Sull'Atlante/17. La carovana dei beduini

17. La carovana dei beduini

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17. La carovana dei beduini
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17.

LA CAROVANA DEI BEDUINI


Giunto presso gli ultimi gradini, Enrico si era fermato come se gli fosse improvvisamente mancato il coraggio di andare più innanzi.

Era diventato pallidissimo; grosse gocce di sudore gli cadevano dalla fronte, ed un tremito convulso gli scuoteva le braccia che teneva sempre tese in alto, con le due pistole in pugno.

— Corpo di una balena! — borbottò. — Si direbbe che io ho paura!

I suoi compagni, che si erano accorti della sua improvvisa agitazione, d'altronde naturalissima, gli avevano subito fatto segno di tornare indietro; però il valoroso legionario aveva risposto con una scrollata di spalle.

— Non sono già un ragazzo, — aveva mormorato — per fare una così vergognosa ritirata. Dopo tutto ho quattro palle a mia disposizione, e saprò, al momento opportuno, dove collocarle.

Si era messo in ascolto. Nessun urlo, nessuno scroscio di risa, nessun ruggito rompeva il silenzio che regnava sull'immensa pianura; però agli orecchi del legionario giungeva un rumore indistinto, che pareva prodotto dal respirare d'una moltitudine di esseri viventi.

— Dopo essersi sbranati fra di loro si sono addormentati — mormorò il toscano. — Ora, considerato che qualunque individuo, umano od animalesco, non è mai pericoloso quando russa saporitamente, posso ben prendere un po' di coraggio ed andar a vedere che cosa succede intorno a questa dannata cuba, che sembra maledetta dal Profeta. Orsù, mio caro, questo non è il momento di mostrarsi un legionario in gonnella.

Sempre tenendo puntate le due pistole si rimise in moto, cercando di non produrre il menomo rumore, e quando giunse sull'ultimo gradino sporse il capo dall'apertura.

Non si era ingannato. Sciacalli, jene e leoni dormivano profondamente gli uni accanto agli altri, dentro e fuori le rovine della cuba.

Essendo la luna già sorta, Enrico aveva potuto, con un solo sguardo, abbracciare quel campo di addormentati.

— Corpo di un bue, — disse — che non vogliano proprio più lasciarci finché non avranno assaggiate le nostre bistecche? Se con noi vi fosse quella canaglia di Bassot, scommetterei che a quest'ora avrebbe offerto, almeno ai leoni, il marabuto ed il vecchio Ani. Noi però siamo onesti, ed a questi animalacci non daremo che del piombo e nella maggior quantità possibile.

Stava per ritirarsi, quando vide sorgere fra una massa enorme di addormentati una testa, e subito scintillare due occhi di fuoco.

Enrico si era fermato, tenendo rivolte a terra le due pistole, affinchè i raggi della luna non facessero brillare le canne.

Aveva subito capito d'aver da fare con uno di quei signori dalla lunga criniera che se ruggiscono forte picchiano e sbranano anche meglio.

Il leone, forse a sua volta sorpreso di veder sorgere quella testa umana da terra, era pure rimasto fermo, guardando più con curiosità che con collera il casco di tela del legionario.

— Qui ci vorrebbe un fotografo — mormorò Enrico. — Preferirei, però di trovarmi al sicuro nel sepolcreto.

Guardò il leone, che sbadigliava mostrando certi denti da far paura anche ad un coccodrillo; poi, vedendo che non si decideva a muoversi si ritrasse lentamente, con delle mosse quasi impercettibili, per non provocare un improvviso attacco.

Appena la sua testa si trovò sotto l'apertura e quindi al riparo da un colpo di zampa, si gettò a rotta di collo giù dalla scaletta.

Non era ancora giunto in fondo, che la luce proiettata dalla luna spariva quasi completamente come se l'apertura del sepolcreto fosse stata ostruita da qualche corpo gigantesco.

— Ohe! — esclamò Enrico. — Abbiamo qualche eclissi lunare forse? È buio qui!

— Hanno chiuso il passaggio — disse Hassi.

— Chi è quel mascalzone?

— Un bestione di certo — rispose il conte.

