Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo settimo

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CAPO SETTIMO

(Dall’Olimp. CXXIII alla CXXVII, 2.)

I. I Romani cominciano a framettersi nelle cose degl’Italioli. II. Guerra tarentina. Digiuno de’ Reggini. Pirro viene in Italia. Presidio romano in Reggio. Battaglia del Siri. III. Molte città italiote si gittano a Pirro. Tumulto in Reggio eccitato dalla Legione campana. Decio Giubellio fugge in Messena. I Campani si fanno padroni di Reggio, e si costituiscono indipendenti da Roma. Loro alleanza co’ Mamertini di Messena. Caso di Decio Giubellio in Messena. IV. Cose di Sicilia. Pirro è chiamato nell’isola. Lega tra i Cartaginesi ed i Mamertini. V. I Romani affaticano la Magna Grecia; Pirro ritorna dalla Sicilia, ed è combattuto da’ Cartaginesi, Mamertini di Messena e Campani di Reggio. Giunge a Taranto. VI. Potenza de’ Campani e dei Mamertini. Avventura di un Coro di trentacinque giovanetti mamertini. VII. Battaglia di Benevento. Pirro esce d'Italia. Malumori tra Cartaginesi e Romani. Timori de’ Campani di Reggio. I Cartaginesi a Reggio. VIII. Il Console Genuzio Clepsina assedia Reggio; a cui ajuto corrono i Mamertini: ma i Romani soccorsi da’ Siracusani prendono la città di viva forza. Severa vendetta de’ Romani: che lasciano in Reggio un forte presidio. IX. L’Italia federata de’ Romani; patti della federazione. Reggio città federata sino alla Legge Giulia. X. Confini della Repubblica Reggina sino alla cacciata de’ Campani. Suoi luoghi più ricordevoli. Suo territorio.


I. Sinora le guerre erano durate tra gl’Italioti ed i Sicilioti da una parte, ed i tiranni di Siracusa, i Lucani ed i Brettii dall’altra. Da qui innanzi vedremo i Romani combattere nella prima giunta contro i Lucani ed i Brettii; poi ingerirsi attivamente nelle cose della Magna Grecia; in ultimo dominar tutto. La Repubblica Romana, dalle sponde del Tevere dilatandosi di mano in mano su’ popoli finitimi, fortunata sempre, e sempre conquistatrice, ad ogni pretesto di guerra aggregava una nuova regione al suo territorio, e cancellava l’esistenza di un popolo. Nè senza motivo le repubbliche Italiote ne concepivano un inestimabile sgomento. Imperciocchè quando i Turini, essendo in guerra co’ Lucani e co’ Brettii, invocarono il soccorso de’ Romani, con quanta premura abbiano costoro accolto l’invito, è cosa da non dirsi. Di tal evento al contrario ne venne immenso rammarico agl’Itali, e in maggior grado a’ Tarentini, da cui i Turini erano a diritto rampognati di aver preferito all’ajuto degli Italioti quello di Barbari, a’ quali faceva mille anni d’introdursi nelle domestiche faccende della Magna Grecia. Certa cosa è che i Turini furono sovvenuti lestamente da’ Romani, ed i Lucani, i Brettii, ed i Sanniti rimasero sconfitti. Da ciò fu prodotto ne’ Tarentini e negli altri Italioti un segreto dispetto contro i Romani, che a scoppiare non aspettava che tempo; ed il tempo venne.

