Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso quinto

Discorso quinto
Epoca quinta
dall'anno 1400 al 1500

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Discorso quinto
Epoca quinta
dall'anno 1400 al 1500
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La natura e lo scopo di un’opera periodica, e specialmente della nostra, preclude l’adito ad adempiere tutte le intenzioni che avevamo nel prendere a dettare questi Discorsi. L’epoche delle vicissitudini della lingua italiana furono distribuite nella nostra mente per mezzi secoli. Così dal 1100 fino al 1800 essi dovevano riescire quattordici. Se non che poscia abbiamo ragionevolmente temuto, che, quantunque tanto numero di scritti su lo stesso soggetto potrebbe forse non riuscire ingrato ad alcuni, tuttavia i più de’ lettori bramino che l’istruzione non sia scompagnata dalla varietà. Perciò, a fine di compiacere ai pochi che s’interessano di proposito deliberato in un soggetto particolare, e a’ molti ai quali importa solo d’averne un’idea generale, ci siamo studiati di limitare il numero de’ nostri articoli, ma di tal guisa da includervi tutta la lunga età delle tre prime illustri generazioni della famiglia de’ Medici, da Cosimo Padre della Patria fino alla morte di Lorenzo il Magnifico. Inoltre proseguiremo sino all’epoca di Torquato Tasso e Galileo e Fra Paolo Sarpi. Dopo il Tasso la poesia italiana perdè il suo splendore, e non lo riebbe se non verso la fine del secolo XVIII. Galileo fu il ristoratore della filosofia e il precursore di Newton; e niuno più sorse in Italia che gli fosse maggiore, nè eguale. Fra Paolo fu il più coraggioso e insieme il più fortunato campione della libertà delle chiese cristiane, e della indipendenza de’ principi contro le tiranniche usurpazioni dell’autorità temporale de’ papi. Tutti e tre furono nel loro genere grandi scrittori, trattando soggetti al tutto diversi fra loro; onde promossero a nuovi e grandi progressi la lingua italiana, le vicissitudini della quale formano il principale soggetto delle nostre ricerche.

Nè la lingua nè la letteratura italiana hanno molto da gloriarsi o da insegnare nell’età che successe a questi tre grandi uomini. Lo stesso si potrebbe dire di gran parte del secolo decimottavo, purchè si eccettuino le gigantesche imprese degli antiquarj e degli autori di critica storica, tra’ quali il Muratori tiene degnamente il primo luogo. Ma i loro libri servirono piuttosto alla solida erudizione che alla poesia, alla eloquenza e alla lingua. Lo stile più caldo e la composizione meglio ordinata degli storici Inglesi, Francesi e Tedeschi hanno oggimai fatto conoscere all’Europa la sostanza di que’ volumi laboriosissimi; e Sismondi, dopo Gibbon, se ne sono serviti in guisa da comporne storie degne di rinomanza, e consacrarle all’istruzione d’ogni lettore. Bensì negli ultimi venticinque anni del secolo decimottavo fiorirono poeti in Italia che ristorarono la lingua alla sua naturale dignità, e la poesia all’antica sua gloria. L’avevano perduta sotto le accademie e le scuole fratesche, da che la tirannide spagnuola, che predominò fin anche con la sua letteratura in Italia, e il contagio delle sottigliezze, de’ concetti e degli arzigogoli metafisici si diffuse fino al settentrione, e guastò le composizioni de’ poeti inglesi dall’epoca de’ tre Stuardi. Ad ogni modo, i nomi, le opere e i meriti, fin anche il personale carattere de’ moderni scrittori più celebrati in Italia e più vicini a’ nostri giorni, sono sufficientemente conosciuti in Inghilterra per le narrazioni di viaggiatori viventi, e per le osservazioni giornaliere di moltissimi critici ne’ giornali periodici. Onde a noi appena resterebbe da spigolare alcuna notizia che non sia già stata scritta, illustrata e ripetuta giornalmente fino a questo momento. Così, essendo omessi da noi i due secoli men importanti per sè stessi, e già conosciuti in ciò che meritano d’esserlo, le nostre epoche di quattordici si ridurrebbero a dieci. Ma per diminuire quanto è in nostro potere anche questo numero, abbiamo condensato la materia in guisa che i Discorsi non oltrepassino sei. Però questa quinta epoca, invece de’ cinquant’anni assegnati a ciascuna delle precedenti, percorrerà tutto l’intervallo di tempo dalla morte del Petrarca e del Boccaccio, e arriverà non molto lontana dall’era letteraria di Leone X. Quindi nel Discorso che seguirà immediatamente, e sarà l’ultimo, saranno osservate, e crediamo per la prima volta, le guise con le quali la politica servitù si maturò, accompagnata dalla servitù della letteratura in Italia.

