Sulla respirazione delle piante

Filippo Parlatore

1868 testi scientifici testi scientifici Sulla respirazione delle piante Intestazione 21 agosto 2009 75% testi scientifici


vol. 54 - LA SCIENZA DEL POPOLO - 1869 - N.9
Raccolta di letture scientifiche popolari in Italia.
BIBLIOTECA a C.i 25 IL VOLUME

SULLA
RESPIRAZIONE DELLE PIANTE
LETTURA
del Prof. FILIPPO PARLATORE
tenuta nel R. Museo di Fisica e Storia Naturale in Firenze
il 24 maggio 1868.

CON INCISIONE

MILANO
E. TREVES & C., Editori della BIBLIOTECA UTILE
1869.


SIGNORI,

Tra le tante buone e cattive cose che veggiamo ai tempi nostri va certamente notata la somma facilità con la quale gli uomini discorrono ed emettono su di ogni cosa i giudizi loro, che sono perciò spessissimo erronei. Il che nasce dalla ignoranza delle cose delle quali essi giudicano, per cui spesso mi sento dire il tale conosce bene la lingua, il tal altro è un gran botanico o un sommo astronomo, l’uomo discende dalle scimmie, da chi dice e scrive ferrovia, reddito, decessi, per istrada ferrata, rendita e morti, da chi non sa distinguere la malva dall’avena, Giove da Sirio; da chi non sa quanto diverso sia il piano di struttura dell’uomo da quello di un Orang-utang o di un Gorilla, e come in quello ogni cosa miri alla intelligenza ed in questi alla natura loro ferina.

Cagione principalissima di tale ignoranza è il mal vezzo del nostro secolo della lettura quotidiana delle gazzette, delle quali moltissimi fanno solo pascolo della mente loro e la mancanza perciò di forti e profondi studi, massime nelle scienze fisiche e naturali, le quali dovrebbero essere base principale dell’insegnamento e della educazione sin dalla più tenera età, dappoichè oltre alla necessità di conoscere le cose che d’ogni intorno ci circondano e che sono per noi sorgente di beni e di mali, è nello studio della natura la vera pietra di paragone per fare retti i giudizî nostri, senza di che noi saremo sempre nel falso, prenderemo come suol dirsi lucciole per lanterne, e daremo importanza ad uomini e cose che meriterebbero di essere tenuti a vile o disprezzati. A me gode l’animo quando vedo una madre accompagnare i suoi bambini nelle sale del nostro Museo per insegnare loro a conoscere la tigre, l’aquila o la conchiglia della perla, non tanto per la cognizione che quelli acquistano di quegli animali, quanto perchè vedo stamparsi in quelle giovani menti idee certe e positive, e che a poco a poco gioveranno a rettamente giudicare.

A. questo nobile fine a me pare debbano più di ogni altra cosa mirare le lezioni che son dette popolari perchè fatte per il popolo, nel quale è sventuratamente ignoranza del vero, e maggiore perciò la facilità di cadere in erronei giudizi. È dovere dei professori di aprire a lui la mente, di allontanare gli errori e i pregiudizi, d’insegnare le sane dottrine, figlie della esperienza e dei fatti. Ed io son lieto di manifestare come a questo fine hanno appieno corrisposto e corrispondono, non solo nelle lezioni popolari, ma nelle lezioni ordinarie, gli egregi uomini che mi onoro di avere a colleghi, i quali, ripudiando le ipotesi lusinghiere che altri facilmente accoglie per farsi un nome che non saprebbe in altro modo acquistarsi, espongono i sani principi e si palesano in questo Museo degni eredi delle gloriose tradizioni di Galileo e della Accademia del Cimento.

Più volte andando per la campagna, per la raccolta e lo studio delle piante, mi è venuto fatto di domandare ai contadini, ad uomini del volgo, a che servono le foglie delle piante? Chi mi ha risposto a far ombra, chi a darle a mangiare alle bestie; e quando ho ripreso, ma vi domando perchè le piante hanno le foglie? Tutti mi hanno sempre risposto: Signore, non lo so; io non ci ho mai pensato. La qual cosa mi sono sentito anche rispondere dagli abitatori delle città, per cui ho creduto di farne il tema di questa lezione, nella quale, come ognuno ben intende, parlerò della parte che le foglie hanno alla vita delle piante, ossia della respirazione di queste, in modo assai diverso di quello con il quale io soglio di tali cose trattare in uno degli anni delle mie lezioni, in quello in cui ho l’onore di svolgere la fisiologia vegetale.