— Una nuova visita? Sia la benvenuta poiché io comincio ad avere dell'altra sete. Le fontane vengono da noi invece che noi andiamo a cercarle. Ehi, amico, hai guardato abbastanza? Vi sono molti uomini, ma poche polpe da divorare, canaglia ingorda!

L'animale che aveva cacciato la sua testa enorme attraverso l'apertura, aveva risposto con un soffio potente, senza però togliersi da quel posto.

Il toscano ebbe uno scatto di collera.

— Levati di lì, mascalzone! Sei troppo curioso tu! Il tuo compagno era un po' più educato!

Il sepolcreto rintronò di un ruggito assordante, terribile.

— Non occorreva annunciarvi — disse il legionario. — Conosciamo ormai questi pretesi re dell'Atlante e vi avvertiamo, maestà, che siamo uomini ben risoluti a vendere cara la nostra pelle. Tu hai del sangue nel tuo corpo, io lo berrò. Ani, dammi un fucile.

— Che cosa vuoi fare, Enrico? — gridò il conte. — Se non ci dà noia lascia che ci guardi.

— Io non ho mai amato i curiosi — disse il legionario.

In quel momento l'enorme massa si ritrasse, lasciando passare un po' di luce.

— Ecco l'eclisse finita — disse l'eterno chiacchierone. — Non è però cessato il pericolo. Voglio perdere il mio cappello e prendermi la pelle di un altro leone. Corpo di un bue salato! Ne ho fino sopra gli occhi di queste bestie, e voglio bere alla fonte io! Il tuo fucile, Ani!

— Eccolo, signore — rispose il vecchio negro.

— Hai mai veduto, tu, prendere un leone con un cappello?

— Io no, signore.

— È un giuoco che potrai insegnare ai tuoi compatrioti se avranno un cappello a loro disposizione, cosa di cui dubito assai, poiché voi fate a meno di tutti i cappellai del mondo noto ed ignoto.

— Diventi pazzo, Enrico? — chiese il conte, il quale non riusciva a capire che cosa voleva fare quell'originale.

— Non sono un marabuto, io — rispose gravemente il toscano. — Non è vero, Muley-Hari?

Il santone credette opportuno di non rispondere.

— Tu scherzi troppo coi leoni, Enrico — disse il conte.

— Scherzavo anche coi topi che infestavano il bastimento di mio padre.

— Bel paragone!

— Che cosa dici, conte? Erano così feroci, che una notte per poco non mi mangiarono il naso ed un orecchio. Porto ancora le impronte dei loro terribilissimi denti. Babbo moro, il tuo fucile. È carico?

— Non hai che da premere il grilletto.

— Allora ti farò vedere, caro babbo moro, come gl'italiani cacciano i leoni. A noi basta un misero cappello.

Il conte non potè frenare uno scoppio di risa.

— Pare che anche l'Italia sia infestata di belve feroci, a udire quel mattacchione.

— Abbiamo i briganti, che talvolta sono assai più pericolosi dei leoni dell'Atlante. Orsù, in caccia!

Si tolse il cappello e lo mise sulla canna del fucile, poi si mise a salire la scaletta perfettamente tranquillo questa volta. Si vedeva che aveva piena fiducia nel suo progetto.

— Ho capito — disse il conte. — Tu però, Hassi, prendi un altro fucile e sii pronto ad appoggiarlo vigorosamente se viene assalito. Non si sa mai quello che può succedere.

— Non perderò di vista un solo istante il tuo amico, figlio — rispose il moro.

In quel momento l'oscurità tornò ad invadere il sepolcreto. L'enorme massa si era gettata attraverso l'apertura e tornava a spiare quello che succedeva là dentro.

Il toscano non si era però fermato. Continuava a salire tenendo il fucile molto alto, coll'intenzione di far addentare il berretto dal leone o leonessa che fosse, per poi fulminarla.

Un ruggito che lo assordò completamente lo fermò presso gli ultimi gradini.

— Una leonessa — disse Hassi. — Non sarà meno pericolosa di un maschio.

Il conte si era alzato, impugnando le pistole.

— Corpo di un bue! — borbottò Enrico il quale esitava a salire più in alto. — Questo animalaccio non vuole proprio lasciare il posto. Se crede però di stritolare la mia testa, s'inganna assai. Sarà il cappello che se ne andrà.

