Storia di Milano/Capitolo XXXII
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- Cause della guerra detta di Successione. Guerra in Italia. Morte dell’imperatore Leopoldo I, cui succedè il figlio Giuseppe I. Liberazione di Torino. Il principe Eugenio di Savoia governatore di Milano, conquistato dagl’Imperiali. Carlo VI imperatore. Nuova guerra d’Italia. Pace di Vienna
Mentre, essendo tolta ogni speranza di successione, declinavano rapidamente la salute e la vita del re di Spagna Carlo II, l’ambizione delle principali potenze di Europa non fu lenta a predisporre macchine e leghe onde ripartirsi i possedimenti della vasta monarchia spagnuola; e già fino dal mese di marzo del 1700, dopo una negoziazione di due anni, il re di Francia avea conchiuso un trattato col re d’Inghilterra e gli Olandesi, in cui, tra l’altre disposizioni, aveasi convenuto che il Milanese fosse dato al duca di Lorena invece della Lorena, che dovea incorporarsi alla Francia. Ma diversi erano i titoli che si allegavano dai sovrani esteri, e specialmente dal re di Francia e dall’imperatore, in appoggio delle loro pretese1099, e giova di riferirli brevemente.
Di due prime figlie avute dal re Filippo IV, le infanti Maria Teresa e Margherita, la prima era stata data in isposa al re cristianissimo Luigi XIV, la seconda all’imperatore Leopoldo I. Per volere del padre l’infante Maria Teresa aveva rinunciato alle ragioni che le competevano al trono di Spagna, ciò che all’altra figlia non era stato richiesto. In conseguenza da entrambi que’ sovrani aspiravasi alla successione; dal re di Francia, a favore dell’unico suo figlio il Delfino, riputando inattendibile la rinuncia; e dall’imperatore, per l’arciduca Carlo, che gli era nato nel 1685. Conoscendosi che il re Carlo II si avvicinava al termine della sua vita, crebbero gl’intrighi e le pratiche dalle due parti. Per trovarsi libero all’imminente nuova lotta, non ostante la memorabile vittoria di Zenta, conchiuse l’imperatore col Gran Turco la tregua di Carlowitz. Il re di Francia, all’opposto, strinse con fina astuzia un nuovo trattato con l’Inghilterra e l’Olanda, di cui base era lo smembramento della Spagna, non perché questo avesse effetto, ma al solo fine che la nazione spagnuola, per ciò sbigottita, si volgesse a favorire la successione del Delfino, siccome avvenne. Aggiunse a questo maneggio due altre arti, la promessa che, premorendo il re di Spagna, il Delfino ne avrebbe sposato la vedova, e una dichiarazione procuratasi dal papa, che giudicava prevalente la pretesa della Francia e convenevole al bene comune. Questa dichiarazione finì di vincere l’animo irresoluto dell’infermo re di Spagna, per cui, il 2 ottobre del 1700, istituì, con secreto testamento, erede di tutta la monarchia spagnuola Filippo di Borbone, duca d’Anjou, secondogenito del Delfino, in tanto che non cessava di assicurare l’imperatore della sua predilezione. (1701) Manifestatasi la testamentaria disposizione dopo la morte del re Carlo II, avvenuta, come si disse, il primo giorno del successivo novembre, non era ancora la corte imperiale rinvenuta dalla sorpresa per questo inaspettato avvenimento, che il duca Filippo, proclamato in Parigi re delle Spagne col nome di Filippo V, era di già partito per Madrid, dove fece il suo solenne ingresso il 14 del seguente aprile. L’imperatore oppose a questo fatto la pubblicazione di un manifesto, in cui dimostrava la prevalenza delle sue ragioni, intanto che dalle due parti preludevasi all’imminente guerra coi più formidabili apparecchiamenti.