II. Era, dicesi, antico patto tra i Tarentini ed i Romani, che que[p. 53 modifica]sti ultimi non potessero co’ loro navigli trascorrere oltre il promontorio Lacinio. Ma i Romani nell’ascendente della buona fortuna, sentivano necessità di allargarsi e per terra e per mare. Ed ecco che un bel dì Lucio Valerio con dieci navi trapassa quel promontorio a vista di Taranto. (Olimp. 123, 3. av. Cr. 282). I Tarentìni indignati il ributtano a viva forza; quattro navi romane sono affondate; una è presa con quanto v’ è sopra. Saputo in Roma il caso, tosto ambasciatori sono spediti a’ Tarentini per chiedere riparazione dell’ingiuria, ma quelli non ricevono in cambio che nuovi insulti e villanie; e tra Roma e Taranto è dichiarata la guerra. I Tarentini, la prima cosa, corsero addosso a’ Turini, e ne guastarono il territorio in pena dell’aver chiamato i Romani; poscia disposero ogni cosa per la guerra con Roma. Ma fatti poi meglio i loro computi, e nelle sole loro forze mal s’affidando, chiamarono in ajuto Pirro re di Epiro; il quale avendo avuta per moglie Lanassa figliuola che fu di Agatocle, si reputava essere entrato nelle ragioni del suocero, nè volle per questo pretermettere quella ventura, che gli offeriva il passaggio in Italia.

Il comune ed imminente pericolo operò tanto che la secolare nimicizia tra i Lucani ed i Brettii si spegnesse; e che Lucani Brettii e Sanniti si confederassero cogl’Italioti per far testa a’ Romani. I quali all’opposto si strinsero in lega co’ Cartaginesi, che dalla Sicilia potevano commettere a’ venti una poderosa armata, per molestare di continuo le marine della Magna Grecia, e l’armata di Pirro. La Repubblica di Reggio, antica e fedele alleata di Taranto non poteva negare il suo concorso a questo grave cimento che valeva a propugnare la comune indipendenza contro i nuovi nemici. Ma tra perchè l’armata Cartaginese trascorreva minacciosa la riviera italica, e perchè i Romani si preparavano a spedire in Reggio un loro presidio, i Reggini non potettero porger ajuti di armati a’ loro alleati di Taranto. Ma per non mancare al loro debito, concepirono il generoso pensiero di fare ogni dieci dì un solenne e pubblico digiuno, e mandarne i risparmii a’ Tarentini ch’erano allora strettamente angustiati da’ Romani. (Olimp. 124, 4. av. Cr. 281). Ed i Tarentini poi, ricordevoli del singolar conforto loro dato da’ Reggini, istituirono, a memoria del fatto, un’annua festa, che durò lungamente. I Romani, ben si accorgendo quanto nella incipiente guerra fosse Reggio importantissima, determinarono di premunirla di un loro presidio, acciocché nè rimanesse alleata de’ Tarentini, nè cadesse in potere di Pirro. Per la qual cosa il console Valerio Levino, dalla Lucania, ove aveva a campo l’esercito, inviò a Reggio l’ottava [p. 54 modifica]legione, che si componeva di Campani; e n'era prefetto Decio Giubellio. Intanto la guerra si faceva grossa; (Olimp. 125, 1. av. Cr. 280), sul Siri tra Pandosia ed Eraclea Pirro conseguiva strepitosa vittoria sopra i Romani, condotti alla battaglia dal console Levino; e restavano morti sul campo quindici mila de’ Romani, tredicimila degli avversarii.

III. Grande e straordinario fu il successo della battaglia del Siri. Locri, Crotone ed altre città italiote, si misero nella protezione di Pirro, e furono da lui presidiate. In Reggio Decio Giubellio, in grazia di Pirro, concitò a tumulto la sua legione; presa opportunità da una festa solenne che i Reggini celebravano con pubblici banchetti. E Giubellio, ribellandosi a Roma, s’insignorì della città; ma i Campani, dopo che la sedizione ebbe sortito il suo effetto, non vollero più oltre dipendere da Giubellio, e colta cagione del non aver lui diviso con equità il bottino che nella città si era fatto, il costrinsero di fuggirsi a Messena. Dalla qual città i Mamertini, che si erano costituiti a repubblica, spinsero con ogni studio i Campani a fare altrettanto in Reggio, offerendo loro ed ajuti ed alleanza. Ed i Campani, animati dalle speciose esortazioni di quel popolo vicino, cacciarono primamente da Reggio quanti cittadini inclinassero o ai Romani o a Pirro, e delle coloro sostanze s’impossessarono, e si dichiararono indipendenti. E fu primo loro atto di collegarsi co’ Mamertini, e star forti contro qualunque nemico, in mezzo alle guerresche vicissitudini de’ Romani co’ Tarentini e col re di Epiro.

