Sull'Atlante/14. Al bled

14. Al bled

../13. Sepolti vivi ../15. Una notte terribile IncludiIntestazione 28 dicembre 2017 75% Da definire

13. Sepolti vivi 15. Una notte terribile

14.

AL BLED


— Ribot!

— Maresciallo?

— Nulla di nuovo?

— Non ancora.

— Non l'hanno acciuffata quella strega?

— No, maresciallo.

— Che cosa fa quel Bassot, dunque? Eppure gli ho promesso duemila lire se me la riconduce.

— È tornato ieri sera con tutti i suoi spahis a piedi, perché i cavalli erano morti dopo una corsa disastrosa.

— Dietro a chi? Al Raggio dell'Atlante?

— No, maresciallo — rispose il sergente. — Si erano messi in carica dietro a un Tuareg sospetto, il quale montava un cammello corridore di prima forza.

— Io ho detto loro di occuparsi solamente dei fuggiaschi.

— Era nato a Bassot il sospetto che quel cammelliere fosse un compagno del moro, qualche suo servo o qualche suo amico, e voleva catturarlo per sapere dove si erano rifugiati l'ungherese e la sua bella.

— Cane d'un conte!

— Non vi scaldate tanto, maresciallo, o la vostra ferita si riaprirà. Quando si deve guarire, le collere sono severamente proibite. Il medico ve l'ha già detto.

— Quanto odio quell'uomo! Se quell'imbecille di Bassot non riesce a prenderlo, appena guarito chiederò un lungo permesso e darò la caccia a quel miserabile, senza tregua, dovessi attraversare l'Atlante ed andarlo a cercare nel grande deserto.

— Non dovete però infuriarvi in questo modo o la guarigione tarderà, e intanto gli altri guadagneranno tanta via da farvi perdere ogni speranza di raggiungerli.

— Ah! Quella dannata fanciulla! — esclamò il maresciallo che aveva un temperamento troppo irascibile per calmarsi tanto presto. — Come mi ha giuocato! Eppure, Ribot, l'amo ancora tanto, che le perdonerei quel colpo di pugnale se acconsentisse a sposarmi.

— Siete troppo generoso.

— Se ti dico che mi ha stregato!

— Dite quello che volete, ma per mio conto mi terrei ben lontano dalle streghe che tengono sempre un pugnale nascosto nelle maniche — disse il sergente, sorridendo. — Quante follie fa fare l'amore!

— Forse non è bella, Afza?

— Divina, maresciallo.

— Non ho mai veduto una fanciulla più splendida, e non a torto l'hanno chiamata il Raggio dell'Atlante.

— Non ho nulla da dire in contrario, maresciallo.

Questa conversazione aveva luogo in una stanza dell'infermeria del bled, dove il povero maresciallo era stato subito trasportato dopo il colpo di pugnale vibratogli da Afza.

Il braccio della giovane donna forse nel momento supremo aveva tremato e la lama acutissima, invece di trafiggere il cuore del maresciallo, era scivolata fra le costole pur penetrando nelle cavità del petto. La ferita avrebbe potuto essere egualmente fatale se il soldataccio non fosse stato dotato da madre natura d'una robustezza eccezionale.

— Venti giorni di riposo assoluto — aveva detto il medico del bled, prontamente accorso alle grida di Ribot, il quale, dopo aver condotto via Afza, era tornato sollecitamente nella stanza del maresciallo. — Fasciature, disinfettanti e niente altro. Questi uomini guariscono anche senza l'aiuto dei medici.

E infatti il maresciallo invece di morire durante la notte, come si auguravano Ribot e tanti altri, al mattino si era trovato in condizioni abbastanza buone, poi la guarigione era cominciata rapidissima e vi era da aspettarsi di rivederlo perfettamente in gambe molto prima del tempo fissato dal medico del bled.

— Ribot, — riprese il maresciallo dopo un silenzio abbastanza lungo — tu mi sei veramente amico?

— Ne dubitereste, maresciallo? — chiese il sergente con una leggera punta d'ironia che sfuggì al soldataccio.