I Gallo-Ispani, avendo per generalissimo il duca di Savoia, sotto il comando del maresciallo di Catinat, marciarono alle rive dell’Adige per opporsi all’esercito imperiale, che, sotto gli ordini del principe Eugenio di Savoia, giovane in allora di circa trent’anni, si avanzava rapidamente. L’opposizione riuscì inutile, poiché il principe Eugenio, lasciato il nemico in disparte, per strade credute impraticabili, discese senz’ostacolo, il 9 luglio, nella pianura veronese, e dieciotto giorni dopo, valicato il Mincio, si stese nelle ubertose campagne del Bresciano, e mise a contribuzione lo Stato di Mantova. (1702) Il maresciallo di Villeroi, mandato in successore al Catinat con un rinforzo di nuove truppe, trovò gl’Imperiali trincerati a Chiari, e volendo forzarli, fu battuto colla perdita di circa diecimila uomini tra morti, feriti e prigionieri; indi, appena uscito da’ quartieri d’inverno, si lasciò sorprendere e far prigione in Cremona, benché gl’Imperiali non abbiano potuto riuscire ad impossessarsi della città. Nuovi rinforzi vennero spediti di Francia col principe di Vendome, al quale tenne dietro lo stesso re Filippo V per dar maggior vigore alle offese colla sua presenza. Corteggiato dal governatore principe di Vaudemont, egli fece il suo solenne ingresso in Milano il 23 giugno, e dopo pochi giorni si trasferì al campo. L’esito della battaglia di Luzzara, per cui ricuperarono Guastalla, riconfortò i Gallispani; e il re Filippo V, tornato a Milano e trattenutovisi per alquante settimane, sul principiare dell’inverno si restituì in Ispagna. Anche il principe Eugenio partì per Vienna, lasciando al comando dell’esercito imperiale il maresciallo conte Guido di Staremberg. (1703) Egli vi giunse opportuno per essere impiegato a rendere più vigorosa e più corta la guerra in Ungheria contro il ribelle Ragotki, intanto che la corte di Vienna dava uno sviluppo più vasto al piano della guerra contro la Francia, collegandosi da una parte colla regina Anna d’Inghilterra e col re Pietro II di Portogallo, e dall’altra facendo inclinare a suo favore la versatilità della casa di Savoia, per cui il duca Vittorio Amedeo, scosso, tra le altre cause, dalle laute promesse degl’Imperiali, ed irritato dall’insultante jattanza de’ generali francesi, e dallo sprezzo con cui erano trattati gli affari suoi dai ministri di Versailles1100, accedette alla nuova lega. In ricompensa della sua adesione, nelle solenni stipulazioni degli 8 novembre gli fu promessa dall’Austria tutta la porzione del Monferrato spettante al duca di Mantova, le città di Alessandria e Valenza, la Lomellina e la Valsesia, e oltre ciò un sussidio mensile di ottantamila ducati di banco. E già fino dal 12 settembre l’imperatore Leopoldo e il di lui figlio Giuseppe, re de’ Romani, aveano ceduto all’arciduca Carlo ogni loro diritto sopra la monarchia spagnuola, ond’egli assunse il titolo di re col nome di Carlo III; nel mentre che un forte esercito inglese e imperiale radunavasi verso le frontiere francesi nel Belgio, sotto gli ordini di due sommi capitani, il duca di Marlborough e il principe Eugenio, dai quali fu poi nell’anno seguente vinta la celebre battaglia d’Hochstedt, in cui settantamila Francesi, comandati dal maresciallo di Tallard, ebbero una piena sconfitta.
(1704) Mosso il re di Francia dal doppio intento di deviare il turbine che assembravasi verso le sue frontiere del Reno, e di vendicarsi del duca di Savoia, spedì contro di questi il duca di Vendome, di cui prima istruzione e mossa fu di intercettargli le comunicazioni collo stato di Milano. Il maresciallo conte di Staremberg, coi soccorsi che fu pronto a condurre in Piemonte per l’interdetta e malagevole strada del lago Maggiore, fece più commendevole la sollecitudine che notabile il vantaggio; tanto era il contrasto delle forze nemiche. Queste si estesero e stabilironsi successivamente in una gran parte del Piemonte. Trino, Vercelli, Susa, la Brunetta, le città d’Ivrea e d’Aosta, e il forte di Bard caddero in loro potere. (1705) Verrua e Guerbignano, piazze assai forti, strette di lungo assedio e difese con vigore, dovettero pur cedere. Il duca di Savoia fu obbligato di ritirarsi a Civasso, e lasciar Crescentino in mano ai nemici. Non mancava che di assediar Civasso perché fosse libero ai Gallispani di penetrare fin sotto Torino. La politica che reggeva allora il gabinetto austriaco, era evidente, di lasciare che il nuovo amico e il natural nemico egualmente si consummasser o sicché il primo restasse in fede, o, quando mai se ne dipartisse, non fosse temibile, e l’altro, assalito poi con forze intiere, potesse facilmente esser vinto. Ma quando il duca di Savoia trovavasi ormai ridotto a non poter dir proprio che lo spazio occupato dallo stanco e infiacchito suo esercito, vide la corte di Vienna che un più lungo temporeggiamento poteva mettere in pericolo la somma delle cose, per cui si decise a rispedire in Italia il principe Eugenio con nuove forze, senza che l’imperatore Leopoldo potesse vederne l’esito, avendo cessato di vivere il 5 maggio nell’età di quasi sessantacinque anni, succedendogli nell’impero il figlio Giuseppe I.