Raccettatosi in Messena il tribuno Decio Giubellio, menava oscuramente i suoi giorni, quando stando infermo degli occhi, volle a sè un medico di gran nome, e n’ebbe uno che era reggino, nè egli il sapeva. Questo medico, per vendicar la sua patria, gli applicò sugli occhi un collirio di tal malefica e potente virtù, che lo abbacinò pienamente.

IV. Intanto che queste cose succedevansi in Italia, le sommosse intestine crescevano in Sicilia a dismisura. In Siracusa Iceta era stato espulso da Tinione, che ne assunse il governo; e delle altre città le più erano scompigliate in partiti che fieramente si dilaniavano. I Cartaginesi tenevano assediata Siracusa, ed i suoi cittadini, cui le civili contese avevano logorato ogni virilità, si decisero di chiamar Pirro in Sicilia contro i molesti affricani, profferendogli il governo della loro città. Pirro, il quale, comunque vittorioso, aveva toccato gravissima perdita di gente nella battaglia combattuta con Levino, si lusingava che i Romani dopo quella rotta non si sarebbero così presto arrischiati a nuovi fatti d’armi: e per questo non [p. 55 modifica]seppe far rifiuto all’istanza de’ Sicilioti. Onde si allestì a passare in Sicilia, quando maggior uopo avea la Magna Grecia della costui presenza. Come subito corse alle orecchie de’ Cartaginesi che Pirro si era deliberato alla passata, si sollecitarono a dargli impedimento come più potessero, e si strinsero in alleanza co’ Mamertini di Messene per combatterlo con più probabilità di successo.

Nè Pirro era lento all’impresa; imbarcati soldati, elefanti ed ogni materiale da guerra, sciolse da Taranto, ed il decimo giorno fu a Locri: donde, lasciatovi il suo figliuolo Alessandro, a cui serbava il futuro dominio d’Italia, prese via per lo Stretto, protetto da sessanta navi che i Siracusani gli avevano inviato per fargli spalla contro i Cartaginesi, ove mai si provassero di contrastargli il tragitto. Ma i Cartaginesi non credettero sicuro consiglio l’attaccarlo, difeso com’era dall’imponente armata nemica. Approdò dunque a Tauromenio, e fecegli lieta accoglienza Tindarione, che ne aveva la Signoria. (Olimp. 125, 3. av. Cr. 278). Da ivi prese le mosse per Siracusa.

V. In questo dibattito di cose i Romani, avvantaggiandosi dell’assenza di Pirro andavano aspreggiando i suoi alleati d’Italia. Cornelio Rufino console, trapassando su quel de’ Lucani e de’ Brettii, da lui messi in rotta, riebbe per tradimento Crotone, e poi Locri. Nè i Lucani ed i Brettii caddero d’animo per questo; ma si rifecero alla pugna. Ciò nonostante alle nuove minacce delle armi romane, comandate dai consoli Fabio Massimo e Genucio Clepsina, non si credettero bastevoli alla resistenza; e mandarono messaggi a Pirro in Sicilia, pressandolo che facesse ritorno in lor soccorso.

Nè al re Epirota incresceva questa chiamata, che gli dava scusa di strigarsi dall’isola, dove que’ medesimi che lo aveano sollecitalo ad andarvi, gli si erano mutati in nemici, come prima s’insospettirono ch’egli, appetendo il principato, si prometteva di avere ad indirizzare a suo arbitrio le cose dell’isola. Il perchè era venuto in odio a quanti avevano in lui imaginato un liberatore, e non vedevano che un nuovo tiranno. Sicchè molte di quelle città che già il favoreggiarono, si erano poscia collegate co’ Cartaginesi e co’ Mamertini contro di lui. Ma il ritorno però gli si rendeva assai pericoloso e difficile; da che i Cartaginesi, i Mamertini di Messene ed i Campani di Reggio avevano fatta contro di lui stretta lega, ed unite le comuni forze di terra e di mare per batterlo e disfarlo alla sua ritornata in Italia.