Subito dopo la morte del Boccaccio, la lingua italiana disparve ad un tratto, non solo dalle altre provincie e città, ma anche dal mezzo della città di Firenze; e non cominciò a riapparire se non dopo il corso di cent’anni e più, a’ giorni di Lorenzo de’ Medici. Non vi fu libro di prosa scritto nè con eloquenza, nè con eleganza, e neppure con ordinaria correzione di stile, o con proprietà di parole. Non vi furono versi nè rime che meritassero non che il nome di poesia, ma neppure d’essere ricordati. Alcune eccezioni potrebbero addursi, ma consistono presso che tutte non tanto nella positiva eccellenza, bensì nel povero merito di avere scansati i difetti comuni ad ogni uomo in quel lungo periodo di tempo. Leonardo Aretino, in quel pochissimo che scrisse in prosa italiana, e Giusto de’ Conti rimatore romano, nella sua raccolta di Sonetti e di Canzoni ch’ei chiamava La Bella Mano, sono men barbari de’ loro contemporanei, e non ridondano di solecismi. Ma la naturale proprietà delle parole, gl’idiotismi ingentiliti, la giuntura grammaticale che abbiamo rilevato negli scrittori del secolo precedente, e fin anche ne’ ricordi degli artigiani e ne’ libri de’ conti di bottegai, si cercano invano. L’unico libro che ricorda la dicitura delle generazioni sepolte fu composto in forma di dialogo dal Pandolfini gentiluomo Fiorentino, ed è intitolato Del Governo della Famiglia. Infatti è opera d’un padre che non parla con personaggi finti, bensì co’ suoi figliuoli, ed a’ quali con la sua propria esperienza insegna cose che pochissimi libri dichiarano, e delle quali pur nondimeno l’esistenza dell’uomo è circondata dì e notte, perchè sono bisogni perpetui, benchè triviali; minimi, e nondimeno imperiosi; e noiosissimi e insieme funesti a chi li trascura. Così la verità prodotta dall’esperienza, e i consigli usciti dal cuore paterno che riempiono quell’operetta, compenserebbero la poca eleganza dello stile. Ma il Pandolfini era anche scrittore puro, grazioso e lontanissimo del pari dall’affettazione di brevità e dalla verbosità più comune degli autori di dialoghi didattici in tutte le lingue. Forse, senza le qualità esteriori della composizione, il merito intrinseco de’ precetti non sarebbe stato mai ricordato. Del resto, i buoni consigli de’ libri servono piuttosto alla storia delle opinioni umane, che alla direzione pratica della vita. Bensì in quel libretto del Pandolfini si trovano le traccie di molti usi privati, che giovano a lasciar distinguere il carattere degli abitatori d’una piccola repubblica, i quali ordinavano la loro economia domestica in maniera da spendere in un anno meno danaro che non bastava a un feudatario negli altri paesi per la sua spesa d’un mese. E per mezzo di tanta frugalità edificavano palazzi oggi abitati da’ loro posteri, e pubblici monumenti che saranno ammirati ancora per molti secoli; si costituivano banchieri di tutta l’Europa, e tesorieri de’ regni, e maritavano le loro figliuole in case di principi.

Quanto alla perdita subitanea della lingua letteraria, questo singolarissimo avvenimento viene attribuito primamente alla corruzione del dialetto fiorentino; - in secondo luogo alla mancanza assoluta di principj e metodi preordinati dalla grammatica; - finalmente al costume di scrivere tutte le opere dotte in latino. La prima cagione è impossibile ad accertarsi; la seconda è falsa del tutto; la terza è la vera: non però sola poteva operare cambiamento sì subitaneo; e non è quindi sufficiente a spiegarlo.

Or quanto alla corruzione del dialetto fiorentino. come mai sappiam noi, e come sapevano nel secolo XV i figliuoli e nepoti de’ Fiorentini in che modo particolare parlassero i loro padri e i loro avi? Che il Villani, il più idiomatico fra gli scrittori Fiorentini, e il Boccaccio, che gli fu posteriore ed è il più ornato di tutti, scrivessero il lor dialetto alterandolo, l’abbiamo dianzi provato in guisa da non potersi revocare in dubbio. Taluno de’ loro contemporanei l’alteravano forse assai meno; ma anche quelli che lo scrissero semplicissimamente lasciano indizj che non lo scrivevano puntualmente come lo parlavano. Le parole, e quindi tutte le lingue parlate dipendono dalla pronunzia; e la rappresentazione de’ suoni della pronunzia non può essere conosciuta da’ posteri che per l’aiuto de’ segni dell’alfabeto, e quindi per mezzo dell’ortografia. Or l’ortografia in tutti i manoscritti di quel secolo è incostante in guisa, che la stessa parola, anche nelle copie più esatte del Boccaccio, è scritta in due, e spesso in tre modi diversi. Adunque, non potendosi avverare in quale di que’ tre modi pronunziassero, la sola induzione che possiam ricavarne si è, che i suoni delle parole, e quindi la pronunzia, e, per necessaria conseguenza, il dialetto si mutassero più e più giornalmente.