La ignoranza in cui l’uomo del volgo è delle funzioni delle foglie fu per lungo correre di secoli divisa anche dagli uomini dotti, i quali tutto al più come Hales, autore della famosa Statica delle Piante, vagamente accennavano all’azione che le foglie dovevano avere sui liquidi introdotti nelle piante. Soltanto nell’anno 1784 il ginevrino Bonnet, celebre autore del libro Della contemplazione della Natura, ebbe a sospettare che vi fosse nelle piante una respirazione, poichè mettendo sotto acqua alcune foglie di vite vide svolgersi da esse alcune bollicine d’aria simili alle perle, più nella pagina inferiore che nella superiore delle foglie medesime, di giorno e non di notte; ma anzichè considerare quelle bollicine come formate dalle piante, credette che venissero dall’acqua. Egli fu lì lì per iscoprire la respirazione delle piante; ma, come spesso suole a chi fa i primi passi in un campo nuovo, rasentò, senza fare, quella scoperta. Della qual cosa è da dare principalissima cagione alla infanzia in cui erano a quel tempo la chimica e l’anatomia vegetale, che appena forse meritavano allora il nome di scienze.


Respirazione delle piante. – Sviluppo d’ossigeno sott’acqua.


Grande era l’ignoranza che si aveva in quel tempo dell’aria come di tutti i gas, e, dirò pure, di tutti i corpi della natura. Da pochi anni appena Enrico Cavendish, duca di Devonshire, che dovrebbe servire di esempio a coloro che hanno sortito dalla natura nobilissima stirpe e ricchissime sostanze, aveva meglio dei suoi predecessori distinte come diverse, ciascuna con proprietà particolari, – l’aria che viene dalle latrine e si svolge dalla fermentazione dei liquori spiritosi, che spegne i lumi e ammazza gli animali, ed ha un peso specifico maggiore di un terzo di quello dell’aria atmosferica, per cui si trova nei luoghi bassi, – e l’aria leggiera che si alza verso la volta delle gallerie delle miniere, che s’infiamma e cagiona talvolta forti esplosioni: alla prima, che noi chiamiamo ora gas acido carbonico, i dotti davano allora il nome di aria fissa, e alla seconda, che diciamo gas idrogeno, quello di aria infiammabile.

Era questo il primo passo che doveva aprire una via feconda di grandi scoperte. Un altro illustre inglese, Giuseppe Priestley, volendo studiare meglio gli effetti di quelle arie sopra gli animali e tutte le circostanze nelle quali queste si manifestano, ebbe presto ad accorgersi che in molte combustioni, e massime nella calcinazione dei metalli, l’aria dove seguivano tali fenomeni era alterata senza che vi fosse stato svolgimento di aria fissa o di aria infiammabile; egli potè scoprire una terza specie di aria o di gas, anch’essa nociva, che chiamò aria flogisticata, e che noi diciamo gas azoto.

Molte erano dunque le cagioni che alteravano l’aria; la combustione, la fermentazione, la respirazione, la putrefazione e via dicendo, poichè svolgevano ora aria fissa, ora aria infiammabile, ora aria flogisticata; l’aria atmosferica pertanto continuava ad essere pura, a sostenere la respirazione degli animali e la combustione dei corpi combustibili. Era necessario perciò di trovare la sorgente della purità dell’aria, i corpi che ridanno a questa ciò che ad essa tolgono la respirazione, la combustione, la fermentazione ed ogni altro processo che la corrompe. E Priestley ebbe la fortuna di scoprire questa aria pura che mantiene la respirazione e la combustione, ch’egli chiamò aria deflogisticata e che noi chiamiamo gas ossigeno, e la cui sorgente è in gran parte nelle piante. Mettendo queste infatti in un vaso chiuso, dove l’aria sia già corrotta, egli vide che quelle davano a questa la purità di prima, in modo che introdotta una candela spenta di poco questa si accendeva e dava una luce chiara e brillante. Osservò pure che le piante vegetano meglio nei luoghi di un’aria purissima o deflogisticata, dal che dedusse che gli animali e le piante si prestano, come tra poco meglio vedremo, uno scambievole aiuto, e che le esalazioni degli uni sono vita e nutrimento per gli altri.

