Tragedia non finita/Atto primo/Scena prima

Atto primo - Scena prima

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Atto primo Atto primo - Scena seconda
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SCENA PRIMA

NUTRICE, ALVIDA


Nutrice Figlia, e Signora mia, deh, qual cagione

Sì per tempo ti sveglia? ed or, ch’appena
Desta è nel ciel la vigilante Aurora,
E che ’l garrir dell’aure, e degli augelli
Dolce lusinga i mattutini sonni,
Dove vai frettolosa? e quai vestigj
Di timor in un tempo, e di desio,
Veggio nel tuo bel volto? il qual per uso
Sì lungo è noto a me (che non sì tosto
D’alcun novello affetto egli s’imprime,
Ch’io me n’avveggio?) a me, che per etate,
E per officio di pietosa cura,
E per zelo d’amor, madre ti sono,
E serva per volere, e per fortuna,
Non dee men il cor essere, ch’il volto:
E nulla sì riposto, o sì secreto,
Deve tenere in sè, ch’a me l’asconda.
Alvida Cara nutrice, e madre, è ben ragione,
Ch’a te si scopra quello, ond’osa appena
Ragionar fra sè stesso il mio pensiero.
Però ch’alla tua fede, ed al tuo senno
Canuto più, che non son gli anni, e ’l pelo,
Meglio è commesso ogui secreto affetto,
Ed uso del mio cor tacita cura,
Che a me stessa non è: temo, desio,

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Nol nego, ma so ben quel, ch’io desio:

Quel, ch’io tema, non so. Tem’ombre, o sogni,
E un non so che d’orrendo, e d’infelice,
Ch’un dolente pensiero a me figura
Confusamente. Oimè! giammai non chiudo
Queste luci meschine in breve sonno,
Ch’a me forme d’orrore, e di spavento
Non appresenti il sonno: ora mi sembra,
Che dal mio fianco sia rapito a forza
Il caro sposo, e scompagnata e sola
Irne per lunga, e tenebrosa strada,
Ed or sudar, e gocciolar le mura
D’atro sangue rimiro: e quanti lessi
Mai nelle istorie, o in favolose carte
Miseri avvenimenti, e sozzi amori,
Tutti s’offrono a me. Fedra, e Giocasta,
Gl’interrotti riposi a me perturba:
Agita me Canace, e spesso parmi
Ferro nudo veder, e colla penna
Sparger sangue, ed inchiostro; onde s’io fuggo
Il sonno, e la quiete, anzi la guerra
De’ notturni fantasmi; e s’anzi tempo
Sorgo del letto ad incontrar l’Aurora,
Maraviglia non è, cara nutrice.
Lassa me! simil sono a quell’inferma,
Cui la notte il rigor del freddo scote,
E ’n sul mattin d’ardente febbre avvampa;
Perocchè non sì tosto il freddo cessa
Del notturno timor, che in me succede
L’amoroso desio, che m’arde, e strugge.
Ben sai tu, mia fedel, ch’il primo giorno,
Che Galealto agli occhi miei s’offerse,
E che sepp’io, che dal suo nobil regno
Della Norvegia era venuto al regno
Di mio padre in Suezia, egli medesmo
A richiedermi in moglie, io mi compiacqui
Molto del suo magnanimo sembiante,
E di quella virtù per fama illustre,
Sempre cara per sè, ma viepiù cara,
S’ella viene in bel corpo, e se fiorisce
Col verde fior di giovinetta etade:
E sì di quel piacer presa restai,
Ch’il mio desir prontissimo precorse

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L’assenso di mio padre: e prima fui

Amante sua, che sposa. Or come poi
Il mio buon genitor con ricca dote
Per genero il comprasse; e come in pegno
Di casto amor, d’indissolubil fede
La sua destra ei porgesse alla mia destra;
Come negasse di voler le nozze
Celebrare in Suezia, e corre i frutti
Del dolce matrimonio, infin che fosse
Giunto al paterno suo Norvegio Regno,
Ove dicea desiar la sua madre
Ch’il primo fior di mia verginitade
Nel letto genial del Re Norvegio
Fosse colto, là ’v’ella ancora giacque
Vergine intatta, e con felici auspicj
Ne sorse poi sposa feconda, e madre,
Tutto è già noto a te. Sai parimente,
Che pria, che dentro di Norvegia a’ porti
La nave ei raccogliesse in riva al mare,
In erma riva, e ’n solitarie arene,
Stimolando la notte i suoi furori,
Come sposo non già, ma come amante
Rapace celebrò furtive nozze,
Le quai sol vide il raggio della Luna:
E quei notturni abbracciamenti occulti
Ivi restàr, ch’alcun non se n’avvide,
Se non forse sol tu, che nel mio volto
Ben conoscesti il rossor nuovo, e i segni
Della perduta mia verginitade;
Onde dicesti a me: Donna tu sei.
Ed io, tacendo, e vergognando, appieno
Confermai le parole. Or, poichè siamo
Giunti nella cittade, ov’è la sede
Real del Re Norvegio, ov’è l’antica
Suocera, che da me i nipoti attende;
Che s’aspetti non so; ma veggio in lungo
Trar delle nozze il desiato giorno.
S’è venti volte il Sol tuffato, e sorto
Di grembo all’Ocean da che giungemmo,
( Ch’i giorni ad un ad un conto, e le notti )
E pur ancora s’indugia, ed io frattanto,
( Debbol dir, o tacer? ) lassa! mi struggo,
Come tenera brina in colle aprico.

