Storia d'Italia/Libro XVIII/Capitolo IV

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IV

Piano d’azione propostosi dal duca d’Urbino. Fazioni militari in Emilia e defezione del conte di Gaiazzo. Gli imperiali muovono il campo dalla Trebbia; meravigliosa costanza dei soldati. Movimenti degli eserciti avversari. Occupazione di Monza da parte del duca di Milano, e subito abbandono della cittá da parte dei suoi. Difficoltá dell’esercito tedesco in Emilia; inattivitá delle milizie dei collegati e del duca d’Urbino. Malattia del Frundsperg.

Ma quello che lo moveva piú era il vedere farsi continuamente innanzi Borbone con lo esercito imperiale, né le risoluzioni del duca d’Urbino né le provisioni de’ viniziani essere tali che lo rendessino sicuro delle cose di Toscana; il timore delle quali lo affliggeva sopramodo. Perché il duca d’Urbino, stando ancora le genti imperiali parte di qua parte di lá da Piacenza, mutata la prima opinione di volere essere a Bologna con l’esercito veneto innanzi a loro, aveva risoluto ne’ suoi consigli che, come si intendesse la mossa degli inimici, lo esercito ecclesiastico, lasciato Parma e Modena bene guardate, si riducesse a Bologna; e che egli con l’esercito de’ viniziani camminasse alla coda degli inimici, lontano però sempre da loro, per sicurtá delle sue genti, venticinque o trenta miglia: col quale ordine, volendo gli inimici pigliare poi la via di Romagna e di Toscana, si procedesse continuamente, camminando sempre innanzi a loro l’esercito ecclesiastico, col marchese di Saluzzo con le lance franzesi e co’ fanti suoi e de’ svizzeri, lasciando sempre guardia nelle terre donde gli inimici avessino dopo loro a passare, e raccogliendole poi di mano in mano secondo fussino passati. Del quale consiglio suo, mal capace agli altri capitani, allegava molte ragioni; prima, non essere sicuro il mettersi con gli eserciti uniti in [p. 114 modifica]campagna per fare ostacolo agli imperiali che non passassino, perché sarebbe o pericoloso o inutile: pericoloso volendo combattere, perché essendo superiore di forze e di virtú se non di numero conseguirebbero la vittoria; inutile, perché se gli imperiali non volessino combattere sarebbe in facoltá loro lasciare indietro l’esercito de’ collegati, ed essendo dipoi sempre innanzi a loro in ogni luogo farebbeno grandissimi progressi. Parergli, quando bene le cose fussino in potestá sua, migliore di tutte questa deliberazione; ma costrignerlo a questo medesimo la necessitá: perché essendo giá, secondo si credeva, quasi in moto l’esercito inimico, non essere tanto pronte le provisioni delle genti sue che e’ fusse certo di potere essere a tempo a andare innanzi; e anche avere a considerare, poi che i viniziani avevano rimessa in lui liberamente questa deliberazione, di non lasciare lo stato loro in pericolo, il quale se gli inimici vedessino sprovisti, potrebbeno, preso nuovo consiglio da nuova occasione, passato Po, voltarsi a’ danni loro. Con la quale ragione convinceva il senato viniziano, che per natura ha per obietto di procedere nelle cose sue cautamente e sicuramente; ma non sodisfaceva giá al pontefice, considerando che con questo consiglio si apriva la via allo esercito imperiale di andare insino a Roma o in Toscana, o dove gli paresse; perché l’esercito che aveva a precedere, inferiore di forze, e diminuendone ogni dí per avere a mettere guardia nelle terre, non gli potrebbe resistere; né era certo che i viniziani, restando una volta indietro, avessino a essere cosí pronti a seguitargli co’ fatti come sonavano le parole del duca, considerando massime i modi con che si era proceduto in tutta la guerra; e giudicando che uniti tutti gli eserciti insieme, ne’ quali erano molto piú genti che in quello degli imperiali, potessino piú facilmente proibire loro il passare innanzi, impedire le vettovaglie e usare tutte le occasioni che si presentassino; né avere mai a essere tanto lontani da loro che non fussino a tempo a soccorrere, se si voltassino nelle terre de’ viniziani. La quale deliberazione gli dispiacque molto piú quando intese che il duca d’Urbino, venuto il terzo dí di [p. 115 modifica]gennaio a Parma, sopravenutagli leggiera malattia, si ritirò il quartodecimo dí a Casalmaggiore; e di quivi, cinque dí poi, sotto nome di curarsi, a Gazzuolo; dove giá alleggierito della febbre ma aggravato, secondo diceva, della gotta, aveva fatto venire la moglie. Il quale procedere, sospetto molto al pontefice, chi voleva tirare a migliore senso arguiva che le pratiche sue degli accordi erano causa del suo procedere con questa sospensione. Ma il luogotenente, comprendendo, parte da quello che era verisimile parte per relazione di parole dette da lui, che a questi modi sinistri lo induceva anche il desiderio della recuperazione del Montefeltro e di Santo Leo posseduto da’ fiorentini, giudicando che, se non si sodisfaceva di questo, sarebbeno il pontefice e i fiorentini nelle maggiori necessitá abbandonati da lui, né gli parendo che queste terre fussino premio degno di esporsi a tanto pericolo, sapendo anche che il medesimo si desiderava a Firenze, gli dette speranza certa della restituzione come se n’avesse commissione dal pontefice: la quale cosa non fu approvata dal pontefice, indulgente piú, in questo caso, all’odio antico e nuovo che alla ragione.

