Sull'Atlante/6. La vendetta di Afza
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6.
LA VENDETTA DI AFZA
— Chi vive?
— Il Raggio dell'Atlante!
— Passa: sei attesa.
Un soldato si era alzato dietro una muraglia del bled e si era avanzato verso la giovane, la quale si teneva ritta sul suo mahari; esposta interamente ai raggi della luna, che facevano luccicare vivamente i galloncini d'oro del suo giubbettino.
— Sei proprio tu, bella fanciulla? — disse lo spahi avvicinandosi al cammello. — Posa i tuoi piedini sulle mie mani, perché ti aiuti a scendere.
— Non è necessario — rispose Afza.
Mandò un breve grido gutturale, e subito il docilissimo mahari si piegò lentamente, inginocchiandosi.
Prima che la sentinella avesse avuto tempo di porgerle la mano, Afza era balzata a terra colla leggerezza di una gazzella.
— E tuo padre? — chiese lo spahi.
— Si è accampato nella pianura — rispose la giovane donna con voce secca.
— Vuoi che conduca il tuo mahari sotto una tettoia?
— No: finché la sua padrona non ritornerà non lascerà questo luogo. È inutile legarlo.
— Questi fratelli dei cammelli sono più docili dei nostri cavalli.
— È vero.
Si assettò rapidamente le vesti, poi chiese con un certo tremito:
— Il maresciallo?
— Ha dato ordine a tutte le sentinelle di lasciarti passare e di condurti da lui.
— Va bene: fammi da guida. Non conosco il bled che ho veduto solamente da lontano.
Afza parlava a scatti, come se stentasse a trovare le parole. Un fremito di quando in quando la sorprendeva, facendo tintinnare gli zecchini che le ornavano i capelli.
Lo spahi la guardò qualche istante, mirando con stupore i suoi bellissimi occhi risplendenti ai raggi della luna, poi si diresse verso il cancello del bled mormorando:
— Se un giorno diverrò anch'io maresciallo, speriamo di trovare di queste belle fanciulle che vengano a cenare con me.
Entrarono, senza parlare, nell'immenso recinto e si diressero verso il bianco fabbricato.
Un sergente stava fumando dinanzi alla porta: era Ribot.
— Buona sera, Afza — le disse.
— Maometto sia con te! — rispose la giovane sposa. — Ti porto i saluti di mio padre.
Ribot congedò con un gesto lo spahi.
— Il conte? — chiese Afza, quando furono soli.
— Sta segando la sua catena: credo che sia a buon punto. E tuo padre?
— Veglia nella pianura con Ani: i mahari sono pronti.
— Quanti? Il conte ha un amico che fuggirà con lui.
— Lo so: abbiamo cinque corridori di prima forza che i cavalli degli spahis non potranno raggiungere tanto facilmente. Abbiamo conservato i migliori.
— Sta' in guardia, Afza.
— Sono decisa a tutto.
— Egli non ti concederà la loro grazia o, per meglio dire, non permetterà la loro fuga.
— Vedrai chi è Afza: le donne more voi non le conoscete ancora. Conducimi da lui.
— Ti aspetta a cena.
— Me l'ero immaginato; conducimi, sergente.
Ribot salì la scala e si fermò dinanzi ad una porta. Però prima di bussare, disse ad Afza:
— Bada a quello che fai: io ho scorto ne' tuoi begli occhi un lampo che non mi rassicura affatto. Il sangue arabo è troppo ardente e non si sa dove conduce.
— Afza è tranquilla — rispose la giovane donna. — Introducimi.
Il sergente bussò due colpi e la porta si aprì subito, mostrando un salotto, non troppo elegante è vero, perché non si potrebbe pretendere l'eleganza in un bled perduto in fondo alle sterili pianure dell'Algeria, ma con una tavola bene imbandita, illuminata da due grandi lampade a petrolio.
Aveva aperto il baffuto maresciallo in persona.
— Afza! — esclamò. — Il lucentissimo Raggio dell'Atlante! Non ti aspettavo quasi più.
— Le donne more non hanno che una parola e sanno mantenerla — rispose la giovane.
Il maresciallo fece a Ribot un gesto imperioso, e la porta si richiuse dietro al sergente.
