Storia di Milano/Capitolo XXXIII
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- Morte dell’imperatore Carlo VI, al quale succede negli Stati ereditari la primogenita Maria Teresa. Altra guerra in Italia, ch’ebbe fine colla pace in Acquisgrana. Condizione e governo della Lombardia. Giuseppe II imperatore; sue riforme. Breve regno e morte di Leopoldo II.
(1737) Restituito lo stato di Milano in seno alla pace, fu necessariamente, per varii anni, privo di avvenimenti degni di essere ricordati, per cui appena si ha a far parola dell’ingresso in Milano del nuovo cardinale arcivescovo, Carlo Gaetano Stampa, accaduto il 10 maggio del 1737. Il 6 luglio dello stesso anno morì Giovan-Gastone, ultimo gran duca di Toscana della casa Medici, succedendogli, per le precedute convenzioni, il duca di Lorena, sposo dell’arciduchessa Maria Teresa. È non meno meritevole di ricordanza la morte, accaduta in Milano, del gesuita Tommaso Ceva, nella grave età d’ottantotto anni. I piacevoli suoi costumi, i suoi versi latini, qualche produzione matematica, e il suo buon gusto nelle belle lettere, del quale ci fan prova i precetti conservatici dal Muratori nella di lui Vita, lo resero uomo distinto. (1739) Due anni dopo, l’arciduchessa Maria Teresa d’Austria e il gran duca Francesco di Lorena, di ritorno dai loro Stati di Toscana, onorarono, nel mese di maggio, la città di Milano colla loro presenza, e furono accolti cogli accostumati festeggiamenti. (1740) L’anno 1740 fu di funesto presagio per l’Italia, mentre all’esito infelice della guerra turchesca, colla perdita di Belgrado, si aggiunse, il 20 ottobre, la morte dell’imperatore Carlo VI, essendo d’anni cinquantacinque, dopo una malattia di soli tre giorni. Con esso ebbe fine la linea maschile dell’augusta casa d’Austria, la quale, nel corso di quattrocentosessantasette anni, diede al romano Impero sedici cesari e sei re alla Spagna. Appena divulgata la funesta nuova, l’arciduchessa Maria Teresa, come primogenita, secondo la prammatica sanzione, fu proclamata e riconosciuta regina d’Ungheria e di Boemia, e principessa sovrana di tutti i regni e Stati già appartenenti all’augusto genitore. Due suoi dispacci, spediti due giorni dopo la di lei assunzione al trono, giunsero in Milano; col primo de’ quali ordinava la celebrazione de’ funerali e le dimostrazioni del lutto per l’estinto monarca; e col secondo confermò il conte Traun in governatore dello Stato. Con altro dispaccio del 7 dicembre annunziò a questa città la generosa risoluzione di aver promosso il real consorte a coreggente in tutti gli acquistati dominii, senza lesione della sovranità o pregiudizio della prammatica sanzione. (1741) Di là a pochi mesi ebbero i sudditi lombardi motivo di nuova allegrezza per la notizia della successione assicurata alla casa austriaca, colla nascita di un arciduca primogenito, avvenuta il 13 marzo, che fu poi l’imperatore Giuseppe. Il conte Verri, mosso da ciò che quest’augusto prometteva nell’aurora del di lui regno, registrò nelle sue Memorie la nascita di esso, appellandolo il Giusto e l’Amico degli uomini. Ma dietro quest’aura di prosperità, e sotto quest’apparenza di ciel sereno, sorgeva minacciosa la più funesta procella, suscitata dalla concorde ambizione di tanti altri sovrani, per dividersi il ricco patrimonio di tanti regni. Stromento immediato riputavasi il re di Sardegna; e il caso volle che, per lasciarlo maggiormente libero di seguire gl’impulsi della sua politica, morisse a quel tempo la regina Elisabetta Teresa. Non fu tarda la corte di Vienna a proporgli un nuovo parentado colle nozze dell’arciduchessa Marianna, secondogenita del defunto Carlo VI; ma una tale proposizione non ebbe effetto: benché per questa volta la fede serbata all’Austria si trovò di accordo cogl’interessi della sua corona. Vide allora l’augusta Maria Teresa essere inevitabile il turbine di una guerra accanita, e imminente lo scoppio; sì che, come al più pronto rifugio, prese la memorabile risoluzione di ricorrere alla magnanimità della nazione ungherese; e, coll’occasione che il 25 di giugno fu essa coronata in Presburgo, si presentò agli Ordini della nazione, nuovamente radunati, tenendo fra le braccia il reale infante, della sola età di due mesi, e con tale dignità ed energia perorò per la sua causa, che da quell’assemblea, commossa fino alle lagrime, ottenne un unanime sfoderar di sciabole, accompagnato dal noto giuramento: Moriamur pro rege nostro Maria Theresia.
(1742) La prima esplosione della procella seguì nella Germania, cumulandosi allo sforzo dell’armi gli effetti delle macchinazioni politiche. Nello stesso tempo che l’invasa Boemia apriva ai nemici le porte della sua capitale, gli elettori, radunati a Francoforte, proclamavano all’Impero il duca di Baviera, col nome di Carlo VII. Intanto la Lombardia era minacciata dagli Spagnoli, partiti dal Napoletano e radunatisi in Romagna, ai quali fece fronte il governatore di Milano, maresciallo conte Traun, possentemente sussidiato dal re di Sardegna, avendo instituita, per rappresentarlo nell’amministrazione dello Stato, una real giunta di governo. La milizia civica fu posta a presidiare il castello; nella quale onorevole incumbenza durò per dieci mesi. Quasi contemporaneamente un altro esercito spagnuolo invase la Savoia; il che costrinse il re sardo ad accorrere alla difesa de’ propri Stati. (1743) Il 23 dicembre di quest’anno morì, più che sessagenario, l’arcivescovo cardinale Stampa, cui dal sommo pontefice Benedetto XIV, il 15 del successivo giugno, fu sostituito l’arciprete della chiesa metropolitana, Giuseppe Pozzobonelli, promosso tre mesi dopo al cardinalato: onorificenza ormai consueta ai titolari di questa sede arcivescovile. Circa la metà dell’anno, videro pure i Milanesi cambiato il loro governatore, il quale passò al comando degli eserciti in Germania, lasciando in queste parti grata memoria dei suo discreto ed onorato procedere, della sua moderazione ed affabilità, del suo disinteresse, e di molta carità verso i poveri1105; ed ebbe in successore il principe Giorgio Cristiano di Lobkowitz, che tosto si recò al campo contra gli Spagnuoli, confermando la giunta di governo già stabilita. Né a ciò limitandosi la previdenza di Maria Teresa, si fece forte nel trattato di Worms, firmato il 12 settembre, co’ sussidii navali e pecuniarii dell’Inghilterra, estesi anche al re di Sardegna, suo alleato; e, per viepiù tenersi questo in fede, acconsentì di eseguire a suo favore un terzo smembramento dello stato di Milano, concedendogli Bobbio, Voghera e Vigevano coi loro territorii, per modo che l’intiero corso del Ticino, del lago Maggiore al suo confluente nel Po, fosse la linea di confine tra i due Stati; e di questa concessione venne il re di Sardegna posto in possesso nel principio del seguente anno. (1744) I consigli dell’attenta sovrana erano pure secondati dalla fortuna, venendo la guerra in Italia condotta con tale indolenza dai Gallo-Ispani, che consumarono l’intiera estate nell’inutile investimento di Cuneo; onde ha quella potuto mantener grossi e concentrati i suoi eserciti per un maggiore sforzo nella Germania. (1745) Sopragiunse ancora più fausta per essa la morte avvenuta in Monaco, il 20 febbraio del 1745, di Carlo VII, il quale, sebbene non sia mai stato che una larva d’imperatore, era tuttavia di continuo e grave inciampo a’ suoi disegni. Fu quindi facile alla di lei destrezza di far eleggere al trono imperiale il proprio consorte duca di Lorena, il quale infatti fu incoronato a Francoforte il 4 ottobre, e prese il nome di Francesco I.
Queste felici combinazioni politiche, certamente influenti al buon esito definitivo della gran lotta, non valsero a dissipare la fiera procella che da tanto tempo ci sovrastava. Le corti di Francia e di Madrid, costanti nel proponimento di fondare una seconda sovranità borbonica in Italia in vantaggio dell’infante don Filippo, strinsero ad Aranjuez un trattato colla repubblica di Genova, obbligandosi a pagarle un sussidio mensile di centomila scudi1106, e si decisero ad assalire con una massa preponderante di forze l’esercito austro-sardo, al di cui comando era venuto di recente il conte di Schulembourg in vece del principe di Lobkowitz, il quale era stato pure separatamente supplito nel governo della Lombardia dal tenente maresciallo conte Gian Luca Pallavicino, con titolo di ministro plenipotenziario e autorità di governatore. Attesa l’alleanza coi Genovesi, nuovi rinforzi francesi e spagnuoli ebbero facile e sicuro il passo per la via d’Oneglia, ed unitisi col nerbo militare già esistente, e coi contingenti di Napoli, di Modena e di Genova, fecero centro in Acqui. Fra tutti ascendevano a settantamila combattenti, comandati da Francesco III duca di Modena, dal general conte di Gages e dal maresciallo di Maillebois. Di là il duca di Modena, scacciati gli Austro-Sardi da Savona, da Novi e da Tortona, si diresse alla conquista di Piacenza e Parma; nel mentre che il conte di Gages, con tremila granatieri e qualche cavalleria, gettato un ponte sul Po alla Stella verso Belgioioso, nella notte del 22 settembre sorprese Pavia, essendosi quel presidio ritirato in fretta nel castello. A tale nuova il conte di Schulembourg, comandante gli Austro-Sardi accampati in Bassignana, mandò tosto a presidiare il castello di Milano, e con tutta la sua artiglieria per la Pieve del Cairo si appressò a Vigevano, ed incalzato da’ nemici, ritirossi quindi verso Casal-Monferrato. Queste mosse difensive lasciarono luogo all’infante don Filippo d’investire Alessandria e Valenza, di acquistar Asti ed altri castelli in que’ contorni; e di estendersi a suo piacere nella Lombardia, abbandonata anche dal plenipotenziario conte Pallavicino, ch’erasi rifugiato in Mantova.