Tale scoperta, che ha reso immortale il nome di Priestley, fatta nel mese di marzo dell’anno 1775 e pubblicata nelle sue celebri osservazioni sulle arie, destò, come era da aspettarsi, l’ammirazione di tutti i dotti e segnò un’êra nuova nella storia delle scienze fisiche e naturali. Tutte le arie diverse dall’aria atmosferica spegnevano i lumi, l’aria deflogisticata li faceva brillare di una luce vivissima; nelle altre arie perivano gli animali, questa li faceva rivivere se caduti asfittici di poco e dava loro una forza e una vivacità straordinaria. Per un momento, scrive Cuvier nell’elogio di Priestley, fu creduto di avere in mano un nuovo mezzo di eccitare e di prolungare forse la vita, o una medicina almeno contro quasi tutte le malattie dei polmoni.

Tra i dotti che più si accinsero allo studio dei fatti, annunziati in modo generale da Priestley, va qui ricordato l’americano Ingenhousz, dimorante allora in Londra, il quale volle tentare di conoscere meglio l’azione delle piante nella produzione dell’aria deflogisticata, e con una serie di esperienze pubblicate nell’anno 1779, e più estesamente in una seconda edizione in francese nell’anno 1787, spinse assai in là la cognizione dell’importante fenomeno della respirazione delle piante. Egli scoperse infatti che questo fenomeno dipende da un’azione che le piante hanno sull’aria atmosferica, in modo che una parte di questa è assorbita ed è esalata l’altra più pura; che esso siegue soltanto nelle parti verdi delle piante e più nelle foglie e nella pagina inferiore di queste, e ciò per la presenza della luce, mentre al contrario le piante all’ombra e nella notte, lungi di purificare corrompono l’aria, come fanno giorno e notte le parti delle piante o le piante non verdi, come tuberi, radici, fiori, funghi e altre simili. Il fenomeno, quantunque fosse già conosciuto nelle sue parti, non era ancora noto nella sua essenza, perchè s’ignorava tuttavia in che consistesse quell’azione delle piante sull’aria, se esse ne scomponessero o no i principî e quale di questi principî. Nè questa azione poteva essere conosciuta senza la scoperta degli elementi che compongono l’aria, e della natura di questi elementi. La quale scoperta è dovuta a Lavoisier, a quell’uomo che ha più di ogni altro fatto mutar faccia, e si può dire innalzata la chimica al grado di scienza, a colui che l’illustre chimico Dumas non teme di considerare come il più grande uomo che nelle scienze abbia mai prodotto la Francia, e che pure i suoi concittadini non esitarono di far perire sul palco infame, in un periodo di grande sconvolgimento di principî e d’idee, in cui, come accade sempre in simili tempi, non si rispettarono le cose più sacre e le maggiori glorie della patria. A Lavoisier noi dobbiamo la scoperta della proprietà dell’aria deflogisticata di generare la maggior parte degli acidi, chiaramente a lui dimostrata dalla formazione dell’acido solforico e fosforico, per cui egli chiamò gas ossigeno o generatore degli acidi quell’aria che alcuni, anche dopo Priestley, chiamavano pure aria vitale. A lui dobbiamo la scoperta della composizione dell’aria che egli scompose nei suoi elementi, ossigeno ed azoto, e ricompose dipoi con il miscuglio di essi. Restò così ancora conosciuta la composizione dell’aria fissa o gas acido carbonico di essere un corpo composto di ossigeno e di carbonio. Con la fiaccola di tali scoperte Lavoisier rischiarò la respirazione animale nella quale è formazione di gas acido carbonico, funzione in cui egli credette di scorgere un fenomeno simile all’ossidazione, per cui il sangue da venoso o rosso scuro si cangia in arterioso o rosso vivo. Senebier studiò la respirazione vegetale e fu primo a dimostrare che l’ossigeno esalato dalle piante e che si mostra come tante bollicine nella pagina inferiore delle foglie delle piante messe sotto acqua ed esposte all’azione della luce è il prodotto della scomposizione che le piante fanno durante il giorno del gas acido carbonico dell’aria atmosferica, e che queste perciò fissano allora il carbonio ed esalano l’ossigeno al contrario della notte, in cui come le parti non verdi anche di giorno esalano gas acido carbonico dell’aria atmosferica. La scoperta degli stomi e delle cavità pneumatiche delle piante, le molte esperienze dei chimici e dei fisiologi sull’azione delle foglie sull’aria hanno messa in chiara luce la importantissima funzione della respirazione delle piante.