Tale è invariabilmente il corso di tutti i dialetti più parlati che scritti; così che, se i bisnipoti conversassero con le ombre de’ loro antenati in qualunque città della terra, userebbero della stessa materia di lingua, ma con pronunzia così cambiata che penerebbero a intendersi fra di loro. La differenza de’ dialetti cagionata dalla diversa pronunzia d’una stessa lingua in ragione della distanza delle provincie, di uno stesso regno, succede quasi ad un modo nella stessa città, in ragione della distanza del tempo. V’è nella natura d’ogni cosa dell’universo un corso insensibile, uniforme e inevitabile; e ciò apparisce ogni qual volta gli oggetti possono soggiacere all’esame de’ nostri sensi. Alcune lingue hanno gli stessi segni alfabetici in tutti i secoli; e nondimeno le forme dell’alfabeto si mutano in ogni secolo in guisa, che le loro varietà bastano agli uomini pratichi a distinguere senza data e senza indicazione veruna le carte scritte in ogni secolo; e s’ingannano raramente. La peculiarità che si vede nella scrittura d’ogni individuo, sì che riesce difficile ad imitarsi, appartiene egualmente alla scrittura d’ogni secolo, anzi d’ogni generazione. E nondimeno l’occhio e la mano d’ogni generazione seguono precisamente gli stessi segni alfabetici tracciati da’ padri e dagli avi. Or chi non sa che l’occhio è più fedele imitatore, che non è l’orecchio? e che i segni tracciati su la carta sono più permanenti de’ suoni che volano per la bocca del popolo? e che la pronunzia, e quindi la lingua parlata, si muta, si corrompe e migliora e si trasforma in mille maniere più prestamente della lingua scritta?

Se non che ogni illusione de’ dotti intorno a questo punto deriva unicamente dal poco accorgersi, che ogni uomo può vedere da sè stesso e distinguere l’alfabeto delle stesse forme e delle stesse parole scritto con varietà distinte di tempo in tempo; ma che niuna erudizione, niun metodo, niun principio metafisico (se pur non fosse divina ispirazione) potrà mai dare la medesima certezza di fatto intorno alla pronunzia. Chi può mai udire le modulazioni e le articolazioni della voce de’ morti, sepolti da cento, dugento, mille, duemila anni addietro? E nondimeno i nostri professori delle università - e in grazia di essi principalmente abbiamo creduto prezzo dell’opera di procedere in questo ragionamento - vanno sillogizzando ad accertare come pronunziassero Omero e Saffo i loro versi. Quindi si vanno celebrando regole d’università; quindi a’ versi de’ Greci sono innestate, quasi puntelli, certe nuove lettere greche antiche, tanto che niun autore greco se ne ricorda. Quindi parole, versi, stanze intere sono torturate, rifatte. Può darsi che manifatturate riescano bellissima poesia; ma non è greca, ma bensì d’Inglesi e Teutoni grecizzanti.

Vero è che allegano l’autorità delle sillabe lunghe e brevi, e le leggi del metro. Certo sono leggi notissime, assolute, e invariabili; ma dipendevano dalla pronunzia, la quale faceva parere coerente alle regole nella bocca degli antichi ciò che nella nostra pare eccezione, o adulterazione di critici e grammatici posteriori a’ poeti. E chi sa quanto guasto anche que’ dottissimi professori avranno fatto! Tuttavia erano più modesti de’ nostri. Clarke, a riconciliare tutto ciò che a noi pare eccezione ed incoerenza, e assoggettarlo a un’ipotesi generale, combinò un sistema ingegnosissimo e men ambizioso degli altri. Ma l’ipotesi riesce debole, perchè non s’accomoda a tutti i casi. Pur a Clarke bastò un sistema, e non cangiò nè parole, nè lettere d’alfabeto. Ciò che altri ha poi fatto, non è di questo luogo il parlarne. Ma, a ridurre tutte le loro ragioni sotto un’osservazione generale, concluderemo: che il metro e le lunghe e le brevi degli antichi, e tutte le loro leggi, erano dipendenti assolutamente dalla pronunzia, la quale nè poeta veruno potrebbe insegnare a’ popoli, nè potere umano potrebbe costringerli ad adottarla. La ricevevano dalla natura co’ loro organi dell’orecchio e della voce, la stabilivano con perpetua abitudine; e quindi si derivarono le leggi per forze secretissime, naturali ed inevitabili: però le lunghe e le brevi erano conosciutissime per la misura inerente nella pronunzia popolare. Ma il volere oggi trovare come pronunziassero gl’Ionii, gli Attici e gli Eolii è pazzia; dotta, innocente e gaia, - ma è pazzia. Fors’anche la nostra ostinazione a contradire gli uomini dotti non è impresa troppo savia. Adunque, lasciando che ognuno si goda la sua Elena, a noi pare partito migliore di adattare alla meglio la nostra pronunzia del greco alle leggi conosciute del metro, in guisa da non alterare e traslocare e trasformare le parole e l’alfabeto ne’ testi. Ma nel tempo stesso sentiamo la tristissima convinzione che, in qualunque modo leggeremo il greco, noi lo guasteremo a ogni modo co’ nostri organi nati ed educati a’ suoni delle nostre lingue moderne, le quali tutte, senza eccettuarne l’italiana, a chi le paragona all’armonia della lingua greca, sembreranno chitarre che vogliono gareggiare con un gravicembalo.

Per altro, dall’esempio d’alcune lingue moderne non è difficile il congetturare, e ciò senza troppa erudizione, che anche la greca deve essere soggiaciuta a molte alterazioni di pronunzia; e che molte delle sue lettere scritte da principio, perchè erano pronunziate, continuarono poscia a scriversi e a non pronunziarsi. Tale fu anche la condizione della francese, e dell’inglese; così che oggimai quest’ultima non ha propriamente alfabeto, bensì segni ortografici incostantissimi che producono or un suono or un altro. Nondimeno e la lingua greca e le due moderne ebbero il vantaggio d’essere parlate ad un tempo e letterarie, con poca diversità. La Italiana, come abbiamo osservato, preservò sino ad oggi i segni tutti quanti dell’alfabeto fedelissimi a’ medesimi suoni. Procede senza elidere le articolazioni delle consonanti segnate negli scritti, senza abbandonare le vocali, e senza strozzare, fuorchè in rarissimi casi, due lettere in un solo dittongo. Ma comperò questo vantaggio col danno d’essere lingua scritta e non mai parlata.

