Sull'Atlante/9. L'agguato delle pantere
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9.
L'AGGUATO DELLE PANTERE
Dinanzi a loro s'alzavano confuse fra le tenebre delle colline boscose, contro le quali l'inondazione si era arrestata.
Non erano i primi contrafforti della grande catena dell'Atlante, ancora troppo lontana. Non si trattava che di un gruppetto di alture di cinque o seicento metri di altezza, sui cui fianchi le robuste querce avevano preso dimora stabile insieme a dei giganteschi sugheri, affondando le radici nella massa rocciosa.
Hassi, il conte e Afza le conoscevano, poiché appunto lassù, in una profonda forra avevano ammazzati i due leoni. Il conte specialmente nel rivederle aveva provato un senso di vivissimo piacere, poiché la conquista del Raggio dell'Atlante, quasi impossibile per un cristiano, era cominciata su quelle alture fra i possenti ruggiti dei re delle foreste africane.
Hassi, non udendo alcun rumore in lontananza che gli annunciasse l'avvicinarsi dei temuti spahis, concesse ai mahari un breve riposo, poi li spinse su per la salita, costeggiando sicomori, querce e sugheri, i quali proiettavano delle ombre foltissime.
Quantunque non abituati a quelle ascensioni su terreni erbosi e sdrucciolevoli, i sette animali raggiunsero felicemente la cima della prima collina e scesero attraverso la valletta che la separava da un'altra un po' meno elevata, in fondo alla quale si trovava la forra coperta da altissimi cespugli.
— Laggiù i nostri animali troveranno un ottimo rifugio — disse Hassi-el-Biac. — Il luogo non sarà troppo adatto per loro, tuttavia sono così docili e così intelligenti, che non protesteranno.
— Ne sono persuaso anch'io — disse il toscano un po' ironicamente. — Sono stati molto bene educati, e conoscono il galateo, diavolo!
Hassi era disceso, tenendo in mano per precauzione il lungo fucile.
Il conte aiutò Afza a mettere piede a terra mentre il toscano, che pareva avesse più disposizione a fare l'acrobata che l'avvocato bocciato, spiccava un magnifico salto accompagnato da una piroetta.
— Prendete i mahari per la corda e scendete con precauzione — disse Hassi. — Se precipitano, sono perduti.
— E ci accopperanno — aggiunse il toscano. — Di ciò non ho nessun dubbio.
La discesa entro la profonda forra, cosparsa di piante che difficilmente si aprivano dinanzi agli sforzi degli uomini, cominciò.
Il moro era sempre alla testa del drappello, mentre Ani si trovava in coda.
Quantunque fosse piovuto abbondantemente, regnava dentro il burrone un caldo soffocante, misto a delle esalazioni tutt'altro che piacevoli, che parevano prodotte dal corrompersi di avanzi d'animali. Quell'odore insistente colpì Hassi, il quale, a metà della scesa si era fermato spingendo innanzi a sé uno sguardo inquieto.
— Senti, figlio? — chiese volgendosi verso il conte.
— Sì — rispose il magiaro. — Qui della carne marcisce.
— Avrei preferito che arrostisse allegramente su una graticola — osservò il toscano.
— Credi tu, figlio, che questo odore provenga dalle carogne lasciate dai due leoni che hai uccisi?
— Dopo tre mesi, col caldo che regna qui, e con gli sciacalli che non mancano in questa regione? No, è impossibile.
— Che altri animali feroci abbiano occupato il covo dei leoni?
— È quello che pensavo in questo momento.
— Dopo tutto non avrebbero avuto torto — notò Enrico. — Quando si trova una casa vuota ed il proprietario non viene a chiedere il pagamento dell'affitto, si occupa più volentieri. Simili fortune non toccano tutti i giorni, almeno a Livorno.
Nessuno aveva prestato attenzione alle sue chiacchiere. Hassi, il conte ed Ani ascoltavano attenti tenendo un dito sul grilletto dei fucili.
— Figlio, — disse ad un tratto il moro, — rimontiamo fino sull'argine del burrone.
— E scendiamo noi uomini — rispose il magiaro. — Non voglio esporre Afza ad un nuovo pericolo.
I mahari avevano fiutata la presenza di qualche belva forse meglio degli uomini, perciò s'affrettarono ad uscire dalla forra e rimontare la china boscosa.
