Storia dei Mille/Il corpo sanitario

Il corpo sanitario

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Il corpo sanitario.


Più necessario allora che non l’Intendenza, fu ordinato anche il Corpo sanitario, sotto il vecchio dottor Pietro Ripari da Solarolo Rainiero, che de’ suoi cinquantott’anni ne aveva passati molti nelle carceri dell’Austria e del [p. 72 modifica]Papa. Ma per tormenti che vi avesse durati, non si era mai stancato di adorare la propria idea, e tant’era che per essa, con l’età che aveva, lì si metteva al caso d’andare a sperimentare anche le galere del Borbone e a finir la vita tra i ferri. Aveva con sè Cesare Boldrini, mantovano, uomo di quarantaquattro anni, e Francesco Ziliani del bresciano, di ventotto, valenti medici e bravi soldati. Il Boldrini, nel seguito della guerra, volle poi essere soltanto ufficiale combattente. E il 1° ottobre cadde a Maddaloni, comandante d’un battaglione rimasto celebre col suo nome; consolazione grande questa al prode nei dolori che durarono due mesi a consumarlo e a farlo morire. Il Ziliani bellissimo, robustissimo e giocondo, per qualche cosa che aveva nel far suo metteva la soggezione, e temperava solo con la sua presenza anche i più spensierati e chiassosi. Dove egli capitava, fossero pur allegri i discorsi, tutti diventavano serii, le lingue si facevano caste, di cose frivole nessuno sapeva più dirne. Crebbe su agli alti gradi, ma non se ne volle giovare: tornò modestamente alle sue case patriarcali da dove non uscì che per le altre guerre; vi si chiuse alla fine a farsi crescere intorno una famiglia secondo il suo cuore, e in mezzo ad essa invecchiò, ricordando ed amando i campi e le plebi.

Altri medici in quel piccolo corpo erano Oddo-Tedeschi d’Alimena e Gaetano Zen di Adria; e del resto [p. 73 modifica]se ne trovavano sparsi in tutte le compagnie, combattenti dei migliori e da combattenti infermieri. A Calatafimi ne furono visti tra un assalto e l’altro deporre il fucile, trar fuori ferri e bende, curare qualche ferito; ripigliar su l’arma, e andar a farsi ferire.



La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più che per metà composta d’uomini di studio e d’intelletto. Ne contava più d’un centinaio e mezzo che erano già o divennero poi avvocati; e così come questi un centinaio di medici, un mezzo centinaio di ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci pittori o scultori, parecchi scrittori o professori di lettere e di scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi. V’era anche una donna, Rosalia Montmasson savoiarda, moglie di Crispi, che volle seguir il marito in quel pericolo; poi centinaia di commercianti e centinaia di artefici, operai il resto, contadini quasi nessuno.

Non sarà inutile aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini erano lombardi, centosessanta genovesi, il resto veneti, trentini, istriani e delle altre provincie dell’Italia superiore e centrale, con forse un centinaio di siciliani e napolitani tornanti dall’esilio. Non ve n’erano affatto delle provincie di Aquila, Benevento, Caltanissetta, Campobasso, Chieti, Caserta, Forlì, Pesaro, Ravenna e Siracusa. Stranieri accorsi per amor d’Italia ve n’erano diciotto, uno dei quali africano, l’altro d’America, e questi era Menotti, il figlio del Generale. [p. 74 modifica]

Di quel centinaio di meridionali trentacinque appartenevano alla parte peninsulare del Regno; gente degna davvero tutti. Ma sette di essi erano venerandi per chi sapeva la storia dei loro dolori. Avevano portato per dieci anni la catena negli ergastoli di Procida, di Montefusco o di Montesarchio; condannati a trenta, a venticinque, a vent’anni di ferri per amore di libertà. Ma il 9 gennaio del 1859, proprio la vigilia del giorno in cui Vittorio Emanuele diceva lassù, lontano, nel Parlamento piemontese, la sua storica frase delle grida di dolore; avevano ricevuto laggiù col gran Poerio, col Settembrini, con Silvio Spaventa, la beffarda grazia di andar banditi, deportati in America. Re Ferdinando, sentendosi divenuto odioso a tutta Europa, che lo chiamava da un pezzo negazione di Dio, aveva voluto dare quel segno della sua clemenza, a sessantasei delle sue vittime. Di queste si sa il viaggio a Cadice, la liberazione avvenuta a bordo nell’Atlantico per opera del figlio di Settembrini, la discesa a Cork in Irlanda e il rifugio in Piemonte. Ora di quei sessantasei, sette erano lì che se n’andavano tra i Mille, come sette vendette. Bisognava esser nati con cuori veramente eroici per mettersi dopo tanto patire a quel passo, o aver lo spasimo di riveder lui il Re crudele; e poichè egli era già morto, incontrarsi almeno con qualche suo rappresentante per afferrarlo al petto e farlo domandar pietà. Questo diciamo noi, forse perchè in generale siamo ancora tanto deboli, che ci compiacciamo di pensar da violenti; ma que’ sette erano forti e miti. Allora non erano più nel fior degli anni. Achille Argentino ingegnere di Sant’Angelo dei Lombardi ne aveva trentanove; Cesare Braico, medico di Brindisi, trentasette; Domenico Damis, gentiluomo di [p. 75 modifica]Lungro, trentasei; Stanislao Lamnesa, legale di Saracena, quarantotto; Raffaele Mauro, gentiluomo di Cosenza, quarantasei; Rocco Morgante, farmacista da Fiumara, cinquantacinque; Raffaele Piccoli di Castagna diacono, quarantotto. E Mauro aveva a casa cinque figliuoli, Lamensa quattro. Non li avevano più veduti dal 1849, anno della loro condanna; ora andavano a ritrovarli per quella via. Parlavano poco, ma se dicevano gli orrori delle galere nelle quali erano stati, a quelli che ascoltavano avveniva di augurarsi che essi vi fossero ancora chiusi, d’aver dieci vite, d’andar a darle tutte per liberare da tante miserie dei cristiani come loro. Al paragone quelle dello Spielberg dovevano esser state sopportabili, umane. Ma ce n’erano ancora tanti altri negli ergastoli del Regno! Tutto il Regno era un carcere, dunque era bello andare a sfondarlo.