Forse taluno si maraviglierà che siano dovuti correre molti secoli prima che un fenomeno tanto importante fosse conosciuto. Ma le scienze fisiche e naturali non sono cose tanto basse e vili come alcuni credono di considerarle. E questo dico, perchè spesso sento dire e ripetere che la botanica e la zoologia sono scienze di memoria, e il maggior complimento che si fa a un naturalista è quello di dirgli: Ella ha una gran memoria; quasi che la scienza consistesse nel sapere e rammentare i nomi di tutte le piante e di tutti gli animali. La colpa è in parte dei naturalisti medesimi, che per lungo tempo, e doveva essere così, hanno fatto consistere tutto lo studio della storia naturale nella cognizione del nome di una pianta e di un animale; sventuratamente è così ancora di molti che fanno della botanica come la facevano nei secoli decorsi Dalechampio, o Mattioli. Ristretti alla meschina cognizione della pianta o dell’animale che essi distinguono per una tale o tal’altra particolarità, non osano entrare nel vero campo della scienza, e contenti di dare un nome nuovo spesso ad una semplice forma o varietà di un ranuncolo o di una rosa, di una lucertola o di una tignola, credono di passare per questo agli occhi dei dotti come botanici o come zoologi; essi non sono veri scienziati; a me paiono come i suonatori di flauto o di violino che fanno le variazioni sui loro strumenti, ma non sono i maestri che sanno metter d’accordo gli strumenti per fare una sinfonia o un’opera musicale. Più volte mi son sentito dire che i naturalisti sono da meno degli altri dotti, dei letterati e degli artisti, giudizi al solito fatti da persone che non conoscono le scienze naturali, e perciò falsi, ai quali io soglio rispondere che se le lettere e alcune delle arti belle salirono a gran perfezione presso gli antichi greci e romani o nel principio dei tempi moderni, non è così delle scienze fisiche e naturali, le quali, se si eccettui forse l’astronomia che vanta nell’antichità i nomi d’Ipparco, di Tolomeo e di El Mahoum, e giunse ad altissimo seggio per le scoperte di Copernico, di Keplero, di Galileo e di Newton, sono per la massima parte nate sul cadere del secolo passato o nel principio di questo, la qual cosa dimostra quanto sia cosa difficile di leggere in questo libro della natura, che pur gli uomini hanno dinanzi a loro da che mondo è mondo e che si compone di geroglifici per chi non sa con occhio osservatore afferrare la chiave della loro spiegazione. La dottrina dei quattro elementi di Aristotile, il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, con l’aggiunta o la sostituzione di un quinto elemento figlio dell’ipotesi, la quintessenza di Paracelso e il flogisto di Stabl, è durata per circa 22 secoli sino a Cavendish, a Priestley, a Scheele, a Lavoisier, che hanno con le loro scoperte fatto conoscere la composizione dei corpi, dell’aria, dei gas, dell’acqua, delle terre, fondata la chimica e aperta una nuova via a tutte le scienze fisiche e naturali.

