre dall’arte propria; altro è ciò che intendiamo, dicendo che i bisogni proprii non vanno studiati nelle composizioni dell’ artista.
Così pure quando si è detto che non si abbia a dar retta al gusto dominante, non s’intese già dire che l’artista abbia a rimauersene per certa guisa segregato dal consorzio de’ suoi contemporanei. Tanto è lunge che da me s’intenda mai questo, che anzi considero nelle arti una viva rappresentazione, e quasi una storia tradizionale dei bisogni e delle opinioni prevalenti ne’ varii secoli e presso le varie nazioni. Altra cosa è rappresentare le condizioni nelle quali si giace il proprio paese, altro rimanere da esse soggiogato nell’esercizio dell’arte. La prima di queste due cose è virtù; è la nota più certa onde sceverare dall’artista mediocre quello privilegiato da natura di facoltà singolari, ed atto a farsi maestro e correttore de’ suoi fratelli.
Chi non è da natura chiamato ad essere artista, si contenti del mestiere al quale si sente meglio disposto. Un grande errore sta in ciò, che molti credono nobilitarsi col porsi che fanno fuori di quella nicchia che loro venne assegnata nascendo. Ne viene a memoria il grazioso detto di quel tale, che ad un amico, cui erano saliti al cervello i fumi della ambizione, mostrò un uomo in cima ad un colle; e, credereste, soggiunse, che colui sia più grande perchè se ne sta colassuso, o che si facesse più picciolo collo scendere al basso? La dignità sta tutta nel far bene quel tanto che si fa, non nel fare piuttosto tale che tal altra cosa. Nella grande catena de’ vegetabili, chi voglia considerare le cose con tranquillità di giudizio, la ginestra selvaggia è meno nobile dell’altissimo cedro? Il pregio particolare della piccola pianta sta in questo che sia la più bella delle ginestre.
Non istà in noi lo scegliere a qual cammino ne sia più conveniente di porci, come non ci è dato sicurtà del tempo che potremo impiegare. Che dunque? Ove siamo sortiti a coltivare l’arti, si faccia questo da noi con affettuosa corrispondenza alla nostra destinazione; ove ne si assegni invece non più che un mestiere, esercitiamo in esso con diligente assiduità tutte le nostre forze. Arti e mestieri si danno mano, e se il gradino più eccelso di una scala dicesse al più basso: tu sei più vile di me, questo potrebbe rispondere, e tu dici falso dacchè a te non verrà chicchessia a cui io nou abbia dato il passo.
A persuadere tutti gli uomini della fallacia che vi ha ne’ loro giudizii, quando si brigano a contrariare la propria natura, è bastante un poco d’osservazione. In pessimi scrittori di poemi e di orazioni abbiamo a deplorare la perdita di un bravo notaio, di un eccellente fattore! Quante volte sotto il pennello di certi pittori vediamo la pialla e la lima, che avrebbero condotto a perfezione opere manuali delle più malagevoli!
Primo in una capanna delle alpi anzichè in Roma secondo; in questo significato il detto di Cesare può trovar luogo tra gli apoftegmi più veri e più vantaggiosi.