Sull'Atlante/24. L'attacco alla corriera

24. L'attacco alla corriera

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24. L'attacco alla corriera
23. Il prezzo del tradimento

24.

L'ATTACCO ALLA CORRIERA


La caccia alla corriera cominciava.

I baldi figli dell'Atlante, sempre ansiosi di misurarsi contro i conquistatori del loro paese, al grido di Hassi si erano slanciati attraverso la pianura col yatagan fra i denti ed i lunghi fucili dal calcio quadro ed intarsiato di piastrelle d'avorio e d'argento nella destra.

Erano magnifici, a vederli galoppare sfrenatamente sui loro bianchi cavalli dalle lunghissime criniere, con le loro cappe infioccate svolazzanti che avevano dei bagliori di fuoco, essendo ornate in fondo da una larga striscia rossa.

S'avanzavano compatti, urlando ferocemente e facendo sollevare ai loro destrieri una nuvolaglia di polvere per impedire al nemico di prenderli subito di mira.

Il maresciallo, avendo ormai capito che dopo i beduini di El-Madar, anche Ribot ed i suoi spahis erano caduti, aveva subito dato l'ordine di mettere la corriera in corsa.

La pesante carcassa, trascinata da' suoi quattro vigorosi cavalli, si era gettata attraverso la pianura, traballando orribilmente. Gli spahis, al comando di Bassot, si erano radunati dietro di essa pronti a far fronte alla carica turbinosa dei Cabili.

Nessuno poteva però farsi delle rosee illusioni. Era impossibile ormai sfuggire ad un combattimento, poiché i Cabili, meglio montati forse, guadagnavano rapidamente terreno.

— Sferza, postiglione! — urlava senza posa il maresciallo, che cominciava a perdere la testa. — Fa' correre di più le tue lumache! Sangue di Satana! Che cosa sta per succedere ora?

I colpi di frusta grandinavano sulle groppe delle povere bestie, che facevano degli sforzi supremi per trascinare in una corsa furiosa il grosso veicolo, però si trovavano impotenti a gareggiare cogli inseguitori, i quali manovravano già in modo da chiudere in cerchio spahis e prigionieri.

Il maresciallo, di quando in quando, si volgeva verso Bassot, chiedendogli con una certa preoccupazione:

— Che l'abbiano proprio con noi, sergente?

— Pare — rispondeva Bassot non meno impensierito della brutta piega che prendevano le cose.

— Che cosa vogliono, quei bricconi?

— Spazzarci via, a quanto sembra.

— Sei sicuro de' tuoi uomini?

— Li tengo tutti in pugno, e quando voi l'ordinerete, caricheremo.

— Non aver fretta: aspetta che il primo colpo di fucile lo sparino loro.

— Devono averlo già sparato, maresciallo, poiché Ribot ed i suoi uomini non sono più tornati.

— Forse t'inganni: aspettiamo ancora.

La corriera continuava la sua fuga disordinata, passando in mezzo a sterpi e cespugli, e rasentando crepacci larghissimi. Ad ogni istante pareva che dovesse rovesciarsi e restare immobile per sempre.

Quella corsa durava da una mezz'ora, quando i Cabili, che a poco a poco si erano distesi in semicerchio, furono veduti accostarsi ventre a terra.

— Bassot! — gridò il maresciallo estraendo la sciabola. — Ci caricano!

— Lo vedo — rispose il sergente.

— Vuoi tentare un contr'attacco?

— Se lo volete.

— Noi intanto cercheremo di guadagnare via. Sfonda le linee e ritorna al più presto possibile.

— Sì, maresciallo — rispose il sergente, che era un uomo che aveva del fegato e che aveva già altre volte combattuto contro i Cabili dell'Atlante.

Guardò i suoi uomini.

Erano tutti tranquilli come se fossero pienamente sicuri di aver subito ragione, con una carica furiosa, dei Cabili.

— Lasciate in pace i moschetti! — gridò Bassot. — Lavoriamo di sciabola e di pistola. A me, spahis! Viva la Francia!

I diciotto uomini allentarono le briglie e partirono ventre a terra per sfondare il semicerchio che minacciava di diventare, da un momento all'altro, un vero cerchio.

La corriera intanto aveva continuata la sua corsa fra un incessante scoppiettar di colpi di frusta.