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Nutrice Alvida, anima mia, siccome folle

Mi sembra il tuo timor, ch’altro soggetto
Non ha, che d’ombre, e sogni, a cui s’uom crede,
Più degl’istessi sogni è lieve, e vano:
Così giusta cagion parmi che tarda
D’amoroso desio; chè giovanetta,
Che per giovane sposo in cor non senta
Qualche fiamma d’amor, è più gelata,
Che dura neve in rigid’alpe il verno;
Ma donnesca onestà temprar dovrebbe
La tua soverchia arsura, e dentro al seno
Chiuderla sì, che fuor non apparisse;
Chè non conviene a giovane pudica
Farsi incontro al desio del caro sposo;
Ma gl’inviti d’amor attender deve
In guisa tal, che schiva, e non ritrosa
Sen mostri, e dolcemente a sè l’alletti
Coll’onesto rossor, più che co’ vezzi.
Frena, figlia, il desio, che breve omai
Esser puote l’indugio: e sol s’attende
Il magnanimo Re de’ Goti alteri,
Che viene ad onorar le regie nozze.
Avida Sollo: e questa tardanza anco molesta
M’è, per la sua cagion. Non posso io dunque
Premer il letto marital, se prima
Non vien fin dal suo regno il Re de’ Goti?
Forse perch’egli è del mio sangue amico?
Nutrice Amico è del tuo sposo: e dee la moglie
Amar, e disamar non col suo affetto,
Ma coll’affetto sol del suo consorte.
Alvida Siasi, come a te par: a te concedo
Questo assai facilmente: a me fia lieve
D’ogni piacer di lui far mio piacere.
Così potess’io pur qualche favilla
Smorzar delle mie fiamme, od a lui tanto
Piacer, ch’egli sentisse ugual ardore.
Lassa! ch’invan ciò bramò. Egli mi sembra
Vago di me non già, ma di me schivo;
Perchè da quella notte, in cui di furto
Godette del mio amore, a me dimostro
Non ha di sposo più segni, o d’amante.
Non dolce bacio nel mio volto impresso:
Non pur giunta la sua colla mia mano:

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Non pur fissato in me soave sguardo.

Madre, io pur tel dirò; benchè vergogna
Affreni la mia lingua, e risospinga
Le mie parole indietro: io pur sovente
Tutta in atto amoroso a lui mi mostro,
E li prendo la destra, e m’avvicino
Al caro fianco: egli s’arretra, e trema,
E di pallor sì fatto il volto tinge,
Che mi turba, e sgomenta: e certo sembra
Pallidezza di morte, e non d’amore:
E china gli occhi a terra, o pur turbata
Volge la faccia altrove: e se mi parla,
Parla in voce tremante, e con sospiri
Le parole interrompe.
Nutrice  O figlia, segni
Narri tu di fervente intenso amore.
Tremar, impallidir, timidi sguardi,
Timide voci, e sospirar parlando,
Effetti son d’affettuoso amore;
Che per soverchio amor teme, ed onora:
E sor non vien a te con quell’ardire,
Che mostrò già nelle deserte arene,
Sai, che la solitudine, e la notte
Sproni son dell’audacia, e dell’amore,
Ma la luce del giorno, e la frequenza
Delle case reali apporta seco
Rispettosa vergogna: e s’egli fue o
Già ne’ luoghi solinghi audace amante,
Accusar non si dee, s’or si dimostra,
Ch’è nella reggia sua, modesto sposo.
Alvida Piaccia a Dio che t’apponghi. lo pur frattanto,
Poich’altro non mi lice, almen conforto
Prendo dal rimirarlo: e sono uscita,
Perchè so, che sovente ha per costume
Venir tra queste spaziose logge
A goder del mattin il fresco, e l’óra.
nutrice Figlia, e Signora mia, più si conviene
Al decoro regale, ed a quel nome,
Che di vergine ancor sostieni, e porti,
Alle tue regie stanze ora ritrarti:
E quindi ( se pur vuoi ) chiusa, e celata
Dal balcon rimirarlo.