— Allora tu devi montare a cavallo e cercare quel furfante di Bassot che non mi da più notizie della sua caccia. Ho una sete inestinguibile di vendetta, e non posso più resistere all'impazienza che mi divora.

— Dove volete che vada a cercarlo?

— In qualche luogo lo troverai. I drappelli degli spahis che ho fatto lanciare verso ponente e verso levante sono ritornati tutti?

— Sì, tutti — rispose il sergente.

— Senza recare alcuna notizia?

— Assolutamente nessuna.

— Allora fa' una galoppata verso il sud. Sono certo che i fuggiaschi si dirigono verso l'Atlante per cercare un rifugio fra i Cabili. Non puoi trovare Bassot che in quella direzione. Tu devi portarmi assolutamente qualche notizia o monto a cavallo io.

— Per ammazzarvi?

— Non posso rimanere più fermo.

Ribot si torse i baffi, li rialzò con un gesto brusco, poi chiese sempre un po' ironico:

— Se Afza cadesse nelle nostre mani, ditemi, maresciallo, la fareste fucilare sul serio?

Il vice-comandante del bled ebbe un sussulto così improvviso, da strappargli un grido di dolore.

— Non spostate le fasce — disse il sergente.

— Fucilarla! — gridò il ferito. — Ah! Mai! Afza deve diventare mia moglie!

— Ma c'è il conte di mezzo.

— Oh! Quello lo manderò direttamente dinanzi al Consiglio di guerra insieme a quel tisicuzzo di toscano. Non temere, io li prenderò un giorno o l'altro. Orsù, Ribot, parti subito e portami notizie di Bassot. Voglio sapere se li ha raggiunti sì o no, o se per lo meno ha trovato le loro tracce.

— Come volete, maresciallo.

— Il sole è appena tramontato, e tu farai una magnifica galoppata al fresco. Già non hai paura delle bestie feroci, tu, perché sei un bravissimo cacciatore, almeno così mi hanno detto. Vuoi con te un paio di spahis?

— Preferisco di andarmene solo, maresciallo. Gli spahis sono troppo chiacchieroni, e quando io sono in sella non amo parlare perché preferisco fantasticare.

— Fa' quello che vuoi, amico. Il tuo cavallo è buono?

— Un arabo mezzosangue.

— Quando ti rivedrò?

— Domani sera spero darvi qualche nuova se il diavolo non mi porta via o gli arabi della grande pianura non mi assassinano. Buona notte, maresciallo: io parto.

Strinse la mano che il suo superiore gli porgeva e lasciò l'infermeria discendendo nell'ampio cortile del bled.

Diede ordine ad alcuni spahis che stavano chiacchierando e fumando al lume di luna di condurgli il cavallo, poi passò nell'armeria a prendere il moschetto ed il suo magnifico fucile da caccia che tutti gli invidiavano.

Cinque minuti dopo era in sella, e usciva dall'accampamento lanciando il suo mezzo-sangue ventre a terra.

Aveva accesa la pipa e fumava, lanciando buffi di fumo attraverso gli azzurrini raggi della luna e borbottando fra sé:

— Corpo di Bacco! — mormorava masticando il bocchino della pipa. — Eccomi imbarcato in una faccenda che mi procurerà un'infinità di noie. Mi trovo stretto fra il dovere brutale e l'amicizia che mi lega ormai al magnate e ad Hassi-el-Biac. Che cosa farò io ora? Obbedire al maresciallo e dare anch'io la caccia ai fuggiaschi dopo di averli aiutati a fuggire? Ah, no! L'amicizia non si tradisce, specialmente fra gentiluomini. Il meglio da farsi è di giuocare il maresciallo e Bassot insieme. Bah! Vedremo: intanto cerchiamo gli spahis, che non si troveranno certamente vicini.

Il cavallo intanto continuava a galoppare con grande slancio sulla deserta pianura, nitrendo di quando in quando allegramente.