Mentre i supremi comandanti della lega nemica, radunati in Pavia, divisavano di progredire nelle operazioni militari coll’occupar Modena e Reggio, riservando il facile conquisto di Milano come una conseguenza dell’assicurata vittoria, giunse loro un ordine pressante dalla corte di Madrid di eseguirlo di preferenza e senza ritardo. Ciò procedeva dall’impazienza della regina Elisabetta di accelerare lo stabilimento dell’infante suo figlio, e procurargli un dovizioso appanaggio; e con questa improvvida risoluzione si lasciò il campo alla fortuna austriaca di risorgere in Italia. Occupate pertanto le rive del Ticino, il conte di Gages fece avanzare l’esercito verso Milano, dove il 16 dicembre entrò il generale di Camposanto con molti fanti e cavalli e parte degli equipaggi del principe, e in egual tempo due altri corpi furono spediti a prender possesso di Lodi e di Como. Mancando ancora la grossa artiglieria per intraprendere l’assedio del castello, munironsi di palafitte le strade interne che a quello conducevano, e le due vicine porte della città furono murate. Il vicario di Provvisione co’ delegati civici si trasferì, il 18 dicembre, a Magenta, per adempire alla solita cerimonia della presentazione delle chiavi all’infante don Filippo, il quale nel giorno seguente entrò con gran pompa nella città. È inutile il dire che la popolazione si mostrò giuliva e plaudente, che la nobiltà e le magistrature si presentarono al novello principe col sorriso sul labbro e con sommo rispetto, e ch’egli accolse i loro omaggi con graziosa clemenza. Questi uffici e siffatte dimostrazioni sono di tutti i tempi; fu però speciale di quella circostanza la grida pubblicata il 24 dicembre dalla Giunta interinale allora instituita, con cui fu aumentato il valore di tutte le monete correnti, e valga per saggio il filippo stabilito al prezzo di lire otto: col qual ordine il nuovo governo fece prova di essere o ignorante o truffatore.
(1746) Ma benché gli Spagnuoli fossero in possesso della capitale e si estendessero per un gran tratto di paese, gli Austriaci tenevano, oltre il castello di Milano, Pizzighettone, Cremona e Mantova; il re di Sardegna occupava la cittadella di Alessandria, e il principe di Lichtenstein erasi ritirato col suo corpo verso Trino e Crescentino, donde poteva agire di concerto coll’esercito austro-sardo non molto di là discosto. Inoltre l’imperatrice regina, pacificatasi opportunamente sulla fine di dicembre col re di Prussia, si trovò libera di spedire copiosi sussidii di gente in Italia; i quali, a malgrado de’ rigori dell’inverno, giunsero in febbraio sul Mantovano e senza far posa, oltrepassato il Ticino, recaronsi al campo del principe di Lichtenstein. Con tali aiuti il principe, unitamente ai Piemontesi, ha potuto sorprender Asti, liberare Alessandria, riprender Acqui e stringere i nemici tra Gavi e Novi, senza però essere riuscito a toglier loro le comunicazioni col Genovesato e coi Napoletani. Da un altro lato il tenente maresciallo conte Pallavicino, che comandava nel Mantovano, avanzossi alla destra del Po verso Guastalla, rinforzò la parte dell’esercito ch’era nel Cremonese, e ricuperò Modena. Nel corso di queste operazioni, che andavano rendendo sempre peggiori le sorti della federazione nemica, l’infante don Filippo passava il tempo in Milano, ristorandosi dai disagi de’ campi ne’ tripudii delle feste e de’ teatri, finché, avendo gli Austriaci riacquistato Codogno e Lodi, e spinte le loro scorrerie fino alle porte di quella metropoli, il generale conte Gages fu costretto, nella notte precedente al 19 marzo, di annunziare al real principe la necessità di una pronta partenza; la quale fu eseguita nell’alba seguente con tale precipitazione e scompiglio, che, se fosse avvenuta dopo la perdita di una battaglia campale, non poteva essere più disastrosa. Così, dopo soli tre mesi di effimera occupazione spagnuola, tornò la Lombardia sotto il dominio austriaco, e tosto riassunse le cure del governo la real Giunta, che il conte Pallavicino aveva eretta nella città all’atto di abbandonarla. I primi ordini da quella emanati, che ora, per i posteriori esempi, sarebbero riguardati per abituali ed indifferenti, riuscirono allora di sorpresa nel pubblico. Prescrivevasi in uno di essi che, nel termine di tre giorni, dovessero notificarsi tutti gli effetti, danari o mobili spettanti agli Spagnuoli, e che presso alcuno degli abitanti esistessero; e, con altro, erano dichiarati invalidi e nulli tutti gli atti seguiti nel tempo dell’invasione nemica. E a questa nullità fu data una sì precisa esecuzione, che, avendo l’infante don Filippo, ad istanza della contessa donna Clelia Grillo Borromeo, dama allora celebre per coltura e vivacità di spirito, fatta grazia della vita a un chierico Didino, condannato alle forche per causa d’omicidio con ruberia, volle il senato che si eseguisse la sentenza. Si è proceduto altresì con molto rigore contro le persone che prestarono favore ai nemici; e diverse ne furono punite con varie pene, tra le quali si conserva ancor viva la ricordanza del conte Giulio Antonio Biancani, uno de’ questori del magistrato ordinario di Milano, che da una commissione speciale, autorizzata dall’augusta sovrana, fu condannato al taglio della testa ed alla confisca de’ beni, come disertore e fellone.
Dopo lo sgombramento di Milano, abbandonarono di seguito i Gallispani il restante della Lombardia, ritirandosi a Piacenza. Verso la stessa città furono incalzati gli altri loro corpi che occupavano Guastalla, Reggio e Parma. Un fatto d’armi, avvenuto il 15 giugno, al collegio di San Lazaro presso Piacenza, e un altro, il 9 agosto, a Rottofredo, entrambi vantaggiosi agli Austriaci, decisero la piena ritirata de’ collegati, resa ancor più sollecita per la notizia ricevuta a Voghera della morte del re Filippo V. Onde, per la stessa via della Riviera di Ponente, che sette mesi addietro aveano percorso, avanzandosi gonfi di tante speranze, non più si ristettero finché giunsero nella Provenza. La repubblica di Genova, che aveva aperto e favorito il passaggio ai nemici, non doveva andare impunita. Investita per mare e per terra, si arrese, e fu occupata dagli Austriaci. Ma questi presto la perdettero, essendone scacciati dalla popolazione, irritata per l’eccesso delle contribuzioni e delle vessazioni, ed eccitata clandestinamente dall’influenza francese; né dee tacersi che, a stancare per tal modo la pazienza de’ Genovesi, fu principale stromento un nobile italiano, il marchese Botta Adorno di Pavia, che comandava gl’Imperiali. (1747) Egli fu allora privato d’ogni comando; ed essendo poi stato trasferito al governo delle Fiandre, venne colà egualmente in esecrazione, così che, non ostante la protezione della corte, dovette esserne rimosso. Questo ministro era attaccatissimo agl’interessi dell’augusta padrona, ma avea la sfortuna di rendersi ovunque sommamente odioso, e parea nato a posta per far sorgere de’ tumulti1107. Per l’esito della guerra in Italia, era il gabinetto austriaco pressato da due opposte cure: avrebbe voluto trarre pronta vendetta dello smacco di Genova, che offendeva l’onor delle sue armi, non meno per le cause che negli effetti; e l’incalzava la brama di portare il flagello della guerra nel paese del nemico. Fece dar opera all’uno e all’altro divisamento, e nessuno gli riuscì. Furono senza buon esito i campeggiamenti nella Provenza, per la novità dei luoghi, per la difficoltà de’ viveri, per le scarse forze; e mancò del pari l’impresa di Genova, per essere stata condotta senz’unità di piano, fra la rivalità delle corti e la gelosia de’ comandanti. Né i Francesi e gli Spagnuoli si distinsero con alcun fatto memorabile, se si eccettua il funesto capriccio del maresciallo di Bellisle di aver voluto far superare a forza i trinceramenti del Colle dell’Assietta, tra Exilles e Fenestrelle, difesi valorosamente dagli Austro-Sardi sotto gli ordini de’ conti di Colloredo e di Bricherasco, senz’altro esito che di avere sagrificato infruttuosamente cinquemila francesi, e insieme con essi il proprio fratello. Questa vittoria fu, a buon dritto, festeggiata con varii Te Deum sì in Piemonte che in Lombardia1108.
