Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo sesto
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CAPO SESTO
(Dall’Olimp. CVIII, 2 alla CXXII, 4.)
I. Timoleone in Reggio. I Cartaginesi cercano di vietargli il passaggio in Sicilia; ma egli, agevolato da’ Reggini, vi passa. II. Caccia di Sicilia Dionisio e gli altri Tiranni; tratta pace con Iceta, e co’ Cartaginesi. Fa guerra a’ Tirreni. Sua morte. III. Prosperità della Reggina Repubblica. Cleomene, poeta; Lico Butera, storico. Turbolenze in Sicilia. IV. Agatocle, figliuolo di Carcino vasajo reggino. V. Agatocle milita nell’esercito siracusano: fugge da Siracusa. Sue avventure nella Magna Grecia. Ajuta Reggio assediata da’ Siracusani. Combatte contro i Brettii. VI. Agatocle, tiranno di Siracusa. Sua morte atrocissima. VII. Origine de' Mamertini.
I. I Cartaginesi, che tenevano in loro dominio parecchie contrade della Sicilia, si prevalevano di queste ire e guerre fraterne per distendersi e consolidarsi. E le misere popolazioni erano senza posa balestrate dalle interne alle esterne prepotenze. Quindi con caldissime istanze i Siracusani si rivolsero a Timoleone, il quale prestò loro facili orecchi. Ed avuto intendimento con varii popoli italici, ed in ispecie co’ Reggini, perchè non mancasse appoggio alla sua impresa, si allestì alla partenza. Erano propizii gli augurii, e le sacerdotesse di Cerere e di Proserpina assicuravano in Corinto al valoroso Timoleone, che le due Dee, a cui quella nobilissima isola era consecrata, navigherebbero con lui a Siracusa. Era insomma nei fati che da Corinto, dond’era venuto Dione, dovesse muovere un secondo e più fortunato liberatore della Sicilia. Partì Timoleone da quella città sopra una nave, cui nomò Cerere e Proserpina, ed altre nove il seguivano; e rasentando il litorale della Magna Grecia, posò con buon vento a Metaponto, ove trovò una schiera di giovani Reggini, i quali si erano recati ad incontrarlo, e fargli osservanza. Non era dubbio oramai che la Repubblica di Reggio tenesse occulta mano a Timoleone in quella impresa. In Metaponto non sostò gran fatto; poichè com’ebbe contezza che un’armata cartaginese incrociava in quelle acque per difficultargli il tragitto, quanto potè più celeremente piegò verso Reggio, ed imboccò nel suo porto. (Olimp. 108, 4. av. Cr. 345) Quando Timoleone fu in Reggio non erano che tre giorni da che Dionisio, pugnando per più tempo contro Iceta, (il quale ad ogni costo voleva contendergli il ritorno in Siracusa) aveva ricuperato il dominio di una parte di quella città. E saputo il rapido appropinquarsi di Timoleone, pose ogni diligenza a mettersi ad agio di una valida resistenza; e rappattumatosi allora con Iceta, entrò in lega con costui e co’ Cartaginesi, i quali non potevano digerire che altri ponesse piede in Sicilia.