In lontananza qualche coppia di sciacalli urlava lugubremente vedendo passare il cavaliere, ma Ribot conosceva troppo bene la vigliaccheria di quei lupi africani per preoccuparsene.

A un tratto però, mentre il mezzo-sangue fiancheggiava un gruppo di cespugli, un animale che si teneva certamente in agguato, balzò improvvisamente fuori, tentando di gettarglisi addosso.

Con un furioso colpo di sperone Ribot fece fare al cavallo uno scarto portandolo quattro o cinque metri più lontano, poi estrasse da una fonda una pistola a due canne già montata, e fece fuoco ripetutamente.

L'animale che non aveva osato rinnovare l'attacco, stramazzò al suolo dibattendosi disperatamente.

— Che cosa può essere? — si chiese il bravo sergente riconducendo il cavallo verso i cespugli. — Toh! Una jena striata? Doveva essere ben affamata per osare tanto! Non hai avuto fortuna, piccina mia, e sarebbe stato meglio per te che tu fossi andata a visitare i cimiteri degli arabi.

Spronò nuovamente il cavallo e riprese la corsa verso il sud, orientandosi colle stelle.

Galoppava da quattro o cinque ore senza aver incontrato nessun essere vivente e stava per concedere al cavallo un po' di riposo, quando giunse ai suoi orecchi uno scoppio lontano.

Trattenne bruscamente il mezzo-sangue e alzatosi sulle staffe spinse gli sguardi in tutte le direzioni, chiedendosi con una certa ansietà:

— Che cosa può essere avvenuto? Si direbbe che è esploso qualche cassone di polvere dell'artiglieria. Eppure, che io sappia, non si trova nessuna sezione di artiglieria in queste parti, ora che i Cabili si sono, almeno pel momento, tranquillizzati. Come va questa faccenda? Vediamo un po': io non devo essere lontano dalla cuba abitata da quell'Aissana che si diverte ad allevare e qualche volta a mangiare serpenti. Cerchiamola, e il marabuto mi darà forse la spiegazione di questo scoppio che per me è assolutamente inesplicabile.

Si orientò nuovamente colle stelle, piegò a levante e lanciò il cavallo spingendolo colla voce e cogli sproni.

Venti minuti dopo, i suoi sguardi scorgevano, in vicinanza di un gruppo di palmizi, un ammasso di macerie bianche che spiccavano vivamente sotto i raggi della luna.

— È la cuba! — disse. — Toh! E dov'è la cupola, che non la vedo? Che l'esplosione sia avvenuta là dentro? Povero marabuto! Sarà saltato insieme al sepolcreto ed alle ossa del santone. Andiamo un po' a vedere.

Si diresse verso quell'ammasso di macerie, e in breve lo raggiunse.

Balzò a terra, armò per precauzione il fucile da caccia su cui contava assai più che sul moschetto di combattimento, e si avvicinò con precauzione, mentre il suo cavallo si metteva a pascolare.

Si avanzò cautamente, temendo una sorpresa, e si trovò ben presto dinanzi ad una profonda escavazione che pareva fosse stata prodotta dallo scoppio d'una mina.

— Che cosa hanno fatto saltare qui? — si domandò. — Non ci capisco nulla. Andiamo alla cuba.

Il piccolo fabbricato era stato completamente abbattuto. Le pareti erano crollate tutte all'infuori, lasciando quasi allo scoperto il pavimento, e la cupola, formata d'un blocco solo di calce e gesso, giaceva a trenta passi spaccata in due.

Ribot stava per inoltrarsi fra le rovine, curioso di conoscere la causa di quella esplosione, quando alcuni sibili lo fecero balzare sollecitamente indietro.

— Ah! Diavolo! — esclamò. — Qui vi sono dei serpenti. Saranno quelli che il marabuto si divertiva ad allevare. Non ci tengo affatto a fare la conoscenza di quelle brutte bestie che mandano un uomo all'altro mondo senza nemmeno degnarsi di dire: ehi, guardati! Se il santone si trova fra le rovine, tanto peggio per lui. Gli algerini conteranno uno spirito purissimo di più, e buona notte.