Stavano intanto gl’imperiali, avendo dato a’ tedeschi pochissimi denari, alloggiati vicini a Piacenza, dove era il conte Guido Rangone con seimila fanti; donde correndo qualche volta Paolo Luzasco e altri cavalli leggieri della Chiesa, uno giorno, accompagnati da qualche numero di fanti e da alcuni uomini d’arme, roppono gli inimici che correvano, preseno ottanta cavalli e cento fanti, e restorono prigioni i capitani Scalengo, Zucchero e Grugno borgognone. Mandò dipoi Borbone, il nono dí di febbraio, dieci insegne di spagnuoli a vettovagliare Pizzichitone, e a’ quindici dí, il conte di Gaiazzo co’ cavalli leggieri e fanti suoi venne ad alloggiare al Borgo a San Donnino, abbandonato dagli ecclesiastici. Il quale, il dí seguente, per pratica tenuta prima con lui, e pretendendo egli di essere, perché non era pagato, libero dagli imperiali, passò nel campo ecclesiastico: condotto dal luogotenente, piú per sodisfare ad altri che per seguitare il giudizio suo proprio, [p. 116 modifica]con mille ducento fanti e centotrenta cavalli leggieri, i quali aveva seco, e con condizione che, essendogli tolto da Cesare il contado suo di Gaiazzo, avesse dopo otto mesi il pontefice, insino lo ricuperasse, a pagargli ciascuno anno l’entrata equivalente.

