Tigre reale/XVI
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XVI.
Da quel momento Giorgio avea guardato la moglie con tutt’altri occhi. Le scopriva ogni giorno dippiù un’attrattiva pudica, velata, profonda direi, ma fortissima, negli occhi limpidi, nell’accento carezzevole, nell’attitudine modesta, in quel cuore che potea sentire anch’esso il soffio dello stesso uragano che devastava il suo, che anzi l’avea forse sentito, e che lo soffocava coraggiosamente; coteste qualità la rendevano più leggiadra; sentiva che se non fosse stato suo marito, la seduzione di quella grazia così schietta, così ingenua e riservata, avrebbe acceso sino al furore i suoi desideri di seduttore stanco e noiato di artifici donneschi. L’immagine agitata e agitante di quell’altra donna tanto diversa, tanto lontana, annebbiavasi, scompariva a poco a poco, ed era strano che quell’uomo amasse per la prima volta sua moglie, con quel medesimo impeto che l’avea trascinato a tutti i fuorviamenti della passione perchè cominciava a sentire che un altro avrebbe potuto essere trascinato, come lui, dall’attrattiva delle qualità assolutamente opposte, da quelle virtù umili e casalinghe, alle quali allora solamente sentiva come si fossero appoggiati inconsciamente il riposo, la tranquillità, la felicità della sua vita.
Nell’anticamera si era incontrato con Carlo; costui l’avea appena salutato; sembrava volesse evitarlo. Erminia era ancora pallida, e avea pianto.
Nessuno saprebbe ridire quello che soffrisse quell’uomo nella mezz’ora che passò vicino alla moglie, la quale celavagli le lagrime, gli nascondeva il cuore, non gli apparteneva più, egli che in fondo avea una gran dose di tenerezza e di bontà, e ch’era stato cattivo soltanto perchè era debole, egli ch’era sensibile sino ad essere ombroso, ed era delicato sino all’orgoglio.
— Il dottore come ha trovato Giannino? domandò.
— Meglio... assai meglio...
— E tu come stai?
— Bene.
— Diventi sempre più pallida di giorno in giorno... bisogna consultare Rendona.
— Io sto benissimo, ripetè ella brevemente.
— Hai bisogno di rifarti... Se vuoi che andiamo in campagna... a Tremestieri; si affrettò ad aggiungere.
— Come vorrai.
— Io desidero quel che potrà giovarti...
— Anche tu non stai bene... diss’ella esitando... Se vuoi che andiamo?...
I loro occhi s’incontrarono per caso e per la prima volta; ei li stornò subito perchè sentiva che il suo cuore vi si palesava.
— Io sto bene... non si tratta di me, rispose reprimendo una indefinibile commozione e stringendosi nelle spalle. Parlane con Rendona; quando avrete risoluto di fare qualche cosa, avvisami.
Appena lasciò Erminia, andò a rinchiudersi nelle sue stanze, adducendo il pretesto di un affare urgente, e per tutta la sera si udì il suo passo febbrile che andava su e giù pel gabinetto, come in quel giorno in cui avea trovato il figlio infermo.
Erminia era rimasta astratta, senza muoversi da quel canapè seduta sul quale avea ricevuto la visita di suo marito, di tanto in tanto gli occhi le si facevano umidi.
La sera venne la visita della signora Roncaglia, ma stavolta non era accompagnata dal suo ufficiale.
— Sai la bella notizia? disse alla figliuola; Carlo ha ricevuto l’ordine di partire fra tre giorni, per andare a raggiungere a Genova il suo bastimento che salpa per la Repubblica Argentina, pel Paraguay, che so io, insomma per l’America, un brutto paese in cui si ammazzano fra di loro come cani arrabbiati, e quasi non bastasse quel castigo di Dio, i poveri cristiani muoiono di febbre gialla al pari delle mosche. Domando io se è agire da galantuomini! E proprio adesso che quel povero ragazzo ha tanto bisogno di rimettersi in salute! chè l’avrai visto com’è magro e sparuto! Non gli danno che la miseria di due mesi ogni due anni, e questa miseria trovano ancora modo di tosarla di un paio di settimane, da veri usurai!... Insomma, è una birbonata, ed io ho detto al signor tenente di rimandare il suo berretto coi galloni, e prendersi il benservito. Già un pane non può mancargli in nessuna maniera, così bravo com’è.
Erminia ascoltava la madre senza fiatare.
— E lui perchè non è venuto? domandò infine.
— Nol so; ti par poco avere a digerire uno di questi dispettacci? Prendersi il benservito! ecco quello che c’è di meglio, se vuol dar retta a me, che ho gli anni del giudizio!
Erminia non disse più nulla; sua madre prima d’andarsene le domandò come si sentisse; ella rispose che si sentiva benissimo e si mise a letto colla febbre. La balia di Giannino che dormiva nella camera accanto la udì gemere e lamentarsi in sogno tutta la notte.
L’indomani venne Carlo colla zia; trovarono Erminia alzata, senza il menomo indizio di quel che avesse potuto soffrire, un po’ abbattuta è vero, ma era così da qualche tempo. Ella avea risposto al saluto e alla stretta di mano di Carlo come al solito; avea preso parte alla conversazione assai poco, come al solito; anche Carlo mostravasi quale era sempre stato; ad un tratto, mentre la nonna accarezzava il nipotino, s’erano guardati tutt’e due nel tempo stesso, e s’erano scoloriti in viso.
