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Il trionfo della trincea

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Problemi inattesi della guerra Problemi inattesi della guerra - La crisi dell’offensiva
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IL TRIONFO DELLA TRINCEA.

Novembre 1915.

Da oltre un mese la nostra offensiva si sferra con rinnovato vigore su tutta la fronte. È una immensa battaglia fatta di assalti contro posizioni solidamente fortificate. L’eroismo e la tenacia dei nostri soldati si levano ad altezze sublimi. Se nel giudicare questa lotta incomparabile noi temessimo di lasciarci trascinare troppo dalla nostra passione, non avremmo che da leggere quello che la critica militare straniera scrive giorno per giorno sulla azione italiana, non avremmo che da cercare nella stessa stampa nemica le testimonianze sul valore dei nostri fratelli combattenti, per sentirci avvampare di orgoglio.

Giornali di lingua tedesca che non nascosero le loro simpatie per i nostri avversarii, sciolgono ora degli inni al soldato d’Italia. Giornalisti che si resero famosi per la loro avversione alla nostra causa, diffondono nella stampa germanizzante descrizioni di guerra che esaltano le virtù del nostro esercito e l’abilità del suo comando. Non possiamo leggere senza una [p. 22 modifica] commozione e una fierezza profonde quello che von Wiegand, l’intervistatore del Kronprinz e di Hindenburg, l’esaltatore degli Imperi Centrali, ha scritto tornando dal campo austriaco sull’Isonzo «col cuore gonfio di ammirazione e di stupore per le magnifiche qualità e il meraviglioso impeto del soldato italiano». I giornali di Vienna e di Berlino pubblicano corrispondenze che, pure intendendo magnificare lo spirito di resistenza e di sacrificio degli austriaci, fanno un solenne riconoscimento dello stupendo eroismo italiano e appaiono tutte pervase da un senso di scoramento e di sfiducia.

Pochi eserciti hanno dato prova di una attività più intensa e più costante del nostro. La guerra nostra è la più combattuta delle guerre. La solidità morale che deve possedere una truppa per andare all’assalto di posizioni quasi inespugnabili è enorme; ma quale prodigiosa forza d’animo non è necessaria per tornare all’assalto delle stesse posizioni, ancora e ancora, di notte e di giorno, per settimane con impeto sempre eguale, sloggiando il nemico più e più volte da solide fortificazioni campali, conquistando qualche palmo di terreno ad ogni balzo, retrocedendo per un nuovo slancio, arrivando solo dopo innumerevoli tentativi ad aggramparsi disperatamente alle trincee espugnate e tenerle, e resistervi in una tempesta di fuoco? È così che il nostro [p. 23 modifica] esercito combatte, costretto ad una continuità prodigiosa di supremi ardimenti da avversità di condizioni che la guerra moderna ha imposto e che nessuno al mondo immaginava possibili. Per raggiungere ogni successo tattico, che appare minuscolo sulla carta, è indispensabile uno sforzo che in altre circostanze avrebbe condotto ad irruenti movimenti di conquista, profondi, travolgenti, definitivi. L’attacco di un «trincerone» impegna da solo gli effettivi di una grande battaglia di vecchio stile, e costa molto di più in energia, in eroismo, in sofferenza, in tempo e in sangue.


Inevitabilmente la lotta di trincea si è stabilita su tutta la nostra fronte come su quella francese, con questa differenza: che il terreno accumula contro di noi immense difficoltà naturali, facendo della nostra fronte il più aspro campo di battaglia di Europa. Ma in Francia nessuno dei combattenti si trova nella necessità di prolungare incessantemente l’attacco sulle linee avversarie.