Se la perdita di Genova fu cagione della disgrazia del generale Botta Adorno, il non averla ricuperata portò il richiamo del comandante supremo, conte di Schulembourg, cui venne sostituito il conte di Traun, e del ministro plenipotenziario, conte Gian Luca Pallavicino, caduto forse in sospetto per essere di nascita Genovese, entrambi partiti per Vienna a render conto del loro operato. Per il governo della Lombardia fu creata una real Giunta, composta del gran-cancelliere, conte Beltrame Cristiani, stato assunto a questa carica fino dal 1744, dai presidenti del senato e dei magistrati ordinario e straordinario, ed altri otto soggetti. Lasciò il Pallavicino fama d’uomo disinteressato e magnifico, ed eguale la mantenne allorché, di là a tre anni, restituito in grazia, tornò alla primiera carica in Milano. Nel triennio intermedio a questi due suoi governi, la carica congiunta di governatore e di capitano generale della Lombardia austriaca fu coperta dal conte Ferdinando Bonaventura di Harrach, venuto il 19 settembre. Egli fu un buonissimo signore, senza fasto, umano, amico dell’ordine e della tranquillità, nemico delle novazioni. La contessa di lui consorte, giovane, vivace, e anche bella e galante, diffuse l’allegria nel paese, e introdusse la moda di cavalcar le dame anche in città, e di girare pe’ palchi le maschere al carnevale1109.
Non solo l’Italia, ma l’Europa intiera era stanca ed estenuata dalla guerra, laonde l’ambizione dovette ricevere la legge dalla necessità. (1748) Tutti i sovrani erano, nel loro cuore, concordi nel voler la pace, e per conseguirla meno svantaggiosa, fecero un ultimo sforzo, ponendosi ciascuno nell’attitudine più guerresca. Fu essa sottoscritta in Acquisgrana dai ministri plenipotenziari delle varie potenze, e il 23 ottobre il fu dal conte di Kaunitz per l’imperatrice regina, la quale, per quel trattato, conservò tutti gli Stati ereditari, ad eccezione della Slesia e della contea di Glatz, cedute alla Prussia; ricuperò i Paesi Bassi, ma rinunziò alle conquiste che avea fatte in Italia; cedette i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, da erigersi in sovranità a favore dell’infante don Filippo, e confermò le cessioni fatte al re di Sardegna. (1749) L’esecuzione di questo trattato, quanto all’Italia, rese necessario un parziale congresso, apertosi nel mese di dicembre in Nizza di Provenza, che tutto sistemò con buon ordine, per cui, nella seguente primavera, eseguite le rispettive cessioni e ripristinazioni, ha potuto anche la nostra Lombardia gustare i beneficii della pace, dietro la quale avea per otto anni inutilmente sospirato. (1752) E per viepiù consolidarla, strinse l’augusta Maria Teresa un trattato di alleanza e di commercio coi re di Spagna e di Sardegna, sottoscritto ad Aranjuez il 27 aprile del 17521110, al quale accedettero in seguito (come era stato loro riservato) il re delle Due Sicilie, il gran duca di Toscana e il duca di Parma. In quello, oltre la reciproca garanzia e difesa di quanto ciascuno possedeva, fu stipulato che, in caso di ostile aggressione, dovessero, due mesi dopo esserne richiesti, accorrere in soccorso della potenza minacciata con un determinato numero di truppe, che non poteva esser minore, per ognuna delle tre principali potenze, di ottomila fanti e quattromila cavalli; quanto al re delle Due Sicilie, di quattromila uomini di fanteria e milleduecento di cavalleria; e di mille uomini a piedi e cinquecento a cavallo per parte dell’infante don Filippo; con facoltà inoltre di dare, invece di soldati, ottomila fiorini d’Impero al mese per ogni mille uomini a piedi, e ventiquattromila per altrettanti a cavallo, da essere rimessi mese per mese ne’ banchi di Genova fino al termine della guerra. E per riguardo al commercio, si convenne che i rispettivi sudditi godrebbero presso le altre potenze contraenti de’ maggiori privilegi accordati alle nazioni amiche. In particolare poi si conchiusero dall’imperatrice colle corti di Napoli e di Parma alcuni vicendevoli matrimonii, da pubblicarsi ed eseguirsi a suo tempo, e si fissò che tanto il regno delle Due Sicilie, quanto il gran ducato di Toscana, formassero in avvenire due secondogeniture della casa d’Austria e di quella di Borbone del ramo spagnolo, reversibili alle rispettive discendenze, onde avessero sempre il proprio sovrano naturale. (1753) Anche la situazione familiare della casa ducale d’Este, ridotta ad un’unica figlia e fuori di speranza di aver altra successione, non fu trascurata dalla perspicacia del ministero austriaco; e, più destro o più fortunato del gabinetto di Parma, che mirava allo stesso intento, riuscì a stipulare una convenzione, per la quale le corti di Vienna e di Modena strettamente si collegarono, a condizione che la principessa Beatrice, figlia del principe ereditario Ercole Rinaldo, ed erede presuntiva di tutti i dominii estensi, nata il 7 aprile 1750, sposerebbe l’arciduca terzogenito, e a questi sarebbe stata conferita la carica di governatore e capitano generale della Lombardia austriaca, da essere supplita durante la sua minore età dal duca di Modena Francesco III. E tuttociò ebbe immediato effetto, a segno che questo principe, trasferitosi a Milano il 4 gennaio 1754, entrò tosto in possesso della sua nuova dignità, e il conte Beltrame Cristiani, ch’ebbe il merito di aver negoziato quel vantaggioso partito, dalla carica di gran cancelliere del governo, che fu soppressa, venne promosso a quella di ministro plenipotenziario nella Lombardia. Con distinti trattati furono regolati inoltre i confini col re di Sardegna, col duca di Parma, cogli Svizzeri e co’ Veneziani. Ma le amichevoli intelligenze e i varii vincoli di parentela e d’interesse contratti colla Spagna e colle potenze italiane non avrebbero bastato a rendere sicura l’Italia nell’emergenza di nuove guerre in Europa, se non riuscivasi a rendere anche la Francia partecipe di siffatti accordi; e a quest’oggetto avendo rivolto l’Austria ogni suo intendimento, vi riuscì con pari felicità: e l’alleanza fra le due corti per tanto tempo rivali, che sempre più si consolidò, se non ha meritato un’unanime approvazione ne’ rapporti degli interessi eminenti della monarchia, fu senza dubbio del più deciso vantaggio per la quiete d’Italia. Un altro oggetto della saggia previdenza di Maria Teresa fu di antivenire al caso, benché rimoto, della successione al trono imperiale, la quale restava quasi assicurata alla sua discendenza se avesse potuto far nominare l’arciduca Giuseppe, suo primogenito, in re de’ Romani. Ma questo progetto, messo in campo circa l’epoca di cui trattiamo, e caldamente favoreggiato dall’Inghilterra, potea con difficoltà essere accolto dagli elettori per l’età del principe, che appena giungeva ai dodici anni, ed ebbe un insuperabile contradittore nel re di Prussia, onde soltanto nel 24 maggio 1764, dopo la pace d’Hubertsburgo, che pose fine alla famosa guerra de’ sette anni, ha potuto aver esecuzione; abbastanza però ancora in tempo, mentre l’imperatore Francesco I morì l’8 agosto dell’anno seguente. Questo avvicendamento di combinazioni politiche, con tant’arte preparate e condotte ad un solo scopo, fu cagione che la pace d’Italia non fosse più turbata per il corso continuo di quarantotto anni fino al 1796; e tanto la rammentata disastrosissima guerra de’ sette anni, che l’altra per la successione nella Baviera, e la turchesca, unicamente un’influenza pecuniaria esercitarono nell’austriaca Lombardia per i sussidii che ha dovuto somministrare. Per la qual causa, congiunta ai buoni ordini introdotti, de’ quali siamo per parlare, e alla tranquilla indole degli abitanti, ebbero pur merito i Lombardi d’essersi mantenuti in una costante obbedienza e fedeltà, allorché, per le riforme dell’imperatore Giuseppe II, eransi ribellati i Paesi Bassi, fervevano gli Stati ereditari, e sì altamente querelavansi gli Ungheri, che fu duopo accondiscendere a’ loro gravami.
