Storia di Milano/Capitolo XXXI
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- Successione di governatori. Guerre nel Piemonte, nella Valtellina e in Lombardia. Morte del re Filippo IV. Governo del duca di Ossuna. Morte del re Carlo II. Sacre e pie fondazioni, e morti di persone distinte.
Nel progredire di questa storia, la materia che debbo trattare quasi mi scoraggisce. Sterile ed ingrata necessariamente per la condizione del paese dopo l’estinzione de’ principi sforzeschi, lo diviene ancora maggiormente, giacché alla mancanza de’ fatti storici va succedendo quella dei grandi caratteri, rimarchevoli per sublimi virtù o per vizi illustri; onde il vasto, fertile e già ricco stato di Milano in quest’epoca non può essere rappresentato da una più vera imagine di quella di un gran podere, quasi in ira al cielo e agli uomini, abbandonato dalla non curanza di uno sconosciuto padrone, all’imperizia e al capriccio dei succedentisi amministratori. Nel corso di quasi settant’anni, su cui versa questo capitolo, i buoni governatori furon rari, e per maggiore sventura del paese sono quelli che vi fecero più breve dimora. I danni del Milanese crebbero per le guerre che ripetutamente si suscitarono in questo intervallo nella Valtellina e nel Piemonte, tanto per i campeggiamenti e le rapine degli eserciti, quanto per doverli provvedere di viveri e di soldo, giacché se anche ne’ migliori tempi di Carlo V e di Filippo II ben poco danaro era qui spedito dalla Spagna, a quest’epoca non poteva aspettarsene sussidio veruno; non bastando neppure le scarse rendite di quell’indolente e degenerata nazione a saziare l’avarizia de’ favoriti e de’ cortigiani. Tali poi furono gli effetti di più di un secolo di cattivo governo straniero, dell’agricoltura in più luoghi abbandonata, della scoraggiata industria, della sofferta fame e di due pestilenze sterminatrici, che rese esauste tutte le sorgenti della pubblica prosperità: la popolazione per la penuria del vivere non poté riprodursi; e Milano che da lungo tempo e per tutto il secolo decimoquinto fu ricca, florida e popolosa di oltre trecento mila abitanti, nel decimosettimo non giungeva a centomila, e in questo limite se ne stette quasi stazionaria, mentre l’indistruggibile fertilità del suolo impedì all’ignoranza e al mal volere degli uomini di farla maggiormente retrocedere.
(1632) Il vacante arcivescovato di Milano fu, il 28 novembre del 1632, conferito dal papa Urbano VIII al patrizio milanese Cesare Monti, già insignito della dignità di patriarca d’Antiochia e nunzio apostolico nella Spagna, e nell’anno seguente fatto cardinale. E poiché la storia civile non ci offre altra occasione di parlar di lui, soggiungeremo ch’egli resse la chiesa milanese con pace e dignità per quasi diciotto anni, fece ridurre a compimento le chiese del Lentasio e di Sant’Agnese, stabilì il conservatorio di Santa Febronia per le figlie povere, eresse la chiesa e il convento di Concesa e il monastero di Santa Maria di Loreto, istituì il seminario di Monza, e, morendo, legò per testamento agli arcivescovi suoi successori una scelta raccolta di ducentoventun quadri, il di cui catalogo leggesi presso il Latuada1080, e che, riordinata e ristaurata pochi anni sono da mano maestra, forma tuttora un magnifico ornamento al palazzo arcivescovile.
(1633) Nel 1631 era tornato al governo di questi Stati don Gomez Suarez di Figueroa e Cordova, duca di Feria; ma dopo due anni avendo egli dovuto, d’ordine del re cattolico, recarsi in Germania in soccorso dell’imperatore Ferdinando II con un esercito di diecimila fanti e mille e cinquecento cavalli, parte Spagnuoli e Lombardi, e parte Napoletani, venne in suo luogo il cardinale infante di Spagna, fratello del re; ma non rimase al governo che circa un anno, essendo passato a governare le Fiandre. Dal poco che ci rimane delle sue leggi, appare ch’egli avea di mira l’esatta amministrazione della giustizia. I successivi governatori fino al 1670 furono il cardinale Egidio Albornoz, il marchese don Diego di Leganes, il duca d’Alcalà, il conte don Giovanni di Sirvela, il marchese di Velada, don Bernardino Fernandez de Velasco, contestabile di Castiglia, il conte di Haro, don Luigi Benavides, marchese di Caracena, il cardinale Teodoro principe Trivulzi, il conte di Fuensaldagna, il duca di Sermoneta, don Luigi de Guzman Ponze di Leon, il marchese d’Olias e Mortara, e don Paolo Spinola, marchese de los Balbases, duca del Sesto. Sono in trentasei anni quattordici governatori, tra i quali il marchese di Caracena durò per otto anni, e il conte di Fuensaldagna per quattro. L’inettitudine, l’inesperienza, il breve governo, la distrazione delle guerre furono cagione che que’ signori fecero poco bene al paese, e lasciarono intatti i disordini, se pure non li accrebbero. Gioverà a dare un’idea del loro modo di governare il sapersi che mentre le provincia, rovinata dai disastri della peste, dalle lunghe guerre e dalla pessima e tenebrosa amministrazione, esigeva i più seri provvedimenti, il marchese di Caracena non trovò altro di meglio a fare per il ben pubblico che vietando alle meretrici di andare in carrozza ai corsi, e il conte di Fuensaldagna, di proibire che anche nel carnevale si ballasse dopo la mezza notte, e che alcuna donna si mascherasse da uomo, o uomo da donna. Quel marchese accrebbe le fortificazioni del castello di sei mezze-lune. Più importanti furono i provvedimenti del governatore Ponze di Leon. All’intento di soccorrere alle angustie del pubblico banco di Sant’Ambrogio, che, disordinato e soccombente sotto il peso de’ suoi debiti, avea ridotto alla metà il pagamento degl’interessi, ordinò, con decreto del 18 luglio 1662, che i fondi e i dazi destinati dalla città di Milano per dote di quello, passassero in libera amministrazione di una congregazione da lui delegata; con che per allora fu assicurata la pubblica