I due drappelli si correvano addosso con foga selvaggia, impazienti di venire alle mani.

Bassot, quantunque dubitasse fortemente di aver ragione dei nemici troppo numerosi e ben risoluti a contrastargli il passo, conduceva brillantemente la carica.

Già non si trovava che ad una trentina di passi dai Cabili, quando, fra il vociare confuso ed il nitrire dei cavalli, si udì una voce tuonante gridare:

— Fuoco!

Era stato Hassi che aveva lanciato quel grido.

I Cabili, non meno abili cavalieri dei marocchini, arrestarono quasi di colpo i loro cavalli, facendoli piegare fino quasi a terra, abbassarono i loro moschettoni e spararono sul drappello una trentina di colpi.

Parecchi spahis vuotarono l'arcione colpiti a morte; gli altri, però, continuarono valorosamente la carica e passarono come un uragano attraverso i Cabili, scaricando le loro pistole e menando furiosamente le sciabole. Quando però cercarono di riordinarsi per ritentare la carica, s'accorsero di essere rimasti solamente in sedici e di non aver più con loro Bassot, che era rimasto sul campo di battaglia col petto attraversato da varie palle.

Non era più il caso di affrontare un altro corpo a corpo. Spaventati per le gravi perdite subite e per la morte del loro comandante, dopo una breve esitazione, si gettarono attraverso alla pianura per raggiungere la corriera e mettersi agli ordini del maresciallo.

Un caporale che era sfuggito miracolosamente alla micidialissima scarica, ma che peraltro aveva ricevuto in fronte un colpo di yatagan, fortunatamente non grave, aveva assunto il comando del drappello e curava che nessuno de' suoi rimanesse indietro, dovendoci essere dei cavalli feriti.

Fortunatamente i Cabili, che parevano non aver molta premura di sterminare quel gruppo d'uomini, si erano fermati per raccogliere i loro feriti e per finire, com'era loro costume, quelli degli avversari.

Il drappello passò a corsa sfrenata dietro i Cabili, scambiando dei colpi di moschetto, e galoppò furiosamente verso la corriera, la quale procedeva a sbalzelloni fra i sagrati del maresciallo e le urla del postiglione.

I Cabili, dopo qualche minuto, si erano rimessi in corsa, riprendendo il fuoco a lunga distanza.

Gli spahis furono però lesti a mettersi fuori di portata ed a raggiungere la corriera, la quale si era fermata, semirovesciata, sul margine di una profonda spaccatura ingombra di arbusti.

— Battuti? — urlò il maresciallo alzandosi sul cassetto.

— E decimati, signore — rispose il caporale, tergendosi il sangue che gli grondava dalla ferita.

— I miei uomini farsi battere?

— Hanno il diavolo in corpo, quei Cabili, e resistono meravigliosamente alla carica.

— Perché ci inseguono?

— Che ne so io?

— Che abbiano intenzione di liberare i prigionieri? Ah! Per tutte le balene dei mari del mondo, non me li lascerò strappare! Postiglione, libera i cavalli, e da' a me il più robusto. Ormai è inutile continuare la fuga.

Scese da cassetta e passò rapidamente in rivista i suoi uomini. Quattro o cinque avevano ricevuto dei colpi di yatagan e parecchi cavalli sanguinavano.

— Corpo di una foca putrida! — esclamò. — Siamo male in gambe. Cerchiamo di prendere tempo. Vi è tra voi un uomo tanto coraggioso da recarsi a chiedere a quei Cabili che cosa vogliono e perché ci assalgono? Prometto un avanzamento immediato.

— Eccomi, maresciallo — disse il caporale facendo fare al suo cavallo un magnifico volteggio, come per dimostrargli che non si trovava fra il numero dei feriti.

— Hai la testa rotta, tu, mio bravo.

— La mano però è sempre pronta.

— Inalbera sul tuo moschetto una pezzuola qualunque, un fazzoletto, e va' a parlamentare con quei briganti. Intanto io preparerò la difesa.

Lo spahi si affrettò a obbedire e si allontanò al galoppo, muovendo incontro ai Cabili, i quali non cessavano di avanzarsi, ora però con qualche prudenza.