Pur il dialetto fiorentino, anche al tempo di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, e che da’ grammatici italiani è nominato il Buon Secolo, dipendeva dalla pronunzia. V’è tutta l’apparenza che fosse allora parlato men male, e vi fu per avventura un periodo che anche il volgo lo parlava correttamente; ma deve essere stato periodo brevissimo: e chi volesse andare cercando la sua data, s’avvilupperebbe in intricatissime congetture. Questo è certo, che la lingua degli scrittori fiorentini e di tutti gli Italiani dipendeva allora e poi fino ad oggi, e sempre in avvenire dipenderà, dal dialetto fiorentino in quanto si spetta alla nativa proprietà ed energia di vocaboli popolari ed idiotismi di frasi, che riescono di effetto mirabile, purchè siano prescelti da chi ha l’arte d’ingentilirli in modo che non sentano punto il dialetto.

La seconda ragione, cioè la mancanza di regole certe grammaticali, giova poco o nulla a spiegare il fenomeno della corruzione improvvisa della lingua letteraria in Italia. La storia - trista insieme e ridicola, ma a nostro credere curiosissima a raccontarsi, da che rimanesi tuttavia mal conosciuta, - la storia dell’Accademia della Crusca convincerà anche gl’increduli, che sarebbe stata gran fortuna alla letteratura di quella nazione, se si fatte regole d’accademie, di critici, e di grammatici non fossero state mai neppur nominate. Del resto, nell’epoca passata abbiamo veduto che tutti scrivevano con abbondanza, con eleganza e con correzione, e non avevano grammatiche, fuorchè quella della lingua latina; e non era inutile, perchè insegnava il processo logico della lingua italiana. Con la grammatica latina furono educati i figliuoli di quelli che scrivevano correttamente; e i figliuoli avevano conversato nello stesso dialetto co’ loro padri. Or se i figliuoli con la stessa educazione grammaticale e con lo stesso dialetto non potevano scrivere senza barbarismi e spropositi, la mancanza di regole grammaticali non poteva di certo esserne la cagione.

L’uso e l’ambizione universale di scrivere ogni opera importante in latino fu senza alcun dubbio un’origine antica e lunghissima della miseria della lingua nazionale d’Italia. Nè questo sarebbe avvenuto sì subitamente, se la lingua italiana fosse stata parlata; pure, benchè fosse intesa dal popolo più che la latina, la lingua nuova era nè più nè meno letteraria come l’antica: ma con questa differenza: che mentre la nuova era meno difficile all’intelligenza del popolo, l’antica era più facile alla penna de’ dotti. Quindi si trova, fra le altre singolarissime cose, che fin anche i commenti a spiegare il poema di Dante scritti da principio in italiano, erano poco dopo tradotti in latino; e che i professori nelle cattedre dichiarando da critici un poema che non ha veruna sembianza a’ poeti romani, si servivano ad ogni modo della lingua latina. Anzi, fra quanti vecchi codici si vanno scoprendo più sempre di quel poema, le postille interlineari e marginali sono tutte latine.

Ma qui pure emergono a un tratto contradizioni, per le quali i ragionamenti non possono mai venire a conclusione sicura. Abbiamo veduto che il Petrarca e il Boccaccio, per tacere di altri molti, studiarono per tutta la loro vita la lingua latina, nella quale scrissero le loro opere più importanti e di maggior volume. E nondimeno chi più del Petrarca trovò l’eleganza, il calore, la rapidità e l’armonia della lingua ne’ versi? Chi più del Boccaccio nella prosa? Molto certo dipendeva dalla onnipotenza del genio; ma il genio nasce, come nascono gli uomini, in ogni secolo; l’uso lo rinvigorisce e lo fa risplendere come acciajo di coltello continuamente adoprato; il disuso lo irrugginisce e lo confonde con la brutta materia del ferro. Bensì le circostanze de’ tempi, derivanti dalle vicissitudini politiche delle nazioni, o promovono, o impediscono, o dirigono i lavori del genio; e talvolta l’occupano in cose, le quali per loro natura producono sterile premio; e lo disviano da altre che gli preparavano gloria maggiore.

Sin da principio del secolo che ora osserviamo, l’Italia cominciava a quietarsi. Le fazioni de’ Guelfi e de’ Ghibellini erano o spente del tutto, o semivive. Le città signoreggiate da piccoli e mutabili tirannetti indipendenti, o costituite in repubbliche turbolente ed efimere, si erano già incorporate ne’ dominj de’ loro vicini più forti. I papi, istigatori e stromenti della Francia, avevano lasciato Avignone e ristabilita la loro sede in Italia. Gli imperadori germanici, serbando il titolo di Re de’ Romani e il diritto di sovrani feudali di tutta l’Italia, non vi comparivano più. La dinastia francese non regnava più a Napoli; e v’erano tornati i discendenti della Casa d’Aragona, che da quasi due secoli continuavano a governare la Sicilia, ed erano razza italiana. Ladislao re di Napoli, e Gian Galeazzo Visconti avrebbero forse potuto, come aspiravano, impadronirsi di tutta, o di gran parte della Penisola per cominciare a formare, non foss’altro, due forti regni. Ma il re di Napoli, mentre veniva vincitore dal mezzogiorno nel centro della Toscana, e il Visconti dal nord, l’uno e l’altro morirono.