La leonessa, poiché pareva che si trattasse questa volta veramente di una femmina, si ostinava ad ingombrare col suo corpaccio il passaggio. Ruggiva sordamente e colle formidabili unghie sgretolava gli angoli dell'apertura, facendo cadere addosso al toscano dei frammenti di calcinaccio.

— Enrico! — gridò il conte, vedendo che l'amico era esitante. — Torna indietro e lascia fare ai nostri fucili ed alle nostre pistole. La bestia si presenta magnificamente per una scarica.

— No — rispose il testardo. — Voglio che assaggi il mio cappello.

Alzò il fucile ed accostò il cappello alla bocca della leonessa. Questa, vedendo quell'oggetto strano, arretrò un momento poi l'addentò ferocemente, credendo di stritolare una testa umana.

Risuonò subito una detonazione secca. Il toscano aveva fatto fuoco e la belva aveva inghiottito nel medesimo tempo il piombo, il fuoco ed il fumo.

Il conte ed i suoi compagni videro allora, con loro grande spavento, rotolare giù dalla scala l'uomo e la leonessa quasi stretti l'uno all'altra.

Hassi ed Ani avevano gettato i fucili ed erano balzati innanzi, con gli yatagan in pugno.

La leonessa era appena giunta in fondo, che le due lame le squarciavano orribilmente il petto.

Quei due colpi di grazia erano però ormai inutili. Il colpo di fucile di Enrico le aveva fracassata la testa, facendo schizzar fuori buona parte della materia cerebrale.

— È morta! — gridò Hassi.

Enrico si era subito rialzato e guardava, come istupidito, la bestiaccia.

— Morta? — chiese.

— I nostri colpi erano inutili.

— Corpo d'un bue! Hai veduto, babbo Hassi, come si fa a cacciare i leoni coi cappelli? Spero che non lo dimenticherai.

— Tu sei un uomo assolutamente meraviglioso — disse il conte.

— Sono un inventore — rispose gravemente il toscano. — Ecco un'altra professione da metter da parte, e che mi renderà, spero, più d'ogni altra. La caccia ai leoni con un cappello! Un vero titolo da romanzo! Chi è che ha sete? Qui v'è un'altra fonte rossa da sfruttare. Babbo moro, tu hai sete, bevi dunque, e non fare smorfie. Le cose bisogna prenderle come vengono, specialmente in Algeria.

Il toscano aveva impugnato un yatagan e si preparava a scannare la leonessa, quando ad un tratto un colpo di fucile rimbombò al di fuori, subito seguito da una scarica vivissima.

— Dei colpi di fuoco! — aveva gridato lasciando cadere l'arma per afferrare un fucile.

— Gli spahis forse? — chiese il conte che era diventato pallidissimo e si era stretto al petto Afza.

— Ma no! — esclamò Hassi. — Questi non sono fucili dei frangi. Sono i nostri algerini: io non posso ingannarmi.

— Chi viene dunque in nostro aiuto? — gridò il toscano. — Si dà battaglia alle bestie feroci. Accorriamo anche noi, ed aiutiamo quella brava gente. A me, Hassi! Su, Ani! Porta tutti i fucili e tutte le pistole. Voglio fare anch'io un massacro di leoni, di jene e di quei luridissimi sciacalli, corpo d'una bombarda!

— Voglio venire anch'io! — gridò il conte. — A qualche cosa potrò servire.

— Avanti allora, camerata — rispose Enrico. — Il Raggio dell'Atlante ti aiuterà!

Mentre si scambiavano quelle parole, le scariche continuavano al di fuori con una certa regolarità. Agli spari seguivano urla, ruggiti, ululati spaventevoli, scoppi di risa.

Pareva che gli assedianti non si trovassero troppo bene sotto quella tempesta di piombo, che doveva decimarli per bene.

In un momento Enrico, Ani, il marabuto ed Hassi avevano salita la scala e si erano precipitati fuori dal sepolcreto, portando ciascuno un paio di fucili ed un paio di pistoloni a doppia canna.

Le belve avevano sgombrato le rovine e si erano ammassate verso la fonte, ululando e ruggendo sempre spaventosamente.

A trecento passi da loro, una carovana formata d'una quarantina di cammelli e di una mezza dozzina di cavalli, tutti abbastanza carichi, stava ferma.