I Cartaginesi avevano fatto incontanente mettere alle vele venti triremi; ed addossatone il comando ad Annone, queste furono dirette verso Reggio per opporsi a qualunque tentativo che Timoleone far volesse di valicar lo Stretto; e si presentarono minacciose davanti alla città. Ma non così presto che potessero impedire l’entrata in quel porto delle navi corintie. Oltre a ciò collocarono un loro poderoso presidio in Messene per tenerla in soggezione, e vietare che Ippone, tiranno della città, aprisse le porte a’ Corintii. Erano pure venuti alla volta di Reggio alcuni messi d’Iceta, con commissione o di stogliere Timoleone dalla spedizione di Sicilia (dandogli prima malleveria che i Siracusani sarebbero lasciati nella loro indipendenza) ovvero, qualora si fosse incocciato in questa impresa, di suggerirgli in secreto che si trasferisse per la diritta ad Iceta, per trovar modo di tirar quella guerra ad un fine utile ad amendue. Ma Timoleone, venuto a ragionamento con quelli, senza obbligarsi o aprirsi a checchessia, con assai destra mansuetudine affermò ch’egli non schiferebbe i loro consigli: desiderare nondimeno, prima di andarsene via, che la loro proposta e la sua risposta fossero fatte alla presenza del popolo reggino, che greco era ed amico tanto dell’una parte quanto dell’altra. Ciò a lui premerebbe per poter dimostrare che lo scopo della sua missione era attenuto, e ch’essi non sarebbero per mancare a promesse fatte a pro de’ Siracusani nella presenza della cittadinanza reggina, che potea far testimonio delle loro convenzioni. Ma queste cose egli proponeva loro artatamente, e solo per guadagnar tempo al suo intendimento, e per distrarli dal pensare al suo passaggio nell’isola. Alle quali macchinazioni davano forza e consiglio i supremi rettori della repubblica Reggina, cui Timoleone teneva disposti al suo desiderio.
Fu chiamato il popolo di Reggio a concione nel Pritaneo, ed i Cartaginesi si facevano a credere essere oggetto di quella pubblica consulta l’imporre a Timoleone il ritorno a Corinto. Per la qual cosa costoro sbarcati in città vigilavano con assai sbadataggine l’uscita del porto, persuadendosi che Timoleone in loro presenza non si sarebbe mica arrisicato al varco dello Stretto. E Timoleone medesimo, intervenuto tranquillamente all’adunanza, non dava alcun sospetto di quel che mulinava nel suo animo. Ma intanto aveva disposto che nove delle sue navi prestamente e con tutto riguardo prendessero il mare. E come vide i Cartaginesi attendere con tanto d’occhi e d’orecchi a’ discorsi che vi facevano gli oratori reggini, tenuti a bello studio anche più lunghi, dileguatosi di là quatto quatto, montò di lancio sopra una nave che si teneva alla vela per lui, e dato de’ remi in acqua, si dilungò dal porlo con meravigliosa celerità. Quando di ciò si accorsero i Cartaginesi, egli era assai lontano dalla terra, ed aveva acquistato tanto vantaggio, che comunque con celerissimo corso cercassero di giungerlo, non ne potettero far nulla; ed al venir della notte Timoleone era già disceso co’ suoi in Tauromenio. Ivi fu accolto da Andròmaco, padre dello storico Timeo e signore del luogo, il quale congiunse le sue armi a quelle dell'eroe di Corinto.
Appresso la partenza di Timoleone da Corinto i suoi concittadini gli avevano inviato un soccorso di dieci altre navi con sopravi un fior di duemila fanti e di duecento cavalli. Queste arrivate che furono a Turio, non vedendo modo di poter passare oltre, per essere il mare occupato dalle navi cartaginesi, ivi si fermarono col permesso de’ Turini, aspettando tempo opportuno; ma poi non volendo i Corintii più oltre indugiarsi, presero a camminare per terra a traverso del paese de’ Brettii, e passati essendo ora di consentimento di quegli abitatori ed ora per forza, vennero in Reggio mentre il mare era tuttavolta in fortuna. Annone in questo mentre, credendo che i Corintii non si fossero assentati da Turio, ritrasse il navilio verso Siracusa. E quelli vedendo che non vi era persona che stesse ad occhiarli, e che il mare, abbonacciatosi come per miracolo, lasciava loro tranquillo ed agevole il valico, saliti subito su navicelli da pesca e da traffico, loro approntati da’ Reggini, trapassarono con tutta sicurtà a Tauromenio, ove si aggiunsero a Timoleone che ancor vi dimorava.
