Storia di una capinera/XXI
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Dal convento, 30 Gennaio.
Non ho voluto lasciare passare il mese senza scriverti. Tu avresti potuto credere che io sia triste, infelice, mentre, ai piedi degli altari, nelle pratiche austere del nostro rito ho trovato, se non la pace, almeno la calma del cuore.
È vero. Si prova uno sgomento invincibile entrando qui, sentendosi chiudere alle spalle quella porta, vedendosi mancare ad un tratto l’aria, la luce, sotto questi corridoi, fra questo silenzio di tomba e il suono monotono di queste preci. Tutto rattrista il cuore e lo spaurisce: quelle fantasime nere che si veggono passare sotto la fioca luce della lampada che arde dinnanzi al crocifisso, che s’incontrano senza parlarsi, che camminano senza far rumore come se fossero spettri, i fiori che intristiscono nel giardino, il sole che tenta invano oltrepassare i vetri opachi delle finestre, le grate di ferro, le cortine di saja bruna. Si ode il mondo turbinare al di fuori e i suoi rumori vengono ad estinguersi su queste mura come un sospiro. Tutto quello che viene dal di fuori è pallido e non fa strepito. Son sola in mezzo a cento altre derelitte.
Ho perduto anche la consolazione della famiglia; non posso vederla che in presenza di molta gente, in una gran sala oscura, attraverso la doppia grata che difende la finestra. Le nostre mani non possono stringersi scambievolmente. L’intimità domestica sparisce. Non restano che fantasmi che si parlano attraverso le gelosie, e ogni volta domando a me stessa se quello è mio padre, quel padre che mi sorrideva e mi abbracciava, se è quella stessa Giuditta che saltellava con me, se è quello stesso Gigi ch’era così vispo e allegro. Ora son seri, freddi, malinconici: mi guardano attraverso le grate della gelosia come viventi che si affacciano alla tomba per vedere cadaveri che parlano e si muovono.
Eppure tutte queste privazioni, tutte queste austere pratiche servono a distaccare il cuore dalla fragilità della terra, ad isolarlo, a farlo pensare a sè stesso, a dargli quella muta calma che viene da Dio e dal pensiero; chè così si abbrevia il nostro pellegrinaggio sulla terra. Mi son confessata. Ho detto tutto! tutto! Quel buon padre ha avuto compassione del mio povero cuore malato. Mi ha confortata, mi ha consigliata, mi ha aiutata a strapparmi il demone dal seno. Mi sento più libera, più tranquilla, più degna della misericordia di Dio. Domani entrerò in noviziato. Hanno voluto indugiare ancora pochi giorni perchè la mia salute è malferma. Non mi son rimessa mai intieramente della malattia che soffersi lassù a Monte Ilice. Ogni due o tre giorni ho la febbre e tossisco tutte le notti. Ma Dio mi darà la forza di sopportare la prova del noviziato. D’ora innanzi però non potremo vederci che assai di raro e non potrò scriverti perché non vedrò tanto spesso Filomena, quella buona sorella laica che si è incaricata di trasmetterti le mie lettere. Non vedrò più nemmeno il mio povero babbo!... Sia fatta la volontà del Signore!
Marianna, raccomandami a Dio perché io subisca codesta prova con rassegnazione.