Così nel secolo decimoquinto l’Italia si rimase divisa in diversi Stati, nè troppo deboli da essere facilmente conquistati, nè troppo forti da offendere gli altri impunemente. I papi predominavano sovra tutti i governi italiani, ma più in virtù del loro nome di Vicario di Cristo, che per le vittorie del Dio degli eserciti; e le loro scomuniche, benchè temute per le minacce de’ danni dell’altro mondo, non avevano più forza in questo da sommovere i popoli contro i loro principi naturali, nè riunire le armi di Europa a guerreggiare nelle Crociate. Talvolta alcuni pontefici si procacciavano alleati e soldati da ridurre di nuovo sotto il dominio temporale della Chiesa alcune città che vi s’erano sottratte; ed Eugenio IV fu uomo di sangue. Ma non discendevano dalle Alpi nè i Francesi, nè i Tedeschi; e quelle guerrucce civili non disturbavano tutto il resto d’Italia. Frattanto alcuni altri papi, e Niccolò V e Pio II più che gli altri, attendevano virilmente a propagare le lettere, e restituire a Roma le opere degli antichi scrittori; a illustrare i monumenti innalzati dagli imperadori padroni del mondo; a ristorare gli edifizj pubblici, e consolidare la religione. Allora molta parte della vita e delle opere degli uomini dotti, specialmente ecclesiastici, spendevansi ne’ Concilj Ecumenici, frequenti e prolungati in quell’epoca; ma che non riuscirono nè a persuadere con argomenti la Chiesa Greca a riconoscere la preeminenza assoluta del Vescovo di Roma, nè a convincere, per mezzo di roghi, i primi riformatori tedeschi della infallibilità della Chiesa Romana.

Gli studj dunque essendo tutti rivolti assiduamente all’antichità, all’erudizione e alla teologia, non è meraviglia che i libri intorno a soggetti che si riferivano alla storia, a’ costumi, alle arti e alla letteratura degli antichi Romani, e alla dottrina de’ Santi Padri fossero tutti scritti in latino. S’aggiungeva la maggior diffusione del commercio di tutti i prodotti della mente umana fra dotti di tutta l’Europa. Niuna nazione aveva lingua letteraria, e tutte ne avevano una comune nella latina. Il popolo d’ogni regno e paese continuava a vivere nell’ignoranza; bensì v’era un popolo europeo composto di letterati che, per quanto lontani vivessero, pure scrivevano gli uni per gli altri; e i libri giravano in un circolo composto di lettori, che per lo più erano autori.

Non però la nazione italiana mancava assolutamente d’una lingua comune, corrente e vivissima in tutte le sue provincie, intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme; ed era anche un po’ letteraria, ma di quella letteratura plebea la quale non sopravvive alla seconda generazione. Abbiamo nella prima epoca, parlando de’ dialetti romanzi, osservato che, per quanto i modi di parlare di un grandissimo tratto di terra divisa in molte provincie sieno diversi ed innumerabili, esiste sempre una lingua comune, con la quale gli abitatori d’una provincia intendono quei delle altre. Sì fatta lingua comune è più o meno povera, secondo il meno o più di commercio che le diverse provincie hanno fra loro; ed è più o meno mutabile secondo la lunga o precaria stabilità de’ governi. Sì fatta lingua ad ogni modo non è mai ricca, nè permanente, perchè dipende assolutamente dalle vicissitudini di tutte le lingue parlate, e dai cambiamenti de’ costumi e delle idee che sono operati dalle vicissitudini politiche. Gli scrittori non la tramandano ne’ loro libri alla memoria delle generazioni seguenti; onde non serba mai traccie del suo stato anteriore. Questa specie di lingua comune, diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutte, fu indicata da noi sotto i nomi talora d’itineraria, e talora di mercantile. È, come tutte le altre, una lingua suggerita naturalmente dai bisogni dell’uomo, e perciò facilissimamente creata; e potrebbe anche chiamarsi lingua d’espediente: ma è alterata e spesso distrutta con la stessa facilità. Ne troviamo tuttavia una che sussiste da lungo tempo in forme bizzarre, ma non dissimili fra di loro, in tutte le coste del Mediterraneo sino a Costantinopoli, sotto il nome di lingua franca; e per essa i mercanti d’ogni religione e nazione s’intendono nelle fiere, alle quali concorrono a commerciare. Ogni viaggiatore in que’ paesi la parla, perchè è costretto a parlarla; la impara facilmente, perchè consiste di parole necessarie a’ bisogni giornalieri e comunissimi della vita; e appena cessa il bisogno di spiegare le stesse idee con quelle parole, la lingua itineraria viene dimenticata ad un tratto.

