Wilhelm August von Schlegel

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Atto quinto

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NOTA



«Timone d’Atene e Troilo e Cressida, non sono drammi storici, e tuttavia non si può dare a questi lavori il nome nè di tragedia, nè di commedia; ad ogni modo un’azione collocata parimente nell’antichità, dà loro qualche corrispondenza coi drammi tolti dall’istoria romana, ed è per questo che ho sin qui differito di farne parola. Il Timone d’Atene, fra tutte le opere di Shakspeare, è quello che tende maggiormente all’indole della satira; della satira allegra nella dipintura degli adulatori e de’ parassiti; della satira mordace, alla maniera di Giovenale, nell’amara veemenza di quel Timone che sì fortemente s’irrita contro la doppiezza e la sconoscenza degli uomini. La favola di questo dramma è semplicissima, e si divide in parte assai bene distinte. Nelle prime scene, Timone si mostra amante della gioia, liberale, splendido, ed è l’oggetto delle adulazioni de’ suoi numerosi favoriti. Nell’atto II e III, lo vediamo profondato ne’ debiti, e in atto di mettere alla prova i sedicenti suoi amici, nessuno dei quali mostrasi degno di quel titolo. Finalmente gli ultimi due atti contengono la fuga di Timone in un deserto e la dipintura della tetra malinconia che lo mena al sepolcro. Il solo episodio, se tale può chiamarsi, che si trovi in questo dramma, è l’esilio d’Alcibiade, e il suo ritorno a mano armata: il poeta volle per tal guisa mostrare l’ingratitudine dello Stato verso il suo difensore, accanto a quella de’ privati verso il loro benefattore; ma siccome il merito dei servigi che l’uno e l’altro resero è ben differente, così la loro condotta non è la stessa. Alcibiade giunge a ricuperare l’estimazione che aveva perduta, e Timone si rode d’affanno e muore. Se il poeta, come è giusto, piglia la parte di Timone contro la sconoscenza degli uomini; egli per altro non risparmia questo personaggio; e ne fa un pazzo sventato nella sua beneficenza, un pazzo atrabiliare nel suo rancore; nè mai lo fornisce di quella saggezza che insegna la giusta misura di tutte le cose. Timone prova la sincerità de’ suoi sentimenti esagerati con rifiutare un tesoro inviatogli dalla fortuna, e sopratutto con morir di tristezza. Nondimeno si vede che ebbe gran parte nella vita sua la vanità, e ch’egli volle rendersi singolare egualmente, e come prodigo, e come romito. Il che viene addimostrato ad evidenza in quella scena impareggiabile in cui il cinico Apemanto lo visita nel bosco. Entrambi hanno [p. 342 modifica]una specie di rivalità di misantropia; il filosofo rimprovera Timone d’aver abbracciato per necessità il genere di vita ch’egli medesimo ha scelto volontariamente, e Timone non tollera il pensiero d’essere creduto un imitatore. In un soggetto simile non si può produrre l’effetto a cui si mira, se non accumulando tratti analoghi; ma Shakspeare diè prova d’infinito spirito assortendo quei tratti di mille guise. Il concerto delle adulazioni e delle testimonianze di benevolenza diverte grandemente, e molto più diverte quando si vede ritornare la torma degli amici già stati dispersi dalle sciagure di Timone, i quali credono di scorgere l’aurora di una nuova fortuna. I discorsi del misantropo disingannato delle sue illusioni esauriscono tutte le immagini dell’odio: il suo dire è un vocabolario d’eloquenti maledizioni».

(Schlegel, Corso di lett. dramm.)






fine del volume terzo.