Dalla storia che ho brevemente fatta della respirazione delle piante ognuno ha potuto rilevare una cosa essenziale a quella funzione, il contatto cioè delle foglie con l’aria e con la luce. I liquidi che le estremità delle radici tirano dalla terra salgono nel fusto e nei rami e da questi passano nelle foglie. Per agevolare e per estendere questo contatto i fasci fibrosi avvicinati tra loro nel fusto, nei rami e nel picciòlo o gambo della foglia, si allontanano poi per divergere e formare con la costola e con i rami e rametti, di questa, che noi chiamiamo nervi, nervetti e venette, ciò che i botanici chiamano scheletro della foglia, che è a guisa di un albero o se si vuole anche di una rete le di cui maglie sono piene di un tessuto celluloso; così si forma questa parte larga che i botanici chiamano la lamina della foglia. Tale tessuto è il parenchima, diverso nella parte che corrisponde alla pagina superiore e nell’altra che corrisponde all’inferiore, e quasi formato di due strati distinti. Lo strato superiore si compone di cellule bislunghe, ottuse, fitte, perpendicolari, con pochi o punto spazî tracellulari o meati; l’inferiore risulta al contrario di cellule irregolari, spesso ramose, le quali lasciano tra loro spazi maggiori o cavità che si dicono pneumatiche perchè sono piene di aria: si può dire quasi un tessuto spugnoso o cavernoso il quale fa sì che la pagina inferiore della foglia è sempre o quasi sempre di un colore più pallido della superiore, alla quale, come ho detto, corrisponde un tessuto più fitto. A tali cavità corrispondono alcune aperture o boccucce che si chiamano stomi, formati da due cellule a guisa di un fagiuolo che si corrispondono con la parte concava; stomi che per lo più mancano o sono pochissimi nella pagina superiore e in gran numero nella inferiore, tantochè in alcune piante se ne contano in questa molte migliaia e diecine di migliaia e pochi o punto in quella. Tali stomi stanno nell’epidermide, strato sottile di cellule spesso sinuose e ondeggianti, da cui partono, quando vi sono, i peli delle piante e che è coperto di fuori dalla cuticola, sottilissimo velo formato da una sostanza gelatinosa che con la macerazione si stacca, come vedete nel pezzo che qui vi mostro e che appartiene alla Jucca gloriosa, mostrando i fori che corrispondono agli stomi e dei prolungamenti a guisa di diti di un guanto che cuoprono i peli. Singolare produzione che ha per iscopo d’impedire il soverchio svaporamento dell’acqua nelle foglie e l’azione soverchia di un’aria calda e secca su queste, per cui è molto grossa nelle piante grasse che devono vivere principalmente nell’arene dei deserti e nelle terre caldissime della zona torrida.

La estensione a della lamina delle foglie, la distribuzione delle cellule e le cavità pneumatiche nella parte inferiore di queste sono condizioni propizie a favorire ed estendere meglio il contatto dell’acqua, giunta alle foglie, con l’aria, e con la luce, ma ciò non bastava per i bisogni della nutrizione e della vita delle piante. Bisognava estendere questa superficie di contatto, favorire questo in tutti i punti di una pianta. Per questo oggetto in ciascuna pianta sono molte foglie e queste in tanto maggior numero quanto sono più piccole, ed il fusto è spessissimo verticale e i rami ora più ora meno aperti, perchè le foglie da essi sostenute sieno meglio esposte all’azione dell’aria e della luce. A questo fine pure le foglie non sono distribuite a caso sulla pianta, ma con mirabile previdenza esse formano una spira in guisa che l’una sta sempre nel fusto o nel ramo a qualche distanza dall’altra. Vi è una parte matematica o, se vuolsi dire, geometrica della scienza che studia la distribuzione delle foglie e delle brattee e scaglie sulle piante, nella quale, come ognuno comprende, io non posso entrare stamane per la brevità del tempo concessomi, ma non posso fare a meno di notare che in generale la prima foglia corrisponde nel fusto alla sesta, essendo necessarî due giri di spira e cinque foglie, per cui la frazione è di 2/5, stando il numeratore ad indicare il numero dei giri ed il denumeratore quello delle foglie. In altre piante è la frazione 5/13, 8/21, perchè per trovare una foglia che corrisponda alla prima nello stesso lato del fusto o del ramo è necessario di fare 5 o 8 giri con 13 o 21 foglie. Di tali mirabili distribuzioni di foglie vi sieno d’esempio quelle che qui vi mostro di alcune specie di Aeonium, piante grasse che vivono nelle rupi vulcaniche delle isole Canarie. Nè questo è tutto. La lamina delle foglie è spesso con smerli, con lobi, divisa in lacinie ora più ora meno profonde nelle foglie, che i botanici chiamano semplici, e in foglioline in quelle che essi chiamano composte e sopracomposte, nelle quali cioè ciascuna divisione della lamina ha un piccolo gambo o picciòlo proprio; mentre questa lamina è sempre continua nei lobi o nelle lacinie delle foglie semplici. In altre piante poi la lamina che sarebbe grandissima si lacera nello stato adulto, donde risultano ancora delle lacinie, nei margini-o nei seni delle quali si vedono le fibre rimaste spesso sole per quelle lacerazioni, come si vede nelle Banane e nelle Palme, lacerazioni, divisioni in lobi, in lacinie e in foglioline che non hanno altro scopo fuorchè quello di favorire il libero passo alle foglie dell’aria e della luce, che sarebbe stato in quel caso impedito o reso difficile per la larghezza e la vicinanza di una foglia all’altra.