fede. Egli fu autore di un altro insigne beneficio a suggerimento del conte Bartolommeo Arese, presidente del senato, personaggio di gran senno ed influenza, ed amantissimo del suo paese, l’instituzione del così detto Rimplazzo. Esso regolava l’alloggiamento militare sotto la direzione di un provveditore generale, il quale forniva d’alloggio l’esercito in tempo di pace ad un determinato prezzo per ciascuna razione da pagarsi in via d’imposta sopra tutto lo Stato, secondo la fatta ripartizione. Così furono procurati opportuni e comodi alloggiamenti alle truppe, liberati i pubblici e i cittadini dalle vessazioni, e assicurata l’uguaglianza del carico. Ma questo Ponze di Leon era uomo sì arbitrario e violento, che, senza rispetto alla giurisdizione de’ tribunali e del senato facea esercitare la giustizia a suo piacere: e ne basti un esempio. Un cieco, conosciuto col nome di Alessandrino, andava cantando per le vie della città una canzone popolare, in cui deridevansi gli Spagnuoli. Il governatore se lo fece condurre innanzi, gli fe’ dar a bere e volle udir la canzone; indi ordinò che immediatamente fosse condotto alla piazza de’ Mercanti, ed alla mezza notte, a porte chiuse, fosse impiccato e subito seppellito. Egli stesso nel giorno vegnente a comune terrore, fece dare pubblicità alla sentenza ed all’esecuzione. È però da confessarsi che i tempi erano convenienti per simili violenze; e i nobili in ispecie, resi brutali dall’ignoranza, invasi dalla boria spagnuola e degradati dalla prepotenza valorosa de’ loro avi, eransi abituati alla prepotenza facinorosa, che col mezzo di mani mercenarie procacciasi comoda e senza pericolo la vendetta, la quale infame costumanza si mantenne in vigore fin oltre la metà del secolo scorso1081. Per siffatte prepotenze la città di Milano era in tanto disordine, che i privati cautamente si facevano scortare per le strade da uomini armati. Persino il residente del gran duca di Toscana, Gian-Francesco Rucellai, in Porta Vercellina, verso mezzodì, venne assalito da molti armati, Per cui, dopo valida resistenza, costretto a sottrarsi al maggior numero, il governatore e il senato, mancando di altro mezzo, fecero pubblicare che chiunque suddito del re cattolico avesse in quest’occasione prestata assistenza al residente, sarebbe stato dalla maestà sua assai gradito; e il marchese Annibale Porroni lo fece servire da certo capitano Ampio con un centinaio di bravi, e, così scortato, il residente prese congedo dal governatore, dall’arcivescovo e dal presidente del senato. La stessa scorta lo accompagnò fino a Piacenza; il fatto avvenne nel 16561082.
(1634) Per essere più libero e sicuro d’impiegare le sue forze nella Germania e ne’ Paesi Bassi, il re di Spagna si era adoperato per trarre al suo partito il duca di Savoia; e già il principe Tommaso, uno de’ fratelli di esso, impegnatosi a militare nelle Fiandre in favore del re cattolico, avea mandato a Milano la consorte ed i figli, quasi ostaggi in garanzia della sua promessa. (1635) Ma al principio del 1635 una nuova ed aspra guerra insorse tra la Spagna e la Francia, suscitata dall’ambizione e dalla rivalità degli onnipotenti ministri delle due corti, il cardinale di Richelieu e il conte Olivares. In conseguenza il re di Francia Luigi XIII si collegò con varii principi protestanti e coll’Olanda a danno de’ Paesi Bassi, e spedì un esercito nella Valtellina, comandato dal duca di Rohan, per attaccare lo stato di Milano; riuscì pure a ridurre nella sua lega il duca di Parma Odoardo Farnese e il principe Carlo Gonzaga, duca di Mantova, che varie cagioni avevano di dolersi della Spagna. Anche il duca di Savoia, disapprovata altamente la condotta del principe Tommaso, e privatolo de’ suoi stipendi e possedimenti nella Savoia e in Piemonte, aderì alla Francia e fu fatto comandante generale delle armi francesi e collegate in Italia. Il governatore di Milano cardinale Albornoz non fu lento a guernire i confini dello Stato, e costrinse pure i Francesi a desistere precipitosamente dall’intrapreso assedio di Valenza. All’opposto, gli Spagnuoli nella Valtellina, benché rinforzati da quattromila fanti e quattrocento cavalli tedeschi sotto il barone di Fernamont, riportarono dai Francesi una grave sconfitta. (1636) In principio del nuovo anno uscì in campo anche il duca di Parma, ma fu respinto con perdita dagli Spagnuoli spediti dal Milanese, associati al duca di Modena Francesco I. In questo apprestamento di un vasto incendio, che minacciava tutto all’intorno lo stato di Milano, l’interposta mediazione del papa Urbano VIII e di Ferdinando II, gran duca di Toscana, riuscì a conciliare una tregua, che fu seguita da una pace effimera, mentre, per il pretesto del compenso dei danni recati dagli Spagnuoli nel Parmigiano e nel Piacentino, il duca di Savoia e il maresciallo di Crequì invasero nel mese di giugno il Pavese e il Novarese, e passato il Ticino, spezzarono il grand’argine, per cui da quel fiume si conduce a Milano il naviglio Grande; onde la nostra città ne fu costernata. Il governatore marchese di Leganes si oppose ai nemici a Tornavento, ove, il 23 di quel mese, seguì un sanguinoso contrasto; e benché la vittoria fosse rimasta indecisa, l’effetto ne fu che i Francesi e i Savoiardi di là a pochi giorni si ritirarono. In questo grave pericolo fu di nuovo istituita in Milano la milizia civica, nella quale si videro in breve ascritti più di seimila cittadini, e dal governatore ebbe, con decreto del 29 settembre, confermati i suoi privilegi. Il duca di Parma, che aveva invaso il Cremonese e il Lodigiano, sconfitto da don Martino d’Aragona, colla mediazione del papa e del gran duca fu ammesso a far pace separata cogli Spagnuoli, ai quali cedette Sabbionetta, piazza in allora importante, tra Casalmaggiore e Mantova. Anche il duca di Rohan, assalito dai Grigioni, dovette ritirarsi dalla Valtellina.