— Voi altri, — proseguì il maresciallo, rivolgendosi ai rimasti — scendete di sella, fate coricare i vostri cavalli, sdraiatevi dietro, e quando io vi darò l'ordine fate lavorare, il più rapidamente che vi sarà possibile, i moschetti. In quanto a te, postiglione, conduci pure qui le tue bestie, e cerca di formare una barricata di carne. Se non stanno ferme, ammazzale con un colpo di yatagan.

Prese quelle disposizioni, il maresciallo si accostò ad una portiera della pesante vettura, e mostrando ai prigionieri una pistola a due canne, disse loro:

— Vi avverto che se durante il combattimento tenterete di scappare, queste palle sono per voi.

— Stiamo troppo bene così — disse Enrico, il quale ormai aveva perfettamente capito che i Cabili dell'Atlante accorrevano in loro soccorso. — E poi siamo più o meno al coperto dalle palle di quei briganti, signor maresciallo.

Il comandante che aveva capita l'ironia contenuta nella risposta, volse le spalle bestemmiando e raggiunse i suoi uomini, che avevano fatto coricare i loro animali intorno alla corriera per avere, per modo di dire, un punto d'appoggio e si tenevano pronti a far tuonare i loro moschetti.

I Cabili vedendo giungere il parlamentario, si erano fermati, poi con una mossa fulminea lo avevano circondato impedendogli ogni via di scampo.

Il maresciallo per un momento ebbe il timore di aver sacrificato inutilmente il suo caporale, però s'ingannava. Infatti, dopo pochi minuti, le file dei Cabili si riaprivano e lo spahi ritornò, senz'essere molestato, verso i compagni.

— Che cosa vogliono dunque quei briganti? — chiese il maresciallo, quando il caporale balzò a terra.

— La consegna immediata della corriera, signore.

— E che? Quegli imbecilli scendono dalla montagna per prendersi questa vecchia carcassa ormai fuori d'uso? Se è per questo, io sono pronto a regalargliela.

— Vogliono però anche il contenuto, maresciallo.

— Vogliono i prigionieri?

— Me lo hanno dichiarato nettamente.

— Oh, questi non li avranno mai!

— Allora prepariamoci a sostenere un combattimento disperato, poiché il loro capo mi ha detto che se noi ci rifiutiamo di obbedire, ci spazzerà via tutti, sia pur con dispiacere.

— Il coccodrillo! — urlò il maresciallo.

Armò la sua pistola a due colpi, sguainò la sua sciabola, dicendo ai suoi uomini con voce molto commossa:

— Ragazzi, ricordatevi che i figli della Grande Nazione che ha fatto tremare l'Europa intera, cadono ma non si arrendono. Gridate «Viva la Francia!» e preparatevi a combattere eroicamente. Caporale! Ordina il fuoco!

Un grido altissimo echeggiò nella vasta pianura bruciata dal sole, propagandosi fino alle prime gole dell'Atlante:

— Viva la Francia!

Poi seguì uno squillo di tromba: si comandava il fuoco. Gli spahis ben decisi a vendere cara la vita, non facevano economia di cartucce e sparavano sui gruppi di cavalieri, i quali alla lor volta rispondevano non meno vigorosamente e non certo con loro svantaggio, dato il loro numero.

Per dieci minuti fu vivissimo lo scambio di fucilate da una parte e dall'altra, con più danno dei cavalli che dei cavalieri; poi i Cabili, impazienti di finirla con quel gruppo di uomini si slanciarono alla carica con la loro solita furia.

Malgrado il fuoco continuo, giunsero addosso alla corriera, balzarono sopra gli spahis coricati al suolo, facendo impennare i loro cavalli, e dopo d'averli sciabolati prima ancora che avessero avuto il tempo di alzarsi, passarono oltre trasportati in un galoppo sfrenato.

Quella carica, come era già da prevedersi, era stata purtroppo disastrosa pei valorosi figli della Francia.

Uno solo era rimasto incolume, e si era affrettato a balzare su un cavallo allontanandosi ventre a terra, forse colla speranza di raggiungere qualche bled dell'Algeria meridionale, e raccogliere soccorsi.

Altri quattro si erano rimessi pure in piedi più o meno feriti dagli yatagan dei Cabili. Tra i feriti v'era il maresciallo, il quale peraltro si era presa una palla nella scapola sinistra.

Avevano appena raccolte le armi, che già i figli dell'Atlante tornavano alla carica per spazzare via anche quegli ultimi avanzi.