Doveva dunque una lingua comune di questa specie esistere in Italia anche nel medio evo; e partecipò altresì di apparenze di letteratura, dopo che fu diffusa perpetuamente da’ frati di San Domenico e di San Francesco, che vagavano di città in città predicando in tutte le chiese e su per le piazze. E certo a’ frati spetta una parte del merito d’avere fino d’allora ampliati gli strettissimi confini della lingua comune, d’averla applicata a soggetti non volgari, ed avvezzata la plebe d’ogni città italiana ad intenderla ed a credere che, oltre i loro gerghi municipali, esisteva una lingua nazionale. Aggiungevasi un’altra specie di ciurmadori più modesti e più gaj, che involontariamente anch’essi andavano al medesimo scopo. Erano i novellatori e narratori delle lunghe storie miracolose di Carlo Magno, celebrate sino dal secolo undecimo in leggende d’ogni maniera, e soprattutto dal romanzo attribuito all’arcivescovo Turpino, e che allora passava per autentico. Tutte le meraviglie ch’oggi leggiamo ne romanzi e poemi che hanno per soggetto i Paladini erano allora raccontate al popolo dai novellatori; e quest’uso rimase in alcune città, e specialmente in Venezia e in Napoli sino a questi ultimi anni. Chiunque non sapeva leggere si raccoglieva quasi ogni sera d’estate intorno al novellatore su la riva del mare, ascoltando con attenzione. Ora i novellatori essendo anch’essi per lo più itineranti nel medio evo, propagavano la lingua comune arricchita delle parole necessarie a descrivere dame, cavalieri erranti, guerre e imprese di giganti e di fiere, palazzi reali e incantati; e aprendo alla immaginazione del popolo nuovi mondi, lo accostumavano a una lingua meno volgare.

Poi nel secolo decimoquinto, mentre la lingua corretta, nobile ed elegante si guastò d’improvviso, i novellatori di Carlo Magno si divisero in due classi. Gli uni continuavano a divertire le loro assemblee su le strade. Gli altri a scrivere quelle meraviglie in rima, e farne poemi lunghissimi, interminabili, che non tardarono ad essere cantati in versi, spiegati in prosa, e commentati al volgo in lingua italiana itineraria, come i dotti commentavano in latino dalle lor cattedre la Divina Commedia di Dante. A noi, che appena udiamo d’ora in ora i titoli di que’ poemi, pare impossibile che possano avere realmente esistito in sì gran numero, celebri di tanta popolarità, e giacersi oggi al tutto dimenticati. Ma tale è la magia dello stile e della beltà della lingua. L’Ariosto poscia non raccontò che le meraviglie celebrate da que’ novellatori plebei, e ricantate in que’ barbari poemi; ma scrisse in guisa da lasciare alla posterità modelli di dizione mirabile, e che vive immortale. Il Bojardo, cinquant’anni innanzi a lui e appunto verso la fine dell’epoca di cui parliamo, era dotato di fantasia creatrice anche più dell’Ariosto; però l’Ariosto continuò nel suo Orlando Furioso le storie descritte nell’Orlando Innamorato del Bojardo, e v’introdusse i medesimi personaggi.

Ma nè la grande originalità d’invenzione, nè la popolarità del primo Orlando che servì di modello giovarono a contrastare un unico grado dell’immensa preminenza che il secondo Orlando ottenne per la divinità del suo stile. Quindi molti si provarono a tradurre in bella lingua letteraria le stanze del Bojardo; e niuno vi riuscì fuori che il Berni, il quale per quel suo rifacimento meritò d’essere, per le qualità del suo stile, collocato prossimo, se non al fianco, all’Ariosto. Nacque Fiorentino; non però s’innamorò del suo dialetto nativo in guisa da affettarne tutte le peculiarità; ed ei le sfuggiva, chiamandole vecchie lascivie. Le grazie di altri scrittori sono lodate a cielo, perchè sono ammanierate e ornate dall’arte. Risaltano agli occhi, e forzano ad osservarle; e però i professori di rettorica possono gloriarsi di discernerle, e farsi merito di declamare una dissertazione sopra ogni vocabolo. Nell’Orlando Innamorato le grazie, benchè più molte d’assai, scorrono spontanee e non apparenti; ed appunto perchè si fanno sentire e non si lasciano scorgere, tanto più sono grazie. Lo stesso si può dire dell’Orlando Furioso, con la sola diversità che, mentre il Berni rinfrescava la lingua d’amabilità giovanile, l’Ariosto arricchivala di originali eleganze. Niuno infatti più di questo grande poeta applicò il principio di Dante, che la lingua si deve andar più sempre propagando, innestandovi il fiore di tutti i dialetti della Penisola. Non già che l’Ariosto avesse mai forse imparato quella teoria di Dante, che allora giaceva sepolta negli archivj, e poi per alcun tempo fu disputata la sua autenticità: ma l’Ariosto era uomo di genio; la teoria era suggerita dal carattere inerente della lingua ch’egli scriveva, ed egli era dotato dell’istinto di distinguere a un tratto le eleganze dalle affettazioni di tutti gli scrittori, i vezzi semplici dagl’idiotismi plateali di tutti i dialetti, ed ogni vocabolo e frase che ammettevano o rifiutavano d’essere nobilitati nella composizione. Tutti i varj elementi ch’ei radunava quasi senza avvedersene, li raffinava e immedesimava nella sua mente come in un crogiuolo pieno di diversi metalli, che liquefacendosi e purificandosi al fuoco ne fanno uno solo tutto nuovo ed inimitabile. Questi due poeti, benchè nati in questo secolo, morirono intorno al 1530, e apparterrebbero piuttosto all’epoca seguente. Ma poichè la materia poetica ch’essi rivestirono del loro stile fu somministrata ad essi dagli scrittori rozzi de’ tempi che ora andiamo considerando, ne abbiam parlato, affine d’illustrare la verità sentita da’ grandi scrittori, ma trascurata dagli altri e non creduta da’ lettori divoratori di tutto; ed è: che i materiali poetici senza le forme pure della lingua sono altrettanti massi di marmo bellissimo mal tagliati in figure umane da cattivi scultori; e sotto le mani degli artisti eccellenti assumono tutte le proporzioni della bellezza ideale, e la sublimità d’espressione della Venere de’ Medici, dell’Apollo e del gruppo di Laocoonte.