Desiderava Borbone, seguitato il consiglio del duca di Ferrara (il quale nondimeno recusò di cavalcare nello esercito) di andare piú presto a Bologna e a Firenze che soprasedere in quelle terre, di partire a ogn’ora; ma a’ diciassette dí si ammutinorno i fanti spagnuoli dimandando denari, e ammazzorno il sergente maggiore mandato da lui a quietargli: e nondimeno, quietato il meglio possette il tumulto, a’ venti dí passò con tutto l’esercito la Trebbia e alloggiò a tre miglia di Piacenza; avendo seco cinquecento uomini d’arme e molti cavalli leggieri, i quali la piú parte erano italiani, non mai pagati, i fanti tedeschi venuti nuovamente, quattro o cinquemila fanti spagnuoli di gente eletta e circa dumila fanti italiani, sbandati e non pagati; essendo restati de’ tedeschi vecchi una parte a Milano, gli altri andati verso Savona, per dare favore alle cose di Genova, ridotta in grandissima angustia. Ed era certo maravigliosa la deliberazione di Borbone e di quello esercito, che, trovandosi senza danari senza munizioni senza guastatori senza ordine di condurre vettovaglie, si mettesse a passare innanzi in mezzo a tante terre inimiche e contro a inimici che avevano molto piú gente di loro; e piú maravigliosa la costanza de’ tedeschi, che partiti di Germania con uno ducato solo per uno, e avendo tollerato tanto tempo in Italia con non avere avuto in tutto il tempo piú che due o tre ducati per uno, si mettessino, contro a l’uso di tutti i soldati e specialmente della loro nazione, a camminare innanzi, non avendo altro premio o assegnamento che la speranza della vittoria; ancora che si comprendesse manifestamente che, riducendosi in luogo stretto le vettovaglie e avendo i nimici propinqui, non potrebbeno vivere senza denari: ma gli faceva sperare e tollerare assai l’autoritá grande che aveva il capitano Giorgio con loro, che proponeva loro in preda Roma e la maggiore parte di Italia. [p. 117 modifica]

Spinsonsi, a’ ventidue dí, al Borgo a San Donnino; e il dí seguente, il marchese di Saluzzo e le genti ecclesiastiche, lasciato a guardia di Parma alcuni fanti de’ viniziani, si partirono da Parma per la volta di Bologna, con undici in dodicimila fanti; lasciato ordine al conte Guido che da Piacenza venisse a Modena e i fanti delle bande nere a Bologna, restando in Piacenza guardia sufficiente. Cosí per il reggiano si condusseno, in quattro alloggiamenti, tra Anzuola e il ponte a Reno. Nel quale tempo Borbone era intorno a Reggio. E il duca di Urbino, il quale, proponendogli il luogotenente a Casalmaggiore che si accrescesse il numero de’ svizzeri, l’aveva come cosa inutile recusato, ora instava seco che si proponesse a Roma e a Vinegia che si conducessino di nuovo quattromila svizzeri e dumila tedeschi; scusando la contradizione fatta allora perché la stagione non consentiva che si uscisse alla campagna, e avere creduto che gli inimici si risolvessino prima: a’ quali, con questo augumento, prometteva di accostarsi. Consiglio disprezzato da tutti, perché a’ pericoli presenti non soccorrevano rimedi tanto tardi; potendo anche egli essere certissimo che queste cose, per le difficoltá de’ denari e volontá giá disunite de’ collegati, non si potevano mettere a esecuzione.

Nel quale tempo il duca di Milano, che fatti tremila fanti difendeva Lodi e Cremona e tutto il di lá da Adda, e scorreva nel milanese, occupò con subito impeto la terra di Moncia; ma fu presto abbandonata da i suoi, avuto avviso che Antonio da Leva, che aveva accompagnato Borbone, ritornato a Milano andava a quella volta; e si diceva avere seco dumila fanti tedeschi de’ vecchi, mille cinquecento de’ nuovi, mille fanti spagnuoli e cinquemila fanti italiani sotto piú capi.