Egli s’imbarcò a Tauromenio, (Olimp. 126, 2. av. Cr. 275), ma dall’armata cartaginese ch’era assai forte gli veniva vietato di [p. 56 modifica]a terra, come aveva in animo, sulla riviera reggina. Quindi il re, che pure aveva un navile di centodieci galee, prese di affrontarsi col nemico; ma venuto alla pugna, n’ebbe la peggio: poichè la ciurma, ch’era stata cernita per forza ed a tutta prescia in Sicilia, il serviva assai di mala voglia. Settanta legni da guerra di Pirro furono calati a fondo, e non più che dodici afferrarono senza avaria il paese de’ Reggini, ove la fanteria smontò in terra. Quivi Pirro si vide altresì necessitato di azzuffarsi co’ Mamertini che traghettato lo Stretto con diecimila uomini, e congiunti co’ Campani, avevano fatto testa non molto di lungi da Reggio ad attenderlo. Ed avvenutosi in loro toccò gravi perdite, ma pur si aperse il varco in mezzo alle saette nemiche. Nè ciò bastava; chè i Campani, imboscatisi in luoghi malagevoli, impetuosamente si avventarono al retroguardo, uccidendogli due elefanti, e molti soldati. Per la qual cosa Pirro accorrendovi, colla voce e col gesto dava animo a’ suoi, ed infuriava contro que’ forti ed animosi nemici. Ma ferito in testa nel calore della mischia, e costretto a trarsi in disparte in sul meglio, ne avvenne che i Campani prendessero maggior lena ed ardire, sicchè un di loro ch’era così ajutante della persona, come prode nell’armi, fattosi agli altri innanzi, con voce alta disfidava Pirro a singolar tenzone. Il re allora irritatissimo gli si volse contro co’ suoi, brutto ancor di sangue, e coi capelli arruffati. E prevenendo il Campano che non si aspettava tal furia, gli diede del brando sul capo, e glielo fesse in due. Di che sbalorditi i Campani restarono d’inseguire il nemico; il quale diresse senz’altro intoppo il suo cammino per Locri. E si trovò così bisognoso di pecunia, che non ebbe scrupolo di far suo il tesoro del tempio di Proserpina, ch’era tenuto da quel popolo in gran veneranza. Poi devastò in passando Crotone; le quali città, come dicemmo, erano ritornate alla fede di Roma. Giunse da ultimo a Taranto, forte tuttavia di ventimila pedoni e tremila cavalli.

VI. Mentre così la guerra tra i Romani, e Pirro e i Tarentini rinciprigniva, i Mamertini di Messena, ed i Campani di Reggio, costituiti a stati popolari, si affaticavano a raffermare la loro scambievole forza e prosperità; e ad estendere sempre più il loro dominio sulle genti contigue. I Mamertini avevano dilatato tanto la loro potenza in Sicilia, che giunsero a dominarne la terza parte, mentre il rimanente era diviso tra Siracusani e Cartaginesi. I Campani di Reggio si collocarono anch’essi in sì alto grado, che fecero guerra a Crotone, e se ne insignorirono, fugandone il presidio romano. Ed osteggiarono eziandio Caulonia, che si era data a Roma; ed espu[p. 57 modifica]gnatala, l’aggregarono a’ loro possedimenti. L’alleanza tra Mamertini e Campani stette sempre inconcussa fra mezzo alle fiere lotte che i Romani sostennero contro Tarentini, Sanniti, Lucani, Brettii ed Italioti. E nelle feste religiose e civili, ne’ traffichi, nelle scambievolezze della vita pubblica e privata costumavano tra loro come fossero abitatori di una sola città, fatta in due da poc’acqua. Ai pubblici giuochi ed alle feste di Messena accorrevano a folla i Reggini, come i Mamertini accorrevano a’ giuochi ed alle feste di Reggio.