Il solo fra’ poeti romanzieri anteriori all’Ariosto ed al Berni che scrivesse meno scorrettamente fu il Pulci, autore del Morgante Maggiore. Apparteneva all’Accademia domestica, e la più benemerita dell’Italia, tenuta senza fasto, senza diplomi, senza vanissimi titoli da Lorenzo de’ Medici nel suo palazzo; e rappresentavano il convito di Platone. Le poesie e gli scritti in prosa di Lorenzo contribuirono molto a far ritornare ne’ libri d’alcuni uomini di genio la lingua letteraria, condannata fino allora a parlare da quasi un secolo alla nazione per bocca di frati e di ciurmadori. Non però lo stile di quell’uomo straordinario è perfettamente corretto; e le sue poesie sono state in questi ultimi anni ammirate oltre il loro merito reale. L’unico poeta degno di meraviglia in quella riunione d’uomini, nel resto grandissimi, fu il Poliziano. Tutto quello che scrisse in italiano si ridurrebbe a un piccolo volumetto, e consiste nel principio di un lungo poema di cui non giunse a finire il secondo canto. Gli spiriti e i modi della lingua latina de’ classici erano già stati trasfusi nella prosa dal Boccaccio, e da altri. Ma il Poliziano fu il primo a trasfonderli nella poesia; e vi trasfuse ad un tempo quanta eleganza potè derivare dal greco. Infatti non v’è lingua che come l’italiana possa imbeversi di quanto v’è di semplice, e d’amabile, e d’energico nelle forme e negli accidenti della greca, segnatamente in poesia; e se potesse ottenere la stessa prosodia e lo stesso genere di versi, e potesse ad un tempo liberarsi dalla necessità degli articoli, forse non avrebbe da invidiare alla greca, fuorchè la pronunzia d’alcune lettere differentemente aspirate, che la natura ha rifiutato agli abitatori d’Italia, anche quando derivavano nella lor lingua latina la prosodia, la verseggiatura e le parole de’ Greci.

Ma Lorenzo de’ Medici, e tutti gli amici suoi, e il genio del Poliziano erano pur nondimeno costretti a secondare gl’impulsi imperiosi del loro secolo; e l’introduzione della stampa, anzichè giovare, nocque più ch’altri non crede a’ progressi della lingua italiana. L’avidità colla quale erano stati fino allora ricercati i codici de’ Greci e de’ Romani, fu superata dalla impazienza di moltiplicarli ad un tratto. Cominciò quindi il freddo, interminabile ed ambiziosissimo studio dell’emendazione critica de’ testi e de’ commenti agli antichi scrittori, e continuano; nè finiranno mai, finchè l’Europa avrà professori chiamati filologi, gente oziosa insieme e inquietissima, e che sarebbe oggimai condannata dal genere umano alla derisione ch’ella pur merita, se non avesse avuto la precauzione di scrivere tutti que’ suoi nienti in latino. La caduta dell’Impero d’Oriente ridusse alcuni letterati greci in Italia; e vi portarono molte opere antiche, che desideravano anch’esse l’ajuto della tipografia e della critica. L’Iliade fu allora stampata per la prima volta in Firenze; e chi mai avrebbe in quegli anni potuto pensare ad altro che ad Omero ed ai Greci?

La lingua italiana cadde allora in tanto disprezzo, da rendere spregevole chi la scriveva; e gli autori susseguenti, e che a’ tempi di Lorenzo de’ Medici erano ancora fanciulli, ricordano, che il primo e più severo comandamento de’ padri a’ figliuoli e de’ maestri a’ discepoli era, che nè per male nè per bene leggessero mai cosa alcuna scritta in volgare, - così allora chiamavasi l’italiano. Ed abbiamo riferito che il Varchi, storico piuttosto pettegolo, narra com’egli ed alcuni altri suoi compagni di scuola furono severamente puniti dal loro pedagogo per aver trasgredito sì solenne comandamento1. E nondimeno, anche da pochissimi vestigj che or ne rimangono, appare che quando la lingua italiana era adoperata da uomini di gran mente, di anima calda e di forte proponimento a parlare al popolo di cose politiche, era potente e fierissima, e faceva sentire quasi ad ogni sentenza ch’era originalmente nata colla libertà popolare. Frate Girolamo Savonarola, di cui tanto s’è scritto con troppa superstizione dagli uni, e con altrettanta parzialità per la Casa de’ Medici dagli altri, non è conosciuto come scrittore; e quel poco di suo che non fu proibito consiste in operette di devozione, le quali essendo inoltre scritte co’ solecismi e i barbarismi di quell’epoca si giacquero ignote anche agli indagatori di anticaglie grammaticali. Certo il buon frate non professava nè amicizia letteraria, nè carità cristiana verso gli scrittori profani d’alcuna lingua, o d’alcuna età.