(1637) Reso libero da que’ due nemici il governatore marchese di Leganes, e trovandosi al comando di dieciottoniila fanti e quasi cinquemila cavalli per rinforzi avuti dalla Spagna, dalla Germania e da Napoli, si decise a spingere con vigore la guerra nel Piemonte, colla lusinga di facili progressi per la morte accaduta del duca Vittorio Amedeo, lasciando due figli in età infantile sotto la tutela della madre. Prese quindi il forte di Breme nella Lomellina, invase il Monferrato e assediò Vercelli. (1638) Poi, collegatosi col cardinale Maurizio e col principe Tommaso, zii del piccolo duca, applicò a diverse imprese, vagando per il Piemonte, finché, accintosi all’acquisto di Casale di Monferrato con segreta intelligenza della vedova duchessa di Mantova, venne ivi raggiunto dall’esercito francese comandato dal maresciallo d’Harcourt, e posto in piena rotta colla perdita della cancelleria (1640), delle argenterie, della cassa regia, de’ cannoni e d’ogni equipaggiamento, rinvenuti dai vincitori nel campo di San Giorgio verso Pontestura. (1641) Il marchese di Leganes fu richiamato. Ma più che da questa sconfitta, venne il re di Spagna determinato a tal passo dai gravi turbamenti insorti nell’interno della monarchia, la sollevazione dei Catalani e la ribellione del duca Giovanni di Braganza, la quale produsse poi la separazione del Portogallo dalla Spagna, avendo la sorte delle armi e i fini politici delle altre potenze persuaso il riconoscimento legittimo di quel ribelle. (1652-1645) Per questi avvenimenti l’esercito francese reso più animoso, unito a Savoiardi, ridusse in breve tempo gli Spagnuoli alla difensiva, e, ricuperate di seguito le fortezze del Piemonte, penetrò nello stato di Milano, prese Tortona e Trino, indi, varcata la Sesia, Vigevano. La costernazione fu grandissima in Milano. Il governatore marchese di Velada accorse a Mortara, a Novara e ai passi della Sesia a far fronte ai nemici, i quali, per la difficoltà delle vittovaglie, si ritirarono; (1646) nel principio del nuovo anno, anche Vigevano fu ricuperato. Né i danni de’ Milanesi si ristrinsero alla paura. La devastazione delle campagne ove seguirono gli osteggiamenti, le vettovaglie somministrate agli eserciti nemici ed amici, gli approvvigionamenti e le opere di difesa alle fortezze minacciate, e il soldo delle truppe che per intiero dovevasi fornire dal paese, furono tali pesi, che più non bastando a supplirvi le ordinarie rendite e le contribuzioni straordinarie, si ebbe ricorso all’alienazione de’ dazi ed altri diritti regali. In quest’anno e ne’ quattro seguenti si fecero le più grandiose vendite delle regalie, che mai fossero fatte per l’addietro o in seguito. Dal prospetto che se ne stese nell’anno 1772, quando per ordine dell’imperatrice Maria Teresa furono tutte ricuperate alla regia camera, si riconobbero centosessantasei regalie vendute in que’ quattro anni: quasi la terza parte delle alienazioni si fecero allora. Durante tutto il secolo precedente e fino alla metà del XVII se ne alienarono sole cinquantuna. Nel rimanente di quel secolo si trovò comodo, e forse fu necessità, di proseguire in siffatte vendite; e dall’anno 1649 al 1700 ne furono distratte altre centosessantanove.
(1647) Il cardinale Mazzarino, succeduto al defunto cardinale Richelieu nella suprema direzione del regno di Francia, accrebbe un nuovo fomite alla guerra in Italia coll’essere riuscito a far entrare nella lega contro gli Spagnuoli Francesco I d’Este, duca di Modena. Perciò i Gallo-Estensi occuparono con grandi forze Casalmaggiore, che tennero per due anni, e assediata inutilmente Cremona, disertarono il Cremonese. Ma la vigorosa resistenza opposta dal governatore marchese di Caracena, l’occupazione da esso fatta di più terre del modenese, e gli uffici dei duchi di Mantova e di Parma indussero il duca di Modena a rappacificarsi colla Spagna. (1649) Liberati dalle angustie di questa nuova guerra potettero i Milanesi prestarsi più alacremente a festeggiare l’arrivo della loro sovrana, l’arciduchessa Marianna d’Austria, che da Vienna recavasi a Madrid, sposa del re Filippo IV. Essa fece il suo ingresso in Milano il 30 maggio del 1649, il quale è così descritto dal Brusoni1083: Entrò la regina privatamente in Milano per Porta Tosa, a causa delle grandissime pioggie che diluviarono in quei giorni; e fece poscia la sua solenne entrata per Porta Romana, incontrata dal marchese di Caracena, governatore, con tutti i tribunali, e dal clero in processione. Il governatore, messo piede a terra, presentò alla Maestà Sua diciotto cavalieri, coperti di scarlatto guernito di brocato, e altri sessanta, vestiti di tela d’argento, destinati a servirla. Dopo che, collocata sovra una chinea da’ duchi di Machedea e di Terranova, venne salutata da una salva di mille e ducento mortaletti e da tutto il cannone della città. Per tutte le contrade e le piazze per le quali passò la regina, oltre agli addobbi che le adornavano, si vedevano spallierate le milizie della città e dell’esercito sotto i loro maestri di campo e generali, con vaghissima e superba mostra. Fu servita fino al Duomo, e poscia al palazzo di sua abitazione, con ordine e pompa veraramente regia e maravigliosa. Fermossi la regina per alcuni giorni in Milano con Ferdinando IV re d’Ungheria e di Boemia, suo fratello, onorata dai principi d’Italia o personalmente o per ambasciatori. Durante la sua dimora mostrò di commiserare la sorte di don Odoardo di Braganza, fratello del nuovo re di Portogallo, e benemerito dell’imperatore suo padre, il quale da sette anni gemeva in stretta carcere nella rocchetta di quel castello; e forse sarebbesi a di lui favore interposta presso il re suo sposo, se in quel tempo appunto non fosse morto dopo brevissima malattia1084. (1650) Il 16 di agosto dell’anno seguente morì pure il cardinale arcivescovo Cesare Monti, in di cui vece fu promosso alla sede arcivescovile monsignore Alfonso Litta. Questo prelato, nel lungo pontificato di vent’ott’anni, accrebbe di comodi ed ornamenti il seminario Maggiore, ristaurò il cadente seminario della Canonica, ed aggiunse nuovi redditi al collegio de’ Nobili. Negli affari ch’ebbe a trattare in corte di Roma e ne’ varii conclavi ai quali intervenne, si meritò lode di zelo e d’accorgimento; e nelle emergenze di dispareri giurisdizionali si condusse generalmente con moderazione; che se nel fatto che vado a narrare si mostrò dapprima animato da soverchio calore, non fu tardo a piegarsi al più maturo consiglio della saviezza.