È gradito incarico allo storico imparziale, dopo di aver dovuto narrare i vizi e gli errori de’ potenti e la conseguente oppressione e l’impoverimento de’ popoli, di poter talvolta ricreare la mente propria e quella de’ lettori colla rappresentazione di tempi meno infelici, e col racconto di un genere di pubblica amministrazione più consentaneo alla dignità e al ben essere degli uomini. Questa lode è meritamente dovuta al regno di Maria Teresa, la quale, a malgrado delle lunghe guerre da cui era bersagliata la monarchia, sì mostrò costantemente intenta a dar migliori ordini ai varii rami del suo governo. E fu in ciò provvidamente secondata dalla sorte, mentre, avendo risoluto di liberarsi del referendario Bartenstein, che colla sua prepotente arroganza avea svergognato la diplomazia austriaca sotto Carlo VI, assunse, nel 1753, al supremo ministero il conte, indi principe Antonio Venceslao di Kaunitz-Rietberg. Questo grand’uomo, nato nel 1711, che resse con gloria per lo spazio di quasi quarant’anni i consigli della casa d’Austria, era dotato di molto ingegno, d’uno zelo instancabile e di somma integrità; abile negoziatore, profondo dissimulatore senza parerlo, impenetrabile ne’ suoi secreti, ma ricco d’amor proprio, e perciò presontuoso ed altiero: così ci è descritto dal Coxe1111 sulla fede de’ documenti ufficiali del ministero inglese. Ei possedeva a tal segno la confidenza della sua sovrana, che, essendo ella piissima, ha potuto tuttavia intraprendere e compire con mano ferma le riforme più delicate nelle materie ecclesiastiche. Per ciò che concerne la Lombardia, il compimento del catastro delle proprietà fondiarie, come base della giusta ripartizione del principale tributo, occupò le prime cure dell’imperatrice regina. Questa grande opera, tentata quasi due secoli prima dagli Spagnuoli con informi elementi, instaurata nei primordii della dominazione austriaca, era rimasta interrotta, dopo la spesa di più milioni, per le vicende belliche del 1733. Fu riassunta nel 1749 coll’erezione di una nuova giunta del censimento, cui fu dato a presidente un dottissimo giureconsulto, Pompeo Neri, espressamente chiamato dalla Toscana, ove copriva la carica di secretario del consiglio di reggenza. Nello stesso tempo fu questi incaricato di esaminare i mezzi più opportuni per una sistemazione del corso delle monete, colla quale fosse posto rimedio al gravissimo danno che si soffriva dal pubblico per il valore arbitrario di esse. A tal fine molte conferenze si tennero e molti esperimenti furono allora eseguiti, di concerto colla real corte di Torino, dove un altro gran ministro, il conte Giambattista Bogino, fece ogni sforzo perché il provvedimento da adottarsi fosse a comune beneficio esteso a tutta l’Italia. Però le corte viste e le piccole gelosie fecero riuscire a vuoto la saggia proposizione; onde questo gravissimo oggetto, rimasto allora deserto, con principii più sicuri, ma circoscritto alla sola Lombardia, fu poscia sistemato soltanto nel 1778.
(1758) Erano quasi ridotti al loro termine i lavori del censimento colle assidue cure di nove anni, quando, essendo stato il Neri richiamato a Firenze, la Giunta fu sciolta, e costituita una governativa delegazione; a questa fu dato l’onore di proclamare il compimento dell’opera, e s’incominciò nel 1760 a ripartire il tributo prediale sul nuovo catastro. Contemporaneamente alla partenza del presidente Neri, Milano rimase priva di un altro illustre ministro, il plenipotenziario conte Beltrame Cristiani, morto il 31 luglio, dopo una lunga malattia, che lasciò alternare speranza e timore. La sua morte fu da uomo senza la minima imbecillità. Spedì gli affari con mente serena fino all’ultimo giorno. Egli da un’umile condizione col suo merito e colla sua prudenza giunse al sommo grado di essere padrone del Milanese. Gli fa onore il ricordare ch’egli cominciò nel 1725 come podestà di Borgonuovo, feudo del marchese Giandemaria di Parma. Poi fu impiegato in Piacenza, dove il conte Trotti, governatore, lo conobbe e lo fece conoscere ai comandanti degli eserciti austriaci che guerreggiavano. La fermezza del carattere, la sagacità de’ ripieghi, la fedeltà sua, gli utili servigi che rese, lo fecero ben presto ammirare. Il duca di Modena, incautamente unitosi agli Spagnuoli, avendo abbandonato i suoi Stati, ne fu commesso il governo al Cristiani, che seppe accontentare l’imperatrice, il duca e il paese. Popolare e disadatto nel suo aspetto, distratto talvolta e balbuziente, senza fasto, e memore sempre del suo primo stato, cercò di placare l’invidia, e l’implacabile superò coll’ingegno. Fu spedito a Vienna colla lusinga che la grossolana figura, anche sucida per l’uso del tabacco da masticare, dovesse spiacere alla imperatrice regina, e che l’ignoranza del tedesco e del francese lo dovesse far comparire un meschino curiale. Ma egli superò il sorriso che avea destato fra le colte persone, e l’imperatrice gli si rese affetta dopo che gli ebbe parlato. Egli non poteva sperare di essere governatore di Milano per difetto de’ natali. Le aderenze colla casa di Modena gli diedero occasione di formare il progetto di far venire a governar stabilmente il Milanese il duca Francesco III col titolo di amministratore. Il duca s’annoiava a Modena, amava il soggiorno di Milano, e questo se gli offriva nel luminoso carattere di amministratore del governo, con soldo assai cospicuo, con tutti gli onori, purché lasciasse ogni cura al Cristiani e concedesse la principessa Beatrice sposa a un arciduca. Si presentò dall’altra parte all’imperatrice un matrimonio per un figlio cadetto, e con esso gli stati di Modena, Reggio, Mirandola, Massa e Carrara. Richiedevasi l’animo del conte Cristiani per condurre a termine e fermare tali idee. Questo sempre più gli acquistò il cuore e la confidenza dell’augusta sovrana, della quale teneva delle firme in bianco da riempire, occorrendo un dispaccio. Sin ch’egli visse, lasciò tutte le apparenze al duca, che ognuno credeva che comandasse. Questi mezzi, uniti alla sua mente e operosità, lo fecero trionfare de’ nemici. Era uomo generoso, e fedele alla sua parola. Aveva la politica grande, e non pareva né imbarazzato né circospetto. Era capace di domandare scusa anche ad un povero, se in un impeto di collera l’avesse ingiustamente offeso. Chi riceveva un’ingiustizia da lui per precipitazione o prevenzione, era sicuro, non solamente d’essere risarcito, ma di fare qualche fortuna. Non era per altro né colto, né sensibile in conto alcuno al merito di un letterato o d’un artista. Sapeva il latino, l’italiano, la legge e un po’ di storia e nulla più; ma sapeva l’arte di conoscere gli uomini.
(1759) Fu dato in successore al conte Cristiani nella carica di ministro plenipotenziario nella Lombardia il conte Carlo di Firmian, che giunse in Milano, il 16 giugno del 1759. Figlio cadetto di una famiglia nobile tirolese, egli avea passato la sua gioventù in Roma come aspirante nella carriera prelatizia senza far fortuna. Di carattere pusillanime e di scarsi talenti, amava più la rappresentazione che gli affari, ed avea l’arte di coprire le qualità che non possedeva, colla compostezza, colle scarse e misurate parole, e con un officioso sussiego. In altri tempi, quando i governatori erano i despoti e i legislatori del paese, questa mediocrità poteva nuocere; ma dacché il conte di Kaunitz fu assunto al supremo ministero della monarchia, le disposizioni legislative e di buon governo procedevano dall’alto, e i ministri nelle province divennero semplici referendarii ed esecutori; onde tutto il male che poteva farsi da essi, limitavasi a qualche sfavorevole relazione alla corte, e a qualche abuso di minuta polizia, della quale erano lasciati árbitri. Durante il ministero del conte di Firmian furono eseguite le più importanti riforme; e in queste si fecero procedere di pari passo le materie civili e le ecclesiastiche. Si fece sparire ciò che ancora rimaneva delle immunità personali e reali del clero; si proibirono le carceri private alle comunità religiose; fu abolito l’asilo sacro: istituzione incompatibile coi nuovi tempi, e per lo più scandalosa nella pratica. (1762-1768) Il Santo Ufficio dell’Inquisizione venne soppresso. Si limitò la giurisdizione ecclesiastica e il diritto di acquistare alle mani-morte, e si sottoposero le spedizioni di Roma alla cautela del regio Exequatur, senza il quale non potevano essere eseguite1112; fu delegata una Giunta per le materie ecclesiastiche miste1113, cui fu poscia sostituita una Giunta economale1114, con giurisdizione privativa ed inappellabile; s’instituì in fine una Giunta subalterna per la riforma dei luoghi pii e delle parrocchie1115; e queste diverse disposizioni, dopo l’esperienza di sei anni, furono dall’autorità sovrana definitivamente stabilite e confermate1116.
(1769) Forse il caso e forse la precoce antiveggenza dell’imperatore Giuseppe II a raffermare gli animi de’ sudditi, fu cagione del primo viaggio che fece quel sovrano in Italia. Partito da Vienna sul fine di febbraio sotto il nome di conte di Falkenstein, che conservò sempre ne’ viaggi successivi, trascorse senza fermarsi Mantova e Firenze, e fu diritto a Roma con piccolissimo seguito, dove dopo Carlo V nissun altro cesare erasi mostrato. L’improvviso arrivo, la modestia dell’accompagnamento, l’affabilità de’ modi, il rifiuto d’ogni pomposa onorificenza furono argomenti di generale sorpresa e meraviglia. Giuseppe II, osservate le cose più insigni di Roma e di Napoli, visitate le nuove fortezze costrutte sull’Alpi dal re di Sardegna, si trattenne nel ritorno nella sua Lombardia nel 23 giugno al 15 luglio. Egli vi si fece ammirare come amico dell’ordine e della giustizia, desideroso del pubblico bene, nemico degli abusi, di un’attività straordinaria, e singolarmente ricco di utili cognizioni. E poiché i fatti parziali sono tavolta pù instruttivi di un’intiera storia, così non è da tacersi che quel sovrano, il quale appena ebbe dalla madre nella prima gioventù il potere di ordinare tutto ciò che concerneva l’esercito, ad imitazione del sistema prussiano volle introdotta la coscrizione militare in tutti gli stati austriaci, ad eccezione de’ Paesi Bassi, dell’Ungheria, del Tirolo e del Milanese1117. Avendo, nella visita de’ monasteri fatta in Milano, osservato che le monache non occupavansi se non di poco utili esercizi, mandò ad esse una gran quantità di tela affinché ne preparassero camicie per i soldati1118. Una inclinazione guerriera, associata ad un istinto di beneficenza e di novità, fu infatti il caratteristico di questo sovrano.