Stava per raggiungere il cavallo, quando un grido rauco, straziante, lo arrestò di colpo.

— Che cosa c'è ancora di nuovo? — chiese. — Questa è la notte dei misteri.

Si mise in ascolto, e udì nuovamente il grido seguito da un lamento. Veniva dalla parte dove s'alzava il gruppo di palmizi ombreggianti la fonte.

— Ecco un altro mistero — disse Ribot. — Cerchiamo almeno di svelare questo per ora. Il maresciallo aspetterà.

S'avanzò verso la fontana, e fatti pochi passi si fermò scorgendo a terra, l'uno presso l'altro, colle gambe rattrappite, sette bellissimi mahari i quali non davano più segno di vita.

— Chi ha macellato tutte queste preziosissime bestie? — si domandò il sergente girando intorno a quell'ammasso di cadaveri, i quali cominciavano ad esalare degli odori nauseanti.

In quel momento si fece udire per la terza volta il gemito. Ribot si volse e vide subito, verso la fonte, un uomo legato ad un palmizio colla testa penzoloni, come se tutte le forze lo avessero ormai abbandonato.

— Perdio! — esclamò. — Chi ha commesso questa bricconata?

Si accostò al disgraziato, gli alzò la testa esponendolo ai raggi della luna, e l'osservò per qualche istante.

— Corpo di Bacco! — esclamò. — Il marabuto della cuba! Ehi, amico, chi ti ha legato a quest'albero?

— Da bere... da bere... — rantolò Muley-Hari.

Ribot si slanciò verso la fonte, riempì d'acqua la sua borraccia e l'accostò alle labbra del martirizzato.

— Sembri una pompa, amico — disse il sergente. — Spero che dopo potrai parlare e spiegarmi molte cose che desidero vivamente di sapere. Mi conosci? Ci siamo veduti già altre volte, poiché ho cacciato anche nei dintorni della tua cuba.

— Ti conosco — rispose il marabuto che pareva che fosse rinato dopo quell'abbondante bevuta.

— Meglio così: almeno parlerai. Aspetta prima che ti sleghi.

Si tolse da una tasca un affilatissimo coltello e prese le mani del marabuto; ma appena le ebbe toccate, un urlo acutissimo di dolore intenso lo arrestò.

— Che cos'hai? — chiese stupito ed insieme inquieto. — Hai un braccio slogato?

— Ho la calce viva chiusa in una mano.

— Corpo d'un cannone! Chi t'ha martirizzato così?

— Gli spahis.

— Gli spahis! È impossibile!

— È stato il loro sergente.

— Lo conosci tu quel miserabile?

— No, ma l'ho udito chiamare per nome.

— Bassot, è vero?

— Sì, Bassot — rispose il marabuto.

— Quello è una belva feroce, non un uomo — disse Ribot. — Vuol superare Steiner in crudeltà. Da quanti giorni ti trovi qui?

— Da tre giorni.

— Non sono più ricomparsi gli spahis?

— No, frangi.

Ribot tagliò con precauzione le corregge, non senza strappare al marabuto qualche grido; poi la fascia di tela che stringeva la mano destra del disgraziato, e fece cadere a terra la calce.

Una piaga orribile apparve allora ai suoi occhi. La pelle e la carne cadevano a brandelli, i tendini erano allo scoperto, e tutte le falangi delle dita non agivano più. La terribile forza espansiva della calce le aveva completamente disgiunte le une dalle altre.

— Pover'uomo! — disse Ribot commosso. — Ecco una mano ormai irreparabilmente perduta.

— Mi rimarrà però sempre l'altra — rispose il marabuto, facendo scricchiolare i denti.

— È la sinistra.

— Mi servirà egualmente per piantare un pugnale nel cuore di quel cane di sergente.

— Siediti e vediamo di medicarti alla meglio. Fortunatamente noi soldati, quando siamo in campagna, abbiamo sempre con noi qualche cosa per fare delle buone fasciature.