— Non hanno avuto torto i beduini ed i Cabili a chiamarti il Raggio dell'Atlante — disse il maresciallo offrendo ad Afza una sedia. — Tu sei la più bella fanciulla mora che io abbia mai veduta su tutte le terre della Barberia.
La giovane donna ebbe un pallido sorriso.
— Tu vuoi scherzare, signore — disse.
— Lo sa tuo padre che tu sei venuta qui?
— No — rispose Afza. — Gli ho messo nel tabacco del narghilè un granello di oppio, e da un paio d'ore dorme profondamente. Domani si sveglierà molto tardi.
— Ventre di balena! — esclamò il maresciallo torcendosi i nerissimi baffoni. — Anche le donne more diventano furbe! Vuoi cenare con me, Afza? Discorreremo mangiando un boccone. Non c'è mai abbondanza in questo maledetto bled, tuttavia ho qui del montone arrosto, una gallina faraona ed un cesto di fichi secchi che mi sono giunti ieri da Costantina. Ah! Diavolo! Ho anche dell'eccellente vino francese bianco e nero ed una bottiglia di Champagne. Hai tu mai bevuto dello Champagne nel deserto?...
— No — rispose Afza, sedendosi dinanzi alla tavola.
Il maresciallo tolse da una credenza gli arrosti, le frutta, le bottiglie e depose tutto dinanzi ad Afza, dicendole:
— Spero che il Raggio dell'Atlante farà onore alla cucina francese. Che peccato non essere a Parigi o a Marsiglia! Un giorno, però, spero di rivedere quelle città, e di averti al mio fianco!
Afza represse, con uno sforzo energico, un sussulto e sorrise.
Si erano messi a mangiare, l'uno di fronte all'altro. Afza però non pareva disposta a far onore, né al montone, né alla gallina faraona, né ai fichi secchi di Costantina e tanto meno al vino, poiché il suo bicchiere era sempre pieno.
— Ventre di foca! — esclamò a un certo momento il maresciallo, che invece divorava per due. — Che cosa mangiate dunque voi mori quando siete nel deserto? Tu non assaggi nulla e soprattutto non bevi. Eppure queste bottiglie portano marche famose!
— Tu sai, signore, che gli arabi sono sobri e che non bevono mai perché Maometto vieta di far uso di vino e di liquori — rispose Afza.
— Perché al tempo di Maometto non si sapeva ancora fabbricare del vino così squisito — rispose il maresciallo, che pareva alquanto contrariato. — Se vivesse oggi, scommetterei i miei galloni contro una pipata di tabacco che non rifiuterebbe un bicchiere di questo eccellente Borgogna!
Ah! Il Borgogna! Doveva infatti piacergli molto, perché pur mangiando e chiacchierando vuotava un bel numero di bicchieri, ma pareva che tutto quel liquido cadesse in fondo al pozzo di una miniera.
Quando la cena fu terminata, il maresciallo accese un grosso sigaro spagnolo, avuto di contrabbando probabilmente attraverso il confine marocchino, e appoggiandosi alla spalliera della sedia dopo aver messa una gamba sull'altra, disse:
— Ora, spieghiamoci, Afza.
La giovane donna aveva fissati in quel momento gli sguardi su una medaglia d'oro che brillava sul petto del maresciallo e che pareva non avesse osservata prima.
— Che cos'è quella, signore? — chiese.
— Questa? — chiese il soldato lanciando in aria un nuvolo di fumo profumato. — Questo pezzo d'oro è quello che mi ha dato i galloni di maresciallo. Mi è costato molto per ottenerlo e non so davvero come sia ancora vivo, e pel momento comandante del bled.
— Ah! — fece semplicemente Afza.
— Vuoi udire quella storia? Tu non hai già fretta di ritornartene al duar.
— Nessuna — rispose la giovane donna, la quale aveva tutto l'interesse che il maresciallo la trattenesse, per lasciare tempo al conte ed al suo compagno di segare le catene.
Il comandante tracannò un altro bicchiere di Borgogna, poi dopo aver squadrata la giovane con certi occhi scintillanti, disse:
— Mi trovavo allora nel Senegal, un altro paese conquistato dalla Francia, ma che non somiglia affatto a questa dannata Algeria, dove non si può trovare un palmo d'ombra quando un uomo desidera schiacciare tranquillamente un sonnellino.