Dopo gl’inutili tentativi, sanguinosi e ostinati, compiuti nel novembre dello scorso anno in Fiandra per arrivare a Calais, l’esercito tedesco ha rivolto la sua attività verso il più facile terreno di manovra offertogli dalle pianure polacche; ha cercato ad oriente quei punti di minore resistenza che non trovava ad occidente; esso poteva scegliere nuove vie [p. 24 modifica] all’offensiva e applicare contro nemici meno preparati l’esperienza duramente acquistata contro i più armati ed i più pronti. L’esercito franco-inglese in Francia ha dovuto assumere invece un atteggiamento difensivo e temporeggiante; esso aspetta che il nemico si logori, e i suoi rari attacchi, lungamente e accuratamente preparati, non sono in fondo che brevi e terribili colpi di assaggio, dopo i quali la preparazione ricomincia nella attesa difensiva. Tanto l’azione tedesca, con l’assalto delle sue grandi masse di fanteria, quanto l’azione franco-inglese, col suo spaventoso diluvio di milioni di granate, non sono riuscite a sfondare la barriera delle trincee. Noi non abbiamo come i tedeschi la scelta di una fronte più debole sua quale concentrare l’irruenza della nostra offensiva, e non possiamo concedere al nemico i vantaggi di una inerzia, nella quale soltanto la sua forza si aumenterebbe e la sua resistenza si avvantaggerebbe. Non vi sono alternative.

La battaglia di giugno per la traversata dell’Isonzo, la battaglia di luglio per la conquista delle prime pendici del Carso, la battaglia di settembre che ci ha portati fino alle creste questa battaglia di ottobre e di novembre che ha spinto la nostra fronte sul San Michele, su Oslavia, sulla vetta del Podgora, e i combattimenti svoltisi in ogni tempo sugli altri settori, verso Riva che ora dominiamo, verso Rovereto [p. 25 modifica]che potremmo occupare se un sentimento di generosità e di umanità non ci forzasse a risparmiare alla città i danni del bombardamento austriaco, inevitabile dopo l’occupazione, quei combattimenti che ci hanno fatto progredire in tutte le valli del Trentino, del Cadore, della Carnia, che hanno sloggiato il nemico dalle inespugnabili posizioni del Col di Lana come da quelle del Mrzli e del Vodil, tutta la nostra attività infine dallo Stelvio al Golfo di Trieste si fonde in una prodigiosa continuità di azione, forma una battaglia sola con brevi tregue, costituisce come un attacco unico, immane, magnifico, prodigioso, favoloso, che non ha precedenti, che non ha paragoni, che è la nostra gloria.


La guerra moderna ha assunto forme inaspettate, presenta situazioni imprevedute, offre problemi strani, gravi, angosciosi, urgenti; essa sconvolge di punto in bianco dei principii fondamentali della scienza militare, smentisce molti dei più solidi insegnamenti della pratica guerresca; ferma la battaglia lungo una linea, trasforma in pressione quello che era movimento, sopprime la strategia sopprimendo la manovra, costringe l’azione alla forma unica e tremenda dell’attacco frontale. E questo attacco non somiglia più a nessun combattimento del passato, si svolge al di fuori delle leggi tradizionali sull’impiego delle varie armi, prende [p. 26 modifica] apparenze strane e reclama tattiche inaudite, paralizza formidabili mezzi di lotta ed eleva ad una improvvisa importanza suprema degli elementi minuscoli relativi alla natura del suolo e a disposizioni difensive; la cavalleria è scomparsa, le fortezze non contano più niente, si fermano gli eserciti con del filo di ferro; sorgono situazioni paradossali nelle quali tutti i valori si rovesciano e tutti i calcoli crollano; si arriva a constatare, ad esempio, che ora è assai più facile l’assalto in salita contro posizioni sovrastanti che non in discesa contro posizioni dominate; l’evidenza non è più evidenza. Ebbene, tutte le sorprese, tutte le incognite, tutti i contrasti, tutti gli ostacoli della guerra nuova sono sulla nostra fronte, lungo la quale senza soluzione di continuità si è stabilita nelle forme più caratteristiche la guerra di cordone, e sono contro di noi.

Prima della prova dei fatti, prima di questa spaventosa esperienza del conflitto europeo, nessuna autorità militare immaginava la possibilità di guerre di trincea da frontiera a frontiera. Il còmpito che ogni esercito si prefiggeva era l’offensiva. Si prevedeva perciò un urto terribile e breve, coronato dalla vittoria degli eserciti più pronti e meglio comandati. La teoria dell’offensiva appariva inconfutabile. Bisognava attaccare, sempre, anche se si era più deboli dell’avversario, per compensare appunto con l’impeto l’inferiorità della forza. Chi [p. 27 modifica] attacca si moltiplica. Questo principio aveva avuto del resto delle applicazioni classiche.