Con un fischio chiamò il cavallo, che da animale bene ammaestrato fu pronto a correre, frugò nella coperta arrotolata dietro la sella e ne tolse una boccettina contenente dell'olio, un po' di filacce di tela come usava allora in mancanza del cotone idrofilo e delle bende.

Pulì dapprima delicatamente l'orribile piaga per togliere le più piccole particelle di calce viva, inzuppò abbondantemente i filacci d'olio e coprì tutto il palmo della mano. Una buona fasciatura, fatta abilmente dal soldato che aveva medicate ben altre ferite, mise fine alla medicazione.

— Ti senti un po' meglio ora, marabuto? — chiese il sergente.

— Sì, frangi: che Allah ricordi questa buona azione fatta da un cristiano verso un mussulmano.

— Vuoi bere?

— Preferirei rosicchiare qualche cosa. Sono tre giorni che non mangio.

— Ho qualche galletta e dei datteri secchi e sarò ben lieto di potertegli offrire, ad una condizione però.

— Parla, mio benefattore.

— Che tu mi spieghi come è avvenuta l'esplosione che ha distrutta la tua cuba.

— La mia cuba distrutta! — gridò Muley-Hari con profonda angoscia... — E...

— Che cosa? Tira avanti. Tu volevi aggiungere qualche altra parola.

— Sei ben sicuro che si sia sfasciata?

— Perfino la cupola è stata lanciata in aria dall'esplosione. Tenevi della polvere tu?

— Sì, una provvista piuttosto grossa, per rifornire le carovane che passano per di qua. Anch'io devo guadagnarmi da vivere, poiché le preghiere frutteranno in cielo ma non in terra — rispose Muley-Hari.

— E chi può aver provocato lo scoppio? Gli spahis no di certo, poiché tu mi hai detto che sono scomparsi da tre giorni e che non sono più tornati.

— Chi?... Chi?... — rispose il marabuto la cui angoscia aumentava.

— Scommetto che tu lo sai e non vuoi dirmelo, perché diffidi di me.

— Sei un frangi del bled.

— Ben diverso però dagli altri; te ne ho dato or ora una prova.

— Non lo nego.

A un tratto Ribot poso una mano sulla spalla del marabuto e guardandolo fisso gli disse a bruciapelo:

— Tu hai dato asilo ad Hassi-el-Biac, a sua figlia, al loro servo ed a due soldati della Legione straniera. Tu non puoi negarlo!

Muley-Hari lo guardò con spavento senza rispondere.

— Hai perduto improvvisamente la lingua? — chiese il sergente, vedendo che non si decideva ad aprire la bocca.

— No... no... t'inganni... — balbettò Muley. — Io non conosco quelle persone.

— Tu sei diffidente ed hai ragione, poiché io sono un soldato del bled, però io credo che la tua lodevole prudenza sfumerà quando ti avrò detto che ho salvato io il Raggio dell'Atlante, dopo che aveva pugnalato il maresciallo e che io ho pure aiutato i due legionari a fuggire. Credi tu che abbia una faccia da mentitore?

— No, tu sei un bravo frangi.

— Allora, dimmi dove sono. Io sono qui per sottrarli, se è possibile, alle ricerche degli spahis e non già per ricondurli al bled. Vuoi le mie pistole ed i miei due fucili? Prendili e servitine pure se io ti avrò ingannato.

— Tu sei un bravo frangi — ripetè il marabuto con voce commossa. — Tu non sei cattivo come il sergente degli spahis.

— Hai offerto loro un asilo nella tua cuba? Parla: io non posso fermarmi a lungo qui!

Muley-Hari ebbe un'ultima esitazione, poi disse con voce angosciata:

— Sono ancora rinchiusi nel sepolcreto della cuba, e forse a quest'ora sono morti, poiché sono stati loro che hanno provocato lo scoppio delle polveri, non so se per imprudenza o con la speranza di far saltare la lastra di pietra che dall'interno non potevano sollevare.