«Amafu, un re dell'alto Senegal, da tempo ci dava dei gravi fastidi, quindi il governatore della colonia aveva dato ordine di predisporre una colonna per mettere a dovere quel negro prepotente che si permetteva di trattare noi, figli della gloriosa Francia, come i suoi straccioni di sudditi.
«Avevamo per guida un generale che non aveva paura nemmeno del diavolo, un vero soldato del mio stampo.
«Avevamo già sconfitto non so quante tribù, quando un giorno ci trovammo dinanzi ad un largo fiume attraversato da un ponte di legno fabbricato male, ma abbastanza solido per permettere il passaggio alla nostra colonna.
«I guerrieri di Amafu avevano occupata l'altra estremità e facevano un fuoco infernale contro di noi impedendoci il passaggio... ma... Ti annoi, Afza?»
La giovane mora, che da qualche istante pareva distratta, guardò sorridendo il maresciallo.
— No, signore — disse. — Tu sai che a noi piacciono assai le istorie, specialmente quelle guerresche. Non siamo forse i discendenti dei conquistatori della Spagna? Continua, signore: ti ascolto.
Afza mentiva. Non prestava alcuna attenzione alla mirabolante avventura del prode maresciallo, pur fingendo di ascoltare. Il suo pensiero era in quel momento troppo preoccupato. Si sarebbe detto che seguiva i colpi delle minuscole seghe che tagliavano in quel momento le catene del marito e quelle del di lui compagno.
Un'angoscia inesprimibile traspariva dal volto di Afza. Temeva ad ogni istante di udire un grido di allarme o un colpo di fucile sparato dalle sentinelle, che circondavano il bled contro i fuggitivi.
Il maresciallo vuotò il suo quattordicesimo o quindicesimo bicchiere di Borgogna, poi riprese:
— Ero rimasto dunque al ponte. I negri di Amafù si battevano eroicamente e non c'era verso di attraversare il fiume quantunque fossero armati di pessimi fucili, che invece di palle lanciavano contro di noi certe verghe di ferro, che ci foracchiavano magnificamente.
«La notte era calata, e noi eravamo sempre sulla riva del fiume impotenti a cacciare quei dannati guerrieri.
«Il generale era furioso. Invano aveva lanciato sul ponte un mezzo squadrone di spahis. I fucili dei negri l'avevano distrutto quasi interamente.
«Da una parte e dall'altra del ponte si udivano lamenti e grida di dolore, frammisti a nitriti di cavalli.
«Il generale, impressionato per le perdite subite e per la feroce resistenza opposta da quelle bande di straccioni, passeggiava furiosamente lungo la riva del fiume.
«A un tratto la sua voce tuona come lo squillo d'una tromba:
«"Avanti uno spahi, ma di quelli buoni! Che tenti di attraversare il fiume cercandoci un guado".
«Un cavalleggero si getta coraggiosamente in acqua, ma non ha percorso cinquanta passi che la corrente lo travolge e scompare insieme alla sua cavalcatura.
«"Allora forziamo a qualunque costo il ponte," disse il generale. "Avanti un trombettiere."
«Un giovane legionario si presenta al generale dicendogli:
«"Eccomi: io non ho paura dei negri..." ma tu ti annoi, Afza.»
— Ti ho già detto che noi arabi ascoltiamo volentieri questi racconti. Forse che durante le notti, al lume di luna, non ci raccontiamo mille cose?
— È vero, eppure mi sembravi distratta.
— T'inganni, signore: continua.
Il maresciallo riaccese il suo grosso sigaro spagnolo, si arricciò i baffi, e poi riprese:
«Il generale guardò quel giovanotto chiedendogli: "Hai la fidanzata, tu? Canta la canzone che le hai dedicato, poi da' fiato alla tua tromba".
«Il giovane legionario si slanciò sul ponte urlando:
Molborough s'en va-t-en guerre
Qui sait s'il reviendra.
«Imbocca la tromba per suonare la carica, ma ad un tratto si arresta, poi allarga le braccia e piomba nel fiume.
«Una palla dei negri l'aveva fulminato.»
— Oh! — fece distrattamente Afza.
