Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro II/Capo VIII

Capo VIII - Grammatici e retori

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Capo VIII.

Gramatici.

I. Delle pubbliche scuole, e degli onori e de’ privilegi che da alcuni imperadori di questa età vennero conceduti a’ professori delle scienze, e de’ retori ancora che per eloquenza si renderon famosi, abbiam già favellato, come l’argomento chiedea, neI’I e neI’III capo di questo libro. Qui dunque altro non ci rimane che a trattar de’ gramatici, che a questo tempo medesimo furon più illustri. Il più celebre tra essi è Gellio, il quale, benchè non sappiamo di’ ei tenesse pubblica scuola, per le materie nondimeno ch’egli ha trattate, a questa più che a qualunque altra classe appartiene. Io lascerò che i più minuti e oziosi critici decidano la gran contesa intorno al nome di questo scrittore, cioè se debba dirsi Agellio, o Aulo Gellio. Io penso che questa seconda maniera si debba prescegliere. Ma se altri fosse di contrario parere, io certo non lo sfiderò perciò a i. A qual icmpi vivesse Aulo Gellio. [p. 506 modifica]5of) T.1BR0 battaglia. Più importante è la questione, a qual tempo ei vivesse. Alcuni pensano ch’ei fiorisse a’ tempi di Adriano, e il raccolgono dall1 amicizia ch’egli ebbe col filosofo Favorino, di cui egli fa menzione in più luoghi. Ma egli è certo che Gellio nominando piu volte Adriano gli aggiugne il nome di Divo (l. 3, c. 20,- l. 11, c. 6)5 il che è sicuro argomento a conchiudere che quando egli scriveva, era già morto Adriano. Innoltre ei chiama col nome di consolare Erode Attico (il, cap. 1, ee.), e di Er»cio Claro dice (l. 13, c. 16) che fu due volte console. Or Erode Attico fu console l’anno 143 che era il sesto di Antonino, e Erucio Claro ebbe la seconda volta una tal dignità l’anno 146, nono dello stesso imperadore (V. Fast. Capitol.). Dunque dopo quel tempo scrisse certamente Gellio5 ed è verisimile che toccasse ancora il regno di Marco Aurelio, e potè (quindi nella sua gioventù aver conosciuto il filosofo Favorino. Ma un passo del medesimo Gellio ha posto in non leggero imbarazzo gli eruditi. In una disputa intorno le leggi delle XII tavole ch’egli riporta, seguita tra Favorino e Sesto Cecilio (l. 20, c. 1), questi così dice: trecentesimo namque anno post Romam conditam tabulae compositae seri piacque sunt A quo tempore ad hanc diem anni esse non longe minus septingenti videntur. Afferma egli dunque che dalla fondazion di Roma fino a quel tempo erano corsi poco meno di mille anni. Or egli è certo che a’ tempi dell’imperador Filippo soltanto si compierono i mille anni della fondazion di Roma, di che si fecero feste solenni l’anno [p. 507 modifica]dell1 era cristiana 248, cioè più di un secolo dopo la morte di Adriano. Ma il testo di Gellio non ha certamente bastevole autorità a distruggere l’opinione di tutti gli antichi e moderni cronologi; e perciò convien dire che il passo sia guasto e corrotto. E certo se invece di septingenti si leggesse sexcenti, allora il computo riuscirebbe ottimamente; poichè Adriano regnava appunto verso la fine del ix secolo di Roma, e morì l’anno 891 dalla fondazione di essa. Intorno all’età di Gellio veggasi, oltre gli altri scrittorì dal Fabricio allegati (Bibl. lat. l. 3, c. 1), un’erudita dissertazione del conte. Camillo Silvestri inserita nella Raccolta Calogeriana (t. 6). II. Se Gellio fosse romano, non si può con sicurezza affermare, non essendovi, ch’io sappia, passo alcun dei suoi libri che cel dimostri. Ma in Roma ei fece certamente lungo soggiorno, ivi attese giovinetto agli studj, ivi coltivò l’amicizia de’ più dotti uomini del suo tempo, ivi ancora fu da’ pretori scelto tra’ giudici delle cause private (l. 14, c. 2). Fu ancora per qualche tempo in Atene, e vi strinse amicizia co’ più illustri filosofi che allor vi erano. Da questo suo soggiorno in Atene ei diede il nome alla sua opera intitolandola Notti Attiche; perciocchè allora avea cominciato a scrivere di notte tempo ciò che o leggendo, o conversando cogli altri, eragli sembrato degno di averne memoria. Di quest’opera diversi sono i pareri de’ diversi scrittori, ed altri non si saziano in ammirarla e in lodarla, come il Lipsio che chiama Gellio autore di purissima latinità (Centur. 