II. Da Tauromenio, messo Timoleone l’esercito in rassegna, prese via per Siracusa, e quando vi fu presso seppe che Dionisio si era messo in forte nell’Isola, e che Iceta teneva in poter suo Acradina e Neapoli. Timoleone prese stanza nella rimanente città. (Olimp. 109, 2. av. Cr. 343) in questo travaglio di cose i Cartaginesi erano entrati nel maggior porto di Siracusa con un’armata di cencinquanta triremi, e con cinquantamila pedoni, che sbarcarono nei dintorni della città. E già tanta somma di nemici aveva messo in paura le genti di Timoleone, quando in un subito le cose mutarono. In prima venne ad unirsi a Timoleone con truppe agguerrite Mamerco, tiranno di Catana; ed il costui esempio seguirono senza dimora molte terre e città desiderose di liberarsi dalle domestiche rivolture. Ma non essendo mio proposito di narrare per disteso le stupende opere di Timoleone in Sicilia contro i tirannelli, che conculcandola la squartavano e spolpavano, dirò solo che mediante il suo fermo, indefesso e coraggioso concorso Dionisio e Leptine dovettero prender l’esilio nel Peloponneso; uscir Mamerco da Catana, Ippone da Messena. Ed Iceta, disceso agli accordi, si collegò con Timoleone contro i Cartaginesi, a’ quali fecero aspra guerra, e li costrinsero in ultimo a spedir commissarii per trattar la pace. Della quale furono principali condizioni che il fiume Lico fosse il confine de’ possedimenti loro e de’ Siracusani; che lasciassero vivere in libertà tutti i Sicilioti; e che in avvenire non fossero mai per dare ajuto a chiunque aspirasse a tiranneggiare la patria. E Timoleone, avvertendo alle comuni libertà, compose le città di Sicilia a temperato reggimento popolare, spazzandone que’ tanti despoti che per lo innanzi le travagliavano; rifece le città greche distrutte da’ Barbari, e ripose nell’antico stato le repubbliche della Magna Grecia, e massime Reggio, che tanto aveva favoreggiato l’impresa di liberar la Sicilia. Le assicurò in oltre che nè egli nè altri, lui vivente, avrebbe attentato a menomare la loro indipendenza. E sotto la sua potente protezione disparvero dapertutto in Siracusa ed altrove le sanguinose orme della tirannide, le scienze e le arti fiorirono, il commercio vivificò lo scambio delle ricchezze nazionali, ed una pace durabile protesse e consolidò ne’ popoli la loro grandezza e prosperità. A’ Tirreni, che correvano per que’ mari recando gravissimi danni a’ trafficanti, fece guerra implacabile, e venutogli fatto di riscontrarsi in dodici navi di quella gente, capitanati da Postumio, tolse a costui la vita, e quelle navi sfondò.
Delle quali cose tutte le più popolose ed illustri città di Sicilia e della Magna Grecia rendevano merito a Timoleone liberatore. Il quale venuto al termine della sua gloriosa vita, (Olimp. 111, 2. av. Cr. 335.) dopo essersi per otto anni affaticato ad assodare alla Sicilia lo stato libero, non è a dire quanto desiderio di sè abbia lasciato non pur ne’ Siracusani e negli altri Sicilioti, ma altresì negl’Italioti, e soprattutto ne’ Reggini. Imperciocchè la loro libertà era stata da lui raffermata quando non erano usciti che da poco tempo dalla tirannide di Dionisio il giovine.
III. La Repubblica Reggina rifatta libera ritornò alla primiera floridità, e tale proseguitò sino a’ tempi di Agatocle. E contuttochè la sua storia da Timoleone ad Agatocle ci sia oscura, nondimeno è da presumere che allora, al pari delle altre repubbliche, abbia gioita una lunga pace e fruttifera di ogni maniera di civiltà. Imperciocchè ebbe uomini egregi e nelle lettere e nelle arti, e conseguirono fama chiarissima sopra tutti il poeta Cleòmene, e lo storico Lico Butera, a cui Licofrone fu figliuolo adottivo.