Il principe Eugenio, coll’usata sua celerità, per la via di Roveredo si condusse sul territorio di Brescia prima che il nemico si fosse trovato in tempo d’impedirglielo. I due eserciti si scontrarono il 16 agosto a Cassano, dove seguì un’aspra ed ostinata battaglia, della quale sì l’uno che l’altro si attribuirono la vittoria. Ne fu bensì effetto che nessuna impresa importante venne più tentata da essi per il resto dell’anno. (1706) Anzi il principe Eugenio, dopo un fatto sfavorevole sostenuto a Lonato al principio della nuova campagna, stimò prudente di ritirarsi sul Tirolo, finché, raggiunto dagli aspettati rinforzi, ripassò l’Adige il 6 di luglio con un esercito di trentamila uomini. Quasi contemporaneamente il duca Luigi d’Orleans, nipote del re, e il maresciallo di Marsin, successori del duca di Vendome, ch’era passato al comando dell’armi francesi in Fiandra, giunsero al campo che assediava Torino, e di là scesero nel Mantovano, dove il principal nerbo del loro esercito erasi concentrato. Il principe Eugenio trasse abilmente partito dalla esitazione che suole preoccupare i corpi guerreggianti al mutarsi del supremo capitano, e posto il Po di mezzo tra esso e la maggior oste nemica, giunse al Finale di Modena, entrò vittorioso in Reggio, e a grandi marce giungendo in Piemonte verso la fine d’agosto, congiunse il florido esercito alle poche spossate milizie che rimanevano al duca di Savoia, di lui cugino. Parve all’audacia e alla fidanza francese indecoroso di levar l’assedio di Torino senza tentare la sorte di una battaglia, e questa avvenne il 7 novembre. Dopo di essersi fieramente e a lungo combattuto dalle due parti sotto i trinceramenti stessi degli assedianti, i Gallispani furono vinti e rotti colla perdita di quattromila e cinquecento morti e settemila prigionieri, contando tra i feriti il duca d’Orleans e il maresciallo di Marsin, che morì il giorno dopo. Centocinquanta cannoni, un’immensa quantità di attrezzi militari, tutto l’attendamento, molt’argenteria e la cassa vennero in potere de’ vincitori. E la costernazione e il terrore erano a tal segno, che i Francesi non d’altro si curarono che di ripassare l’Alpi precipitosamente per le vie più brevi, lasciando esposta l’altra parte del loro esercito che trovavasi nella Lombardia e nel Modenese. Questa sconsigliata condotta rese ad essi estremo ed irreparabile il danno della sofferta sconfitta, e ai nemici loro rapidissimo il progresso della vittoria. Circa due settimane dopo, quasi tutto il Piemonte era stato ricuperato, la Lombardia conquistata, avendo il duca di Savoia e il principe Eugenio fatto il loro ingresso in Milano il 24 dello stesso mese di settembre. Anche Pavia, Pizzighettone, Alessandria, Tortona e Casale di Monferrato, dopo breve resistenza, si arresero. (1707). Il principe Eugenio fu dall’imperatore Giuseppe I nominato governatore dello stato di Milano e suo capitano generale in Italia, e tra i primi suoi atti fu la proclamazione di Sua Maestà il re Carlo III in duca di Milano. Né solo in Italia avea la vittoria disertato dalle armate francesi, mentre fin dal 23 maggio avean essi egualmente perduta la battaglia di Ramillies; e fu