— Afza, — disse il conte, — tu rimani qui con Ani e veglia sui mahari. Lascia a noi l'incarico di sbarazzare il nostro rifugio dagli inquilini importuni che l'hanno occupato.
— Io farò tutto quello che vorrai, mio signore — rispose il Raggio dell'Atlante colla sua voce dolcissima. — Tu sei il mio padrone.
— No, sono tuo marito e null'altro.
— Come vuoi, mio signore.
— Enrico!
— Eccomi — rispose il toscano.
— Tu non hai paura dei leoni e delle pantere?
— Ma che! Io non temo altro che i pescicani, perché ti arrivano per sotto e ti tagliano le gambe senza mostrare la punta del loro muso.
— Allora vieni con noi. So che sei un tiratore scelto del primo battaglione.
— Lo sa quel furfante di Bassot, a cui un giorno per distrazione ho portato via il lobo dell'orecchio sinistro ai tiri di combattimento — rispose l'ex avvocato ridendo. — Ti giuro però, conte, che gliel'ho tolto perché l'avevo giurato.
— Ti credo — rispose l'ungherese.
— E che cosa andiamo a cacciare?
— Non lo sappiamo ancora. Saranno leoni o pantere, Hassi?
— È più probabile che abbiamo da fare con una coppia di pantere — rispose il moro.
— Allora Ani può accendere il fuoco — disse il toscano.
— Per che cosa fare? — chiese il conte.
— Diamine! Per arrostire le bestie che uccideremo.
— Li mangeresti tu i leoni?
— Ho assaggiato un giorno una zampa offertami da un Cabilo, e ti assicuro, conte, che non l'ho trovata cattiva.
— Faremo la prova: sei pronto?
— Il mio catenaccio non domanda che di lanciare il suo do di petto. È uno splendido fucile marocchino, mio caro, d'una precisione straordinaria e d'una portata sorprendente. Vale quanto le nostre armi da fuoco della legione.
— Scendiamo — disse Hassi-el-Biac. — Non aspettiamo l'alba per cercarci un rifugio contro gli spahis.
— Sì, entriamo nelle grotte di Catullo — disse il toscano. — Sono famose in Italia, quantunque io non le abbia mai vedute e dubiti assai della loro esistenza.
— Arma il fucile, Enrico, e scherza meno — disse il conte.
— Il mio catenaccio è pronto a scaraventare la bomba sul muso del leone o della pantera.
— Tu non finirai mai di parlare.
— Ma se ti ho detto che ero nato per fare l'avvocato! Se avessi avuto la lingua corta, sarei diventato marinaio come mio padre.
— E probabilmente avresti ancora il tuo brick.
— Che il diavolo se lo porti insieme all'anima dello strozzino che me l'ha rubato. Scendiamo, papà Hassi?
— Vi aspetto — rispose il moro colla sua solita calma.
— Andiamo dunque a vedere se il leone avrà la criniera nera o fulva o se la pantera avrà la pelle macchiata più o meno esattamente — rispose l'eterno chiacchierone.
Armarono i fucili e scesero con precauzione nella forra selvosa mentre Afza ed Ani si stringevano addosso ai mahari i quali davano segni di inquietudine.
Dentro il burrone, fra le piante che lo coprivano interamente il caldo era soffocante e la puzza delle carni corrotte intollerabile.
— Mi pare di entrare in un macello — borbottò il toscano.
— Taci, e guarda di non farti sorprendere — gli sussurrò il conte. — Qui si giuoca la vita.
— Bah!
— Non scherzare, camerata.
— Sono serio come un procuratore del re che domanda vent'anni di reclusione per un povero diavolo che ha scannato una mezza dozzina di cristiani.
— Finiscila.
— È fatto, conte. Sono diventato un presidente di tribunale.
— Che il diavolo ti porti nella putza!
— Sarei molto felice, perché laggiù farebbe più fresco che qui.
Il conte alzò le spalle e non rispose.
Hassi-el-Biac precedeva i due amici, aprendo con precauzione i cespugli foltissimi che coprivano i fianchi della forra. Di quando in quando si fermava e tendeva gli orecchi, poi riprendeva la discesa scostando i rami colla canna del fucile temendo di trovarsi improvvisamente dinanzi alle belve che avevano preso il posto dei due leoni uccisi dal valoroso magiaro. Era già quasi sceso nel fondo della forra, quando si fermò bruscamente spianando l'arma.