— Tuttavia, per un istante si sorresse sopra la corrente furiosa che lo trascinava, ed ebbe tempo di gridare a me, che ero sceso sulla riva per cercare di salvarlo:
«"Annuncia, camerata, la mia morte alla mia fidanzata..."
«Poi scomparve per sempre.
«Un momento di esitazione e tutto era perduto. Fortunatamente c'ero io che volevo guadagnarmi ad ogni costo i galloni di maresciallo.
«I negri continuavano a sparare furiosamente, battendo il ponte con una tempesta di proiettili. Mi slancio innanzi urlando:
«"Avanti, camerati!"
«Il ponte fu passato. Legionari e spahis, incoraggiati dal mio esempio, mi avevano seguito, caricando i negri con impeto irresistibile e cacciandoli nella foresta.
«Un mese dopo io ricevevo questa medaglia d'oro e sulle mie maniche brillavano i galloni di maresciallo.
«È così, Afza, che si conquistano in guerra gradi ed onori.»
Il maresciallo cacciò giù, nel suo pozzo senza fondo, un altro bicchiere, poi guardando la bellissima mora che pareva fosse assorta in profondi pensieri, le disse:
— Quale donna dell'Algeria rifiuterebbe ora un coraggioso del mio stampo? Dimmelo, Afza.
— Mi ami?
— Sì, splendido Raggio dell'Atlante — rispose il maresciallo.
— Allora dammi una prova del tuo amore.
— Non hai che da chiedere.
— Prima di te un altro uomo mi ha amata...
— Lo so — disse il maresciallo digrignando i denti. — Quel maledetto conte ungherese. Si è però perduto da sé, perché il Consiglio di guerra non lo risparmierà! Ventre di balena! Ribellione e vie di fatto contro un superiore!... Fucilazione! Fucilazione senza misericordia e senza attenuanti!
Afza era diventata pallidissima.
— Non si potrebbe lasciarlo fuggire? — chiese con voce tremante di collera.
— Chi?
— Il conte.
Il maresciallo picchiò sulla tavola un pugno così formidabile, da far saltare bicchieri e bottiglie.
— Ventre di foca! Io, maresciallo, e pel momento comandante del bled, lasciar scappare quel coccodrillo del Danubio?
— E se questa fosse la sola condizione per lasciarmi amare da te, signore? — chiese Afza.
— Ma che cosa dici, fanciulla? — gridò il maresciallo, rosso di collera.
— Che io non sarò tua se quell'uomo, a cui io devo la vita, non sarà libero. Lascia prima che se ne vada, perché io non lo riveda più mai.
— Ma se fra tre settimane sarà fucilato e seppellito! Che cosa vuoi di più?
— Che quell'uomo non muoia — rispose Afza con voce ferma.
— Che interesse hai tu perché viva ancora?
— Ti ho detto che mi ha salvata la vita.
— Eh! Lo so! Bella prodezza uccidere un leone! Avrei voluto vedere il conte al passaggio del Senegal, sotto il diluvio del fuoco dei negri!
— Forse avrebbe fatto altrettanto — disse Afza.
— No! — tuonò il maresciallo.
Raggio dell'Atlante si era alzata. La fiamma sinistra, ardente, che altre volte aveva illuminati i suoi grandi occhi, balenava più intensa che mai.
— Vuoi andartene?— chiese il maresciallo.
— Sì, giacché tu non mi vuoi dare una prova di amarmi.
— Ventre di foca! Tu vuoi mandarmi dinanzi al Consiglio di guerra e farmi perdere i galloni guadagnati al Senegal!
— Non sei tu, signore, il comandante del bled?
— Lo credo!
— Chi ti impedirebbe di far ritirare le sentinelle che vegliano intorno al campo per non esporle al pericolo di venir fulminate? Odi? Il tuono romba! La tempesta fra pochi minuti scoppierà, e tu sai quanto sono furiose quelle che imperversano nei nostri paesi.
Il maresciallo si avvicinò un po' barcollando alla finestra e guardò al di fuori.
Lampi vivissimi illuminavano il cielo, e in lontananza il tuono faceva udire la sua voce possente.
— Ventre di balena! — esclamò. — Che brutta notte! Le sentinelle non si troveranno troppo bene intorno al bled, fuori dalle cinte.