Ma come siegue la respirazione delle piante? Per ben intenderla è necessario che io richiami qui alla memoria vostra come, per le analisi fatte dapprima da Humboldt e da Gay-Lussac, poi da Boussingault e Dumas, da Regnault e da molti altri, in cento parti di aria atmosferica sono circa 21 di ossigeno, 79 di azoto e una piccolissima parte di gas acido carbonico, meno di un centesimo, la quale, quantunque sia tanto piccola in cento parti di aria, è però grandissima nella massa dell’atmosfera, poichè questa contiene 1500 bilioni di chilogrammi di carbonio, più del carbonio di tutte le piante. È importantissimo di notare che tali proporzioni sono invariabili in ogni punto e a qualunque altezza della terra. Il famoso chimico Berthollet che accompagnò Napoleone in Egitto e fu capo della Commissione dei dotti che resero anche per le scienze tanto memorabile quella spedizione, ebbe il felice pensiero di raccogliere l’aria sul fiume del Nilo e di farne l’analisi, per la quale conobbe che essa aveva la stessa composizione di quella di Parigi. Un tal fatto, già in parte sospettato prima di lui, ebbe dipoi una solenne conferma, massime per i viaggi di Humboldt e di Boussingault per le Ande dell’America. Oramai è noto che tanto l’aria raccolta da Gay-Lussac a circa 7000 metri sul livello del mare, quand’egli il dì 16 di settembre dell’anno 1804 giunse con il pallone a tanta altezza dove non era mai arrivato alcun uomo prima di lui, quanto quella del Chimborazo o di altro altissimo monte delle Ande di Quito, quanto infine quella delle cime delle nostre Alpi, ha sempre la composizione dell’aria che è nei luoghi bassi o alla superficie stessa dei mari, dappoichè le proporzioni dei gas che la compongono sono sempre le medesime. Da che dipende dunque questa maravigliosa invariabilità dei principî dell’aria? Dipende dalla respirazione delle piante, imperocchè queste durante il giorno scompongono il gas acido carbonico dell’aria atmosferica, fissano il carbonio ed esalano l’ossigeno. Senza esporre qui le tante esperienze che si sono fatte da circa un secolo per dimostrare la verità di questo fatto, la qual cosa sarebbe contraria alla natura di questa lezione, dirò che per accertarcene basta mettere una pianta dentro una campana senza rinnovare l’aria e fare l’analisi di questa dopo qualche tempo: allora si trova che l’aria ha perduto del carbonio ed ha più ossigeno, e che questa perdita di carbonio ed aumento di ossigeno è nelle proporzioni per formare il gas acido carbonico. Le piante di giorno respirano così diversamente degli animali. Questi tolgono all’aria l’ossigeno e le danno gas acido carbonico, quelle scompongono il gas acido carbonico e le ridanno l’ossigeno: i primi sono macchine di consumo, le seconde di riparazione. Così i principî dell’aria si mantengono sempre nelle medesime proporzioni, dal che nasce che animali e piante non possono vivere gli uni senza delle altre, avendo le piante bisogno di vivere nell’aria corrotta dagli animali, ai quali è necessaria l’aria purificata da quelle. Circolo maraviglioso che alimenta e sostiene la vita di tutti gli esseri, che fa che nessuna pianta, nessun fil d’erba è inutile nell’armonia del creato, che rende utile anche ai paesi lontani l’aria, resa pura dalle foreste vergini della zona torrida; circolo maraviglioso senza di cui il nostro pianeta sarebbe deserto, squallido e muto, senza alcuna voce di animale, senza alcun agitare di fronda.