E le riforme proseguivano. Fino dal 1765 era stato creato un supremo consiglio di economia: in quasto dicastero, trasformato poscia in magistrato politico camerale, sedettero successivamente gli uomini che maggiormente onorarono il paese, Gian-Rinaldo Carli, Cesare Beccaria e Pietro Verri. (1770) Si eresse un nuovo monte dei creditori camerali, che, dal nome della sovrana, si disse di Santa Teresa, e in esso furono trasportati i creditori del monte civico e del banco di Sant’Ambrogio, salvo a quelli che non amassero il nuovo investimento di ritirare fra un mese i loro capitali1119. Si ordinò che nello stesso monte fossero versate le somme di riscatto dei debiti di mani-morte, de’ quali era permessa la redenzione1120; e vi furono pure inscritti a credito de’ possessori, coll’interesse del sei per cento, i capitali rappresentanti i dazi, i pedaggi e le altre gabelle d’ogni sorta, che nel corso di due secoli e mezzo erano stati venduti, e che furono rivocati alla regia camera1121. L’esame delle entrate e delle spese delle diverse amministrazioni dello Stato e de’ pubblici, che da prima era generalmente avvolto nel mistero, confuso e arbitrario, fu ridotto in un solo centro e ad un metodo uniforme coll’istituzione di una Camera de’ conti1122; e fu una prova del merito di essa, frammezzo a tante mutazioni successive, la continuata sua sussistenza. Per fine, le pubbliche finanze, che nella sola vista di servire al bisogno presente erano state, nel 1751, date in appalto ad una compagnia di speculatori, i quali, da una condizione oscura, salirono poi a grandi onori e richezze, furono per esse gradatamente richiamate allo Stato; prima, nel 1766, coll’averle ridotte ad una Ferma mista, con un terzo di utili e un rappresentante regio; e quindi, nel 1771, con una piena emancipazione, che recò inoltre al regio erario centomille zecchini di maggiore beneficio. (1771) Questo lucro servì all’appannaggio del reale arciduca Ferdinando, che nell’anno stesso si stabilì in Milano, dove il 16 ottobre contrasse, secondo le convenzioni, il matrimonio colla principessa estense Maria Beatrice Riccarda, ed entrò nell’esercizio della carica di governatore e capitano generale della Lombardia. Né perciò si restituì a’ suoi dominii il vecchio duca di Modena, che lo avea fino allora rappresentato; ma alternando la sua dimora tra Milano e la sua villeggiatura di Varese, morì in quest’ultima, di ottantadue anni, il 22 febbraio del 1780. A questo tempo ebbe pure effetto un’istituzione di grande e permanente utilità, il pio albergo Trivulzio, aperto ai poveri de’ due sessi che hanno oltrepassata l’età di sessant’anni. Benché questo stabilimento sia in origine dovuto alla privata munificenza, fu esso dalla provvidenza sovrana assai favoreggiato, sia coll’assenso prestato per i beni soggetti a vincolo feudale e assegnatigli in dote, sia coll’unire a quello l’antico ospitale de’ vecchi e con altre proficue assistenze1123. Si vide allora una celebre donna dedicarsi spontaneamente in quell’albergo alla soprintendenza del quartiere femminile, e poscia ella stessa ricoverarvisi per essere più pronta a que’ servizi. Fu dessa Maria Gaetana Agnesi. Nata in Milano, di nobile famiglia, nel 1718, educata alle lettere e nello studio delle matematiche dal dottissimo e modesto Ramiro Rampinelli, avea di trent’anni pubblicate le sue Istituzioni analitiche, che, neppure avvertite in patria, riscossero altissime lodi dalle primarie società scientifiche dell’Europa. Visse poi il restante della lunga sua vita nell’albergo Trivulzi, indifferente alla dimenticanza de’ suoi concittadini, dividendo ogni sua cura tra le assunte opere di pietà e gli studi sacri, ai quali erasi intieramente dedicata, finché tardi venne la morte a raggiungerla nell’ottantesimoprimo anno della sua età.
(1773-1779) La presenza e l’attività del reale arciduca diedero moto a provvedimenti più immediatamente utili al paese. Ne’ sette anni dal 1773 al 1779 si prepararono colla maggiore maturità i lavori, che diedero poi all’Italia nella moneta milanese i più bei tipi e il più ben calcolato sistema monetario che allora si conoscesse1124. Si instituì un magistrato generale degli studi, e l’università di Pavia fu riorganizzata, ampliata, arricchita1125; e salì poi ad altissima fama pei sommi uomini che onorarono le sue cattedre, Tissot, Gian-Pietro Frank, Mascheroni, Spallanzani, Volta. Milano che, fino dal 1766, avea avuta una specola astronomica, fondata sotto la direzione di Ruggiero Boscovich, vide quella ampliata dopo la soppressione de’ Gesuiti nel 1773, data una nuova e più ampia consistenza alle loro scuole col titolo di real Ginnasio, raccolta e aperta al pubblico con gran dispendio nel loro collegio di Brera una copiosissima biblioteca, e applicati i beni di essi alla pubblica struzione. Le scuole Palatine, nelle quali era stata eretta qualche anno addietro una cattedra1126 di economia pubblica col titolo di Scienze Camerali (seconda in Italia, dopo quella di Napoli, instituita da un privato filantropo), n’ebbero un’altra per ammaestrare nell’esercizio dell’atte notarile1127; all’instituzione della quale succedette il provvidissimo stabilimento di un generale archivio per la custodia degli atti de’ notari civili di tutto il ducato1128. Nel 1773 venne fondato presso le scuole dì Sant’Alessandro un museo di storia naturale e di mineralogia, e di là a tre anni si vide eretta una Società Patriottica per i progressi dell’agricoltura, delle arti e delle manifatture, con una dotazione per i premii da distribuirsi annualmente, e l’assegno di un terreno per gli esperimenti1129: fondazione di gloriosa ricordanza per i beneficii da essa recati al paese, e di cui è comune vergogna il trascurato repristinamento dacché e Firenze e Torino e Verona hanno restituito in fiore le loro società e accademie agrarie. Nello stesso anno1130, dopo quasi tre secoli trascorsi in isterili progetti e in infelici tentativi, fu resa perfetta la navigazione dall’Adda a Milano coll’apertura del canale detto di Paderno, tagliato nel margine del monte, per cui le navi dal bacino di Lecco scendono liberamente nell’antico naviglio della Martesana. Le arti e le manifatture ebbero più sorta d’incoraggiamenti con premii, con privilegi, con sovvenzioni in danaro. E tra le belle arti l’architettura in ispecie godette del più deciso favore. Era di già stato chiamato da Napoli il migliore architetto che allora avesse l’Italia, Luigi Vanvitelli, a dirigere gl’importanti ristauri che si fecero nel palazzo di corte per l’arrivo del reale arciduca1131. Si chiamò poscia il più distinto de’ suoi discepoli, Giuseppe Piermarini di Foligno, il quale cogli esempi de’ molti nobili lavori che eseguì nel corso di più di vent’anni1132, potentemente in ciò sussidiato dagli abili professori ed allievi della nuova accademia delle belle arti, restituì in onore l’architettura tra noi, purgandola di quanto ancora le rimaneva degli stupri Borromineschi, benché né l’uno né gli altri fossero riusciti ad elevarla alla maestà dei grandi modelli. Sono opere di Piermarini la regia ducale corte, la real villa di Monza, il compimento del palazzo di Brera, il monte di Santa Teresa, il nuovo gran teatro costruito dove esisteva la collegiata della Scala, di cui ritenne il nome, compito nel 1778, e l’altro della Canobbiana, aperto al pubblico nell’anno seguente. I privati signori si volsero, com’è il solito, a corteggiare il gusto di chi presiedeva al governo dello Stato, imitandolo; onde si viddero più antichi palazzi ristaurati o rinnovati, e tra questi meritano speciale menzione i due palazzi del principe e del conte generale di Belgioioso, l’uno eretto circa i tempi di cui parliamo, sotto la direzione di Piermarini, l’altro nel 1790 (salito poi all’onore di real villa) dall’architetto Leopoldo Polack, di cui bell’opera fu pure la facciata dell’insigne tempio di Rhò, ch’era stata lasciata imperfetta dal celebre Pellegrini.