Ma Borbone, passata Secchia, presa la mano sinistra, si condusse, a’ cinque di marzo, a Buonoporto; dove lasciato le genti andò al Finale ad abboccarsi col duca di Ferrara, che lo confortò assai a indirizzarsi, lasciati da parte tutti gli altri pensieri, alla volta di Firenze o di Roma: anzi si crede che lo consigliasse a indirizzarsi, lasciata ogni altra impresa, verso [p. 118 modifica]Roma. Nella quale deliberazione cruciavano l’animo del duca di Borbone molte difficoltá, e specialmente il timore che l’esercito, condotto in terra di Roma, o per necessitá o per desiderio di rinfrescarsi, o incontrando in qualche difficoltá (come senza dubbio sarebbe incontrato se il pontefice non si fusse disarmato) non pigliasse per alloggiamento il regno di Napoli. Nel quale dí le genti de’ viniziani passorono Po, senza la persona del duca d’Urbino (il quale benché quasi guarito era ancora a Gazzuolo) ma con intenzione di camminare presto. Alloggiò, il settimo dí, Borbone a San Giovanni in bolognese, donde mandò uno trombetto a Bologna, dove si erano ritirate le genti ecclesiastiche, a dimandare vettovaglie, dicendo volere andare al soccorso del reame; e il dí medesimo si unirono seco gli spagnuoli che erano in Carpi, consegnata quella terra al duca di Ferrara: e le genti de’ viniziani erano in su la Secchia, risolute a non passare piú innanzi se prima non intendevano la partita di Borbone da San Giovanni. Al quale veniva vettovaglia di quello di Ferrara, ma avendola a pagare e non avendo quasi denari, alloggiavano, per mangiare il paese, molto larghi, e correvano per tutto predando uomini e bestie, donde traevano il modo di pagare le vettovaglie: in modo che si conosceva certissimo che se avessino avuto riscontro potente, o se l’esercito ecclesiastico, il quale era in Bologna e all’intorno, avesse potuto mettersi in uno alloggiamento vicino a loro, si sarebbeno gli imperiali ridotti presto in molte angustie; perché continuando di alloggiare cosí larghi sarebbeno stati con molto pericolo, e ristrignendosi non arebbeno avuto il modo a pagare le vettovaglie. Ma nelle genti che erano a Bologna erano molti disordini, sí per la condizione del marchese, atto piú a rompere una lancia che a fare offizio di capitano, sí ancora perché i svizzeri e i fanti suoi non erano pagati a’ tempi debiti da’ viniziani; e Borbone, per potere camminare piú innanzi, attendeva a provedersi da Ferrara di vettovaglie per piú dí, di munizioni, di guastatori e di buoi, avendo seco insino allora quattro cannoni: e ancora che facesse varie dimostrazioni di quello che avesse in animo, [p. 119 modifica]nondimeno si ritraeva per cosa piú certa avere in animo di passare in Toscana per la via del Sasso; e il medesimo confermava Ieronimo Morone il quale, giá molti dí, teneva segreta pratica col marchese di Saluzzo, benché, a giudizio di molti, simulatamente e con fraude. Ma giá avendo statuito dovere partire a’ quattordici dí di marzo, e perciò rimandato al Bondino i quattro cannoni il dí precedente, i fanti tedeschi, delusi da varie promesse de’ pagamenti e seguitati poi da’ fanti spagnuoli, gridando denari, si ammutinorono con grandissimo tumulto, e con pericolo non mediocre della vita di Borbone se non fusse stato sollecito a fuggirsi occultamente del suo alloggiamento; dove concorsi lo svaligiorno, ammazzatovi uno suo gentiluomo: per il che il marchese del Vasto andò subito a Ferrara, donde tornò con qualche somma, benché piccola, di denari. E sopravenne, a’ diciasette dí neve e acqua smisurata, in modo che era impossibile che per la grossezza de’ fiumi e per le male strade l’esercito per qualche dí camminasse; e uno accidente di apoplessia sopravenuto al capitano Giorgio lo condusse quasi alla morte con maggiore speranza che non fu poi il successo che, avendo almeno a restare inutile a seguitare il campo i fanti tedeschi, per la partita sua, non avessino a sopportare piú le incomoditá e il mancamento de’ denari. Erano in questo tempo le genti de’ viniziani a San Faustino presso a Rubiera: alle quali arrivò, il decimo ottavo dí di [marzo] il duca di Urbino; promettendo, secondo l’uso suo, al senato viniziano, quando era lontano dal pericolo, la vittoria quasi certa, non perciò per virtú dell’armi de’ confederati ma per le difficoltá degli inimici.