Grande è dunque il benefizio delle piante per la respirazione loro durante il giorno, dal che ognun vede di quanta utilità sieno i giardini in mezzo alle grandi e popolose città e la vicinanza dei boschi ai luoghi abitati. Ma tale benefizio è soltanto, ripeto, durante il giorno, per la presenza della luce, perchè durante la notte o di giorno all’ombra, e per ombra intendo un’ombra molto grande, le piante respirano come gli animali, togliendo all’aria l’ossigeno e dando ad essa gas acido carbonico. E quantunque la porzione di questa sia piccolissima di fronte a quella che esse scompongono nel giorno alla luce, pure non è bene di andar la sera per i giardini o di respirare l’aria dei boschi. Tale esalazione di gas acido carbonico fanno pure anche di giorno le parti non verdi delle piante, come i fiori, le frutta, le radici, i tuberi, massime di notte, per cui è nocivo il tenere in una camera molti fiori durante la notte, o il respirare l’aria di uno stanzino in cui si tengano molte mele o molte pere, come noi le conserviamo per farle maturare a poco a poco. La stessa cosa deve dirsi delle piante che non sono verdi, della Cuscuta o fiamma, che a guisa di fili avvolge in modo inestricabile il trifoglio ed altre erbe e piante dei prati e delle siepi, del succhiamele, Orobanche caryophyllacea, che cagiona la distruzione delle nostre fave, e di altre Orobanche che nascono sulle radici delle Ginestre, dell’Ellera e via dicendo, come pure dei Funghi, le quali piante non hanno foglie e non scompongono il gas acido carbonico dell’atmosfera e non danno perciò ossigeno nè prendono carbonio, anzi esalano gas acido carbonico e sono tutte parassite, perchè non possono fare dei succhi nutritivi, cui hanno perciò di bisogno di ricevere da altre piante. Tutte queste parti e queste piante perciò non si colorano in verde ma sono bianchiccie o gialliccie, e non fissando il carbonio che dà la consistenza, la solidità alle piante, sono molli e carnose e non dure e legnose. Ne abbiamo una prova facendo germogliare al buio il grano ed altri semi di graminacee: allora si hanno delle pianticine di grano bianchiccie e scolorite, come le veggiamo nei sepolcri della settimana santa: bianche e molli sono le foglie interne della lattuga, dell’endivia, dei cavoli che non vanno in contatto con la luce e non respirano perciò come le foglie esterne di tali piante, che sono verdi e più consistenti; e bianche e molli facciamo che siano le foglie interne della Palma del dattero, perché le leghiamo in alto della pianta per privarle così della luce, per farle servire all’uso di Palmizî. Più le piante sono esposte alla luce e più non solo si colorano in verde, ma il loro tessuto è consistente, il loro legno è più duro, perchè meglio e più abbondantemente si fissa il carbonio, principio solido delle piante medesime; per cui nella zona torrida, dove la luce è abbondante ed ugualmente distribuita in dodici ore di giorno e dodici ore di notte, le piante hanno le foglie dure e consistenti quasi come cuoio e il legno più compatto e più peso: dalla zona torrida infatti vengono i legni più forti e più pregati per la stipetteria, il magogano, il palisandro, l’ebano, il legno di ferro, per tacere di tanti altri. A questa maggiore fissazione di carbonio si deve pure l’abbondanza colà delle scorze medicinali, degli aromi e delle spezie, del chinino, della cannella, dei garofani, del pepe, della noce moscada, dello zenzero, della curcuma e via dicendo.