Era stato ucciso con una pistolettata il cavaliere Uberto dell’Orto su la porta del procuratore Gadolini, vicino a San Giorgio in Palazzo. Il sospetto cadeva sopra un Landriani che si pose nell’asilo di San Nazaro. Il governatore Ponze di Leon ordinò che il Landriani venisse ad ogni modo imprigionato, e gli sbirri lo presero sull’altare mentre s’era attaccato al tabernacolo. L’arcivescovo ne fece fare acerbe doglianze, accolte dal governatore trascuratamente. Minacciò scomuniche e interdetti, ma il governatore non gli badò. Fece intimare il primo monitorio al capitano di giustizia Clerici, e fu sprezzato. Intimò il secondo monitorio, che venne accolto come il primo. Venne un prete per intimare il terzo monitorio, e gli alabardieri del capitano di giustizia lo ferirono. L’arcivescovo era smanioso. Il governatore gli fece dire che se scomunicava avrebbe fatto impiccare alle porte dell’arcivescovato il Landriani. Stando così le cose, entrò di mezzo il presidente del senato, Bartolommeo Aresi; e persuase all’arcivescovo pensieri più miti, poiché alle chiese si deve rispetto, ma non per ciò che servano di ricovero agli scelerati; che in Venezia non si conosceva immunità, ed eravi anche per le scomuniche l’esempio di Venezia stessa nell’interdetto di Paolo V; e in fine che questi privilegi, non avendo altro appoggio che la tolleranza del re di Spagna, non conveniva di compromettere la dignità sua con maggiore insistenza. Il qual unico partito fu seguitato dalla saviezza dell’arcivescovo. Il papa Alessandro VII, nella promozione di cardinali che fece nel principio del 1664, vi comprese anche il coraggioso monsignor Litta, quantunque la prudenza gli suggerisse di tenerselo in petto fino a men sospetta occasione1085; onde la di lui promozione non fu pubblicata che dopo due anni.
Il Milanese trovavasi ridotto alla condizione più compassionevole per i danni e gli eccessivi dispendi cagionati dalla guerra. (1651) Avendo esaurito ogni mezzo di dar danari, e sopracaricato di debiti, al di cui soddisfacimento non bastavano le continuate vendite delle regalìe, l’avere impegnato le sue rendite ne’ partiti Balbi e Ceva, e le sovvenzioni procuratesi coll’erezione del monte di San Carlo, fu duopo staccare dallo Stato Pontremoli col suo distretto, vendendolo al gran duca di Toscana. Venne in seguito da Madrid una regia carta di pien potere, per obbligare ed anche vendere qualunque fondo camerale, estendendosi questa facoltà anche alla concessione de’ feudi. Farà sorpresa ai lettori che in sì estreme angustie non siasi mai pensato al più semplice e natural rimedio, il metter fine a una guerra che durava da tanti anni più o men viva, regolata dal solo capriccio, senza piano o stabile condotta, in cui erano sì rari i tratti di valore e di perizia militare nei capi, e nella quale null’altro v’era di certo se non che la distruzione degli averi e delle vite dei sudditi. Ma questo pensiero troppo ripugnava ai fini personali de’ governatori di questo Stato, ai quali premeva di perpetuarsi (come dice opportunamente il Muratori) nel lucroso mestiere di comandare un’armata. (1652) Perciò il marchese di Caracena non ebbe ritegno di destare il quasi sopito incendio con muoversi e discacciare i Francesi da Casale di Monferrato, giovandosi del favore che incautamente gli prestava in questo progetto il duca Carlo II di Mantova, padrone di quella città, e che, per il matrimonio di sua sorella Leonora coll’imperatore Ferdinando III, erasi necessariamente affidato al partito spagnuolo. La mossa improvvisa fu coronata da un felice esito, e nel principio d’autunno sì la città che i forti caddero in potere degli Spagnuoli. (1653) Ma ciò ch’erasi temuto, avvenne; mentre appena due mesi dopo, i Francesi, sollecitamente rinforzati, calarono ad infestare il territorio alessandrino e trascorsero fino alle porte di Novara. I due eserciti altro non fecero per la maggiore parte dell’anno seguente che starsi vicendevolmente in osservazione per esser pronti ad ostare dall’una parte e dall’altra a qualunque avanzamento. Il torbido e impaziente Caracena profittò di questa calma per muover briga al duca di Modena col pretesto di chiedere spiegazioni per le milizie che assoldava e il fortificare di Brescello. (1655) Invaso il territorio del duca, minacciò di assediare quella piazza e di bloccar Reggio; ma le copiose pioggie della primavera e il crescere del Po lo costrinsero a levar il campo, e a ripassare il fiume precipitosamente dopo una spedizione di soli venti giorni, e di aver ridotto un amico sospetto a divenire nemico dichiarato. E di là appena a due mesi trovò ben molto più a fare in casa propria, mentre il principe Tommaso di Savoia alla testa di un esercito francese, che si disse forte di dieciottomila fanti e settemila cavalli, passato il Ticino dalla parte di Vigevano, cominciò a scorrere il territorio milanese, portando dovunque il terrore e la desolazione. La città di Milano, in cui la confusione era cresciuta per le monache suburbane che, in folla e tumultuariamente, vi si