Il conte ed il toscano si erano subito messi in posizione di far fuoco.
Trascorsero alcuni istanti, poi il moro abbassò il fucile.
— Che cosa hai veduto, Hassi? — chiese il conte, il quale conservava un meraviglioso sangue freddo.
— Eppure sono sicuro che doveva trovarsi là — rispose il moro.
— Chi? — domandò il toscano. — Il procuratore del re?
— No, la pantera.
— È la stessa cosa.
Il moro alzò le spalle, e sorrise bonariamente.
— Tu, signore, sei un uomo meraviglioso — disse. — Scherzi però troppo dinanzi alla morte.
— Ma noi legionari siamo carne da cannone — rispose il toscano. — È vero, conte? Piombo ed artigli non ci fanno paura.
— Taci! — rispose l'ungherese.
Si erano curvati verso terra ascoltando con attenzione. Un animale, leone o pantera, doveva attraversare in quel momento la forra poiché si udiva distintamente un leggero fruscio.
— È là — disse il moro.
— Dove?
— Verso il fondo della forra, figlio — rispose il moro.
— Vuoi che ci dividiamo?
Il moro scosse il capo.
— No — disse poi. — È meglio che ci teniamo uniti.
— Ed infatti l'unione fa la forza — disse Enrico. — È una cosa strana! Anche questi arabi conoscono i nostri proverbi e li mettono in pratica!
Il conte soffocò a grande stento uno scoppio di risa.
— Questo ex avvocato bocciato finirà per far scappare le pantere senza far uso del piombo — mormorò.
Erano scesi in fondo alla forra e si erano fermati. Hassi-el-Biac, che conosceva meglio dei due legionari le belve del suo paese, scrutava attento i foltissimi cespugli.
Sul margine del burrone, illuminata da un meraviglioso raggio lunare, Afza si teneva ritta, a fianco di Ani, col fucile in mano pronta ad accorrere in aiuto del suo signore. Degna figlia degli antichi conquistatori della Spagna, non temeva il pericolo e lo sfidava serenamente colla voluttà selvaggia delle figlie della forte Arabia.
— Dunque si va o si torna a casa? — chiese il toscano. — Queste bestie feroci che non osano mostrarsi cominciano a seccarmi. Hanno dell'acqua nelle vene?
— E tu hai del bronzo fuso nelle tue? — chiese il conte a bassa voce.
— Vorrei finirla presto.
— Adagio, camerata. Lascia fare ad Hassi.
— Tuo suocero è troppo prudente, conte.
— Sa quello che fa.
— Aspettiamo allora: che disgrazia non avere in questo momento un buon sigaro! Lo fumerei volentieri sul muso e sui baffi delle pantere e dei leoni.
Il moro aveva imbracciato il fucile, e scrutava le piante che la luna, nuovamente sorta, illuminava.
— Abbassatevi — disse ad un tratto ai due europei.
— Si vede? — chiese il toscano a bassa voce.
— No, ma la sento.
— Chi?
— La pantera.
— Questi animali li preferisco ai leoni. Hanno minore slancio.
— Ma non sono meno pericolosi — disse il conte.
— Bah! Abbiamo tre catenacci che bene o male scaraventeranno un po' di piombo.
I tre uomini si erano accovacciati fra i cespugli, tenendo un dito sul grilletto del fucile. In fondo alla forra non si udiva alcun rumore; tuttavia si sentiva un acuto odore di selvatico, quell'odore ripugnante, sgradevole, che infesta i serragli di belve feroci e che non tutti possono tollerare. Il moro pel primo l'aveva fiutato, ed aveva messo in guardia i due europei.
Trascorsero due o tre minuti, poi in mezzo ai cespugli si udì un leggero rumore accompagnato da un sordo brontolìo.
Il moro si era voltato verso il conte.
— La pantera è in agguato — disse.
— Facciamo fuoco?
— No, figlio: aspettiamo che attacchi.
— Hassi, hai una sigaretta? — chiese il toscano.
— Che cosa vuoi farne, signore?
— Diamine! Per attendere che la signora pantera si decida a montare all'assalto. Mi secca molto aspettare.