Hassi-el-Biac non lasciò che i cavalieri giungessero fino ai francesi.

— Maresciallo! — gridò, avendo subito riconosciuto il comandante del bled che sua figlia aveva pugnalato. — Noi abbiamo ammirato il valore dei frangi. Ogni resistenza da parte vostra è inutile, e v'invito ad arrendervi per non costringerci a commettere un inutile massacro.

— Arrenderci? Ed a chi? — disse il maresciallo che, malgrado i dolori acuti prodottigli dalla ferita, faceva fare alla sua sciabola dei terribili mulinelli.

— Ai Cabili dell'Atlante — rispose Hassi.

— Con quale diritto si sono messi in guerra senza farci nessuna dichiarazione?

— Non ne avevamo il tempo. Orsù, maresciallo, sbrigatevi.

Il baffuto comandante interrogò cogli occhi i suoi tre uomini, poi gettò lungi da sé la sciabola, dicendo:

— Imitatemi, ragazzi. Più tardi la Francia penserà a vendicarci.

Poi s'avanzò verso il moro, non senza aver prima gettato uno sguardo feroce entro la corriera e gli chiese:

— Che cosa ne farai di noi?

— Rimarrete come ostaggi, con promessa di non torcervi un capello. Quando tutto sarà finito, potrete tornare al bled.

— E dovremo noi fidarci della parola di briganti pari vostri? — chiese il maresciallo ironicamente.

— M'impegno io di farla rispettare.

Il maresciallo parve riflettere, poi trasse dalla guaina la pistola a due colpi come per consegnarla, ma ad un tratto girò rapidamente su se stesso precipitandosi, con un salto da tigre, verso la portiera della corriera, gridando:

— Bisogna che ti uccida, Afza! L'ho giurato!

Aveva già tesa la pistola, quando Hassi ed Ani, che lo sorvegliavano attentamente, lo prevennero.

Furono invece due colpi di fucile che rintronarono quasi contemporaneamente, invece di due colpi di pistola. Il maresciallo girò due volte su se stesso portandosi le mani al petto, poi stramazzò a terra fulminato.

— Giustizia è fatta! — disse Hassi.

I Cabili, temendo qualche altro tradimento da parte dei francesi, si preparavano a fucilarli, quando il moro ancora una volta intervenne.

— Figli dell'Atlante! — gridò. — Il grande capo dei Senussi Sidi-Omar vi ha affidati a me, e voi mi dovete obbedire. Vi ordino di lasciare in pace quei tre uomini che si sono battuti valorosamente, e di non togliere a loro che le armi. Obbedite!

Poi con Ani si slanciò verso la portiera della pesante vettura, mentre di dentro si udì Afza gridare:

— Mio padre! Mio padre! Siamo salvi!

I due prigionieri e la giovane donna, estremamente commossi, furono fatti scendere e sciolti subito dai legami.

— Padre! — disse il conte con grazia. — Ti devo la mia felicità e la mia vita.

— Ed io la mia pelle, babbo moro! — gridò Enrico.

Afza si era precipitata fra le braccia di suo marito, stringendoselo fortemente al seno, come se temesse che qualcuno cercasse ancora di toglierglielo e lo guardava sorridendo e piangendo ad un tempo, mentre Enrico, non sapendo come manifestare la sua gioia, eseguiva una serie di meravigliosi salti mortali, che strappavano ai Cabili grida d'ammirazione.

— Figli miei, — disse Hassi, — giacché abbiamo avuto la fortuna di salvarvi, non aspettiamo qualche altro pericolo. Solo sull'Atlante noi saremo veramente al sicuro. Partiamo quindi senza indugio.

I cavalli non mancavano poiché molti cavalieri erano rimasti senza vita sul campo di battaglia, sicché Afza, il conte ed Enrico furono subito montati su bellissimi animali dell'Atlante.

Già la colonna si era organizzata e si preparava a partire, quando ad un tratto si udì squillare in lontananza una fanfara. Tutti si erano voltati. All'orizzonte sfilava una massa di cavalleria, probabilmente un intero reggimento in moto per cambio di guarnigione, e avendo udito tutti quegli spari accorreva a gran galoppo per vedere di che cosa si trattava. Hassi non aveva potuto frenare un'imprecazione.

— Sia maledetto il Profeta che ci nega la sua protezione!