A proposito di che, è rimemorata la sventura che incolse ad un Coro di trentacinque giovanetti mamertini; i quali mentre in compagnia del Corego e del Tibicine si recavano da Messena a Reggio per concorrere, com’era usanza, a’ ludi scenici ed alle feste che i Reggini celebravano con solenne rito, rotta in mare da subita procella la barca che li menava, tutti miseramente perirono. Del quale compassionevol caso patirono tanto dolore i Mamertini, che oltre delle altre funebri mostre, onde ne onorarono la memoria, vollero che a ciascuno di quegli sventurati fosse eretta una statua di bronzo; e ne fu allogato il lavoro a Callone Eleo che il condusse con molta perfezione e maestria.

VII. Frattanto la guerra tra i Romani ed i Tarentini, stata perplessa alcun tempo, volgevasi ormai favorevole all’ascendente fortuna romana. Gli alleati de’ Tarentini non si vedevano più; i Lucani ed i Brettii si erano riconciliati con Roma; e tutte le città italiote le si erano mutate quali in federate, quali in soggette. Taranto stretta dai Romani non aveva altra difesa che Pirro e sè stessa. Ma Pirro, uscito di Taranto contro i Romani, è affrontato e rotto presso Benevento dal console Curio Dentato, che gli uccide ventiseimila uomini, e ne fa prigionieri milletrecento. E questa vittoria mette tutta l’Italia a discrezione di Roma. Pirro è diloggiato d’Italia, ed altro non vi rimane di suo che Milone con un presidio nella rocca di Taranto.

I Cartaginesi vedevano di assai mal talento la sempre crescente potenza de’ Romani; e quantunque non cessassero di mantenersi loro alleati, accorsero contuttociò volentieri con la loro armata in Taranto, quando i Tarentini in odio a Milone, che comandava il presidio di Pirro, cercarono il loro ajuto a scacciarnelo. E restando pur vero quello che pretessevano, cioè essere unico fine della loro framettenza il fare uscir Milone dalla rocca tarentina, copertamente però si studiavano di confortare i Tarantini a non cedere quella rocca a’ Romani. E Papirio Cursore, che ne cavò il costrutto, seppe farla di mano a’ Cartaginesi, tirando Milone a consegnargli la for[p. 58 modifica]tezza (Olimp. 127, 1. av. Cr. 272). Questa fu la prima radice della rottura che poi seguì tra Roma e Cartagine. Nondimeno i Romani per allora s’infinsero; e finita la guerra di Pirro confermarono la loro alleanza co’ Cartaginesi e con Gerone di Siracusa. Nè tardarono a volgere la loro attenzione a’ Mamertini di Messene, ed a’ Campani di Reggio, che in tanto conquasso di cose si mantenevano tuttavia indipendenti. E come aspiravano ad ingrandirsi inquietavano in molte guise le limitrofe regioni. Intanto per queste guerre distruggitrici di uomini e di fortune pubbliche e private, le repubbliche italiote furono condotte in tanta miseria che lo stesso nome di Magna Grecia andava mancando, e vi sottentrava più tardi quello di Bruttii sotto l’influenza della nuova dominazione romana.

Non può dirsi con parole adeguate quanto le vittorie de’ Romani sieno tornate increscevoli a’ Campani di Reggio; i quali si avvedevano, che sbarazzatisi que’ fortunati vincitori della guerra con Taranto, avrebbero tratto vendetta della scandalosa ribellione di Decio Giubellio. Non tralasciarono pertanto di apprestarsi ad una vigorosa difesa, avvegnachè pur si confortassero che l’alleanza de’ Mamertini sarebbe contribuita a farli durare e resistere lungamente contro la possa de’ Romani. Ma un nuovo pericolo venne a’ Campani da’ Cartaginesi, i quali anche prima de’ Romani cercarono di farsi padroni di Reggio; ben preveggendo che quelli non si sarebbero molto indugiati ad occupare questa importante città. A conseguire il loro intento i Cartaginesi valicarono lo Stretto con mille cinquecento uomini, e posero a Reggio l’assedio (Olimp. 126, 3. av. Cr. 274.); ma dovettero presto levarlo per la resistenza energica loro fatta da’ Campani, a cui soccorso vennero frettolosi i Mamertini dalla vicina Messena. Allora i Cartaginesi, vedendo mal succeduta l’impresa, misero il fuoco a quanto non potettero trar seco, ed all’arsenale della città; e poi si rimbarcarono. Questo tentativo convinse i Romani della dubbia fede cartaginese, ed i malumori scambievoli maggiormente s’ingrossarono.