— E non l'hai detto prima! — gridò Ribot, alzandosi precipitosamente.

— Io temevo di tradirli.

— Puoi reggerti?

— Gli arabi hanno la pelle dura.

— Mangerai più tardi.

— Aspetterò quanto vorrai.

— Seguimi subito.

— Non correre dinanzi a me.

— Perché?

— È probabile che i miei serpenti siano sfuggiti all'esplosione.

— Io non amo affatto i vostri rettili — disse Ribot, che per precauzione aveva estratta la sciabola, arma che meglio poteva servirgli delle pistole e del moschetto.

I due uomini, approfittando della splendida luce lunare, s'accostarono alle rovine della cuba, fermandosi ad una decina di passi.

— Non è lì, come vedi, che l'esplosione è avvenuta — disse Ribot al marabuto. — La tua baracca era stata costruita, a quanto pare, molto leggermente, ed è crollata in seguito alla scossa. La mina è stata fatta esplodere laggiù dove vedi quello scavo.

— Eppure il sepolcreto non si spinge fino a quel punto — rispose Muley-Hari, il quale appariva immensamente stupefatto.

— Avremo forse la spiegazione anche di questo...

Ribot si era bruscamente interrotto, ed aveva fatto un salto indietro vibrando nel medesimo tempo un terribile colpo di sciabola a livello degli sterpi, che crescevano numerosi intorno alla cuba.

— Corpo d'una bomba! — gridò. — Ho decapitato appena a tempo un leffà nel momento che stava per strisciarmi fra i piedi. Un momento di ritardo, ed a quest'ora sarei agonizzante.

— Ti avevo detto di rimanere indietro, frangi. Lascia fare a me.

— Non ho alcun desiderio d'impacciarmi coi tuoi amici; io non sono un Aissana e non ho mai goduta la protezione di Sidi-Mohamed né quella di Sedna-Eiser.1

Il marabuto, che si sapeva immune contro i morsi dei rettili, salì sulle rovine della cuba, e dopo essersi persuaso che la lastra di pietra era ancora a posto, si mise a frugare qua e là, finché ebbe trovato un paniere.

Allora si accovacciò in mezzo alla sua distrutta dimora, e si mise a fischiettare fra i denti su diversi toni, mentre Ribot, temendo di vedersi sorgere dinanzi qualche nuovo rettile, eseguiva una scherma disperata, battagliando contro gli sterpi.

Non era trascorso mezzo minuto, quando si videro i leffà ed i bumen-fak balzar fuori dai rottami e dirigersi rapidamente, ora strisciando ed ora saltellando, verso il loro padrone.

Muley lasciò che gli si accostassero a portata di mano, poi li contò.

— Va bene — disse. — Manca il cobra ucciso dal comandante degli spahis ed il leffà decapitato or ora dal sergente. Il conto è esatto.

Prese a uno a uno i rettili senza che questi opponessero alcuna resistenza e li chiuse nel paniere, poi cercò la sbarra di ferro e l'anello della pietra che ritrovò facilmente essendo le pareti cadute all'infuori.

— Frangi — gridò allora. — Puoi avvicinarti senza alcun timore. Tutti i miei serpenti sono al sicuro.

— Me lo garantisci? — chiese Ribot, il quale non cessava di fare molinelli.

— Che Allah mi punisca se io mentisco e che il Profeta mi privi delle uri quando io salirò in Paradiso, se si degnerà d'accogliermi.

— Non c'è da dubitarne — rispose il sergente ironicamente. — Un santone vola sempre diritto lassù, ed ha perfino la scelta delle più belle uri! Maomettani fortunati!...

Il marabuto finse di non udirlo, mise a posto l'anello di ferro e passò la sbarra.

— Aiutami — disse. — Io non posso disporre che d'una mano.

— Ho forza per due, quantunque non sembri — rispose Ribot. — Vediamo che cosa è successo nel sepolcreto durante questi quattro giorni. Issa, marabuto!