4 Miscell, ep. 57"); altri ne dicono il più gran 11. Carati cri? dello sue Molli Attiche. [p. 508 modifica]5o8 unno male del mondo, come Lodovico Vives che ne forma un carattere troppo spregevole e vile: Homo rhapsodus plane, congestor potius quam digestor, et os tentato r qua/n perìtus; loquacuIns sine e rudi(ione, in verbis ac sententiis putidulus (De tradend. discipl. l. 3). Nel che. a mio parere, e gli uni e gli altri hanno passato di troppo i giusti confini. In Gellio troviam - certamente molte osservazioni frivole e leggere, e che poco importava che ci venissero conservate. Ma egli è certo ancora che moltissime cose appartenenti alla storia, alla cronologia, a’ costumi, alle leggi di tutta l’antichità invano altrove si cercherebbero che presso Gellio. Egli ci ha conservati i nomi e i sentimenti di molti celebri uomini della sua età, e molti frammenti de’ più antichi scrittori, che senza lui sarebbon periti. In- somma l’opera di Gellio si può chiamare un vasto e ben ripieno fondaco in cui tra poche merci di niun prezzo molte ancora ve n’ha di non ordinario valore, che altrove non si potrebbono rinvenire. Ma in ciò eli’ è dello stile, io non so ove trovi il Lipsio quella purissima latinità che tanto egli ammira in Gellio. A me anzi pare di vedervi la corruzion del linguaggio, che allora si faceva sempre maggiore; talchè in mezzo a molte parole e a molte espressioni del buon secolo molte ancora ve n’ha di conio affatto nuovo e, direi quasi, straniero. Di esse volea darci un glossario Gaspare Barthio, e un saggio ne ha pubblicato (Advers. l. 8, c. 16). Ma non so che l’opera intera sia uscita a luce. Un’opera somigliante avea pur disegnata Cristiano Falstero. [p. 509 modifica]SECÓNDO 5 01) Ma (li essa ancora non so che sia stata data alle stampe. Intorno a Gellio degno è di vedersi ciò che scrivono il Funccio (De vegeta lat. ling. senect. c. 4) e Pier Daniello Longolio nella prefazione premessa all’edizione di Gellio fatta in Haff in Sassonia l’anno 1741 III. Le Notti Attiche di Gellio, di cui finor abbiam favellato, ci fan conoscere il non troppo felice stato della letteratura di questi tempi. Nói vi reggiamo i più dotti uomini che allora fossero in Roma, occupati spesso in faticose ricerche intorno a quistioni gramaticali di niuna importanza, e mi par di scorgere in essi un certo spirito, per così dire, di picciolezza ben lontano dal pensar grande e sublime degli antichi Romani. Ma forse era questo un effetto di sollecitudine e di zelo per la conservazione della lingua latina. Gellio in fatti si duole del dicadimento in cui ella era a’ suoi tempi. Noi possiamo osservare, egli dice (l. 13, c. 27), che la più parte delle parole latine dal senso che avevano, quando furon formate, passate sono ad averne un altro o somigliante, o diverso assai; e ciò è avvenuto per l’uso e per l’ignoranza di coloro che senza esame adoprano quelle parole, di cui non hanno appreso il senso. Quindi è che sì spesso s’incontrano presso lui minutissime riflessioni sul vero senso di alcune parole, e sugli abusi nella lingua latina introdotti. Ma meglio forse avrebbon fatto que’ valentuomini se non tanto nello studio delle parole quanto in quello de’ sentimenti e dei pensieri si fossero esercitati, e avessero procurato di far rivivere, se pur era possibile, [p. 510 modifica]5io unno in Iìoma il fervore insieme e il buon gusto nel coltivamento dell’eloquenza, della poesia e degli altri studj. IV. Alcuni degl’illustri gramatici che a’ suoi tempi erano in Roma, troviam rammenti da Gellio. Tra essi ei fa menzione di Sulpizio Apollinare, uomo a sua memoria dottissimo (l. 18, c. 4; l. 20, c. 5, ec.), che vantavasi di essere il solo che intender potesse le Storie di Sallustio. Egli ebbe l’onore di avere a suo discepolo Pertinace che fu poscia imperadore; anzi questi sottentrò per alcun tempo all’impiego della pubblica scuola che Sulpizio teneva (Jul. Capit. in Pertin. c. 2), finchè