Tale fissazione di carbonio fu prodigiosa nei tempi antichissimi del nostro pianeta, quando la terra si componeva di tante piccole isole in mezzo a vastissimi oceani. In quelle isole erano in gran parte Felci e Licopodî, ma non piccoli quali noi siamo soliti vederli nelle nostre parti, ma grandi e robusti alberi quali si veggono ora nelle isole e in parte ancora nei continenti della zona torrida, e come si può rilevare da questo bellissimo albero di felce che è dell’estrema punta meridionale ed orientale della Nuova Olanda. L’aria atmosferica era a quei tempi sopraccarica di gas acido carbonico, poichè secondo i calcoli degli uomini dotti essa doveva averne non 4 o 5 dieci millesimi come è presentemente, ma almeno 8 o 9 centesimi. Le felci e i licopodî d’allora insieme alle altre piante scomposero quel gas acido carbonico, fissarono una gran quantità di carbonio, il quale con la caduta delle foglie e dei tronchi, dei quali qui vi mostro qualche saggio, potè a poco per volta formare i grandi ammassi di carbon fossile, di cui noi ora ci gioviamo pei bisogni principalmente dei piroscafi e delle strade ferrate, ed esalare l’ossigeno. Mancando allora sulla terra gli animali terrestri, questo andò a grado a grado aumentando e venne meno il gas acido carbonico, per cui con il correre di lunghi secoli poterono venire sulla superficie, già allora estesa del nostro globo, gli animali terrestri ed anche l’uomo.

Quasi ugualmente delle terrestri respirano le piante che stanno nelle acque dolci o marine. Quelle tra esse che hanno le foglie galleggianti per cavità interne del gambo o della lamina, come le Ninfee, la Vittoria, i Nelumbium, il Limnanthemum ed altre, respirano per la parte superiore delle foglie dove sono gli stomi, ora sparsi su tutta la pagina, come nelle Ninfee, ora raccolti in un sol punto nel centro, come nei Nelumbium: le altre che sono immerse o hanno foglie parte galleggianti e parte immerse respirano in queste quasi nel modo dei pesci, per la superficie loro, priva generalmente di epidermide, per cui il parenchima è quasi in contatto immediato con l’aria e con l’acqua. Tutte esalano del gas ossigeno anche in queste parti immerse che allora si mescola con l’acqua in modo che esso aumenta, secondo le belle osservazioni di Morren e di altri, nelle acque dei nostri fossi, degli stagni e della paludi nelle diverse ore del giorno, contenendo l’acqua, secondo quegli osservatori, da 25 parti di ossigeno la mattina, 48 a mezzogiorno e 61 verso le cinque di sera; per cui le acque sono rese meglio potabili e sono migliori all’annaffiamento nelle ore della sera che in quelle della mattina. Un tale aumento di ossigeno corrisponde ad una diminuzione di gas acido carbonico, per cui si ha ragione di credere che quello dipende da una scomposizione di questo. Ad esso è dovuto il coloramento in rosso di alcune acque nelle diverse ore del giorno, quando nelle acque stesse si svolgono in modo straordinario alcune piccole alghe che per solito o son poche o mancano quasi interamente. I laghi sanguigni della Svezia; dei quali ha scritto Linneo; il lago di Morat che si colorò in rosso, secondo che ci descrisse Augusto De Candolle; il Mar Rosso che di quando in quando piglia un color rosso generale, ed altri mari, o dirò meglio punti del Mar Pacifico, di un colore ora più ora meno rosso e vermiglio, devono tali colori alla presenza e alla respirazione di alcune piccole alghe diversa nelle diverse ore del giorno.

Tale è in brevi e generali parole la respirazione delle piante, quale almeno io ho saputo ritrarla a grandi pennellate senza entrare nell’esame delle particolari esperienze e delle opinioni che sulla medesima portano i diversi autori moderni. Sarò ben lieto se sarò riuscito a persuadere anche i più restî che è necessario a tutti di conoscere le cose anche più comuni che ci circondano, e che nulla è inutile nella natura, ogni cosa avendo un fine speciale nell’armonia generale del creato.