I due uomini si curvarono, afferrando la sbarra di ferro, e con uno sforzo supremo che strappò al povero marabuto un altissimo grido di dolore, fecero scivolare la lastra di pietra sul pavimento della cuba. Dall'apertura del sepolcreto sfuggì tosto una nuvola di fumo acre.

— Fumo di polvere da sparo! — esclamò Ribot. — Che la mina sia stata fatta scoppiare lì dentro? Eppure non è possibile poiché le vòlte, per quanto robuste, avrebbero indubbiamente ceduto.

— Che siano tutti morti? — chiese Muley-Hari con ansietà.

— Vediamo — rispose il sergente curvandosi sull'apertura.

Una profonda oscurità regnava nel sepolcreto. L'esplosione, certamente violentissima, aveva dovuto spengere le torce e anche la lampada.

— Mi occorrerebbe un lume — disse Ribot. — Non puoi trovarne qualcuno?

— Io avevo una provvista di torce prima che la cuba crollasse.

— Cercane qualcuna e fa' presto.

Mentre il marabuto frugava fra le macerie spostando coll'unica mano servibile i pezzi di parete, il sergente fece portavoce con ambe le mani, gridando a piena gola: — Ohe! Siete morti o vivi?

Una voce gli rispose quasi subito.

— Chi è l'angelo o il demonio salvatore che viene a trarci da questo sepolcro?

— Enrico! — esclamò Ribot.

— Toh! Il sergente del bled! — rispose il toscano, il quale pareva che non avesse affatto perduto il suo eterno buon umore.

— Siete tutti vivi?

— Io sì, ma gli altri non so. Non ci vedo affatto, e poi ho la testa ancora rintronata da quel colpo.

— E il conte?

— Deve essere qui vicino.

— E Afza?

— Porta un lume, Ribot, e ti risponderò meglio. Io credevo già di essere in compagnia di papà Caronte.

— Che il diavolo ti porti!

— Grazie — rispose il toscano.

In quel momento giunse Muley-Hari, portando una torcia che era riuscito a scovare in un angolo della cuba.

Ribot l'accese, poi s'avventurò con precauzione sulla stretta gradinata, temendo che i gradini avessero sofferto e di fare un brutto capitombolo.

Giunto in fondo al sepolcreto vide il toscano inginocchiato, il quale brancolava fra le tenebre cercando i compagni.

— Tu sei vivo e sono lietissimo di rivederti in buona salute, avvocato — disse il sergente. — E gli altri?... Sono morti o svenuti? Ecco Hassi ed il suo servo... ecco Afza ed anche il conte... del sangue! Il povero ungherese deve aver ricevuto qualche macigno sulla testa. Avvocato, aiutami!

Il toscano era già in piedi e si era precipitato verso il magnate, il quale giaceva quasi sopra il Raggio dell'Atlante col viso coperto di sangue che gli usciva ancora da una larga ferita riportata quasi in mezzo al cranio.

— Ah! Diavolo! — borbottò il sergente. — Il povero conte non deve trovarsi in buone condizioni. Portiamo prima fuori questo. Sei in forze, avvocato?

— Ne ho da vendere.

Presero il conte dopo d'aver piantata la torcia in un crepaccio del suolo e montarono lentamente la scaletta, raggiungendo felicemente l'apertura della cuba dove Muley-Hari li aspettava.

— Va' a prendere intanto dell'acqua — gli disse Ribot, porgendogli la borraccia.

— Ora a noi, avvocato: bisogna portare fuori anche gli altri. Il Raggio dell'Atlante prima di tutti.

La giovane donna, poi Hassi-el-Biac, quindi Ani furono trasportati all'aperto.

La fresca aria notturna operò su tutt'e tre un vero miracolo, senza bisogno di alcun cordiale.

— Vivi! Ancora vivi! — gridò il moro dopo d'aver aspirato a più riprese la brezza notturna che scendeva dall'Atlante. — E mia figlia? E mio figlio?

— Calma, Hassi — disse Ribot. — Il Raggio dell'Atlante sta tornando in sé ma non così il conte.