annoiato della gramatica passò all’armi, e quindi al trono. Alcuni versi di Sulpizio Apollinare sul comando che avea dato Virgilio di dare alle fiamme l’Eneide, ci sono stati conservati da Donato nella Vita da lui scritta di questo poeta. Gellio loda parimenti un cotal Elio Melisso, dicendo ch’esso a’ suoi giorni avea ottenuto tra’ gramatici sommo onore (l. 18, c. 6); accenna varie opere da lui scritte, ma dice insieme che l’arroganza era in lui maggior del sapere. V. La Storia Augusta ancora ci somministra il nome di alcuni gramatici di questa età che’ dovean essere in credito di non ordinario sapere, poichè dagl’imperadori furon dati per maestri a’ior figliuoli. Marco Aurelio ebbe, come narra Capitolino, (in M. Aur. c. 2), a suoi maestri negli studj gramaticali Alessandro per la lingua greca, per la latina Trosio Apro Pollione, ed Eutichio Procolo nativo di Sicca nel!’Africa. Ma di essi 11-.di’altro sappiamo, se non [p. 511 modifica]SECONDO 5 f 1 che di Procolo aggiugne Capitolino, che fu da Marco Aurelio sollevato all’onore di proconsole, ma facendolo esente da quelle spese che per ciò erano necessarie. Forse egli è quello stesso che da Trebellio Pollione si dice gramatico dottissimo del suo tempo (in Aemiliano), e di cui accenna un’opera, non sappiam quale, in cui parlava di paesi stranieri. Lo stesso Capitolino fa menzione di Scauro gramatico latino maestro di Lucio Vero (in Vero), figliuolo, egli dice, di quello Scauro che fu gramatico a’ tempi di Adriano. Il Salmasio però conghiettura (in not. ad hunc. loc.) che debbasi leggere Scaurino, poichè Lampridio nella Vita di Alessandro Severo (c. 3) nomina tra’ maestri ch’egli ebbe, Scaurino maestro rinomatissimo figliuol di Scaurino. Del gramatico Scauro che visse a’ tempi di Adriano parla anche Gellio con molta lode (l. 11, c. 15), e abbiamo qualche sua operetta gramaticale nella Raccolta degli antichi Gramatici. Lo stesso Vero ebbe pure a suoi maestri nelle lettere greche Telefo, quello stesso probabilmente di cui Suida rammenta parecchie opere, Elulione eli’ è verisimilmente l’autore di un picciol trattato de’ metri che abbiamo, e Arpocrazione che forse è quell’Elio Arpocrazione di cui parla Suida. Parimenti nella Vita di Commodo troviam nominati de’ gramatici a’ quali però ivi si dà il titolo di letteratori (c. 1), come abbiam detto altrove essersi talvolta usato; un di essi greco, cioè Onesicrito, l’altro latino detto Capella Antimio, de’ quali nuli’ altro sappiamo. Di Massimino il Giovane narra Giulio Capitolino (c. i) ebe ebbe [p. 512 modifica]VI. Sterilita »li quello argomento. lui ho tra suoi maestri Fabiiio Iclterator greco, di cui dice che ancor leggevansi molti epigrammi greci, e specialmente alcuni versi di Virgilio in lingua greca da lui recati -, e inoltre Filemone gramatico latino, di cui pure non abbiamo altra più distinta notizia. VI. Io ben vedo che questa sterile e ignuda serie di nomi, ch’io son venuto tessendo, avrà recata non poca noia a’ miei lettori. Ma se un terreno è così sterile che non produca fiori nè frutta di sorta alcuna, non se ne dee incolpare il laborioso ma infelice coltivatore. Per non accrescere maggiormente il tedio a chi legge, io lascerò di parlare di altri antichi gramatici, de’ quali benchè sia incerta l’età, si può nondimeno credere probabilmente che vivessero circa questo medesimo tempo, e delle opere de’ quali ci sono rimasti più o meno ampj frammenti inseriti nelle Raccolte che abbiamo dei loro scritti. Il Fabricio potrà soddisfare al desiderio di chi voglia pur risaperne i nomi, e quelle pochissime notizie che ce ne son pervenute (Bibl. lat. l. 4. c. 6, 7). Io mi dipartirò ancora dal mio usato^costume di trattare a questo luogo distintamcnte%degh eruditi stranieri che concorsero a Roma. Il numero de’ Romani amanti delle lettere è stato a quest’epoca così scarso, che a rintracciare qual fosse lo stato della letteratura ci è convenuto necessariamente accennare in ciascheduno de’ precedenti Capi i più illustri tra gli stranieri cli’ crano in Roma di questi tempi, nè perciò ci rimane che aggiugnere intorno ad essi