VIII. Ma già la burrasca rumoreggiava tremenda sopra i Campani, e la vendetta romana correva lor sopra inesorabile. Il console Genucio Clepsina ebbe commissione di ridurre con la forza que’ ribelli, della romana autorità usurpatori, ed investì e strinse Reggio di assedio e di assalto. A difesa della qual città si era raccolto grosso numero di rifuggiti sicilioti ed italioti, i quali per più tempo rintuzzarono con soprumano coraggio, e con ostinatezza incredibile il cozzo delle armi romane. Corsero oltracciò in ausilio della travagliata Reggio gli alleati Mamertini, e con tanta persistenza sdruci[p. 59 modifica]vano nel tergo e ne’ fianchi degli assalitori, che sarebbero stati costretti a togliersi dall’impresa, se in quel frangente non fosse loro giunto da Sicilia un opportuno rinforzo, e provvigioni d’ogni fatta. Gerone, re di Siracusa non senza scopo soccorreva allora i Romani contro i Campani; poichè era suo desiderio che gli alleati de’ Mamertini fossero diradicati da Reggio. E così restando i Mamertini deboli e soli, si avvisava che i Romani secondato l’avrebbero nei suoi disegni sopra Messena. Ma fra breve vedremo che il suo proposito gli fu attraversato da quei medesimi Romani, da’ quali tanto sperava.

In questo mentre gli ajuti siracusani fecero che con maggiore ed irresistibile impeto la città fosse incalzata da ogni banda, e che i Mamertini fossero obbligati alla ritirata. E Reggio, dopo un prolungato assalto ed ostinatissimo, non si arrese, ma fu presa per forza. De’ prigionieri il console ordinò che fosse tolta la vita a tutti i rifuggiti, e che i trecento soldati che ancor rimanevano della Legione Campana, fossero incatenati e trascinati in Roma (Olimp. 127, 2. av. Cr. 271.). Dove, non ostante l’ opposizione del tribuno Marco Flacco, furono tutti condannati nel capo. Fu eseguita la sentenza sopra cinquanta per giorno colla mutilazione e decollazione; e fu sino inibito a’ parenti il rendere gli ultimi uffizii a quegl’infelici, ed il vestirsi a bruno. A tutti i Reggini che avevano preso l’esilio per non sottomettersi a’ Campani, fu data facoltà di ripatriare, e restituiti gli averi e la libertà. Fu non pertanto lasciato Marco Cesio con un forte presidio romano; e questo valeva che l’ultima ora era venuta dell’indipendenza de’ Reggini.

IX. Dopo la cacciata de’ Campani da Reggio, tutta l’Italia dallo Stretto siculo all’Arno fu confederata a’ Romani. Gl’Italioti erano ancora chiamati Greci; ma il nome di Magna Grecia non era più inteso che a significare una nazione che fu. Tra i patti delle città federate con Roma erano questi: che le federate ad ogni bisogno tenesser pronto per la Repubblica Romana un contingente di milizie o di navi; che non potessero fare tra loro stesse alcuna lega; nè tra alcuna di loro con qualche stato straniero. Da ciò ben si desume come tal federazione non fosse fondata sull’equilibrio dei patti; ma quanto era proficua a Roma ch’esercitava diritti, tanto gravosa alle città, alle quali, eccetto lo specioso titolo di federate, non s’ imponevano che doveri e dipendenza. Aggiungi che tali città erano la più parte contenute in queste condizioni e nella fede dei patti dalla presenza di temuti presidii. Esse ritennero è vero, nè ciò fu poco, l’interna libertà di reggersi con leggi proprie, di crearsi [p. 60 modifica]i magistrati, di conservare le civili costumanze ed il culto; ma il loro essere politico era venuto a niente, avendo perduto il diritto di contrarre alleanze o tra se medesime o con altrui, di presidiare le le loro castella, e di batter moneta. Con tali leggi presso a poco fu Reggio confederata a’ Romani, dopo essere stata sottratta al dominio campano; e durò in tale condizione sino alla promulgazione della legge Giulia. Il che significa nettamente che aveva avuto già termine, checchè altri si dica e si voglia, l’autonomia della Repubblica Reggina.