Ma nella Sicilia le cose calavano al peggio; (Olimp. 115, 1. av. Cr. 320) di nuovo si raccendevano i popolari tumulti, e la cupidità di signoreggiare ubbriacava le menti. Stantechè, illuse e corrotte dalle adulazioni degli oratori, le città osavano tanto innalzare a’ primi gradi dello stato i faziosi, che costoro in nome di custodire la patria libertà, la rendevano ancella di sè stessi con aggirare a loro beneplacito le moltitudini, le quali non fanno che accorrere a chi sa più ingannarle. Nè riposava la Magna Grecia, molestata e corsa da’ Brettii, i quali levatisi dalla dipendenza dei Lucani, e riformatisi a stato libero, erano divenuti potentissimi; e gittatisi alla conquista delle regioni confinanti, avevano fatto toccare agl’Italioti varie sconfitte. Questi Brettii, che nel corso dell’ottantesima quarta olimpiade combattevano contro i Sibariti, cominciano nella storia ad aver condizione di popolo indipendente verso l’olimpiade centesimasesta.
IV. Fra tutti in singolar modo diventò tiranno de’ Siracusani Agatocle, cresciuto poi a tal potenza che non solo implicò in gravissime e dolorose calamità Siracusa, ma bensì la Sicilia e buona parte della Magna Grecia e dell’ Affrica, riducendo a squallida servitù le più splendide repubbliche di queste contrade. Agatocle fu figliuolo di Càrcino, vasajo reggino, il quale bandito da Reggio in tempi di politici commovimenti, aveva preso casa in Termi di Sicilia, terra che era allora sotto i Cartaginesi. Aveva Càrcino menato per moglie una donna di Termi, e durante la costei gravidanza, a lui spessi sogni venivano a turbar la mente. Perilchè, presa opportunità di alcuni Teori cartaginesi che recavansi a Delfo, diede loro preghiera d’interrogare in sua vece l’oracolo di Apollo sul futuro destino di quel parto. Quelli non mancarono alla commissione, e l’oracolo rispose che il nascituro figliuolo sarebbe stato cagione a’ Cartaginesi, ed a tutta la Sicilia di moltissime disgrazie. La qual cosa udita, Carcino non ne fu poco spaventato; e si consigliò di esporre pubblicamente il bambino, e mettervi persona ad impedir che fosse involato, ed a lasciarlo morire. Ma passati alquanti dì, nè morendo il fanciullo, tralasciossi di guardarlo colla consueta diligenza; del che la madre si giovò, e di notte tempo, quando alcuno non vi badava, indi lo tolse. E come temea del marito, non sel recò in casa, ma presso un certo Eraclide che le era fratello; e del nome del costei padre il nominò Agatocle. Aveva già sette anni il fanciullo, quando Carcino invitato da Eraclide ad una festa, vide Agatocle sollazzarsi con altri ragazzi, e restò preso della bella e vigorosa persona di lui. E come sua moglie, che seco era, soggiunse che così grande e bello sarebbe stato il figliuol loro ch’egli aveva esposto, Carcino mestamente rispose dolergli assai di quel fatto, e quando se ne rimemorava non faceva che piangere. La donna allora, usufruttuando l’attitudine affettuosa in che si agitava il marito, gli rinsegnò tutto l’accaduto. Della qual cosa Carcino ne fu allegro quanto altri mai, e si portò in casa il figliuolo; e per paura de’ Cartaginesi andò colla sua famiglia a stabilirsi in Siracusa. Ivi cominciò ad ammaestrare il giovinetto nell’ arte del vasajo; e quando poi venne Timoleone, e vincendo i Cartaginesi nella battaglia del Crimisso, concedette la cittadinanza Siracusana a quanti la vollero, Carcino insieme col figliuolo si fece allibrare tra que’ cittadini.