Il popolo fiorentino fu persuaso da fra Girolamo Savonarola a fare una piramide altissima con quante pitture e statue antiche e moderne ed arpe e liuti e strumenti d’ogni maniera potè raccogliere per le case, e codici e libri italiani e latini, specialmente le opere del Boccaccio; e per celebrare divotamente l’ultimo giorno del carnevale, arsero la piramide su quella piazza dove nella primavera seguente al loro malfortunato predicatore toccò d’essere bruciato vivo, e le sue ceneri gettate nell’Arno.

Ma quando questo disprezzatore d’ogni eleganza di vita e d’ogni classica letteratura predicava al popolo, esortandolo dal pulpito a liberarsi dal giogo effemminato della casa de’ Medici; quando dalla Toscana tuonava sì che Alessandro VI, e tutta la gerarchia papale l’udivano a Roma, e dannava alla esecrazione le usurpazioni e le prostituzioni e le abbominazioni della Chiesa Romana; quando da oratore e da legislatore e da profeta insegnava alla moltitudine le costituzioni ch’egli aveva meditato nella storia del genere umano, e gli pareano migliori ad ordinare e perpetuare la libertà della Repubblica; allora quel frate scorrettissimo nella lingua, senza studio di stile, senza nessun’arte rettorica, doveva essere il più terribile degli uomini eloquenti che siano stati mai prodotti nel mondo. Le sue prediche non erano scritte da lui; le sole che abbiamo alla stampa in caratteri gotici furono messe insieme fra bene e male da un Notaro che ascoltandole le copiava per mezzo d’una imperfettissima abbreviatura; e non potè forse scriverne nè pur la metà, e non furono più ristampate. Per quanto ne abbiam fatto ricerche, non c’è mai riuscito di poterne trovare una copia che non sia mutilata; e talvolta s’incontrano lacune di venti o trenta pagine a un tratto stracciate da tutte le copie fino da’ tempi di Alessandro VI. Abbiam udito che alcuni rarissimi esemplari interi esistano tuttavia; quanto a noi, disperiamo di vederne uno solo. E davvero, se ciò fosse in nostro potere, a noi, per una copia non mutilata delle prediche del Savonarola, non rincrescerebbe di dare in cambio tutti quanti i libri rari registrati nel Decamerone del Reverendo M. Dibdin.

Frattanto concluderemo quest’epoca, a ricominciare nella seguente a parlare del regno del Decamerone del Boccaccio. A chi guarda alla infinita letteratura diffusa verso la fine di questo secolo e sul principio del seguente in Italia; quanti ingegni fiorivano illustri in ogni Università; come pensando e scrivendo di filosofia metafisica su le opere d’Aristotile e di Platone, faceano scoppiare mille nuove e arditissime idee dalle antiche; come la storia de’ fatti moltiplicavasi per le scoperte recenti dell’America e della stampa, e la libertà della mente s’esercitava per le controversie ne’ nuovi scismi di religione; e quanto le guerre perpetue di Carlo V, e le mutazioni improvvise ne’ governi d’Europa e nelle pubbliche e private fortune eccitavano le passioni degli Italiani, e raffinavano le arti e gli studj della politica: - l’Italia era il campo delle battaglie, e Roma era confederata, o nemica potente, o mediatrice interessata, e per lo più instigatrice de’ principi; e i loro consigli erano direttamente o indirettamente agitati da uomini di chiesa; e pochi senza molto sapere si meritavano le ecclesiastiche dignità i professori di letteratura sentivano ed illustravano gli autori greci e romani, e rari uscivano allievi dalle scuole che non intendessero il greco, e tutti scrivevano il latino, e insegnavanlo fino alle giovinette: per la diffusione della letteratura prosperava la gloria delle belle arti; e l’Italia pareva emporio di dottrina, di eleganze e di lusso per tutta l’Europa: - e a chi guarda ad un tempo all’Italia tutta quanta in quel secolo affaccendarsi in sottigliezze grammaticali; e gli uomini celebrati contendere, e sempre senza intendersi e senza termine, per questioni peggio che inutili; e consentire pur nondimeno a riconoscere come unico codice a sciogliere tante liti, e quasi ispirato legislatore di stile il Decamerone delle novelle del Boccaccio, mentre le liti a ogni modo sorgevano da quel libro, e ogni uomo interpretandolo variamente, le liti rigermogliavano a mille per una, e s’intricavano sì enigmatiche che, tutti insegnando grammatica, niuno sapeva come s’avesse da scrivere: - certo, sì fatto stato simultaneo di vigore nelle passioni, negl’ingegni e nelle lettere, e di miseria nella lingua d’una nazione, pare al tutto fuor di natura e incredibile. Pur nondimeno l’epoca seguente manifesterà che vi sono cose incredibili insieme e verissime; ma che si rimangono o non osservate o dissimulate, a fine di scrivere in loro luogo cose credibili, benchè false.

Note

  1. Discorso primo, sulla fine (pag. 278).