Reggio città federata doveva fornire a’ Romani, ad ogni loro richiesta, un numero determinato di navi equipaggiate e provviste di ogni bisognevole a guerra.

X. Ma qui non parmi fuor di luogo, prima di passar oltre, indicare sotto brevità i confini dell’antica Repubblica di Reggio, e quelle parti del suo territorio che per la loro celebrità meritano speciale ricordanza. Ne notavano i confini il fiume Metauro a tramontana, a mezzodì il fiume Alece, a levante il giogo degli Apennini; parte dell’Ionio e del Tirreno a ponente. La lunghezza del suo territorio dal Metauro all’Alece correva in sessanta miglia; molto varia era la sua larghezza dagli Apennini al mare. La sua riviera bagnata dall’Ionio e dal Tirreno era ed è la più deliziosa ed aprica tra quante terre guarda il sole. Sul litorale che va dalle foci del Metauro a Reggio sono degne di memoria:

1.° Il Porto d’Oreste, che è da locarsi in fondo al golfo di Gioja.

2.° Presso Bagnara, dove più il mare s’insena, era il Porto Balaro.

3.° Seguiva lo scoglio di Scilla (Saxum Scillaeum).

4.° De’ due fiumi che sboccano tra Scilla e Bagnara, quello presso Bagnara pare che debba far riscontro all’Argeade di Varrone (Arciade della <span class="errata" title="Tavola Pentingeriana">Tavola Peutigeriana).

5.° E l’altro che or dicesi di Favazzina era con ogni verisimiglianza il Crateide di Plinio (Cratei d’Omero).

6.° Appresso veniva il Promontorio Cenide, (Torre di Cavallo) dirimpetto al Peloro di Sicilia.

7.° Poi la Columnna Regina, (Catona).

8.° La Columella Regina, (Gallico).

9.° Il Seno Posidonio (Pentimeli) ov’è antichissima tradizione che fosse fabbricato un tempio a Nettuno; donde venne a Reggio qualche volta il soprannome di Posidonia o Nettunia.

10.° E presso Reggio il Promontorio Artemisio (i Giunchi), ove sorgeva il celebratissimo tempio di Diana. [p. 61 modifica]

11.° Ed il fiume Lubone, (dell’Annunziata) non nominato, per quanto io so, dagli antichi.

Proseguendo a mezzodì della città erano:

1.° Il fiume Taurocinio (Calopinaci) che anche da Nettuno, Tauron, ebbe il nome; onde pure i Reggini furon detti Taurocini.

2° Il Promontorio Reggino (punta di Calamizzi).

3.° Il Promontorio Brettio o Bruttio (punta di Pellaro).

Fu dato però tal nome posteriormente, quando nelle guerre puniche quella parte dell’antica Repubblica Reggina fu occupata dai Bruttii, alleati di Annibale contro i Romani. Qual fosse il nome anteriore non seppi trovarlo presso alcuno storico.

4.° E Leucopetra, (Capo dell’Armi).

Sacra era nell’interno e sotto l’Apennino la Selva Reggina, (Saltus Reginorum) consecrata a’ riti solenni delle divinità tutelari di Reggio, ed inaccessibile a’ profani.

Variò spesso di dimensione il territorio di Reggio, ma queste modificazioni non furono mai così fatte che alterassero in modo sensibile e permanente i confini da noi detti qui sopra. Crebbe la repubblica di estensione sotto Anassila; nelle guerre contro Dionisio tenne dominio sopra varie terre del litorale siciliano, fra le quali Mila era assai ragguardevole. Fu poi rimpicciolita dal vecchio Dionisio, che ne detrasse varii luoghi per darli a’ Locresi; e da Dionisio il giovine fu restituita a’ suoi antichi confini. Sotto il governo de’ Campani riprese larghe dimensioni, ma da ultimo fu ridotta a’ primi termini, quando passò federata a’ Romani.