L'arabo alzò il suo mantellone di feltro e porse al giovanotto una manata di sigarette, dicendogli:
— Eccole, ma non fumare ora. Forse ti mancherebbe il tempo di accenderne una sola.
— Tu, papà Hassi, sei un brav'uomo, però io non ascolto i tuoi consigli e fumerò sul muso di queste terribili pantere.
Il moro interrogò il conte con lo sguardo.
— Lascialo fare — rispose il magnate, sorridendo. — È fatto così.
— Bene — disse Hassi. — In guardia però: la pantera non si farà aspettare.
— E noi l'aspettiamo se si degnerà mostrarsi — rispose il toscano, il quale conservava anche nei più terribili momenti il suo eterno buon umore.
Si erano appoggiati tutt'e tre contro un masso tenendo i fucili puntati. Sopra di loro, a cinquanta metri, Afza ed Ani, immobili come due statue, e silenziosi, vegliavano.
Trascorsero altri minuti d'angosciosa aspettativa poiché, quantunque i tre cacciatori avessero del coraggio da vendere, non potevano sottrarsi a quella profonda impressione che esercitano le belve feroci sull'uomo, e che nessun sangue freddo può vincere.
— Dunque, papà Hassi? — chiese sottovoce Enrico, il quale cominciava a perdere la pazienza. — Che cosa facciamo qui? Sembriamo tre cariatidi piantate sotto le rocce.
— Non si decide ad attaccarci — rispose il moro.
— Che tu ti sia ingannato?
— No: la pantera è in agguato in mezzo a quei cespugli.
— Se facessimo una scarica? — chiese il conte.
— Credi tu che quella bestia non abbia un compagno o una compagna? — rispose Hassi, aggrottando la fronte. — Non può essere sola. Qui vi è un covo, e forse troveremo anche le piccole pantere.
— Ma noi non possiamo rimanere tutta la notte a guardare la forra — disse il toscano.
Il moro si guardò intorno, raccolse una grossa pietra e la scagliò fra le piante.
Il rauco brontolìo, udito poco prima, si ripetè, ma la belva che doveva trovarsi imboscata nel mezzo, nemmeno dinanzi a quella provocazione osò di mostrarsi.
Hassi fece segno ai due compagni di non muoversi, raccolse una seconda pietra e la lanciò più lontana, verso il fondo della forra.
Anche in quella direzione si udì una specie di sordo miagolìo, che terminò in un potente soffio.
— Mi ero ingannato, figlio? — chiese Hassi volgendosi verso il conte. — Le pantere sono due.
— E noi siamo in tre — disse il toscano. -— Le bestie feroci non si muovono, ed a quanto pare nemmeno noi. Che splendida situazione! Ecco cinque paia d'occhi che si guardano.
— Vuoi scendere tu? — gli chiese Hassi un po' piccato. — Tu cerca di sbarazzarti di quella che ti sta di fronte, e noi ci occuperemo dell'altra. Appena potremo ci soccorreremo a vicenda.
— Se non vuoi altro!
— Non ti farai divorare? — chiese il conte.
— Niente affatto — rispose il toscano. — In questo momento non ho alcun desiderio di offrire a tua moglie lo spettacolo lugubre d'un uomo che sparisce, a brano a brano, nel ventre d'una belva feroce. Sono un po' cavaliere anch'io, diamine!
— Allora tu scendi e gira a sinistra; noi invece poggeremo a destra e ci frapporremo fra il maschio e la femmina. Guardati però, Enrico: non scherzare.
— Sono serio come un avvocato.
— Non avventarti: aspetta l'attacco di piè fermo, e ricevilo sulla canna del tuo fucile.
— Sì, conte.
Il toscano si assicurò per bene il yatagan dalla lama larga e pesante che Ani poco prima gli aveva consegnato, mise un dito sul grilletto del fucile e scese nella forra mentre Hassi ed il conte deviavano seguendo una linea di piccole rocce semimascherate da altissimi sterpi.
Il toscano, pur non avendo nessuna paura della belva che si teneva ostinatamente imboscata, s'avanzava con precauzione, fermandosi ogni due o tre passi per non farsi sorprendere da uno di quegli attacchi fulminei che hanno rese famose le pantere.
Giunto in fondo al burrone di fronte all'ammasso di cespugli fra i quali sospettava che l'animale si celasse, scostò colla canna del fucile i rami, e guardò attentamente dinanzi a sé.