Durante la seconda fase della battaglia di Mukden il generale Oku, sfinito dalla controffensiva russa, telegrafò a Oyama: «Non posso più resistere, perciò attacco» — e attaccò paralizzando l’azione del nemico. Quando il generale Radico Dimitrieff alla testa di una armata bulgara si trovò inopinatamente a contatto con l’intero esercito turco fra Kirkilisse e Lule Burgas mentre il resto dell’esercito bulgaro era ancora lontano due giorni di marcia, attaccò su tutta la fronte, inchiodò il nemico con una offensiva violenta, che diede il tempo alle altre armate bulgare di arrivare e di vincere. In ogni paese la preparazione della guerra era studiata per l’applicazione di questo principio dell’offensiva.


Agli scopi di grandi azioni di movimento si erano apprestati le armi, i piani e i metodi; la difesa passiva s’intendeva affidata alle poderose fortezze corazzate, che avrebbero imperniato la manovra delle masse. E la guerra cominciò con un’attuazione generale di progetti offensivi. Mentre l’esercito tedesco attaccava il Belgio, l’esercito francese attaccava violentemente in Alsazia, poi attaccava in Lorena, poi attaccava nel Lussemburgo. Non riuscì in Alsazia per errori attribuiti al comando locale, che fu sostituito; non riuscì in Lorena per [p. 28 modifica] insufficienza di preparazione; non riuscì nel Lussemburgo per la prontezza del contrattacco nemico; ma il piano offensivo, in condizioni di evidente inferiorità con l’avversario, si svolse rigorosamente. E la battaglia della Marna stessa è il più stupendo esempio di offensiva del più debole contro il più forte.

La guerra di trincea nacque nella immobilità dei due eserciti dopo la battaglia della Marna, quando si trovarono di fronte affranti e disarmati (avendo dalle due parti mal preveduto il consumo delle munizioni) e si radicarono al suolo. Per un tentativo reciproco di aggiramento la lotta si prolungò sul fianco, ma con piccole forze, non riuscendo che a portare la fronte trincerata fino al mare. A tutti gli attacchi successivi, i più vasti, i più furibondi, i più ostinati, la fronte resistè. Improvvisamente la trincea rivelava un valore impensato e incalcolabile che trovava impreparati persino i tedeschi. Anzi, i tedeschi prima di tutti. La vecchia trincea, antica quanto è antica la guerra, adattata abilmente alle necessità odierne è diventata una cosa formidabile e nuova, che porta rivoluzioni profonde nei sistemi di combattimento, che impone affannose ricerche di nuovi mezzi. Perchè?

Perchè ci si difende con tutto e non si assalta che con gli uomini.

Le trincee sono come una corazzatura degli eserciti; offrono tutte le protezioni possibili; [p. 29 modifica]nascondono e riparano, sprofondano e coprono; con l’uso del cemento, dell’acciaio, con l’adozione di ogni sorta di blindaggio, acquistano gradualmente una resistenza sempre più adeguata al pericolo. La loro continuità, attraverso intere regioni, disperde il tiro avversario e lo svaluta; esse non offrono più alle artiglierie nemiche degli obbiettivi precisi e vitali, come erano le fortezze; cento colpi di grossi cannoni annientano un forte corazzato e mille colpi possono non danneggiare sensibilmente delle posizioni trincerate che corrono per monti e per valli, e sulle quali il fuoco si dissemina. È chiaro che nei periodi di immobilità, di stasi, di organizzazione, quando i bollettini non parlano che di duelli di artiglieria, gli eserciti che si fronteggiano trincerati si trovano a parità assoluta di condizioni: ognuno è rannicchiato nella sua corazza. Ma questa corazza disgraziatamente non si può spostare; per agire bisogna lasciarla; per attaccare bisogna uscirne.