Degli uomini, che portavano degli ampi mantelli di lana scura e dei turbanti immensi, si erano spiegati alla bersagliera sulla fronte della carovana e seminascosti fra gli sterpi facevano un fuoco infernale contro le belve, alternando scariche di moschetti e scariche di pistole.

— Sono beduini! — gridò Hassi, che li aveva subito riconosciuti pei loro mantelloni scuri. — Siamo salvi, spero.

— Siano beduini o Tuareg poco importa — rispose Enrico. — Non sono gli spahis di quel furfante di Bassot, quindi possiamo prender parte anche noi alla battaglia ed aiutare quei valorosi. Fuoco, amici!

Quattro spari seguirono quel comando, seguiti poco dopo da altrettanti.

I beduini, udendo quelle detonazioni, avevano sospeso per un istante il loro fuoco pel timore forse di trovarsi dinanzi a predoni pronti a mettere le mani sui carichi dei cammelli. Accortisi però che quegli sconosciuti che parevano sorti su dalla terra, dirigevano i loro colpi verso la fontana e non già verso di loro, si affrettarono a riprendere vigorosamente il fuoco.

Le belve, prese fra due fuochi e spaventate dalle gravissime perdite fatte, poiché i beduini sparavano in mezzo alla massa senza perdere una palla, si decisero finalmente a lasciare il campo.

Dopo essersi disperse si radunarono, formando una lunga colonna, e sfilarono a corsa sfrenata sulla fronte della carovana, salutate da un'ultima scarica che ne gettò ancora a terra parecchie, e scomparvero, con velocità fantastica, verso il sud.

— Buon viaggio! — gridò dietro di loro, Enrico sparando un ultimo colpo.

Cessato il fracasso della fucileria, un beduino si staccò dal gruppo dei carovanieri e si avanzò verso la cuba, o meglio, verso le rovine della cuba, tenendo il suo fucile col calcio in aria, come per dimostrare le sue buone intenzioni.

Giunto a cinque passi da Enrico si fermò, pronunciando a voce alta il saluto sacramentale:

— Salam alikum!

— Che Allah guardi te ed i tuoi cammelli — rispose il marabuto.

Ad un tratto fece un gesto di stupore.

— Io ti conosco — disse guardando attentamente il beduino che era un uomo alto di statura, magrissimo come tutti quei figli del deserto, con la pelle color del pan bigio e gli occhi piccoli, neri, scintillanti come carbonchi. — Non sei tu El Madar?

— E tu il santone Muley-Hari? — chiese a sua volta il beduino. — Ti ho portata una partita d'armi due mesi sono, per incarico d'un capo dei Senussi. Ma cos'è successo della tua cuba? Ti è crollata sulla testa?

— La cupola era troppo vecchia e non resisteva più.

— I Senussi penseranno a fabbricartene un'altra più solida, — disse il beduino — e le carovane che passeranno per di qui, parteciperanno alla spesa. A questo ci penso io.

In quell'istante il conte era comparso a braccio di Afza.

Il beduino nel vedere quell'uomo bianco la cui origine europea non poteva mettersi in dubbio, come neppure quella di Enrico, ebbe come un sussulto, e nei suoi occhi nerissimi passò un lampo.

— Posso offrirvi ospitalità nel mio accampamento? — disse con una certa nobiltà. — I miei uomini stanno già alzando le tende e prepareranno subito la cena.

— Accettiamo la tua ospitalità — rispose Enrico. — Non è la prima volta che i figli del deserto ricevono sotto le loro tende dei kafir (infedeli).

— Siamo tutti figli di Allah — sentenziò Muley Hari.

Hassi si era avvicinato al beduino, il quale, accortosi d'aver da fare con un moro, aveva ripetuto il saluto.

— Dove sei diretto? — gli chiese.

— Vado verso i villaggi cabili dell'Atlante a vendere le mie merci. Ho un bel carico di stoffe di valore, affidatemi da negozianti di Costantina.

— Quanti uomini hai?

— Una trentina, tutti bene armati; e, come hai veduto or ora, molto coraggiosi. Non hanno paura nemmeno dei leoni.

— Puoi noleggiarmi, al prezzo che tu stesso fisserai, un paio di cammelli e qualche cavallo?

— Per te o pei kafir?

— I kafir sono miei amici che godono la protezione della potente corporazione dei Senussi, e verranno con me sull'Atlante.