ricoverarono, fu presidiata e possibilmente munita per la difesa, e i sacerdoti nelle chiese esortavano i cittadini a prender l’armi. Fortunatamente la furia francese declinò da questa direzione, e si rivolse all’assedio di Pavia. Varii accidenti concorsero a liberare il marchese di Caracena dal cattivo passo, ove dalla sua imprudente temerità era stato condotto. I Francesi, distratti nello scortare fino in Piemonte un grosso convoglio di bestiami predati nella Lomellina, furono tardi nell’investire la città mentre era meno provveduta de’ mezzi di difesa. Un rinforzo di trecento cavalli sotto il conte Galeazzo Trotti, generale della cavalleria di Napoli, che, passando per caso da Mortara, si unì al presidio di Pavia, l’inaspettato avvicinamento dal Finale di alcune truppe spedite dalla Spagna, l’essere rimasto ferito da una palla di falconetto il duca di Modena, che fu trasportato in Asti, la malattia sopragiunta al principe Tommaso nella sua grave età di oltre sessant’anni, tutte queste cause, alle quali si aggiunse la difficoltà delle vittovaglie per gli appostamenti fatti dal Caracena a Cassine sulla strada di Pavia, e ne’ castelli di Binasco e Chiarella, determinarono i Francesi a levare improvvisamente l’assedio, ch’era durato dal 22 luglio al 15 settembre, abbandonando nel campo una immensa quantità di attrezzi militari, di viveri e di bagagli. L’esercito gallo-estense si ritirò parte nel Modenese e parte a Torino col principe infermo, il quale il 22 del seguente gennaio se ne morì. (1656) Le rimostranze che i Milanesi fecero giungere al trono del sovrano, produssero il richiamo del marchese di Caracena, che passò al governo dell’armi in Fiandra, sotto il supremo comando di don Giovanni d’Austria, figlio naturale del re cattolico.
L’allontanamento di quell’ambizioso governatore, se sparse di qualche balsamo le esulcerate piaghe della misera Lombardia, non valse a impedire il nuovo incendio di guerra che si suscitò tosto dopo il ritorno del duca di Modena da Parigi, ov’erasi recato appena fu sano della sua ferita. Prima impresa de’ collegati fu l’investire Valenza sul Po, che, ostinatamente difesa, dovette arrendersi il 7 di settembre. (1658) Nei due anni successivi, stando le armi spagnuole unicamente sullo schermirsi, molti danni sofferse lo stato di Milano dalle scorrerie nemiche; quando, nel 1658, l’accorto ed audace duca Francesco venne in risoluzione di condurre la sua parte d’esercito, che consisteva in settemila fanti e cinquemila e ottocento cavalli, a’ quartieri d’inverno sul Mantovano. Il duca di Mantova, sorpreso all’improvviso, invocò e ottenne dal governatore di Milano qualche soccorso di truppe, ma insufficiente; laonde fu costretto a stipulare la propria neutralità, ciò che l’espose alla collera dell’Imperatore e lo privò del titolo di vicario dell’Impero. Resi sicuri per questa convenzione dal lato del duca di Mantova, i Gallo-Estensi minacciarono di penetrare nel cuore della Lombardia col passaggio dell’Adda, fiume distante sole dieciotto miglia da Milano. Il governatore munì in fretta le fortezze di Pavia, Lodi, Pizzighettone e Cremona, e fortificò varii posti sul fiume tra Lodi e Rivolta, e da Castelleone a Cassano. Le acque della Muzza, spezzato l’argine, furono travolte in Adda per ingrossare il fiume. Ma il duca di Modena, superato per sorpresa il passo a Rivolta, si stabilì con tutto l’esercito sulla riva opposta, e si fece appoggio del forte e ben munito castello di Cassano, che gli si arrese. Valicata l’Adda, si accinsero tosto i vincitori a deviare le acque del naviglio della Martesana, facendo con una mina rovinare il suo sostegno; e una parte dell’esercito, sotto gli ordini del duca di Noailles, spinse le sue ricognizioni fino ai sobborghi di Milano, e si ripiegò con sì buon ordine che neppure fu inseguita. Si riunì quindi col restante dell’esercito per Marignano a Sant’Angelo, e tutt’insieme avviaronsi ad aprire le comunicazioni del Ticino più dirette e più brevi col Piemonte. Tragittato il fiume il 1° di agosto, cinsero d’assedio Mortara, che dopo quindici giorni si arrese; indi presero Vigevano, di cui distrussero le fortificazioni perché non servissero agli Spagnuoli nel prossimo inverno. Il conte di Fuensaldagna, governatore di Milano, che, come un’opportuna diversione, avea tentato di prendere per sorpresa la città di Valenza, ne era stato respinto con grave perdita. La morte inaspettata del duca di Modena, avvenuta in Santià il 14 ottobre, essendo in età di soli quarantott’anni, pose fine alle vittorie dei Francesi. Successe negli Stati paterni e nel generalato dell’armi collegate il giovane duca Alfonso IV. Principe d’animo più mite, acconsentì a pacificarsi colla Spagna a vantaggiose condizioni, limitandosi ad una perfetta neutralità, nel qual partito fu indotto dallo stesso ministro francese il cardinale Mazzarino, che stava negoziando lo stabilimento di una pace generale tra la Francia e la Spagna, la quale, conchiusa il 7 novembre dello stesso anno, è celebre sotto il nome di pace de’ Pirenei.