Tornò verso la tavola e si sedette guardando Afza, la quale stava ritta di fronte a lui, dall'altra parte, colle mani nascoste dentro le ampie maniche, stringendo il manico dell'affilatissimo pugnale.
— Credi tu, Afza, — chiese guardandola sospettosamente — che se anche facessi ritirare le sentinelle, quel dannato conte riuscirebbe a prendere il largo? Ha delle catene intorno ai polsi ed alle gambe, è ben assicurato al tavolato e poi, anche se riuscisse a spezzarle, avrebbe da fare i conti colle sbarre dell'inferriata che son grosse molto, e d'una solidità a tutta prova. Pretenderesti tu che io andassi a segare le une e le altre?
— Io non ti chiedo altro, signore, che di far ritirare le sentinelle — rispose il Raggio dell'Atlante con una calma terribile. — Se domani il conte sarà ancora qui, io sarò egualmente tua. Le donne arabe amano i valorosi.
— Qui gatta ci cova — borbottò il maresciallo mettendosi a passeggiare pel salotto, colle mani sprofondate nelle sue immense tasche. — D'altronde, se quell'uomo se ne andasse, non mi rincrescerebbe. Potrebbe diventare un rivale pericoloso anche se lo fucilassero. Chi può capire il cuore di queste arabe?
Stette qualche po' pensieroso, poi si riaccostò al tavolino, dinanzi al quale Afza era sempre ritta, immobile come una statua.
— Vuoi proprio che quell'uomo se ne vada? — le chiese.
— Sì — rispose Afza con voce ferma.
— E perché?
— L'ho amato prima di te.
— E potresti amarlo ancora se rimanesse qui, non è vero?
— Può darsi.
— E non hai pensato al Consiglio di guerra? Fra tre settimane il conte sarà morto.
— E allora salvalo per amor mio: tu sai che io gli devo la vita e che senza di lui il Raggio dell'Atlante non sarebbe qui a discorrere con te.
— Ventre di foca! Tu ragioni meglio di una ragazza di Parigi o di Lione. Sia! — e chiamò Ribot.
Il sergente che era di guardia nel vicino corridoio, fu pronto ad accorrere alla chiamata del suo superiore.
— Eccomi, maresciallo! — disse aprendo la porta.
— Che tempo fa fuori?
— Pessimo: minaccia uno di quegli uragani che travolgeranno anche le nostre tettoie.
— E noi lasceremo all'aperto quei bravi spahis, esposti alla pioggia ed ai fulmini?
— Credo anch'io che sia pericoloso, maresciallo — disse il sergente guardando di sfuggita Afza.
— Le celle son tutte ben chiuse?
— Nessuno può scappare. Le inferriate sono grosse e le ho visitate io stamane. E poi i prigionieri hanno le catene.
— Già!
Il maresciallo empì un bicchiere e lo porse al sergente dicendogli:
— Bevi, poi da' ordine alle sentinelle che vegliano fuori del bled di ritirarsi sotto qualche tettoia. Quei bravi ragazzi è meglio che cadano sul campo di battaglia piuttosto che sotto una scarica elettrica. Va', Ribot.
Il sergente vuotò il bicchiere, scambiò con Afza un altro sguardo, indi uscì.
— Sei contenta, fanciulla? — disse il maresciallo.
— Sì, mio signore.
— E tu credi proprio che il conte riesca a fuggire?
— Io non lo so.
— Forse tu, colla complicità di qualcuno, gli hai fornito delle lime per rompere le catene e segare le sbarre?
— Io non ho veduto il conte e non ho conoscenze qui dentro. Sai bene che noi ci teniamo sempre lontani dal bled.
— E come puoi aver saputo che il conte stasera tenterà la fuga?
— Da un sogno che ho fatto.
— Ah! Povero magnate! Allora domattina sarà più incatenato che mai! — disse il maresciallo. — Io non credo ai sogni, bella fanciulla.
— E noi arabe, molto.
In quel momento al di fuori si udì echeggiare, fra i primi colpi di tuono, la tromba che segnalava alle sentinelle di ripiegarsi nel bled.
La pioggia cominciava a scrosciare violentissima, e lampi vivissimi apparivano attraverso la finestra spalancata.