Chi avanza deve scoprirsi. Poi, rapidamente, dopo l’attacco la corazza si riformerà più avanti, tutto l’armamento dell’assalitore si porterà sulla nuova linea conquistata; ma per un breve periodo l’azione è affidata all’uomo, e solo all’uomo. Si facciano pure preparazioni lunghe, accurate, con bombardamenti infernali e precisi, il momento arriva pur sempre in cui la massa che attacca deve farsi avanti senza [p. 30 modifica]altre armi e senza altra protezione che il suo valore e il suo impeto. Sono i soldati e non le granate che alla fine debbono prendere le posizioni: prenderle con lo sforzo massimo del loro corpo e della loro volontà, nella maggiore pienezza del pericolo, in un’atmosfera di morte.

Mille cose soccorrono, proteggono, rafforzano e amplificano l’attività di una difesa organizzata; l’offensiva invece, nella fase suprema e definitiva dell’azione, si spoglia e si espone, fragile, vulnerabile, eroica. In un dato istante tutte le risorse della tecnica militare, tutti i progressi dell’armamento, tutti gli ausilî dell’industria, tutte le ingegnosità dei ripari, vengono a trovarsi da una parte sola: dall’altra, nella fase critica la lotta è ridotta alla semplicità primitiva del gesto umano.


Lo squilibrio fra attacco e difesa è divenuto enorme. Con le armi moderne, che in venti anni hanno quadruplicato la rapidità del tiro e raddoppiata quasi la portata, con la possibilità di concentrare istantaneamente ad un segnale telefonico il fuoco di innumerevoli cannoni sopra un solo punto, con il largo uso di mitragliatrici che lanciano precise raffiche di piombo non esponendo che pochi uomini per la loro manovra, con l’ostacolo dei reticolati che la grande produzione metallurgica permette di stabilire illimitatamente, con il getto di alti esplosivi nelle forme più varie, con i gas [p. 31 modifica]asfissianti, e con la solidità dei blindamenti che protegge e trattiene i difensori al loro posto fino all’ultimo istante utile, l’efficacia della difesa sopra fronti trincerate è aumentata in proporzioni gigantesche, favolose e inaspettate, mentre l’assalto è rimasto quello che è sempre stato: il precipitarsi di una folla ardimentosa. E nulla può eliminarlo, nulla può sostituirlo: bisogna che sia.

Fare che di fronte a queste immense difficoltà l’assalto possa avvenire, fare che l’assalto arrivi contro tutto e contro tutti, fare che l’uomo solo avanzi e vinca, ecco in poche parole la questione alla quale si annodano tutti i problemi della guerra attuale, della guerra nostra: problemi complicati, delicati, sorprendenti, che variano da luogo a luogo, da ora in ora, che richiedono esattezze di calcolo, sforzi d’inventiva, prodigi di valore, per la soluzione dei quali bisogna tener conto di strani particolari, delle condizioni di luce, dello stato del suolo, di infinite minuzie. La mancata esplosione di qualche tubo sotto ad un reticolato; una pioggia improvvisa, il rivelarsi di una mitragliatrice nemica in un punto piuttosto che in un altro, possono essere ragioni di mutamenti di piani, di rinvii di azioni, di spostamenti, di soste, di rinunzie.

Quelle regole tattiche dell’offensiva che sembrarono eccellenti fino al novembre del 1914, sono assurde nel novembre del 1915. Si [p. 32 modifica] riteneva fermamente che un assalto rapido, denso, a grandi masse, a ondate incessanti, risoluto, incurante delle perdite, dovesse finire infallidmente per sopraffare una resistenza di trincea. La rapidità avrebbe diminuito il periodo critico delle massime perdite, la densità avrebbe compensato via via i vuoti e mantenuto l’impeto, e il sopraggiungere continuo di nuove masse avrebbe sfinito, sopraffatto e schiacciato l'ultima opposizione nemica. Così assalirono le linee franco-inglesi i tedeschi nella battaglia di Fiandra. Furono colonne e colonne serrate, furono valanghe di uomini che si precipitarono con magnifico ardimento, cantando, a dissolversi in uragani di piombo. Quando arrivavano alle trincee erano così assottigliate e stanche che il contrattacco le rovesciava indietro. Allo stesso modo si erano dileguati alcuni dei migliori reggimenti coloniali francesi sulla fronte dell’Aisne.

Furono necessarie queste stragi per accorgersi che il principio della marea umana aveva fatto il suo tempo.