allora osservato che se la battaglia d’Hochstedt avea fatto perdere ai Francesi il paese dal Danubio al Reno, la battaglia di Ramillies li avea scacciati dalle Fiandre, e per quella di Torino perdettero l’Italia. E le piazze forti che in essa erano tuttavia custodite dai loro presidii, cioè il castello di Milano, Mantova, Cremona, Sabbionetta, Mirandola e il Finale di Genova, dovettero essere sgombrate e rimesse agl’Imperiali per la convenzione conchiusa in Milano il 13 marzo del 1707 tra il principe Eugenio e i plenipotenziari gallispani, ratificata il dì seguente in Mantova dal principe di Vaudemont, e il 16 in Torino dal duca di Savoia. Questo fine ebbe la prima guerra d’Italia del corrente secolo, dove l’imperizia e l’avversa fortuna concorsero a fare che l’ambiziosissimo Luigi XIV e il di lui nipote Filippo V tutto vi perdessero, costretti a lasciarlo a chi poco prima non vi possedeva un palmo di terreno. Secondo la varia sorte dell’armi diversa fu pur quella de’ minori principi italiani, che s’erano fatti ausiliari delle potenze belligeranti; e mentre la famiglia Gonzaga, dopo quattro secoli di sovranità, posta al bando dell’Impero, fu per sempre spogliata di tutti i suoi Stati, il duca di Modena non solo ricuperò per intiero i suoi dominii, ma acquistò in seguito la Mirandola; e gli Stati del duca di Savoia vennero ampliati coll’aggregazione di Valenza e di Alessandria e loro territorii, della Lomellina e della Valsesia, staccate secondo i patti dal ducato di Milano; contro il quale smembramento varie rimostranze furono fatte dal magistrato de’ decurioni milanesi all’imperial corte, e inutilmente, come era da attendersi, mentre alle supreme ragioni di Stato e all’interesse generale della monarchia non potevano opporre che titoli di convenienza municipale. L’imperatore volle anzi abbondare in generosità verso un alleato che tanto gli fu utile; ed avendo l’armata navale inglese presa l’isola di Sardegna e posta a di lui disposizione, la cedette al duca di Savoia; e del pari gli compiacque, benché con minore spontaneità, coll’acconsentire all’occupazione da esso pretesa de’ feudi del Monferrato e di alcune parti di territori del contado di Vigevano, per cui lo stato di Milano ebbe a soffrire una nuova limitazione. (1711) Null’altro avvenne di memorabile per i Milanesi ne’ successivi tre anni, se non che l’inaspettato passaggio per la capitale del re Carlo III, che recavasi ad occupare il trono imperiale col nome di Carlo VI, attesa l’immatura morte dell’imperatore Giuseppe I, avvenuta di vaiuolo, il 17 aprile del 1711, nell’età di soli trentatré anni. Egli entrò in Milano accompagnato dalle dimostrazioni convenzionali di apparato, di festeggiamento e di tripudio, solite a praticarsi in tali occasioni. I principi d’Italia, tra i quali si distinse il sommo pontefice Clemente XI, il complimentarono per mezzo di ambasciatori straordinari, felicitandolo, non solo come imperatore, ma altresì come re delle Spagne, benché fosse in quelle parti sul declinare della sua fortuna. Lasciò Milano il 10 novembre, per recarsi a Francoforte sul Reno, dove, circa un mese dopo, fu colle consuete solenni cerimonie incoronato.