Poderosi soffi di vento caldissimo, proveniente dal sud, spazzavano la pianura e si rompevano, con mille ululati, contro le vaste tettoie che circondavano il bled, minacciando di strappare le coperture di zinco.
— Ventre di balena! — disse il maresciallo. — Credo tanto poco al tuo sogno, che io voglio andare ad assicurarmi se il conte a quest'ora ha segato le sue catene.
Afza ebbe un sussulto e fece scorrere, attraverso l'ampia manica, il pugnale datole da suo padre. In quel momento era spaventosamente pallida: i suoi occhi, però, si erano accesi d'una fiamma terribile.
— Vuoi andare? — disse.
— Sì — rispose il maresciallo. — Vuoi accompagnarmi?
— No: io ti aspetto qui.
— Non lascerai il bled stanotte, spero.
— No, se tu lo vuoi.
— Sei adorabile.
In quell'istante Afza fissò il petto del maresciallo con tale intensità che il soldato se ne accorse.
— Che cosa guardi, Afza? — le chiese.
— La tua medaglia.
— È il mio orgoglio.
— Lascia che la veda bene.
— Guardala pure.
Afza, sempre pallidissima ma risoluta s'avvicinò al maresciallo e prese colla mano sinistra la medaglia, mentre colla destra afferrava saldamente il pugnale.
— Al valore — disse.
— Guadagnata dopo la guerra del Senegal. Un giorno mi frutterà, spero, il nastrino rosso della Legion d'Onore.
— Eccolo! — gridò Afza.
L'affilatissimo pugnale era scomparso, fino all'impugnatura, nel petto del soldato, proprio sotto il posto occupato dalla medaglia.
Il maresciallo si trovava in quel momento dinanzi ad un divano e vi cadde sopra di peso, chiamando, con voce semispenta: — Ribot!... Aiuto!... Ribot!...
Poi svenne, mentre una larga macchia di sangue si stendeva stentatamente sulla bianca giacca.
Afza si preparava a fuggire, quando la porta si aprì e comparve il sergente. In un lampo capì tutto.
— Che cos'hai fatto, disgraziata? — chiese alla giovane mora che stringeva ancora il pugnale, pronta a difendersi.
— Il Raggio dell'Atlante ha liberato il bled dal suo carnefice... — rispose fieramente Afza.
— Ed ora?
— Fuggiamo tutti.
— Io no!
— Come vuoi.
— Ah! Che brutta nottata!
Afza stava per slanciarsi fuori, quando il sergente con un gesto imperioso l'arrestò.
— Aspetta un momento, terribile donna — disse poi. — Vuoi farti fucilare dalle sentinelle? Qualcuna veglia ancora.
S'accostò al maresciallo il quale pareva morto, e gli aprì rapidamente la giacca.
— Diavolo! — borbottò. — Ecco un colpo di pugnale magnifico. Non so come se la caverà questo povero uomo.
Prese di sulla tavola un paio di salviette, fasciò abilmente la ferita per impedire che il sangue continuasse a sgorgare, poi disse ad Afza, la quale guardava freddamente la sua vittima:
— Ti avverto che se riescono a prenderti nessuno avrà compassione di te: né della tua giovinezza, né della tua beltà. Se invece di me fosse accorso in questo momento un altro graduato, fra otto giorni dormiresti sottoterra con del buon piombo nel petto. Fortunatamente hai dinanzi a te un gentiluomo. Seguimi subito.
— Dove mi conduci? In qualche cella di rigore?
Ribot alzò le spalle.
— Vieni — disse poi. — Io non tradisco gli amici del bled.
— E gli altri? — chiese Afza.
— Hanno tolto le sbarre e attendono accovacciati dietro il tuo mahari.
— Morrà quell'uomo? — disse, indicando il maresciallo.
— Chi lo sa! Sarebbe meglio che attraversasse lo Stige sulla barca di messer Caronte, perché se tornasse in vita non ti lascerebbe un momento di tregua. Vieni: l'uragano favorisce la vostra fuga.
In quello stesso momento un tuono spaventevole rimbombò fra le tempestose nubi, facendo tremare le baracche del bled e la casa bianca dei sott'ufficiali.
La tempesta scoppiava.