Due punti verdastri che balenavano e si spengevano ad intervalli piuttosto brevi, attrassero subito la sua attenzione.
— Eccola lì la birbona — mormorò il legionario. — Ora ti fracasserò il cranio con una buona palla conica.
Puntò lentamente il fucile e mirò. Stava per premere il grilletto quando i due punti verdastri scomparvero a un tratto.
— Oh, diavolo! — borbottò. — Che sia scivolata fuori dai cespugli senza nemmeno darmi la buona notte? Ma questa è una pantera cacciata dentro la pelle d'un coniglio! E gli arabi hanno tanta paura di queste bestie!
Lanciò un rapido sguardo verso la sua destra, e scorse vagamente il conte ed Hassi inoltrarsi attraverso i cespugli ad una trentina di passi.
— Non voglio lasciarmi precedere da loro — disse. — Vediamo dov'è scappata questa lepre.
Riprese la sua marcia prudente, scostando sempre le piante colla canna del fucile, e giunse ben presto là dove aveva veduto brillare gli occhi della belva.
— Signora! — gridò, furioso di non averla trovata. — Volete mostrarvi sì o no? Vi sono delle polpe da mangiare, se siete affamata!
Aveva appena pronunciato quelle parole, quando una grande ombra balzò fuori dalla macchia passandogli sulla testa. La pantera aveva tentato il solito colpo di sorpresa, ma aveva calcolato male la distanza ed era andata a cadere tre o quattro passi al di là della preda che intendeva di abbattere.
Il legionario si volse con rapidità fulminea, e le sparò addosso quasi a bruciapelo.
La pantera, ferita forse gravemente, si rotolò due o tre volte a terra; poi mugolando con uno sforzo supremo s'alzò, e con un salto si rigettò in mezzo ai cespugli, scomparendo agli sguardi del cacciatore.
— L'hai uccisa, Enrico? — gridò il conte mentre l'eco della forra ripercuoteva ancora la detonazione.
— Del piombo in corpo ne deve avere — rispose il toscano, il quale si era rapidamente ripiegato verso la china, ricaricando precipitosamente il fucile. — Però mi è scappata ancora.
— Sorvegliala.
— Andrò a cercarla anche all'ospedale io, se le pantere ne hanno uno!
— No: non ti muovere! Aspetta che si torni.
— Il sergente ha comandato il riposo: obbediamo.
Mentre il toscano, fatto il suo colpo, si rimetteva in guardia, pronto a finire l'animale nel caso che si mostrasse, il conte ed Hassi continuavano a battere i cespugli per sbarazzarsi dell'altra.
Avevano un bel frugare, però; non riuscivano né a scovarla, né ad udirla. Eppure erano certissimi di averla molto vicina, perché l'odore di selvatico tradiva sempre la sua presenza.
— Hassi — disse ad un certo momento il conte. — Vuoi che aspettiamo l'alba?
— No — rispose l'arabo. — Gli spari potrebbero giungere agli orecchi degli spahis, ed io non voglio ora che tu ricada nelle loro mani. Sei mio figlio, ed è mio dovere di vegliare su te. Continuiamo ad avanzare e vedrai che la troveremo. L'altra ormai è fuori di combattimento. Le palle dei nostri fucili squarciano bene.
— Dove si sarà rifugiata?
— Mi viene un sospetto.
— Quale?
— Che queste pantere abbiano dei piccini, e che giuochino per attirarci lontani dal covo. Vedrai che domani troveremo una nidiata di quei gattacci pericolosi.
— Io credo che tu abbia indovinato, Hassi. Temo solo per Afza. Se la pantera che ci fugge dinanzi risortisse dalla forra?
— Vi è Ani lassù; e poi, anche mia figlia è armata e tira benissimo. Di più v'è il tuo compagno a metà costa. Eh! Bada, figlio! La pantera ci attira in un'imboscata!
— Dov'è passata?
— A dieci passi da noi.
— Ne sei sicuro?
— Ho veduto i rami muoversi.
— Additami il punto.
— Che cosa vuoi fare?
— Provocarla con un colpo di fucile.
Il moro scosse la testa, come era sua abitudine.
— No — disse poi. — Aspetta che si mostri, e non far fuoco che a colpo sicuro. Vieni, figlio!