(1712) Le mutate circostanze persuasero le potenze guerreggianti a’ pensieri di pace. (1713) Al qual fine, i loro plenipotenziari, nel mezzo dell’inverno, si unirono in congresso ad Utrecht, e, dopo nove mesi di trattative, fu dapprima conciliata una sospensione d’armi, seguìta poscia dalla pace, conchiusa l’11 aprile del 1713. Il 2 di questo mese entrò in Milano l’imperatrice, che dalla città di Barcellona andava a raggiungere il consorte in Vienna, lasciando abbandonata la Catalogna a’ suoi nuovi destini. Le tennero dietro varie migliaia di esuli spagnuoli; per provvedere alla cui sussistenza, fu staccato dal Milanese il Finale, venduto alla repubblica di Genova per un milione e duecentomila pezze da lire cinque di Milano, riservato il vano titolo di feudo all’Impero. (1717) Distratto il principe Eugenio nella nuova guerra in cui erasi impegnato l’imperatore in sussidio de’ Veneziani contro il Gran Turco, nel corso della quale l’accostumata sua prodezza ed intelligenza si distinse colla vittoria di Petervaradino, indi colle conquiste di Temeswar e di Belgrado, risolvette di rinunziare al governo dello Stato di Milano; laonde fu supplito dal conte Luigi di Vendomo, poscia da una real giunta dei primari magistrati, e in fine dal principe Massimiliano Carlo di Lewenstein, che incominciò il suo governo nel gennaio del 1717. L’avvenimento più rimarchevole ne’ fasti di quest’anno per la felicità della casa austriaca, e per il futuro bene de’ popoli, fu la nascita dell’imperiale arciduchessa Maria Teresa, accaduta il 13 maggio. Se la filosofia, scrisse l’abate Paolo Frisi1101, non avesse già dissipate le vanità de’ civili pronostici, si sarebbe preso per un augurio felice che la nascita di Maria Teresa fosse stata preceduta di pochi mesi dalla vittoria di Petervaradino. Il vero augurio del regno di essa fu la bontà naturale del suo cuore, la prontezza e la vivacità dell’ingegno, la fermezza del carattere, e l’applicazione agli affari, che mostrò sino dalla sua prima gioventù.
La prima intrapresa del governatore principe di Lewenstein in Milano, fu la costruzione del teatro di corte, ch’era stato consunto dalle fiamme il 5 gennaio 1708, e che, dopo avere sussistito per quasi sessant’anni, soggiacque ad un’uguale sciagura il 24 febbraio del 1776. Né d’altro poté occuparsi, essendo stato sorpreso dalla morte il 26 dicembre dello stesso anno. Questo fu il nono governatore morto durante il suo governo, dopo estinta la linea de’ duchi sforzeschi. Gli otto antecessori furono il cardinale Caracciolo, il duca di Albuquerque, il marchese d’Ayamonte, il conte di Fuentes, don Ambrogio Spinola, il cardinale Trivulzi, don Luigi Ponze de Leon, e il marchese d’Olias e Mortara. Lewenstein fu tumulato in San Gottardo; gli antecessori lo furono in Duomo, a Santo Stefano, alla Scala, alla Pace, a San Celso, ai Cappuccini di Porta Vercellina. (1719) Gli fu dato in suo successore il conte Gerolamo di Colloredo, che giunse al suo posto sul finire della primavera del 1719. Egli cinse di sbarre la fossa interna della città, a difesa de’ passeggeri, e, dopo sei anni di buon governo, partì in cattivo stato di salute per recarsi a morire a Vienna, succedendogli il maresciallo conte Daun.
La nascita d’una terza figlia avendo quasi tratto di speranza l’imperatore Carlo VI di aver prole maschile, s’indusse egli a stabilire con solenne atto, conosciuto sotto il nome di Prammatica Sanzione, una legge di successione, per la quale in mancanza di maschi, sono chiamate le figlie con ordine di primogenitura; legge garantita non solo dalla dieta dell’Impero, ma pur dall’Olanda, dalla Francia, dalla Spagna e dall’Inghiterra, e più efficacemente lo è stata in seguito dalla forza dell’armi. (1725) Una segreta convenzione stipulata il 30 aprile 1725 tra Carlo VI e Filippo V confermò al primo tra gli altri vantaggi in Italia il possedimento dello stato di Milano; il che diede causa ai Lombardi di sinceri tripudii, fondandosi, più che nelle sempre incerte speranze dell’avvenire, nella lunsinga della stabilità della condizione presente. (1729) Questi fausti presagi furono sconvolti