— Potremo metterci facilmente d'accordo — rispose El-Madar. — Seguimi al campo, ed accetta l'ospitalità che ti offro.

Hassi-el-Biac ed i suoi compagni varcarono le rovine della cuba, e si diressero verso la carovana preceduti dal beduino.

I cammellieri avevano nel frattempo scaricate le loro bestie, alzate alcune vaste tende ed accesi numerosi fuochi per tenere lontane le belve, quantunque, dopo un così terribile ricevimento, vi fosse poco da temere da parte di quelle.

I beduini, che erano in trenta circa, ricevettero cortesemente gli ospiti, ciò che è nelle loro abitudini, quantunque in fondo non siano che dei veri briganti sempre pronti, quando si presta la buona occasione, a derubare e saccheggiare i Cabili che scendono dalla montagna od i duar mori della pianura.

El-Madar introdusse i suoi ospiti nella tenda più vasta, la quale era circondata da grossi pacchi di stoffe disposti in modo da formare una piccola trincea, e fece stendere al suolo un vecchio tappeto ed una stuoia a svariati colori, che doveva servire ad un tempo da tavola e da tovaglia.

— Siete in casa vostra — disse allora con affettata cortesia che non rassicurava affatto Enrico, il quale amava quei predoni come il fumo agli occhi.

Due schiavi negri, quasi interamente nudi e di forme atletiche, entrarono subito, portando un pentolone di terra piena d'una certa brodaccia giallastra dove nuotavano insieme datteri, albicocche secche, fave ed orzo e che nondimeno tramandava un profumo piuttosto appetitoso.

El-Madar aveva fatto dispensare a tutti dei vecchi cucchiai di ferro e delle forchette quasi prive delle punte pel lunghissimo uso.

— Bisogna pescare entro questo brodaccio — disse Enrico. — Che vi sia dentro anche qualche serpente? Da' l'attacco prima tu, Muley-Hari, che te ne intendi meglio di noi, di rettili.

— Questo piatto lo troverai meno cattivo di quello che credi — disse Hassi, il quale aveva già dato l'assaggio. — Puoi mangiare tranquillamente, senza temere di pescare qualche cobra.

Il beduino si era subito ritirato per lasciarli pienamente liberi di mangiare e di chiacchierare, perciò tutti si attaccarono alla pentola, la quale ben presto fu vuotata.

Quella brodaccia giallastra non l'avevano trovata troppo cattiva, ma troppo dolce e troppo pepata.

Seguirono poi un mezzo agnello arrostito convenientemente, croccante, accompagnato da certe pallottoline di frumento che fino a un certo punto potevano surrogare il pane, quindi i due schiavi servirono un eccellente caffè e portarono pipe e tabacco.

— Grazioso questo beduino, quantunque abbia una faccia da birbante — disse Enrico caricando la pipa e sdraiandosi sul tappeto. — Come sono ospitali questi ladri!

— Ci tengono a esserlo — disse Hassi il quale aveva pur egli accesa la pipa.

— Possiamo fidarci poi di questi carissimi ladroni?

— Tutto dipende dal non lasciar capire che possediamo degli zecchini. Se si immaginassero che i miei forzieri nascondono una fortuna considerevole, non risponderei più di nulla. L'avidità del beduino è proverbiale e questi sono in numero bastante per metterci subito fuori di combattimento.

— Diremo loro che i nostri forzieri non racchiudono che palle e polvere da regalare ai briganti dell'Atlante — disse Enrico. — No, diremo anzi che contengono delle bombe pericolosissime.

— Ecco una bella trovata — disse il conte. — Delle bombe pei Cabili. Si guarderanno bene dal toccare le nostre casse.

— M'incarico io di questa faccenda — disse Enrico. — Voglio spaventarli tanto, da tenersi ben lontani dal cammello che porterà i forzieri. Parlerò loro di picrite, di cotoni fulminanti, di dinamite e di altri esplodenti ancor più spaventevoli, che inventerò lì per lì.

— Ma tu finirai per diventare un inventore meraviglioso, camerata!

— Te l'ho sempre detto, conte, che io avevo sbagliato carriera. Solamente con le bombe che ho scaraventate contro le bestie avrei fatto a quest'ora una fortuna.