Poi quando il vasajo reggino venne a morte, Agatocle fu preso in protezione da Dama, dovizioso e nobile Siracusano; il quale fecelo condottiero di un drappello di armati contro Agrigento: e mancato uno de’ chiliarchi, fu dato ad Agatocle tale uffizio. Morendo Dama legò alla moglie ogni sua possidenza; e costei si prese per nuovo marito Agatocle, che divenne così ricchissimo sopra ogni altro cittadino di Siracusa.
V. Quando in quel torno i Siracusani mandarono aiuti a’ Crotoniati minacciati da’ Brettii, era uno de’ capitani Antandro fratello di Agatocle, ma la somma del comando stava in Eraclide e Sosistrato. Con loro militava anche Agatocle chiliarca, ma le sue azioni, spesso valorose, venivano sempre da Sosistrato menomate e messe in dispregio. Del che rodendosi Agatocle andò mettendo voce nel popolo siracusano che Sosistrato ed i suoi fautori mirassero copertamente a ristorare in Siracusa la tirannide. Ma non fecero effetto le sue parole; anzi Sosistrato ritornato da Crotone in patria, fu ricevuto con festa, e concessogli il magistrato supremo. Così non restava altro espediente ad Agatocle che assentarsi da Siracusa per cessar la vendetta di Sosistrato.
E passò in Reggio, ove fattosi partito di moltissima copia di gente raccogliticcia, si gittò alla ventura, e nel primo tratto tentò di aver per sorpresa Crotone; il che andatogli in fallo coll’avanzo de’ suoi trasse a Taranto, e si assoldò in quelle milizie. Ma non poteva star quieto; e rendutosi sospetto di voler sovvertirvi l’ordine costituito, gli fu imposto lo sfratto. Dopo di che, rinforzatosi di una numerosa accozzaglia di rifuggiti di varie città italiche, corse ad ajutarc i Reggini, la cui città era in quel tempo osteggiata dalle armi siracusane sotto la condotta di Eraclide e di Sosistrato. Costoro furono da Agatocle sbaragliati e costruiti a toglier l’assedio. Tal rotta fece sì gran rumore e fastidio in Siracusa che tutti gli animi cominciarono a mutar verso, ed inchinare in vece ad Agatocle, che già saliva in gran fama di valoroso guerriero. Il popolo Siracusano, che già era grandemente indignato dell’insolenza di Sosistrato, si dimostrò cedevole alle nuove e più opportune istigazioni di Agatocle, ed andava preparando il tracollo del primo. Qual cagione poi abbia spinto allora i Siracusani a prender guerra co’ Reggini, non abbiamo alcuna certa notizia.
Nè solo Agatocle fece ajuti a’ Reggini, ma bensì alle altre città italiote, ch’ erano in perpetua guerra co’ Brettii, contro i quali combattè egregiamente; sebbene i Brettii, ora vincitori ora vinti, avessero affrontato sempre con meravigliosa fermezza l’impeto delle armi di lui. Gl’Italioti, cui la squisita civiltà e la pace aveano reso molli, effeminati e male atti a reprimere di per sè le continue molestie de’ Brettii, che tutti vita ed energia andavano acquistando potenza e territorio a scapito de’ loro vicini, impetrarono assai volte il soccorso dì Agatocle. E costui colla speranza di entrare nel loro favore, e farsi spalla a salir su, mai non si era negato all’invito.
Della Repubblica Reggina fu sempre amico; nè si sa che punto abbia tentato di menomarle la libertà, o soggiogarla. L’alleanza dei Reggini gli era non solo proficua ma necessaria, per aver sicuro il passo, ad ogni bisogno, dalla Magna Grecia per la Sicilia.