Gli effetti di un tal regime illuminato e benefico erano rapidi e progressivi. La popolazione accrescevasi; le moderate imposizioni, e l’impiego della parte di esse eccedente le spese dello Stato, in opere pubbliche di strade, canali, fabbriche di ogni sorta, nell’arricchire le biblioteche, i musei, i gabinetti scientifici, in sovvenzioni e premii a promovere l’agricoltura e le manifatture, diffondevano l’istruzione, l’agiatezza e la prosperità in tutte le classi: beati tempi, allora non conosciuti né apprezzati abbastanza, non tanto per la naturale abitudine degli uomini di adattarsi al bene con indifferenza, quanto per l’apatìa propria dei Lombardi, e che, per la forza di più secoli di pessimo governo, era divenuta in essi una seconda natura. (1780) Tuttavia fu questa vinta dalla forza de’ benefizi; e i Milanesi, che avevano già dato prova di affettuosa sensibilità verso la loro sovrana quando nel 1767 era stata posta dal vajuolo in grave pericolo della vita, accorrendo in folla ai tridui, che allora celebraronsi in tutte le chiese, mostrarono un sincero dolore all’inaspettato annunzio ch’essa avea cessato di vivere per idropisia di petto il 29 novembre del 1780. Essa avea sessantatré anni, quaranta de’ quali ne trascorse tra le cure del governo de’ vasti suoi dominii. Si mostrò costante e prudente, non meno nella contraria che nella prospera fortuna. Economa per abito, sapeva all’opportunità essere liberale. Fu zelante osservatrice della religione, e amante della giustizia; ma diede un’importanza eccessiva alle minute pratiche di quella, e si mostrò talora intollerante; dava pure facile orecchio alle segrete delazioni, e con predilezione occupavasi de’ piccoli affari. Ebbe perciò alcuna volta a lagnarsi di essersi ingannata nelle sue scelte, e che le sue intenzioni fossero state male intese o mal eseguite. Con tutto ciò il regno di Maria Teresa è il secolo d’oro dei popoli della casa d’Austria1133. In essa si estinse l’illustre casa d’Absburg, dopo però di essersi quasi propaginata e già riprodotta in quella di Lorena, ora regnante. Il conte Gherardo d’Arco, Paolo Frisi e monsignor Turchi ne scrissero l’elogio, e ognuno di questi dotti uomini vi si mostrò quale doveva essere, colto e giudizioso patrizio, scrittore filosofo, frate panegirista.
L’indole del successore, l’augusto Giuseppe II, inclinato fervidamente a beneficare i suoi sudditi, temperò il danno della fatal perdita; se non che l’impeto e la precipitazione con cui soleva operare, resero spesso spiacevole, e talvolta agli occhi del volgo travisarono il beneficio. Con non lunghi intervalli si susseguirono tre altre morti, che per la Lombardia furono memorabili. (1782) La prima è quella del ministro plenipotenziario conte di Firmian, avvenuta il 20 giugno del 1782. Alcuna cosa già si disse del di lui carattere, al che poco rimane ad aggiungere. La sua autorità che, ne’ primi dieci anni fu sufficientemente estesa in molti oggetti di minuto dettaglio, si attenuò dopo la venuta del reale arciduca. La di lui bontà permise che alcuni suoi scrivani favoriti abusassero della sua confidenza. Coloro che confondono la bibliomanìa coll’amore delle lettere il tennero e il dissero un mecenate. I Milanesi lo compiansero. Fu sostituito al conte di Firmian il conte di Vilzek, personaggio mediocre al pari di quello, e che lasciò fama di non aver fatto né bene né male. (1783) Nel seguente anno morì pure il cardinale arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli, dopo di avere presieduto alla chiesa Milanese per il lungo corso di anni quaranta: prelato saggio, attento e unicamente occupato del sacro suo ministero. Il 1° settembre dell’anno medesimo gli fu dato in successore monsignore Filippo Visconti, in di cui lode basterà il dire che ne’ tempi burrascosi successivi al 1796 egli si meritò di essere pubblicamente difeso da un vecchio filosofo, il conte Pietro Verri, contro le forsennate invettive de’ demagoghi rivoluzionarii. (1784) Non molto dopo morì l’insigne letterato e matematico Paolo Frisi, che, non potendo soffrire gl’incomodi di una fistola dolorosa, si sottopose ad un’operazione che in brevissimi giorni, in ancor fresca età, il trasse al sepolcro. Il poc’anzi citato conte Verri, di lui amico, supplì alla solita noncuranza della città, onorata dalla nascita e dagli studii di quell’uomo illustre, tessendo di lui un nobile elogio, ed ergendogli un modesto monumento in Sant’Alessandro, chiesa de’ Barnabiti, alla di cui congregazione aveva il defunto appartenuto per qualche tempo.
Fece Giuseppe II due nuovi viaggi in Italia, l’uno in quest’anno, l’altro nel successivo. Nel primo corse fino a Roma, dove ricusò il ricambio di onorificenze che il papa voleva prestargli per quelle a lui usate in Vienna due anni addietro. Conchiuse però con esso un concordato, col quale fu conceduto ai duchi di Milano la nomina ai vescovati e ai beneficii della Lombardia austriaca, che prima spettava alla Santa Sede1134. Stipulò pure colla Toscana, il 4 dicembre, a favore della Lombardia stessa, un trattato per le reciproche successioni de’ sudditi nel due Stati1135, del pari ch’erasi precedentemente stabilito colla Francia e la Prussia1136, col governo Sardo1137 e colla repubblica di Venezia1138. (1785) Egli si trattenne in Milano dal 19 febbraio al 9 marzo. L’ultimo viaggio fu limitato alla Lombardia, con una permanenza di soli sette giorni: la più lunga fu quella del primo viaggio nel 1769, che ne durò ventuno. In quest’anno vendette l’imperatore al papa i possedimenti della Mesola nel Ferrarese per novecentomila scudi1139; e il re e la regina di Napoli, visitando per piacere l’Italia, si trattennero in Milano dal l° al 23 luglio, festeggiati con sontuosa magnificenza. Prima di partire da Vienna per il suo secondo viaggio, lasciò Giuseppe II ai capi dei dicasteri aulici la legge de’ suoi voleri, che, tradotti dal tedesco, circolarono allora per l’Italia. Appare in essi ad ogni passo il suo amore per l’ordine, per il buon servigio e per il pubblico bene; e, nella certezza di farne un gradito dono ai lettori, si riportano in pié di pagina1140.
L’Imperatore in que’ viaggi raccoglieva e maturava gli elementi per compire le sue riforme. Intanto le parti di esse ch’erano già in corso presso il ministero, andavansi successivamente pubblicando e mettendo in esecuzione. Erano queste d’ogni specie, scientifiche ed economiche, di beneficenza e di polizia, civili e religiose, e si estendevano dai minimi ai massimi argomenti. A rendere più comune l’arte di frenare e regolar le acque, che in ispecie devastavano frequentemente il Mantovano, fu eretta una cattedra d’idrostatica ed idraulica1141. Perché i piccoli commercianti di seta non fossero più posti nella necessità di vendite precipitose, s’instituì un Monte o Depositorio delle sete, da cui, mediante un tenue prò, potevano avere in prestito quasi l’intiero loro capitale per alimentare le successive speculazioni1142. Fu proclamata la tolleranza dell’esercizio delle diverse religioni separate dalla Chiesa romana1143. Si proibì di ricorrere a Roma per le dispense agl’impedimenti canonici de’ matrimoni; indi fu stabilita su quest’oggetto una speciale legislazione1144. Si tolse pure alla corte di Roma la collazione de’ benefici, restituendola ai vescovi diocesani per quelli in cura d’anime o portanti dignità capitolare, e attribuendo quella de’ semplici al governo; e tutti per concorso1145. E di tolleranza, e di matrimoni, e di benefizi, e di ricorsi a Roma si trattò di nuovo in successivi ordini, chiarendo, modificando, confermando1146. Anche l’università di Pavia ebbe confermati ed ampliati i suoi regolamenti1147. E i monti di Pietà che esistevano per antica istituzione in varie parti dello Stato, e in particolare quello di Milano, furono riorganizzati, estesi e muniti di provvide norme1148.