(1661) Dopo la pubblicazione della sospirata pace cominciò a respirare l’oppresso popolo milanese, il quale ottenne pure di veder limitata l’obbligazione dell’alloggiamento militare a quattromila fanti e duemila cavalli, con reale dispaccio 30 novembre del 1661. A questo beneficio tenne dietro il Rimplazzo, ossia la sistemazione del riparto dell’alloggiamento, di cui si è di sopra parlato, ove si discorsero in compendio le successioni de’ governatori. (1665) Null’altro ci si offre di notabile fino al 1665, in cui giunse in Milano la nuova che il re di Spagna Filippo IV aveva pagato l’inevitabile tributo alla natura, essendo morto il 17 settembre in età di sessant’anni. Principe pio, ma dominato quasi per tutta la sua vita da un pessimo ministro, il conte d’Olivares, che soltanto poco tempo prima di morire privò della sua grazia. Principe detto grande dall’adulazione, e in fatti grandissimo nelle disavventure, per aver regnato continuamente frammezzo alla miseria pubblica, cui non volle o non seppe mai sovvenire, e circondato dal pubblico malcontento; onde si vide successivamente spogliato del Portogallo e del Rossiglione, ribellata la Catalogna, in continua agitazione l’Aragona, conculcata la sua autorità dalla più infima plebaglia di Napoli, avvolta nella desolazione e in continue mormorazioni la Lombardia; e finalmente, dopo tanto sangue sparso e tanti tesori profusi dal padre e dall’avo, costretto a dar la pace agli Olandesi ed a riconoscerne l’indipendenza. Gli succedette l’unico figlio Carlo II, in età di quattr’anni, sotto la tutela della madre, che fu l’ultimo, egualmente inetto e pur esso mal fortunato rampollo di quella famiglia.
Magnifici furono i funerali celebrati in Milano per il defunto re. Nel seguente anno ebbero i Milanesi occasione di facile rallegramento nelle feste fatte per l’arrivo dalle Spagne, di passaggio per Vienna, dell’infante donna Margherita d’Austria, sposa dell’imperatore Leopoldo. Il governatore fece per ciò ristaurare splendidamente il palazzo ducale. (1668) Senza rispetto per la miseria pubblica, il lusso sfoggiato dalla nobiltà spagnuola e milanese, e dagli ambasciatori de’ sovrani d’Italia nel ricevimento di quella principessa, fu straordinario: e basti per un esempio, che il conte Filippo d’Agliè, ministro del re di Sardegna, si mostrò con un seguito di trecento persone, e il pomposo corteggio di cento tiri-a-sei. Due anni dopo morì il governatore Ponze di Leon, e dopo tre mesi di governo morì pure il suo successore Francesco de Oronco, marchese de Olias, Mortara e San Reale. Fu allora mandato il duca del Sesto don Paolo Spinola, marchese de los Balbases, il quale appena trascorso un anno cedette la carica a don Gaspare Tellez Giron, duca d’Ossuna, nome reso celebre dal di lui avo don Pietro, vice-re di Napoli. La regina vedova lo spedì governatore a Milano, per consiglio del gesuita Everardo Nitard, confessore, ch’essa avea condotto dalla Germania, e ciò per allontanarlo da don Giovanni d’Austria, ch’erasi insinuato nella confidenza del piccolo re. Governò per quattro anni. Quello che siamo per dire di lui è preso da un raro libretto, venuto allora in luce, che, quantunque sia principalmente un epilogo di scandalose storielle tendenti alla diffamazione di alcune gentildonne e cavalieri milanesi, contiene varii fatti storici che hanno tutta l’apparenza della verità1086. Fu assai pomposa l’entrata ch’ei fece in Milano. Precedevano alcune compagnie di cavalleria colla pistola alla mano, la corazza sul petto e la celata in capo. Poi venivano più di cento cavalli, carichi di arredi, coperti di panno scarlatto trinato d’oro, e colle funi di seta intrecciate di oro. Ogni cavallo aveva un palafreniere che lo conduceva, vestito in uniforme scarlatto, trinato d’oro e pennaccio nel cappello. Poi venivano i cavalli del duca, coperti pure di scarlatto trinato d’oro, con simili palafrenieri. Indi seguivano i carabinieri, con lucidissime armature e ricchi ornamenti. In seguito in magnifica gala cavalcavano i gentiluomini milanesi, accompagnati da numeroso stuolo de’ loro palafrenieri. Poi venivano tre carrozze del duca superbissime. Il carro e le ruote erano intagliate con sommo lusso, e tutto il legno dorato e i ferri smaltati; i cerchi delle ruote erano d’argento, e gli apparenti e rilevati chiodi nella prima erano d’oro, nelle due altre d’argento dorato; l’interno delle carrozze era tutto ricamato a profusione d’oro. Donna Mizia, moglie del duca, era nella prima carrozza con due sue figlie, e il duca cavalcava, superbamente bardato, alla portiera destra, costeggiati dalla guardia svizzera. Veniva in seguito la compagnia delle lance, indi altra soldatesca. La corte era stata mobigliata da esso duca in modo che un monarca non avrebbe potuto avere di più.