da un turbine improvviso, avendo la prossima estinzione delle famiglie regnanti de’ Farnesi negli Stati di Parma e Piacenza, e de’ Medici in Toscana ravvivate le pretese dell’imperatore Carlo VI, contro le quali la Francia, la Spagna e l’Inghilterra convennero in secreto trattato, conchiuso in Siviglia il 9 novembre del 1729. Perciò da ogni parte si pose cura agli apprestamenti guerreschi, e l’imperatore si mostrò nell’attitudine più imponente. Per di lui ordine il governatore conte Daun fece ristaurare le piazze forti del Mantovano e del Milanese, radunò magazzini copiosissimi, e si accinse con ogni diligenza ad ammassar denaro. L’esercito imperiale in Italia, accresciuto con rinforzi venuti di Germania, fu presto numerosissimo, e si disse ascendere a sessantamila fanti e ventimila cavalli. (1730) Il conte di Mercy, generalissimo, lo distribuì in un accampamento continuo lungo il Po, da Ostiglia sino a Pavia, avendo fatto centro in Cremona per il deposito delle vittovaglie e d’ogni corredo militare. Così, quantunque le ostilità non abbiano incominciato che assai tempo dopo e per effetto di altri ravvolgimenti politici, la Lombardia soggiacque a tutti i danni della più aspra guerra guerreggiata. La diaria, convenuta pagarsi dallo Stato per la difesa del paese, fu aumentata dalle tredici alle sedicimila lire al giorno, per cui ascese ad annui cinque milioni e ottocentoquarantamila lire milanesi. Nella ripartizione di un sussidio straordinario di quattordici milioni di fiorini imposto alla monarchia, due milioni dovette contribuire l’Italia austriaca. I frequenti passaggi delle truppe, le requisizioni de’ generi e in ispecie dell’avena accrebbero i dispendii e le vessazioni. Tutte le casse pubbliche erano esauste, e la regia camera sospese i pagamenti ai creditori che per l’indisputata liquidità de’ loro titoli erano detti di giustizia. A questi mali s’aggiunse che fino dal 1726 i creditori, o come chiamavansi i Reddituari de’ monti di San Carlo, per conseguire almeno una parte de’ loro redditi, aveano dovuto accondiscendere alla riduzione de’ capitali al sessanta per cento, e degl’interessi dal cinque al tre, e che da più anni l’intiera provincia soggiaceva al sopracarico delle spese per il nuovo censimento, le quali dal 1718 al 1733 salirono alla somma di sei milioni. Altri minori aggravii s’introdussero in allora; essendo stata privata la camera de’ mercanti di Milano dell’antichissimo possesso di avere un proprio corriere per la corrispondenza nella Germania, e stabilita la nuova gabella di francare le lettere, laddove prima si pagava soltanto al riceverle, non a spedirle.
(1733) In questo stato di guerra senza guerra aperta si durò per tre anni, fino al 1733, quando l’influenza esercitata dalla corte imperiale per l’elezione del re di Polonia Federico Augusto III, in onta de’ maneggi del gabinetto di Francia, fu il grano di polvere che mancava a far accendere la mina, da tanto tempo accumulata, e mentre altresì l’esercito austriaco in Italia, pocanzi sì formidabile, erasi, per varie cause, di molto diminuito. Questa volta la politica della corte austriaca fu vinta dall’astuzia e dalla simulazione degli avversari. Il re di Francia Luigi XV, il re Filippo V di Spagna e il nuovo re di Sardegna Carlo Emmanuele si collegarono, il 16 settembre, con segreto trattato di alleanza contro la maestà cesarea; e fu questo talmente segreto, che gli armamenti intrapresi dal re sardo si riputarono in Vienna fatti in difesa propria e dello Stato di Milano contro i Francesi, al segno che, avendo lo stesso re chiesto di estrarre dal Milanese circa trecentomila moggia di grano, dai ministri imperiali fu tosto ordinato che vi si acconsentisse. E in quest’erronea opinione stettero così ostinati, che quando il conte Daun, chiarito dall’inviato cesareo in Torino della contratta lega, della quale il re di Sardegna era stato eletto generalissimo, ne diede avviso alla corte, non fu creduto. Spedì corrieri, spedì suo figlio, tutto fu riguardato e deriso come un sogno e un terror panico del governatore; e la procella sopragiunse tanto precipitosa, che