(1786) Il torrente delle innovazioni proruppe nel 1786. Tutti gli ordini civili furono sconvolti e obbligati a subire una nuova forma. Il magistrato politico camerale, la commissione ecclesiastica, il tribunale araldico, quello della Sanità, la Commissarìa generale e la Congregazione dello Stato vennero soppressi, e le loro attribuzioni concentrate in un consiglio di governo; conservarono soltanto una separata esistenza la Camera de’ conti, l’Intendenza generale delle finanze e una congregazione di Patrimonio per ciascuna città1149. S’istituirono otto intendenze politiche in altretante province, nelle quali fu diviso il paese1150; e si eresse in Milano un nuovo ufficio generale di polizia, conforme a quello stabilito nella Germania, donde fu mandato un buon numero di soldati invalidi per fare le funzioni di guardie, che, con denominazione francese, chiamaronsi di Police, e procedevano armati di bastone1151. Nuova forma, nuovo metodo, nuovi vocaboli ebbero i tribunali giudiziari. Il senato fu soppresso. Questo corpo, rispettabile per la ruggine dell’età, e che aveva introdotto il dispotismo nel santuario della giustizia, vantandosi di giudicare tamquam Deus, si estinse dopo ducentottantacinque anni di esistenza senz’aver lasciato memoria di un solo beneficio recato allo Stato. Si crearono più giudici o tribunali di Prima Istanza, uno d’Appellazione ed un supremo di Revisione per i casi che le due precedenti sentenze fossero discordanti; le cause di commercio e di cambio ebbero ne’ tribunali mercantili una prima Istanza separata1152. Un regolamento giudiziario civile stabilì le norme per la procedura, e queste per la chiarezze dell’ordine, per l’esclusione d’ogni arbitrio, per la sobria tutela prestata ai litiganti meritarono gli encomii de’ saggi giureconsulti. Di un conio meno felice fu il codice criminale. Mentre questo proscrisse quasi la pena di morte, riservandola ai soli delitti di ribellione1153, surrogò ad essa una lenta morte con durissimi supplici, esercitati nel segreto degli ergastoli, e perciò senza pubblico esempio1154. Dopo di avere stabilito la giusta massima che la pena non può colpire che l’autore del delitto, così che il castigo e il supplizio stesso del malfattore non debbano recar danno alla moglie, ai figli, ai parenti, agli eredi1155, ordina pei delitti di lesa maestà e di ribellione la confisca de’ beni, senza riguardo alcuno che vi siano figli1156. Si aggiunsero come inasprimenti di pena la marca infame della forca da imprimersi con un bollo a fuoco sulle guance o ne’ fianchi1157, un più rigoroso digiuno, e bastonate e nervate e vergate, delle quali e della loro ripetizione è lasciato arbitro il giudice colla sola riserva di non oltrepassare i cento colpi per volta1158. Il qual malaugurato esercizio del bastone s’incontra ad ogni passo in quel codice criminale, e figura non meno distintamente nel codice de’ delitti politici, che a quello succede; onde, dopo di avere con filosofica idea dichiarato doversi i bestemmiatori trattare come frenetici, imprigionandoli nello spedale de’ pazzi1159, vuole che alle pene della prigionia più o meno dura e del lavoro pubblico decretate contro gli sprezzatori della religione, gli scandalosi, i rei di delitti venerei, i banditi disobbedienti, sia sempre aggiunta l’altra delle bastonate1160. Un inasprimento di pena non accennato nel codice, e che sarà stato ordinato da posteriori istruzioni, ricordomi di aver veduto in Milano nella mia prima gioventù, nell’essere condotti i rei a ricevere in pubblico l’impressione della marca infame, distesi sopra un graticcio, e strascinati da un cavallo al luogo del supplizio.
(1786-1789) Le cose ecclesiastiche, argomento favorito in allora del ministero austriaco e prediletto dall’imperatore, furono in quell’anno soggetto di tanti ordini, editti, regolamenti, che sembrava che, dopo il molto ch’erasi già operato da venticinque anni in poi, nulla ancora si fosse fatto. Fino dal 1782 erasi dato mano a sopprimere i conventi e monasteri, specialmente i più ricchi, come Certosini, Cisterciensi, Olivetani e simili. Fattesi ora le soppressioni più numerose, s’intimò un’egual sorte alle monache, quando non si prestassero a rendersi utili nell’educazione femminile1161; e talmente prevalse l’abitudine al tedio dell’ozio claustrale, che il più gran numero preferì di essere soppresso, rendendosi generalmente oggetti di ludibrio per l’imperizia de’ costumi sociali, e a molti di compassione. Si espulsero i seminaristi elvetici dal loro collegio, e vi s’installò il consiglio di governo. Fu stabilito un nuovo compartimento delle Parrocchie; si determinò lo stipendio de’ parrochi, e sulle rendite de’ regolari soppressi fu supplito alle mancanti congrue; si vietò l’ordinazione de’ cherici quando non avessero fatto il corso de’ loro studi nel seminario generale eretto in Pavia; tutti i consorzi, che vari e sotto diversi nomi esistevano presso le chiese, furono aboliti, salve le confraternite della carità o della dottrina cristiana, che si dissero poi del Santissimo1162. Una legge sontuaria fu emanata pe’ funerali1163, la tumulazione nelle chiese, già dapprima abrogata1164, fu di nuovo proibita severamente, sostituendovi i cimiteri da erigersi fuori dell’abitato1165. Il numero de’ giorni festivi fu ridotto; limitate le funzioni sacre e le processioni, vietate le novene, le ottave, i tridui; fissato il tempo di suonare le campane, e l’orario per tener aperte le chiese1166. Queste minuzie, bensì opportune, ma disdicenti alla maestà del sovrano, spiacquero al volgo più che le grandi riforme, sparsero di ridicolo i di lui regolamenti, e giustificarono il frizzo di Federico II, re di Prussia, che usava chiamarlo: mio fratello il sagrista. Provvedimenti che più generalmente ottennero la pubblica soddisfazione, furono la sistemazione de’ dazi e l’erezione delle scuole normali. La prima, contro il solito, procedette per gradi, e non fu fissata che dopo lunghi e maturi esami; durò quindi più che ogni altra. Si fece precedere l’abolizione dei dazi intermedi tra i territorii dell’una e dell’altra città; si soppressero varie minute gabelle locali, di sostratico, di pascolo, sui quadrupedi, detta della dogana viva, su molti prodotti indigeni, sulle manifatture, sui pellami, sulle telerie, sul sapone, sui nastri e perfino sugli zolfanelli1167. Fu quindi pubblicata una nuova tariffa daziaria, con lo stabilimento di un dazio unico e la libertà dell’interna circolazione delle merci1168. L’istruzione elementare erasi in addietro abbandonata alla tirannìa de’ pedanti; si volle rendere ragionevole, più generale ed uniforme; il che si ottenne colle scuole normali, benché abbiasi voluto fare una distinzione tra il povero e il facoltoso, prescrivendo per quest’ultimo. l’obbligo di un meschino annuo pagamento1169, abrogato poscia nel 1791. Non furono trascurati l’ornato e la decenza della città, e ciò che spetta alla polizia amministrativa. Le case furono numerizzate, le lampade dell’illuminazione poste per le strade, formato un giardino pubblico dove prima era il ritiro delle Celestine. La libera circolazione ed esportazione de’ grani fu proclamata e regolata1170. Non meno le farmacìe, che l’esercizio della medicina e della chirurgia ebbero una nuova sistemazione1171. Con saggio intendimento fu deciso di togliere la mendicità questuante, ma non si provvide a sufficienza per renderla operosa. Perciò i cittadini con compassione ed isbigottimento videro gli agenti della Police dare la caccia ai pitocchi per le strade e strascinarli in carcere; ma per risparmiare il pane che consumavano, rilasciavansi in breve con giuramento di non più mendicare; quindi, con quasi ridicola vicenda, imprigionavansi di nuovo per aver contravvenuto al giuramento, costretti dalla necessità. Prima di dar mano a tante mutazioni, e frattanto che si eseguivano le più clamorose, si trovò conveniente che il reale arciduca governatore partisse per un viaggio. Egli lasciò la sua residenza il 29 dicembre 1785; andò da Genova a Nizza, dove passò l’inverno; poi dopo un viaggio in Francia, Inghilterra e Germania, ritornò in Milano la sera del 16 dicembre dell’anno successivo. La popolazione, riguardando la sua assenza come una disapprovazione delle fatte novità, gli andò incontro con immenso concorso.
Questo generale sconvolgimento, e ricostituzione degli ordini di uno Stato, non operavasi nella sola austriaca Lombardia; anzi non fu che l’applicazione ad essa di quanto erasi già posto in pratica nella Germania. I motupropri, gli editti, le istruzioni, i regolamenti, i decreti furono colà del pari così varii e moltiplicati, che colla loro unione si formò una raccolta assai voluminosa1172. Né queste altresì erano le sole cure che occupavano l’ardente, inquieto e risoluto animo del sovrano. Nel breve e tumultuario suo regno di dieci anni, egli impegnò gravi discussioni coll’Olanda per la libera navigazione della Schelda; assistette nell’acquisto importantissimo della Crimea l’imperatrice delle Russie, che male il rimeritò; drizzò le più diligenti macchine politiche ad impossessarsi della Baviera in cambio de’ suoi Paesi Bassi, e ne rimase deluso per l’astuzia e l’opposizione del vecchio re di Prussia; e mentre già trovavasi in gravi imbarazzi per la ribellione dei Fiamminghi, la brama di partecipare colla Russia allo smembramento della Turchia l’impegnò improvvidamente in una guerra disastrosa e disgraziata che divorò uomini e tesori, per i cui danni inestimabili non ebbe specie di compenso, e nel corso della quale l’onore dell’armi fu appena salvato dalla vittoria sociale di Rimnick, e dalla presa di Belgrado, seguìta il 9 ottobre 1789. Fu questa una scarsa consolazione all’animo afflitto e abbattuto dell’imperatore per l’offeso amor proprio, per la delusa ambizione, per le perturbazioni e disobbedienze interne, essendo esausti e malcontenti i popoli, più province rovinate dalla guerra, e vuoto l’erario, (1790) I disagi del corpo nei campeggiamenti militari, ai quali infaustamente ha voluto prender parte nella guerra turchesca, la soverchia applicazione agli affari, e le angustie e le afflizioni morali aveano logorato la robustezza del suo fisico temperamento, e lo ridussero a morire di consunzione il 20 febbraio del 1790, essendo appena giunto all’età d’anni quarantanove. Sembra che Giuseppe II avrebbe dovuto essere fra i sovrani il più facile ad essere giudicato, perché fece più fatti; pure fu quello su cui i giudizi rimasero più divisi, perché le sue opere erano talvolta fra sé contraddicenti, e perché le passioni, una religione male intesa, e gli offesi interessi presero parte a que’ giudizi. Tutti si accordano nell’attribuirgli un carattere dispotico, inflessibile, irrequieto, novatore. Era economo e temperante, avea modi disinvolti e famigliari, e discorsi insinuanti. In generale le sue intenzioni furono migliori che i fatti, e questi, migliori dei modi usati nell’eseguirli. Chi disse ch’egli avea voluto procurare la felicità dei sudditi a colpi di bastone, disse il vero con acerbe parole. Uno de’ primi suoi atti fu, nel 1780, l’abolizione della servitù feudale ne’ suoi stati della Germania. Fece costruire a grandi spese strade e canali, incoraggì il commercio e le manifatture, e rese aperte e libere le comunicazioni tra le province. Protesse, senza ostentarlo, le lettere e le scienze in tutti i suoi Stati, instituì cattedre, scuole, biblioteche, o accrebbe le esistenti; promosse la libertà della stampa e la pubblica istruzione; e, per una delle sue abituali contraddizioni, proibì ad ognuno dei suoi sudditi il visitare paesi esteri prima di aver compito i ventisette anni1173. Non ostante le sua filantropia, le sue massime diplomatiche si trovarono al livello di quelle de’ gabinetti di Berlino e di Pietroburgo. Ebbe pure rimprovero di simulazione e di doppiezza, non meno nelle relazioni cogli esteri che coi propri sudditi1174. Il molto bene che fece e le sue utili riforme, benché duramente eseguite, male accolte, contrastate, e in parte rivocate, furono un seme che fruttificò largamente, e un frutto certissimo e indistruggibile sarà quello per cui la magia e la tirannia delle opinioni vennero dissipate per sempre. Più amara fu la ricompensa raccolta dall’autore di tanti cangiamenti, mentre n’ebbe dispiaceri infiniti, e prima di morire vidde ne’ varii suoi dominii disdegnate le sue riforme, generale il malcontento per i danni di una guerra sconsigliatamente intrapresa e peggio condotta, e sordo, ma sensibile, fra i sudditi un fermento, che esprimeva il bisogno di cangiar sorte.