Questa pompa sorprendente annunziava nel nuovo governatore un personaggio ricchissimo o un ladro; forse fu l’uno e l’altro. Per ogni mezzo egli cercava di far danari; il conte Antonio Trotti, per essere eletto generale, dovette sborsargli ottantamila genovine1087. Il consiglio secreto procurò di porvi qualche argine; ne furono portate forti rimostranze a Madrid, per cui il duca una volta succombette, avendo dovuto disfare dodici capitani che aveva creati di suo capriccio. Dovette pur scomparire un altra volta, e pare a torto. Un suo domestico avea percosso un cane della principessa Trivulzi, e i domestici di essa lo uccisero. Il duca ordinò al capitano di giustizia la carcerazione degli omicidi; il capitano si portò nella casa della principessa e li fece imprigionare. La principessa era Spagnuola, spedì un corriere alla corte, venne l’ordine che dovessero i detenuti ricondursi nella casa Trivulzi, e il capitano di giustizia ne chiedesse scusa. Così rovesciavasi ogni idea di giustizia e di buon governo per una raccomandazione. Scemato per tal modo il rispetto verso il governatore, si videro affisse delle satire contro di lui; e non potendosi trovare indizio dell’autore, malgrado i premii proposti, il duca ebbe ricorso a un negromante, il qual ciurmatore fece credere che un frate fosse il colpevole. Per caso nominò un frate contro cui, secondo le opinioni religiose di que’ tempi, non si poteva altro castigo imporre che il bando; e l’ebbe il padre Giudici, crocifero, sulla prova del mago, ben pagato per questo. Il duca non era né affabile né cortese; era violento, capriccioso, orgogliosissimo, giuocatore vizioso, scostumato, rapace: così ce lo dipinge l’autore. Come vivessero i popoli sotto il di lui governo e quali esempi ricevessero, è facile comprenderlo. Se recò maraviglia in Milano il trovarsi quattordici lire nella tesoreria generale alla partenza del duca del Sesto, molto più fece sorpresa l’erario totalmente esausto lasciato dall’Ossuna in tempi meno infelici. I costumi della nobiltà milanese erano allora assai ritirati e gelosi. Fu cosa che spiacque, e che non ebbe seguito, una conversazione che il duca d’Ossuna aprì una sola volta.
(1674-1698) Dalla partenza del duca d’Ossuna nel 1674 fino al termine del secolo, vide Milano succedersi cinque governatori, che tutti trapassarono insignificanti, il principe di Ligne, i conti di Melgar e di Fuensalida, il duca di San Lucar, marchese di Leganes1088, e don Carlo Enrico di Lorena, principe di Vaudemont, che, venuto nel 1698, durò nel governo per otto anni. Quest’ultimo abbellì la corte ducale, introdusse società fra i nobili inselvatichiti, fece conoscere costumi gentili e colti, e la nazione passò dalla rusticità al libertinaggio. È celebre la memoria della villa fuori di Porta Orientale, la Belingera, ove quel principe passava l’estate; i giardini erano frequentati da cavalieri e dame. Prima non conversavano i due sessi se non tra prossimi parenti. Il conte Verri, che ci ha lasciati questi cenni, ci è pure testimonio di avere egli stesso ascoltate le declamazioni sul costume allora corrotto. Nello stesso periodo di tempo si succedettero tre arcivescovi, e furono i cardinali Federico Visconti nel 1681, Federico Caccia, eletto nel 1693, ma che trovandosi nunzio a Madrid, si è recato alla sua sede soltanto tre anni dopo, e Giuseppe Archinto nel 1699, che resse poi per tredici anni la Chiesa milanese. Intorno alla solenne entrata che fece in Milano il cardinale arcivescovo Caccia l’11 dicembre del 1696, abbiamo un libro pubblicato dal segretario del consiglio generale de’ LX decurioni, Baldassare Paravicini1089. Può esser grato alla boria municipale il sapere che in tale occasione fu mandato a Roma ambasciatore della città di Milano il conte Uberto Stampa, il quale era cavaliere d’Alcantara, maestro di campo nelle armate spagnuole, e sedeva nel consiglio secreto. Il duca di Medina-Celi, ambasciatore cattolico in Roma, gli diede ogni assistenza, così pregato dalla città. Lo Stampa partì per Roma, accompagnato dal conte Vincenzo Ciceri e da don Guido Brivio. L’ambasciatore del re cattolico e i prelati nazionali spedirongli incontro le loro mute, i cardinali gli spedirono i loro gentiluomini, e l’ambasciatore milanese andò all’udienza del papa Innocenzo XII coll’ombrella e cuscino di velluto nero trinato d’oro. Egli entrò con spada e cappello e presentò le credenziali della citta. Visitò i cardinali e venne da essi visitato, come lo fu anche dall’ambasciatore cesareo e da altri ministri esteri.
Nel restante di questo secolo rimase il Milanese quasi libero dalle guerre, se non che la cessione di Casale nel Monferrato fatta alla Francia dal duca di Mantova Ferdinando Carlo, e l’occupazione di quella città da parte de’ Francesi sotto gli ordini del marchese di Boufflers e del signore di Catinat, obbligarono la Spagna a far più grosso l’esercito in Italia; col quale poi prese parte alla guerra suscitatasi nel 1690 tra la Francia e Vittorio Amedeo di Savoia in causa delle aderenze da lui strette coll’imperatore, da cui era stato innalzato al rango di re, e successivamente per essersi questo sovrano, con un’improvvisa mutazione di partito, nel 1696, confederato di nuovo colla Francia, avanzandosi minaccioso alla testa di un forte esercito di Francesi alle frontiere della Lombardia, e avendo cinta d’assedio Valenza; dal quale pericolo fu questa provincia inaspettatamente salvata dalla neutralità stipulatasi nel trattato di Vigevano del 7 ottobre, mediante il pagamento di trecentomila doppie, ripartite a carico de’ principi italiani, de’ Genovesi e Lucchesi, e degli altri minori vassalli dell’Impero. Ma pur troppo avremo ad occuparci nel seguente capitolo de’ fieri turbini di guerra addensatisi e scoppiati sulla misera Italia, attesa la morte del re Carlo II, con cui si estinse la linea austriaca de’ sovrani di Spagna. Questo principe, che all’età di sedici anni, sdegnando di stare sottomesso alla tutela della regina Marianna sua madre, l’avea rilegata indecorosamente in un monastero; che due anni dopo, nel 1679, condusse in isposa Maria d’Orleans, nipote del re di Francia Luigi XIV, per cui si fecero grandi feste in Milano, colla quale convisse dieci anni, essendo morta senza successione; (1700) trasse poscia una vita neghittosa ed infermiccia fino al primo giorno di novembre del 1700, in cui nell’età di soli trentanove anni fu rapito dalla morte.