appena egli ebbe tempo di porsi in salvo, rifugiandosi a Mantova il 22 ottobre. A tale inaspettato sconvolgimento tutti i ministri e il paese furono in costernazione. I sessanta decurioni di Milano si radunavano ogni giorno: si destinò la milizia urbana alla custodia delle porte della città, si fece una processione a Sant’Ambrogio, e si concertò come avevasi a far buon viso ai nuovi padroni. Il 2 novembre i delegati di Milano rendettero omaggio al re di Sardegna presso Abbiategrasso, accolti con distinzione, avendo voluto che si coprissero; e furono tenuti due ore con lui, mentre sfilavano otto battaglioni francesi e quattro savoiardi destinati ad occupare la città. Dopo la presa di Pizzighettone, l’11 di dicembre, il re fece la solenne entrata in Milano, e due giorni dopo vi giunse il maresciallo Villars, che avea ottantatré anni. V’erano nella città oltre duemila ufficiali con alloggio presso i privati, dal qual peso i patrizi tennero se stessi esenti. (1734) Il castello, bloccato dapprima, dopo quattordici giorni di aperto assedio si arrese il 2 gennaio, trovandosi il presidio, per le perdite fatte e la molta diserzione, ridotto a novecento uomini. La città ebbe a soffrire qualche danno e ben maggior paura dalle artiglierie degli assediati; ed oggetto di grave doglianza fu per essa successivamente la tassa imposta a’ facoltosi in determinate somme, da pagarsi fra otto giorni, in via di prestito al sei per cento, onde soddisfare al debito arretrato per la diaria. Fra quelli, i più tassati furono il presidente Clerici per lire centocinquantamila, il conte di Brono per altretante, il conte Brentano e Pietro Andreoli in lire centomila per ciascuno. Ma pochi pagarono, e la successione degli avvenimenti fece lasciare questo espediente in dimenticanza.
I Gallo-Sardi, quanto furono celeri nell’invasione, altretanto si mostrarono lenti nell’approfittare degl’improvvisi riportati vantaggi, e della sorpresa e debolezza degl’Imperiali, che in tutto non avevano in Italia quattordicimila uomini. Si lasciò loro il tempo di riprender lena, di raccogliere le sparse, benché tenui forze de’ diversi presidii, e di far di Mantova il centro d’unione de’ soccorsi spediti in fretta dalla Germania. Anche il re di Sardegna fu sollecito ad accrescer forze all’esercito collegato colle copiose leve eseguite, non meno ne’ suoi stati della Savoia e del Piemonte, che nel ducato di Milano, dove, non ostante l’avversione del volgo ai Piemontesi e ai Francesi per antiche gare ed animosità, il reclutamento fu numeroso. Avvenne sul finire dell’anno la battaglia campale di Guastalla, egualmente gloriosa per le due parti, ma senza esito decisivo. Però il partito imperiale in Italia soggiacque ad un colpo funesto per la spedizione marittima partita di Spagna alla conquista de’ regni di Napoli e di Sicilia a favore dell’infante don Carlo. Entrò questi in fatti vittorioso in Napoli, il giorno 15 maggio, donde era fuggito il viceré conte don Giulio Visconti, e cinque giorni dopo venne proclamato re delle due Sicilie fra gli urli d’applauso e di tripudio di quella plebe sfrenata e salvaggia, abituata da tanti secoli a festeggiare i presenti e a maledire chi si ritira, quando l’occasione non le sia propizia per fargli un male maggiore. (1735) All’uscire da’ quartieri d’inverno l’armata cesarea si trovò accresciuta di alquante migliaia di soldati, che retrocedevano da Napoli col capitano generale duca di Montemar, e all’opposto giunse di Francia in Milano, verso la fine di marzo, il maresciallo di Noailles, e ai primi di maggio in Cremona il re di Sardegna. Incalzati gl’Imperiali dai Gallo-Sardi, furono dal loro maresciallo Koningsegg, con lodatissima provvidenza1102, concentrati verso il Tirolo, avendo prima posto in salvo i bagagli, i malati, i cannoni, e ogni altro attiraglio e impedimento militare. Gli succedette nel comando il generale conte di Kevenhüller, al tempo del quale null’altro accadde fuorché la conquista della Mirandola, riuscita al duca di Montemar, intanto che gli alleati consumavano il tempo e le forze nel blocco di Mantova. Questa lentezza, non