— Bella invenzione! — esclamò il magnate ridendo.

— Di' quello che vuoi; hanno servito molto meglio dei nostri fucili. Non è vero, babbo moro? Non è vero, babbo carbone?

Il moro ed il negro approvarono con un gesto del capo.

— E poi non esagerate — disse il marabuto. — El-Madar sa ormai che noi tutti godiamo della protezione dei Senussi, e si guarderà bene dal toccare un capello a me e a voi. D'altronde il beduino non sempre è un brigante ed io ne ho conosciuti di onestissimi.

— Anch'io — disse Hassi-el-Biac.

— Mentre io invece li ho trovati sempre doppi, falsi e canaglie — ripicchiò Enrico.

Chissà quanto stava per mormorare sui figli del deserto, quando El-Madar entrò portando due bottiglie abbastanza polverose.

— I frangi bevono vino mentre noi mussulmani ci contentiamo dell'acqua delle nostre fonti. Avevo messo in serbo queste due bottiglie per un capo cabilo che pare non vada più d'accordo coi precetti di Maometto, perché è sempre ubriaco. Posso offrirle ai frangi?

— Tu sei il più amabile beduino che io abbia incontrato in Algeria — disse Enrico. — Da' qui, compare pan bigio, ed io e mio fratello le vuoteremo coscienziosamente. Scommetto che anche Hassi farà uno strappo, una volta tanto, alle stupide proibizioni del Profeta. Maometto era un brav'uomo, molto amante delle donne e dei gatti, però al suo posto io avrei preferito le buone bottiglie ed avrei lasciato perfino in pace la penna di luce dell'arcangelo che gli dettò il Corano. Caro conte, facciamo onore a queste due venerande bottiglie, quantunque io sia poco convinto che si tratti di vero Borgogna. Il sole dell'Algeria non è propizio pei vini francesi.

— Decapita, in mancanza di un cavaturaccioli — rispose il magnate.

Il toscano si tolse dalla cintura il yatagan e fece saltare il collo alle due bottiglie.

In mancanza di bicchieri prese una chicchera di metallo, tutta ammaccata pel lungo uso, e si mise a bere la sua bottiglia non senza fare qualche smorfia.

— Gli arabi hanno qualche volta ragione di preferire l'acqua — disse, dopo di aver vuotato quattro o cinque tazze, l'una dietro l'altra. — Se questo non è un pessimo aceto, poco ci manca. Quei negozianti borgognoni sono dei veri ladroni. In mancanza di meglio, però, anche questo può passare. Non bevere tu, babbo moro, e nemmeno tu, papà carbone. Potrebbe farvi molto male questo vino.

Le smorfie del toscano erano false, poiché quella bottiglia, quantunque avesse attraversata l'Algeria, era buonissima. Probabilmente il furbo la disprezzava per paura che agli altri saltasse il ticchio di dimenticarsi, almeno per una volta, di essere mussulmani e desiderassero di assaggiarlo.

Il conte si guardò bene di tradire l'amico e si vuotò la sua, facendo qualche smorfia, quantunque fosse persuaso che né Hassi né Afza avrebbero osato di bere del vino dinanzi ad un marabuto e ad un beduino.

Scambiarono ancora quattro chiacchiere, poi El-Madar si congedò cortesemente dai suoi ospiti, augurando a loro la buona notte: però prima di lasciare la tenda —

disse al marabuto:

— Vieni con me, che ti offrirò una tenda a parte. I santoni non devono dormire dove sono delle donne.

— Tante pulci di meno — mormorò Enrico.

Muley-Hari salutò gli amici e seguì il beduino mentre Ani abbassava i margini della tenda per impedire all'umidità della notte di entrare.

I fuochi stavano spengendosi intorno al campo, lanciando ancora qualche getto di scintille, ma numerose sentinelle erano state disposte intorno ai cammelli per impedire qualsiasi sorpresa da parte dei banditi, che sono sempre numerosi nella bassa Algeria, malgrado le frequenti scorrerie degli spahis francesi.