Oltre le sacre e pie fondazioni dovute alla munificienza de’ cardinali arcivescovi Monti e Litta, di cui abbiamo fatto cenno, si ha a commendare l’istituzione fatta, nel 1637, dal patrizio Giovanni Ambrogio Melzo di un luogo pio, che portava il di lui nome, per distribuire ai poveri; specialmente vergognosi, larghi sussidii di viveri, panni per decentemente coprirsi, e varie doti per il collocamento di oneste zitelle1090. La chiesa di Santa Maria alla Porta fu ricostruita nel 1652 sul nobile disegno di Francesco Richini, essendo concorso alla spesa con ragguardevol somma il conte Bartolommeo Aresi, che n’era parrocchiano. Lo stesso conte, dopo di aver giovato colle sue ricchezze all’abbellimento o al ristauro di varie altre chiese, sì dentro che fuori della città, eresse, nel 1665, nella basilica Porziana di San Vittore, col disegno di Gerolamo Quadrio, la ricca cappella gentilizia dedicata alla Vergine Assunta1091. Quattro anni dopo fu ridotta a compimento la chiesa della Vittoria a spese del cardinale Omodeo, che vi aveva una sorella, essendone architetto Giambattista Paggi1092. Nel 1674 si eresse il monastero delle Carmelitane Scalze; nel 1688, essendo caduta la basilica Naboriana, detta poi di San Francesco, fu rialzata con maggiore eleganza e maestà; e nel 1698 si fabbricarono i nuovi sepolcri dell’ospedale Maggiore, essendo il maestoso portico di essi stato perfezionato ventisette anni dopo da Giambattista Annone, ricco mercante di seta, che non avea prole. Infine, in occasione del solenne ingresso del cardinale arcivescovo Federico Visconti, fu demolita l’antica facciata del Duomo, che rimaneva tre arcate più interna della facciata presente.
Primo tra le persone distinte mancate di vita in questo tratto di tempo ci si presenta quel Lodovico Settala, protomedico, che sì male ha figurato nel processo della strega, da cui si disse ammaliato il senator Melzo; ma la sua credulità alle arti magiche, quasi generale in allora, non gli toglie il merito di uomo dottissimo in più scienze e anche nella politica, e di essersi col massimo zelo adoperato in favore de’ suoi concittadini nelle pestilenze del 1576 e del 1630. Egli morì il 12 settembre del 1633, nell’anno ottantesimo della sua età, essendo nato il 27 febbraio 15521093. Circa la fine del 1641 cessò di vivere il canonico Giuseppe Ripamonti, autore di molte opere, descritte dall’Argellati1094: cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de’ suoi tempi1095. Bonaventura Cavalieri, allievo del Galileo e di Benedetto Castelli, autore della Geometria degl’Indivisibili, maestro di Stefano degli Angeli e del Torricelli, lasciato oscuro nella sua patria, dove soltanto gli fu offerto dalla filantropia del cardinale Federico Borromeo un posto di dottore nel nuovo collegio dell’Ambrosiana, del tutto estraneo a’ di lui studi, morì professore in Bologna il 3 dicembre del 1647, di soli quarantanove anni1096. Il conte Bartolommeo Arese, più volte nominato, uomo di grand’ingegno e destrezza, che fu per molti anni reggente nel supremo consiglio d’Italia, e quindi presidente del senato, dopo di essere stato assai volte adoperato in commissioni difficilissime ed importantissime, giunto all’anno sessantesimoquarto di età, finì di vivere il 23 settembre del 1674. Essendo prossimo agli ottant’anni, terminò pure il mortal corso il 16 febbraio 1680 il canonico Manfredo Settala. Era figlio dell’illustre protomedico Lodovico. Fu allevato a Siena. Viaggiò l’Italia, la Sicilia, l’Egitto, Cipro, Candia, Negroponte, Costantinopoli, Smirne, la Siria, e ritornò in patria ricco di cognizioni, scrivendo bene più lingue e conoscendo le orientali. Possedeva la musica, aveva molta abilità delle sue mani, e moltissimo ingegno e amore delle curiosità naturali o esotiche. Fu egli che formò il museo tuttora celebre sotto il suo nome, descritto da Paolo Maria Terzago e da Pietro Francesco Scarabelli, e del quale fece dono alla biblioteca Ambrosiana1097. Il di lui funerale fu decorato con orazione recitata dal padre Giambattista Pastorino, gesuita, e il marchese Giovanni Battista Visconti descrisse e stampò la relazione di queste solenni esequie. "Pare che allora (dice il conte Verri) vi fosse qualche senso di stima e di gratitudine verso di un cittadino che onorava la patria". Il 22 aprile del 1699 morì infine, di sessantanove anni, il segretario del senato Carlo Maria Maggi. Avea fatto i suoi studi in Bologna, e vissuto lungamente nella gioventù in Roma e Napoli. Era dotto nella letteratura greca, latina e italiana; dee però la sua maggiore celebrità alle commedie e poesie che scrisse nel dialetto milanese, in cui con tanto corredo di sapere non è maraviglia se sia così ben riuscito. Non dee escludersi da questa lista necrologica un Milanese d’altissimo ingegno e meritevole di compassione più pe’ suoi deliri che per le sue tristi vicende, il cavaliere Giuseppe Francesco Borri. Egli fu il Cagliostro del secolo XVII. Eretico, visionario, alchimista, medico, ebbe la sorte di guarire in Roma il duca d’Estrées, dato per ispedito dagli altri medici, e per di lui interposizione gli fu cambiato il perpetuo carcere nella prigionia in castel Sant’Angelo, dove morì di settant’anni, il 20 agosto 16951098.