accostumata al carattere delle due nazioni, non era senza mistero; e questo fu in parte svelato, allorché, il 16 dicembre, il duca di Noailles spedì al conte di Kevenhüller il gradevole avviso di una sospensione d’armi, la quale fu tosto seguìta dalla pace. Questo esito era stato preparato dai segreti maneggi del cardinale di Fleury, primo ministro del re cristianissimo, cui si trovò pronto ad aderire il gabinetto austriaco, che dalla sbilanciata sua fortuna era ridotto a più moderati consigli. La somma delle cose convenute sul terminare del 1735 nei celebri preliminari di Vienna, e tosto dopo ratificata nel congresso di Parigi, fu la seguente. I ducati di Lorena e Bar vennero ceduti e aggregati alla Francia, e il regno delle due Sicilie confermato al re Carlo di Borbone. Al duca di Lorena Francesco Stefano fu assegnato in cambio il gran ducato di Toscana, e stante lo svantaggio del cambio, gli fu data da Cesare la lusinga di un partito di più alta importanza, che ebbe poi effetto. Il re di Sardegna, oltre il Monferrato, l’Alessandrino, la Lomellina e la Valsesia, acquistati nel 1707, ottenne le città e i territori di Novara e Tortona, con nuova diminuzione dello stato di Milano. A queste condizioni ebbe l’imperatore la conferma o la restituzione del Mantovano e della restante parte del Milanese, la cessione di Parma e Piacenza, e la garanzia della prammatica sanzione. (1736) Le corti di Madrid, di Napoli e di Torino trovarono nella reale convenienza di questi patti un congruo risarcimento all’offeso amor proprio per non essere state consultate, e vi aderirono. Successivamente le città di Parma e Piacenza furono lasciate libere dalle armi dell’infante don Carlo, cedute agl’Imperiali dai Gallo-Sardi Cremona e Pizzighettone, e il 7 di settembre la città di Milano, avendo alcuni giorni prima il re di Sardegna licenziata e ringraziata la giunta di governo istituita durante la conquista, col proclama che si riporta nella nota1103. Fu certamente onorevole per questa Giunta l’essere stata confermata dal conte di Kevenhüller, supremo comandante cesareo in Italia fino all’arrivo, che seguì il 17 dicembre, del nuovo governatore capitano generale conte Otto Ferdinando Traun, al di cui governo vennero uniti il ducato di Mantova e quello di Parma e Piacenza, sotto la denominazione di Lombardia austriaca. Altri due avvenimenti memorabili di quest’anno furono la morte del maggior capitano di quel tempo, il principe Eugenio di Savoia, avvenuta in Vienna il 21 aprile, essendo egli in età di anni settantadue, e le nozze faustissime seguìte il 12 del precedente febbraio tra l’arciduchessa Maria Teresa, primogenita dell’imperatore Carlo VI, già entrata nell’anno diciottesimo, e il principe di Lorena Francesco Stefano, che ne avea ventisette; con che le illustri case di Lorena e d’Austria si unirono in un solo tronco.
Ne’ decorsi trentasei anni vide la città di Milano un solo nuovo arcivescovo, monsignor Benedetto Erba Odescalchi, già nunzio apostolico in Polonia e poco dopo promosso al cardinalato. Egli fu eletto il 18 aprile del 1712 in luogo del defunto cardinale Giuseppe Archinto, e resse la chiesa milanese per anni ventiquattro, finché, nel 1736, reso inabile per un insulto apopletico, rinunziò al pontificato. Nell’anno seguente alla sua installazione diede questo prelato il conservatorio di Santa Sofia all’istituto della Visitazione, ed aperse il collegio degli Obblati missionari annesso all’insigne chiesa di Rhò. Sotto di lui fu aperto da’ Barnabiti in Milano, nel 1723, il collegio de’ Nobili, col nome di collegio imperiale; nel 1724 si stabilirono le Orsoline presso Santa Maria alla Porta; nell’anno seguente si è fabbricata la chiesa di Campo-Santo; e in fine nel 1735 si viddero erette le chiese di San Bartolomeo e di San Pietro Celestino, e ridotta a compimento quella di San Francesco di Paola, tutte col disegno dell’architetto Marco Bianchi, romano1104, il quale colle linee curve e coi cartocci, benché non disgiunti da una certa maestà, rese un abbondante tributo al cattivo gusto che andava allora dilatandosi nella pratica dell’architettura.