VII. Nè le faccende di Siracusa tardarono a volgersi a lui favorevoli. Sosistrato, già caduto in discredito per le sue male arti ed astuzie, era tratto giù dal suo potere a furia di popolo, e cacciato in bando. Allora Agatocle da Reggio tornava sollecito in Siracusa, chiamatovi da un preponderante partito che il sollevò dirittamente a’ primi gradi dello Stato. (Olimp. 115, 3. av. Cr. 318). Di cui poi fattosi tiranno, si usurpò il nome di re. Durante il suo governo però, che fu di ventotto anni, le interne ed esterne turbolenze non ebbero mai tregua. E se forse Agatocle non fu migliore di Sosistrato, e di quanti altri tiranni il precedettero; se è vero che tolse ai Sicilioti ogni fattezza di libertà, e li oppresse per tutti i versi; non può tacersi dall’altra parte con quanta perseveranza e bravura abbia fatta guerra a’ Cartaginesi, i quali non mettendo fine alle infestazioni, rendevano il loro dominio odievole ed insopportabile a chicchessia. Perseguitando questi stranieri in ogni angolo dell’isola, Agatocle trasportò animoso il campo della guerra sotto le mura di Cartagine; e precorse così a’ Romani la via delle future e memorabili battaglie nell’Affrica.
La costui vita nondimeno terminò in modo atrocissimo. Arcàgato suo nipote, cupido d’impero, eccitò Mènone che era uno de’ familiari del tiranno, a far morire di veleno lo zio. Era usanza di Agatocle di forbirsi i denti con una penna dopo il desinare; e Menone a tal uopo ne preparò una intrisa in un veleno efficacissimo, e gliela porse all’ora consueta. Agatocle, che di ciò non si guardava, adoperandola con molta pertinacia, tanto andò scarificando tra dente e dente che ne lacerò le gengive. Questo gli causò prima un lento malore, appresso spasimi d’ora in ora più intensi, ed in fine gli brulicò fuori e dentro la bocca una marcia schifosa, nè vi ebbe alcun farmaco che valesse a guarirlo. Per avventura era allora presso Agatocle un legato di Demetrio re di Macedonia, e chiamavasi Ossitemi; il quale vedendo nelle mortali angosce il tiranno, pensò di spacciarlo, e con atto di stranissima ferocia il fece porre, così semivivo, sopra un rogo, e gli bruciò la persona. (Olimp. 122, 4. av. Cr. 289). Siracusa, prendendo festa della racquistata libertà, abbattè le statue del morto tiranno.
Menone, fornita così bene la commissione, uscì di Siracusa e si recò al campo di Arcagato; ma volendo recare a sua propria comodità gli effetti del misfatto, uccise anche costui a tradimento, e carpitosi il comando dell’esercito, si accinse a guerreggiare i Siracusani, con animo di usurparsene lo Stato. Costoro, ordinati da Iceta, gli uscirono incontro; ma abbracciatosi Menone co’ Cartaginesi, e prevalendo di forze, i Siracusani dovettero venire a trattato, ed una delle condizioni del medesimo fu, che fossero ribenedetti tutti i profughi.
VII. Era a que’ tempi in Siracusa una gran quantità di mercenarii Campani; i quali da Mamerte che viene a dir Marte, facevano chiamarsi Mamertini, ad indice della loro vita guerresca. Cotestoro, che già militavano ai soldi di Dionisio, avevano continuato dopo la morte di lui a far dimora in Siracusa, ed ottenutane la cittadinanza. Or presa cagione che i Siracusani nella tratta de’ magistrati non avessero usato loro le debite convenienze, ruppero in grave sedizione; della quale fu conseguenza che i Mamertini sopraffatti dovettero uscir di Siracusa. Ma partiti da essa città, vennero ricevuti da’ Messeni come amici e compagni di armi; e poi risposero a tale accoglienza col farsi padroni di Messena a tradimento, di che mi sarà data occasione di ragionare a suo luogo. Se io mi sono occupato, forse più che non si affaceva al mio uffizio, della vita di Agatocle, ciò ho voluto fare appensatamente; poichè essendo egli originario reggino, non mi parve fuor di luogo quanto io venni narrando di lui.