Restituire la calma fra i popoli, metter fine alla guerra e ad ogni spesa straordinaria, ristaurare le fonti della rendita, furono le prime cure di Leopoldo II, giunto in Vienna il 12 marzo. Dopo di aver formato nel lungo governo di venticinque anni la felicità della Toscana, egli recava sul trono austriaco la più bella riputazione di un sovrano filosofo e filantropo, ed ebbe in questa il miglior mediatore per riuscire nel suo intento. Eletto il 30 settembre all’Impero, ricevette il 15 novembre la corona d’Ungheria, e partì da Buda pienamente riconciliato con quella generosa nazione. Ristabilì come poté e gli parve la sua autorità nelle province belgiche; e nell’estate seguente fermò la pace co’ Turchi, con restituir loro Belgrado e le altre conquiste. In questa sistematica riconciliazione del sovrano de’ suoi sudditi la Lombardia non fu trascurata. I corpi civici furono invitati ad esporre in iscritto le loro rimostranze, e queste furono recate a Vienna dai deputati loro, colà espressamente chiamati1175. (1791) Né tardarono ad essere conosciute le sovrane risoluzioni1176. La congregazione dello Stato di Milano, abolita nel 1786, venne repristinata. Si confermarono le prerogative ai corpi civici. L’amministrazione de’ luoghi pii fu restituita ai capitoli e alle congregazioni, conservato in Milano il corpo elemosiniere. Soppresse le intendenze politiche provinciali, ne furono delegate le incumbenze ai pretori; così la polizia di Milano passò nelle attribuzioni del capitano di giustizia. Fu modificato il regolamento per le scuole normali, e queste rese gratuite indistintamente1177. A tali provvidenze seguì dappresso una nuova sistemazione del governo, coll’erezione di una conferenza governativa e la repristinazione del magistrato politico camerale, cui furono aggregate le attribuzioni del soppresso consiglio1178. Anche i Mantovani furono rimandati contenti, coll’essersi separata l’amministrazione della loro provincia da quella del Milanese, alla quale era stata aggregata sei anni avanti, colla sola dipendenza dal governo generale della Lombardia1179. Ho creduto di dover esporre con un preciso dettaglio la storia sommaria della legislazione austriaca in questo paese, incominciando dal regno di Maria Teresa, per più ragioni. Primieramente perché finora questo lavoro non era stato fatto; inoltre perché corre di quella una confusa celebrità, mentre i contemporanei in generale, per la rapida successione, e l’affastellamento delle cose, se ne formarono un’idea poco diversa da quella del caos; e finalmente perché, oltre qualche nascita o morte di persone illustri, e qualche caso o istituzione patria, le fasi e i fatti dell’amministrazione interna sono i soli elementi per la storia di uno Stato di provincia. Ché se quelli tra i miei lettori, non avvezzi a siffatte discussioni, a questa parte della mia narrazione si saranno annoiati, io confesso con verità che ben più di essi mi sono annoiato scrivendola.
In quest’anno, per la morte della principessa Maria Teresa Cibo Malaspina, vedova del duca di Modena Francesco III e signora del ducato di Massa e Carrara, la di lei figlia Maria Beatrice, consorte del reale arciduca Ferdinando, le succedette in que’ dominii. Nel mese di aprile venne l’imperatore in Italia, accompagnando a Firenze il suo secondogenito Ferdinando, nuovo gran duca di Toscana. Passò da Venezia, dove ritrovossi col re e colla regina di Napoli; nel ritorno dalla Toscana visitò Mantova, indi Cremona, Lodi, Pavia, e il 28 maggio entrò in Milano. Ammise primo all’udienza l’arcivescovo, quindi il ministro plenipotenziario, poi il comandante delle armi; in seguito tutti ad un tratto i consiglieri, e finalmente in corpo i ciambellani. La vita che menò in Milano era uniforme. Alla mattina visitava i pubblici stabilimenti, poscia ammetteva chiunque all’udienza. Nell’anticamera vi era tutta la cortesìa, e il primo venuto era il primo introdotto, col solo riguardo che le donne precedevano. La sera poche volte fu in teatro, e fu veduto a piedi girare per le strade della città colla sola compagnia di due arciduchi suoi figli, che seco avea condotti. Questo principe non amava di accostarsi né i magnati, né i militari, né i prelati, né alcuna persona che si desse per importante; e preferiva di ammettere alla familiarità persone che non avessero pretensione alcuna. Era co’ suoi figli affettuoso senza sovranità, ed essi lo trattavano come un amico. Visitò minutamente le carceri, ma non fece liberare alcuno. Parve che le opinioni teologiche e le teorie criminali fossero le due cose che sopra le altre lo interessassero. Si trattenne in Milano fino alla sera del 28 giugno. Partendo lasciò il popolo a sé affezionato, ed ha potuto conoscerlo dalla folla accorsa alla partenza, e dalle voci che mostravano desiderio della sua felicità e brama del suo ritorno.
Né egli, né il popolo sapevano che salutavansi per l’ultima volta. Non era per anco tornato a Vienna che s’avvide della mala riuscita delle pratiche da lui mosse per frenare il torrente della rivoluzione di Francia a difesa di una sorella e di un cognato che sedevano su quel trono1180, e d’essersi tirato addosso la guerra che voleva evitare. (1792) Essendo in quest’angosciosa agitazione d’animo, egli esalò in Vienna il 1° di marzo l’ultimo fiato, in tre soli giorni di malattia, dopo due anni del nuovo regno, e circa quarantacinque di età. Chi il disse morto di malattia di petto, chi di dissenteria; e come è costume del volgo nel giudicare delle morti precipitose dei grandi, non mancò chi pretese di attribuirla ad una causa straordinaria1181. Egli lasciò i popoli più tranquilli, ma angustiati dalle esigenze dei preparativi guerreschi, e agitati per la prospettiva di un procelloso e sinistro avvenire. E non s’ingannarono; mentre l’eredità che da lui conseguirono il successore e i sudditi, furono ventidue anni di guerre distruggitrici e di calamità senza fine e senza esempio. Fu principe di carattere pacifico, affabile, amante dell’ordine e dell’economia. Col suo fratello e antecessore ebbe comune il rimprovero di essere stato troppo amico delle novazioni e troppo minuzioso ne’ regolamenti, come la lode di avere fondato tra i popoli un migliore governo. Più del fratello rispettò la pubblica opinione, e non meno fermo di lui, si mostrò più avveduto e più prudente. La stima che lasciò di sé come imperatore, fu inferiore a quella che aveasi acquistato come gran duca. A giustificare questa differenza possono allegarsi più cause: la brevità del nuovo regno, la confusione e gli imbarazzi in cui l’ha trovato, la somma difficoltà de’ tempi, che preludevano al più grande sconvolgimento politico, e alla successiva più grande catastrofe che abbia mai veduto il mondo; ma quando si osservi che ne’ fatti pubblici di que’ due anni (che pure molti ne operò) non fece mostra Leopoldo di alcun lampo di quel genio che sfavillò di sì bella luce nella Toscana, sembra potersi accostare di più alla verità, dicendo che il nuovo teatro delle sue azioni fu per esso troppo vasto; e avvenne di lui ciò che sarebbe accaduto nel regno delle belle arti a Giulio Clovio, miniatore eccellentissimo, se la sorte lo avesse costretto ad eseguire le gigantesche imprese di Michelangelo.