Poi alzando la voce comandò:

— In ritirata verso la gola!

I Cabili si erano messi in corsa con Hassi ed i suoi amici in testa.

Una grande confusione cominciava a regnare fra i fuggiaschi, i quali si vedevano a loro volta a mal partito, poiché il reggimento avendo scorto i bianchi mantelli dei Cabili, ed immaginandosi che qualche grave avvenimento fosse avvenuto, s'avanzava celerissimo, sparando già qualche colpo di moschetto.

Fortunatamente la gola non era lontana, ed essendo semichiusa da uno sperone roccioso, era facile a difendersi, almeno per qualche ora.

Ciò che preoccupava Hassi era la dote di Afza, che non voleva assolutamente abbandonare.

— È necessario — disse al conte e ad Enrico — tener testa a quei frangi, almeno fin a che io l'abbia disseppellita. Sarà l'affare di mezz'ora.

— Dammi trenta Cabili, e m'incarico io di tenere in iscacco quei cavalieri — disse il toscano. — Tu, conte, poni in salvo subito Afza sulla montagna, e manda il marabuto a chiedere soccorsi ai villaggi più prossimi.

— Bada di non lasciarti prendere, amico — rispose il conte.

— Quando la dote del Raggio dell'Atlante sarà in salvo e voi pure, io risalirò lestamente la gola. I Cabili dei villaggi appoggeranno come meglio potranno la mia ritirata.

Stavano per precipitarsi confusamente entro la gola, quando comparve Ribot, accompagnato, o meglio, guardato da quattro Cabili.

Un vero grido di gioia era sfuggito dalle labbra del conte, di Enrico ed anche di Afza, poiché tutti avevano creduto che anche quel bravo sergente fosse stato travolto sotto le furiose cariche dei figli dell'Atlante. Ebbero appena il tempo di scambiarsi un sorriso ed un saluto colla mano.

I Cabili incalzavano da una parte e dall'altra della gola, per mettersi al coperto dalle palle che cominciavano già a fioccare in gran numero.

Hassi non aveva però perduto la sua calma. Contò trenta uomini, li fece scendere da cavallo, e li lanciò sullo sperone roccioso per trattenere il nemico, almeno finché metteva in salvo Afza e la sua dote.

— Andate, amici — disse Enrico, prima di separarsi da loro. — Penso io ad arrestare gli spahis. Ci rivedremo più tardi sull'Atlante.

Non vi era un solo momento da perdere. Il reggimento caricava colle briglie fra i denti, sparando i moschetti.

Procedeva di gran corsa, spiegato in forma d'angolo per poter meglio bloccare l'uscita della valle.

Enrico aveva appena disposti i suoi trenta uomini dietro le rocce, e stava per comandare il fuoco, quando si sentì battere su una spalla.

Si volse e si vide innanzi Ribot.

— Tu qui! — esclamò. — Perché non hai seguito il conte?

— Il mio posto non è presso il Raggio dell'Atlante — rispose il sergente con un sospiro.

— Ma nemmeno qui. Tu non puoi combattere contro i tuoi compatrioti.

— Io non brucerò una sola carica.

— Fuggi finché c'è tempo. Io non so che cosa potrà succedere fra mezz'ora. Va', amico, tu sei libero.

Ribot scosse il capo.

— No — disse poi. — Lasciami vedere questa battaglia.

— La morte può spazzare tutti.

— Che cosa m'importa della vita ormai? Del bled ne ho abbastanza.

Si arrampicò sopra una roccia e si sedette, nascondendosi il capo fra le mani.

— Io temo che quel brav'uomo sia diventato pazzo, o che cerchi qui la sua fine. Siamo a buon tiro. Cerchiamo di trattenere il reggimento.

Lanciò un rapido sguardo verso la valle che si apriva dietro lo sperone roccioso.

A cinquecento passi il moro ed Ani aiutati da alcuni Cabili scavavano rabbiosamente per mettere in salvo i due preziosi cofani; mille metri più in alto il conte galoppava, portando in groppa Afza, scortato pure da un gruppo di montanari, i quali sparavano in aria per attirare l'attenzione degli abitanti dell'Atlante.

— Non ti prenderanno più — disse il toscano. — Diamo battaglia, e teniamo duro.