Si era cacciato risoluto in mezzo ai cespugli, e s'avanzava con passo fermo, tenendo il fucile teso orizzontalmente. Un'ombra scivolava dinanzi a lui, tenendosi nascosta fra le piante. Appariva un istante, poi tornava a scomparire, e con tale rapidità, da non lasciar tempo al moro di poterla prendere di mira. La belva cercava di raggiungere l'estremità del burrone che era chiuso da una parete rocciosa solcata da larghi crepacci che si stendevano fino a terra formando delle tane adatte come covi.
Ad un tratto i due cacciatori non scorsero più nulla. Il fruscio era cessato e le piante avevano ripresa la loro immobilità.
— Attento, figlio! — gridò Hassi. — Ci assale! Conosco la manovra di queste bestiacce.
Quasi subito la pantera si slanciò coraggiosamente all'assalto, tentando di atterrare, con un terribile colpo d'artiglio, il moro.
Questi, che si teneva in guardia, fu lesto a gettarsi da una parte, evitando così l'urto e la terribile zampata che avrebbe dovuto sventrarlo.
La pantera era andata a cadere dinanzi al conte.
Rintronò subito un colpo di fucile, seguito quasi subito da un secondo. Il moro e l'ungherese avevano sparato, ed avevano fulminato sul posto la belva, fracassandole il cranio.
— Presa, conte? — gridò Enrico.
— Sì — rispose il magiaro.
— E la mia dov'è scappata dunque?
— Ora la cercheremo.
— Allora vengo anch'io. Sono stanco di fare la parte della statua del sor Paolo Indoda.
Lasciò il suo posto e ridiscese nella forra senza prendere nessuna precauzione.
Probabilmente credeva di avere, se non uccisa, almeno messa fuori di combattimento la pantera.
S'ingannava perché la maledetta belva, quantunque avesse ricevuto quel colpo di fuoco quasi a bruciapelo e la palla l'avesse attraversata da parte a parte, come poterono più tardi verificare i cacciatori, spiava attentamente il suo nemico per vendicarsi prima che la morte la sorprendesse. Nascosta a breve distanza, in mezzo a un fitto cespuglio che la nascondeva del tutto, aveva soffocati stoicamente i ruggiti di dolore che le strappava la ferita.
Vedendo passare il feritore scattò come una molla, gli fu addosso e lo rovesciò prima che avesse potuto far uso del fucile.
Il legionario era caduto mandando un grido.
— A me, conte!
Il fucile gli era sfuggito di mano rotolando giù per la china, però teneva nella cintura il yatagan e fu pronto a levarlo, ad alzarlo per ripararsi dai colpi d'artigli che già grandinavano su di lui.
Tre volte respinse l'attacco ferendo la pantera alle zampe anteriori, senza aver potuto trovare il tempo di rimettersi in piedi.
Stava per soccombere sotto il quarto, quando il conte ed Hassi a lor volta piombarono sulla belva stringendo gli yatagan.
L'assalita vedendoli giungere abbandonò il legionario e tentò di far fronte a loro.
Due formidabili fendenti che le spaccarono il cranio la gettarono a terra senza vita.
— Grazie, conte — disse il toscano rialzandosi lestamente. — Corpo di una sogliola fritta! Aveva l'anima ed il cuore incavigliati, questa bestiaccia! Eppure l'ho fucilata per bene, e non l'ho mancata.
— Sono bestie coraggiose, mio caro, — rispose l'ungherese — per di più hanno la pelle dura e non sempre cadono al primo colpo. Sei ferito?
— Nemmeno una sgraffiatura.
— Puoi chiamarti fortunato.
— Che vi siano altre pantere in questa forra?
— Dei piccini, forse!
— Che io strangolerò...
— Sono gatti pericolosi. Ti consiglio di decapitarli col tuo yatagan. Hassi, possiamo far scendere i mahari e Afza?
— Non vi è ormai più alcun pericolo — rispose il moro. — Ani!
— Padrone?
— Vedi gli spahis?
— Non ancora.
— E l'acqua?
— Mi pare che continui ad estendersi.
— Calati nel burrone, e bada che i mahari non si spezzino le gambe. Se li perdiamo non potremo raggiungere la cuba di Muley Hari.
— Io garantisco per loro.
Cinque minuti dopo, cammelli e uomini si trovavano in fondo alla forra, intorno ad Afza.