— Prendersi il suo benservito! ripeteva la zia Ruscaglia ritornando alla sua idea favorita. Ecco il mio parere. Poichè questi signori la intendono a questo modo, prendersi il suo benservito! Vedranno che non si trovano fra i piedi ad ogni passo degli ufficiali che stanno quattordici ore in mare per far loro piacere!...
— Parti? domandò Erminia al cugino senza guardarlo.
— Sì, rispose egli allo stesso modo.
E non dissero altro, perchè qualcosa li soffocava.
— Partirà, sì, se è sciocco partirà!... ma se vuol fare a modo mio vedrà che tosto o tardi saranno costretti a venire a pregarlo sino a casa sua, cotesti signori che stanno a dar ordini da mille miglia lontano!... Proprio adesso che avea più bisogno dell’aria nativa! Guardatemelo, se con quel viso lì è proprio il caso di mandarlo a buscarsi la febbre gialla e tutti i malanni di laggiù... Lasciatemene parlare con mio genero; lui che ha tanti amici al Ministero un buon rimedio saprà trovarlo!
Erminia levò vivamente il capo.
— No! esclamò Carlo con vivacità. No, zia! sarebbe inutile. No!
— Tu farai quello che vorranno coloro che hanno più giudizio di te, rispose la zia perentoriamente. Non mi fai mica soggezione, sai, coi tuoi galloni! Tu farai quello che ti dice di fare la tua zia, come quando eri piccino. Lasciami andare.
Rimasti soli, i due cugini si guardarono di nuovo in viso e volsero altrove gli sguardi tutt’e due nel medesimo istante.
— Quando partirai? domandò alfine Erminia con voce spenta.
— Sabato.
— Verrai ancora prima di partire?
— Sì...
— Verrai tutti i giorni?...
— Sì, tutti i giorni!... non ne restano che due...
Dopo un breve silenzio ella gli stese la mano all’improvviso, mormorando quasi si sentisse morire:
— Addio... forse non potrò dirtelo più come adesso... Addio!
E le lagrime le scorrevano pel viso, zitte zitte, senza che si curasse più di nascondergliele.
Sopravvenne la signora Ruscaglia tutta trionfante: — L’avevo detto io! Non poteva andare così! Giorgio dice che è facilissimo ottenere una proroga di sei mesi per motivi di salute... insomma, se ne incarica lui. Tu non partirai!
Erminia, ch’era accanto al cugino, udendo quelle parole, si scostò da lui con insolita vivacità, avvampò in viso, e per tutto il resto del tempo che durò la visita parve molto imbarazzata. Il povero ragazzo invece non dissimulava la sua allegrezza, da vero ragazzo.
— A rivederci, dunque! le disse quando fu per andarsene.
Ella gli strinse le mani senza dir nulla.
La Ferlita avea ricevuto un colpo doloroso alla domanda della suocera; pure s’era impegnato a contentarla per un delicato senso di alterezza. Non osava menomamente sospettare della moglie, non osava accusarla della preoccupazione febbrile che scorgeva in lei da qualche tempo, e che la povera vittima celava con rassegnazione segnazione da martire; ma avea paura; avea paura di quelle passioni che credeva irresistibili, avea paura perchè cominciava ad amarla in un altro modo, adesso che quel cuore gli era contrastato. Ei passò una giornata penosa. La sera trovò Erminia in tale stato di sofferenza che malgrado gli sforzi della poveretta rivelavasi ai meno osservatori; la febbre che da quasi una settimana l’assaliva tutte le sere era divenuta violenta; ella però era alzata, e cercava di occuparsi ricamando presso il lume; le mani le tremavano, e gli occhi, nonostante il paralume, doveano bruciarle.
— Tu soffri orribilmente! le disse il marito. Tu stai molto male. Bisogna chiamare Rendona, e subito.
— Perchè?... Non mi sento così male, ti assicuro. Sarà un po’ di agitazione passaggiera.
Giorgio avanzò la mano per prendere quella di lei, ma non osò.
— Erminia, le disse con tal voce che ella non avea udito da molto tempo; non hai il diritto di ucciderti così; pensa a tuo figlio... fallo per lui... Non osava parlare di sè. Ella levò il capo sbigottita, e Giorgio chinò lentamente il suo.
— Domani, diss’ella infine risolutamente, dopo un istante di esitazione. Vedremo domani.
— Come vorrai, rispose Giorgio levandosi da sedere.
Non le disse una parola del cugino. Sembrava esitante; stette a lungo prima d’andarsene, più a lungo del solito; le guardava le bianche mani, il viso pallido e dimagrato chino sul ricamo, all’ombra del paralume, la nuca gentile che la luce indorava leggermente screziandola delle tenere ombre dei ricci più fini, i begli occhi colmi di febbre, le pieghe di quella veste che cadevano mollemente sul tappeto; guardava con desiderio quel posto vuoto accanto a lei, sul canapè, che egli, il marito, non osava occupare, e quella spalliera che incurvavasi dietro le sue spalle, sulla quale avrebbe voluto posare il braccio. Poi una nube passò sui suoi occhi, e si accomiatò bruscamente. — La signora ha mandato pel medico?» domandò all’indomani.
— Nossignore rispose il domestico.
— Va bene, andate.
E si rimise a passeggiare pel gabinetto. Più di una volta fu per andare da lei, e non arrivò all’uscio. Sembrava che avesse dormito poco e male; era pallido ed accigliato. Un’ira sorda, inesplicabile, che lo riempiva di onta, bolliva entro di lui. Andava dallo scrittoio alla parete di faccia, e guardava l’orologio come se aspettasse un’ora decisiva.