Gli spahis erano già giunti a tiro di moschetto, ed avevano posto piede a terra, avanzandosi in linea dispersa.

L'angolo si era maggiormente allargato, minacciando di spingere le sue due estremità fra i due passaggi della gola.

— Amici! — gridò il toscano. — Non vi trattengo più! Fuoco!

I Cabili non si erano fatto ripetere due volte l'ordine; però si accorsero subito di non poter tener testa a quei milleduecento uomini che correvano audacemente all'assalto dello sperone, sostenendosi con delle scariche nutritissime.

Le palle fischiavano da tutte le parti, ed i baldi figli della montagna, oppressi da quella grandine, cadevano a tre, a quattro alla volta.

Enrico, comprendendo che la situazione stava per diventare terribile, si preparava a ordinare la ritirata, quando vide Ribot, che non aveva abbandonato il suo posto, sfidando le palle, ripiegarsi su se stesso.

— Amico! — gridò, arrampicandosi fino a lui, a rischio di venire fulminato.

Gli sollevò il capo, e subito lo lasciò ricadere, mandando un grido di dolore.

Una palla di moschetto aveva spaccata la fronte al disgraziato sergente, il quale era morto sul colpo.

— Ecco un altro che è morto pel Raggio dell'Atlante — disse il toscano con un profondo sospiro.

Si lasciò scivolare giù dalla roccia, e si guardò intorno sbigottito.

Non gli rimanevano che otto o dieci uomini e gli spahis, che erano riusciti a penetrare nella gola, montavano all'assalto dello sperone colla tradizionale furia francese.

Quel valoroso, che fino allora aveva scherzato con la morte, si sentì prendere da una profonda angoscia.

— Ecco la fine — disse.

Guardò verso la gola. Una nuvolaglia di mantelli bianchi scendeva a precipizio per contrastare il passo agli spahis.

Il conte ed Hassi-el-Biac, messa in salvo Afza e la sua dote, si erano posti alla testa dei montanari calati da tutti i vicini villaggi e si precipitavano verso lo sperone nella speranza di salvare gli ultimi difensori.

Ahimè! Quei soccorsi giungevano ormai troppo tardi!

Gli spahis con un ultimo slancio avevano superato le ultime creste di quell'ammasso di rocce, ed erano piombati sugli ultimi Cabili massacrandoli sul posto.

Un sergente si era avventato contro Enrico, — il quale ormai aveva gettato via il fucile — e lo aveva afferrato per il petto, dicendogli:

— Tu sei un uomo morto!

Il toscano sorrise tristamente, poi rispose con voce tranquilla:

— Non era necessario che tu ti disturbassi a dirmelo, amico. Ho perduto la partita e sono pronto a pagare.

Il comandante del reggimento, vedendo precipitare dalla montagna quella turba di Cabili, aveva fatto suonare la ritirata, non osando impegnare una lotta entro quella gola.

Lo sperone fu prontamente sgombrato dagli spahis, che lo avevano preso d'assalto.

L'Atlante, in quel momento, cominciava a rumoreggiare sinistramente. Colpi di fuoco risuonavano sui margini delle valli, sotto le boscaglie, nei villaggi, dentro la profonda gola.

La montagna fiammeggiava tutta, ma troppo tardi!

Il reggimento, che cominciava a soffrire perdite considerevoli, riguadagnò lestamente la pianura, portando seco il disgraziato toscano, montò in sella e partì ventre a terra fra un'immensa nuvola di polvere, mentre sull'Atlante rumoreggiavano ancora gli ultimi colpi di fucile.

Quindici giorni dopo, il conte, Hassi-el-Biac, Afza ed Ani, guidati dal marabuto, scendevano, con la morte nel cuore, gli ultimi contrafforti della grande catena di levante, calando sulla frontiera tripolitana.

In quei quindici giorni non avevano fatto altro che piangere l'amico devoto, che si era sacrificato per loro e che ormai nessuna forza umana poteva strappare alla morte.

Ormai erano al sicuro sulla terra turca e potevano guadagnare senza difficoltà Tripoli, dove imbarcarsi per Fiume, il maggior porto dalmata.

Ventiquattr'ore dopo che essi avevano lasciato per sempre la terra africana, Enrico il toscano cadeva nei fossati di Orano sotto una scarica della prima compagnia della Legione straniera.

Il Consiglio di guerra era stato inesorabile.