— Cos'ha il conte?

— Una ferita abbastanza grave alla testa, prodottagli probabilmente da qualche sasso staccatosi dalla vòlta.

— Tu sei il sergente del bled, il cacciatore! — esclamò il moro.

— Ora te ne sei accorto? Occupati di tua figlia, mentre io e il toscano ci occupiamo del conte. La cosa non sarà grave, io spero. Certo è che in questo momento questa ferita non ci voleva.

Muley-Hari era tornato colla borraccia piena d'acqua freschissima. Ribot chiamò il suo cavallo, dal suo piccolo bagaglio trasse altre bende e fili di vecchia tela, si curvò sul conte, mentre Enrico teneva la torcia.

— Vi è un buco — disse dopo un rapido esame. — Il colpo deve essere stato violentissimo per abbattere quest'uomo che possiede la possente robustezza di Steiner. Che cosa avete fatto scoppiare, imprudenti?

— Una mina dentro una galleria — rispose il toscano. — Eravamo sepolti vivi senza nessuna speranza di venire salvati; disgraziatamente la carica era troppo forte, a quanto pare, e ci ha mezzi accoppati. Io ho il cervello ancora in completo disordine in causa di quel rombo spaventevole. Ma tu, Ribot, che cosa fai qui?

— Lasciami fare per ora — rispose il sergente. — Avremo tempo per spiegarci più tardi.

Lavò accuratamente la ferita dopo di aver mescolato all'acqua un po' di grappa che teneva in una fiala, si assicurò bene che il cranio non presentasse alcuna frattura, poi, come aveva fatto con Muley, fasciò con mano abile degna di un medico, la grave contusione.

— E dunque? — chiese Enrico.

— Io spero che non vi sarà nulla di grave, quantunque le ferite alla testa siano sempre pericolose, poiché una congestione cerebrale fa presto a scoppiare ed allora il conte non rivedrà certamente più né il suo Danubio né i suoi Carpazi.

— Non torna ancora in sé, e questo m'inquieta... sergente.

— Tu corri come una locomotiva. Aspetta che respiri un po', diavolo!

Prese la fiala contenente la grappa, aprì a forza i denti del conte che erano convulsamente stretti e gli versò in gola alcune gocce del fortissimo liquore.

Uno sternuto sonoro fu la risposta.

Il conte, galvanizzato da quel sorso di grappa, aveva aperti gli occhi fissandoli sul sergente.

— Voi, Ribot! — esclamò.

— Vi sorprende, conte, di trovarmi qui?

— Siete venuto per arrestarci?

— Non vi avrei aiutato a fuggire. Ma lasciamo correre ora le spiegazioni, e ditemi invece come state.

— Ho la testa pesante.

— Sfido io! L'avete rotta!

— Qualche sasso mi è caduto addosso.

— Certamente, conte.

— E Afza? E Hassi?...

— Eccoli che vengono — rispose Ribot.

Infatti la giovane donna si avanzava sorretta da suo padre, singhiozzando, poiché Enrico l'aveva già avvertita della disgrazia toccata a suo marito.

— Ah! Mio povero signore! — esclamò inginocchiandosi presso il conte e stringendoselo teneramente al seno. — Tu stai male?

— Non ti spaventare, Afza — rispose il magiaro. — Se non sono morto quando è esplosa la mina, non morrò più, se gli spahis non mi riprendono.

— A quelli ci penso io — disse Ribot. — Il guaio è che quel furfante vi ha privati dei mahari e che non potrete più lottare in velocità coi cavalli degli spahis. Basta per ora: pensiamo a far colazione, che l'alba sta per sorgere.

— È quello che stavo per proporti — disse il toscano. — Hai qualche cosa tu da offrirci?

— Ben poco.

— Allora andiamo a prendere delle provviste nella tomba del santone. Spero che ormai non mi crollerà più addosso tutto quel che rimane della cuba di questo povero Muley-Hari.


Note

  1. Un altro santo protettore dei soli incantatori di serpenti.