Il beduino condusse il marabuto verso una piccola tenda innalzata probabilmente per lui, ma prima di farlo entrare gli mise una mano sulla spalla e guardandolo fisso gli chiese:

— Muley-Hari, tu mi devi una spiegazione. Io sono ospitale e tu lo sai, però non amo assumermi dei grattacapi che potrebbero costarmi la perdita delle mie merci ed anche dei miei cammelli. I frangi non ischerzano; e quando si tratta di mettere le mani su di noi, l'appoggiano con molto vigore. Chi sono quei due kafir?

— Due uomini bianchi che non sono francesi — rispose il marabuto, che si era messo subito in guardia.

— Che cosa vengono a fare qui?

— A quanto mi disse il moro, desiderano di visitare la catena dell'Atlante.

— A quale scopo?

— Probabilmente per cacciare dei leoni.

— Tu mi hai detto che godono la protezione dei Senussi.

— È vero, El-Madar.

— Ne sei ben sicuro?

— Sicurissimo.

Il beduino non potè trattenere un gesto di dispetto, che non sfuggì agli occhi del marabuto.

— Si direbbe che ciò ti rincresce — disse Muley-Hari con accento di rimprovero.

— T'inganni — rispose pronto il beduino. — Ma non credo affatto alla protezione dei Senussi, come non credo neppure che quei due frangi si rechino sull'Atlante a cacciare il leone che si trova benissimo anche qui. Ve n'erano cinque o sei fra le jene e gli sciacalli, che noi abbiamo fugati.

— Che cosa vuoi concludere?

— Che ho timore di compromettermi colle autorità francesi.

— E perché?

— Se quei due frangi fossero due fuggitivi dei bleds? Sai che è severamente proibito a tutti gli algerini di soccorrerli in qualsiasi modo.

— Non sono mai stati ai bleds quei due bianchi.

— Eppure ne sono fuggiti due, pochi giorni or sono.

— Chi te l'ha detto?

— Degli spahis che ho incontrati, distanti di qui una ventina di miglia.

— Dove andavano? — chiese Muley con un'ansietà che non sfuggì questa volta al beduino il quale attento lo sorvegliava.

— Verso ponente.

— Erano in molti?

— Una mezza dozzina.

— Comandati da un sergente?

— Mi parve. Perché t'interessi tanto di loro, marabuto?

— Io? Niente affatto, El Madar.

— Va' a riposarti, amico — disse il beduino alzando l'orlo della piccola tenda. — Domani partiremo molto tardi per lasciare ai tuoi amici il tempo di riposarsi e di fare i loro preparativi per la partenza. Hanno qualche bagaglio?

— Un po' di vestiario e delle armi.

— Buona notte, marabuto.

Il beduino lasciò ricadere il lembo dietro al santone, e si diresse verso un'altra tenda dinanzi alla quale un uomo pareva che lo attendesse.

— Sono loro — gli disse subito. — Sono certo di non ingannarmi.

— L'avevo sospettato anch'io — disse l'altro che era un pezzo d'uomo alto quasi due metri, ma secco come un'aringa affumicata.

— Il maresciallo ha promesso?

— Cento zecchini per la cattura dei due bianchi e duecento per la ragazza.

— Allora noi al momento opportuno li pescheremo. Per Allah! Gli affari sono affari ed io sono un uomo da ridermi anche dei Senussi. Invece di andare a vendere le mie merci ai Cabili, tornerò verso il nord e le cederò a buon prezzo agli abitanti dei duar della pianura. I trecento zecchini mi ricompenseranno largamente del tempo che avrò perduto.

— Sei un gran furbo, capo.

— Sono un negoziante che fa bene i suoi affari. Allah me li ha mandati fra i piedi, e sarei un vero stupido se non approfittassi della buona occasione.

— A quando il colpo? — chiese il magro gigante.

— Dove operano gli spahis?

— Verso l'Atlante, mi ha detto il maresciallo del bled. Li comanda un sergente che si chiama Bassot.

— Non scordarti questo nome.

— No, capo.

— Fa' scaricare tre o quattro cammelli e un paio di cavalli per i miei ospiti. Gli altri non sono soverchiamente carichi e potranno camminare egualmente con un po' di peso di più.

— Ed il marabuto? — chiese il gigante. — È un santone.

Il beduino alzò le spalle.

— È vecchio — disse poi. — Se per disgrazia un colpo di pistola lo getterà a terra, non avrà nulla da rimpiangere. Le uri del Profeta valgono più della sua cuba. Buona notte, Diab.