Storia d'Italia/Libro XVII/Capitolo X
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Capitolo decimo
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X
Ma in Italia l’essere pervenuto in potestá di Cesare il castello di Milano pareva che avesse variato molto dello stato della guerra; essendo necessario, come diceva il duca di Urbino, fare nuovi disegni e nuove deliberazioni, come si arebbe avuto a fare se al principio non fusse stato in mano di Francesco Sforza il castello. Con la quale occasione, il dí medesimo che fu fatta la dedizione, discorrendo al luogotenente del pontefice e al proveditore veneto lo stato delle cose, soggiunse bisognare uno capitano generale di tutta la lega, al quale fusse commesso il governo degli eserciti; né dimandare questo piú per sé che per altri, ma avere bene deliberato di non prendere piú, senza questa autoritá, pensiero alcuno se non di comandare alle genti viniziane; ricercandogli lo significassino a Roma e a Vinegia: dalla quale dimanda, fatta in tempo tanto importuno e con grandissima iracondia del pontefice, per rimuoverlo fu necessario che il senato viniziano mandasse in campo Luigi Pisano, gentiluomo di grande autoritá; per opera del quale si moderò, piú presto alquanto che si estinguesse, questo ardore. Ma quanto al modo del procedere in futuro nella guerra, si deliberò che l’esercito non si rimovesse di quello alloggiamento insino a tanto venissino i svizzeri i quali si soldavano col nome e per mezzo del re di Francia; alla venuta de’ quali affermava il duca essere necessario fare due alloggiamenti da due bande diverse intorno a Milano, non per assaltare né per tentare di sforzarlo ma per farlo cadere per mancamento delle vettovaglie, il che diceva confidare potere succedere in termine di tre mesi: ribattendo sempre caldamente l’opinione di quegli che consigliavano che, fatti che fussino questi alloggiamenti, si tentasse di espugnare quella cittá; perché, essendo la lega potentissima di danari e avendone gli imperiali grandissima difficoltá, tutte le ragioni promettevano la vittoria della impresa, nessuna fare timore del contrario se non il desiderio di accelerarla, perché col tempo e con la pazienza consumandosi gli avversari non poteva mancare che le cose non si conducessino a felice fine. Ed essendogli qualche volta risposto, il discorso essere verissimo ogni volta che si potesse stare sicuro che di Germania non venisse soccorso di nuovi fanti (il quale quando venisse, tale che gli imperiali potessino uscire alla campagna, non si potere negare che le cose restassino totalmente sottoposte allo arbitrio della fortuna), replicava, in quello caso promettersi la vittoria non manco certa, perché conoscendo la caldezza di Borbone giudicava che ogni volta che e’ si reputasse pari di forze allo esercito de’ confederati si spignerebbe tanto innanzi che e’ darebbe a loro occasione di avere con facilitá qualche prospero successo che accelererebbe la vittoria. Ma perché, per le difficoltá che si intendevano essere nella condotta de’ svizzeri, si dubitava che la venuta loro non tardasse molti dí, e però essere molto dannosa la perdita di tanto tempo, fu deliberato, per consiglio principalmente del duca di Urbino e instando anche al medesimo il duca di Milano, di mandare subito Malatesta Baglione, con trecento uomini d’arme trecento cavalli leggieri e cinquemila fanti, alla espugnazione di Cremona; impresa giudicata facile, perché vi erano dentro poco piú di cento uomini d’arme dugento cavalli leggieri mille elettissimi fanti tedeschi e trecento spagnuoli, pochissime artiglierie e minore copia di munizioni, non molta vettovaglia, il popolo della cittá, benché invilito e sbattuto, inimico, il castello contrario; il quale benché fusse stato separato dalla cittá con una trincea, nondimeno, per relazione di Annibale Picinardo castellano, si poteva sperare di torgli i fianchi, e però facilmente di espugnarla. Andò Malatesta con questi consigli a Cremona: per la partita del quale essendo diminuite le genti dello esercito, non stava il duca di Urbino con leggiero sospetto che le genti che erano in Milano non assaltassino una notte gli alloggiamenti, tanto erano lontane le cose dalla speranza della vittoria. Commettevansi nondimeno spessissime scaramuccie, per ordine di Giovanni de’ Medici; nelle quali benché apparisse molto la sua ferocia e la sua virtú, e il valore de’ fanti italiani stati oscuri insino che cominciorno a essere retti da lui; nondimeno non giovavano, anzi piú presto nocevano, alla somma della guerra, per le frequenti uccisioni de’ fanti esercitati e di maggiore animo.
Ma in questo mezzo i successi avversi delle cose avevano indebolito molto dell’animo del pontefice, non bene proveduto di danari alla lunghezza, la quale giá appariva, della guerra, né disposto a provederne con quegli modi che ricercava la importanza delle cose, e co’ quali erano soliti a provederne gli altri pontefici, non era bene sicuro della fede del duca di Urbino, né confidava molto della sua virtú: ricevuta anche grandissima alterazione che nella declinazione delle cose avesse dimandato il capitanato generale, onore solito a dimandarsi piú presto per premio della vittoria. Ma lo turbava ancora molto piú il non si vedere che gli effetti del re di Francia corrispondessino alle obligazioni della lega, e a quello che ciascuno si era promesso di lui. Perché, oltre all’essere proceduto molto lentamente al pagamento de’ quarantamila ducati per il primo mese, e la tarditá usata alle provisioni necessarie per la espedizione de’ svizzeri, non si vedeva preparazione alcuna per dare principio a muovere la guerra di lá da’ monti, allegando essere necessario che prima si facesse la intimazione a Cesare, secondo che si disponeva per i capitoli della confederazione; perché, facendo altrimenti, il re di Inghilterra, il quale aveva lega particolare con Cesare a difensione comune, per avventura lo aiuterebbe, ma fatta la intimazione cesserebbe questo rispetto; e che però prontamente moverebbe la guerra, e sperava che il re di Inghilterra farebbe il medesimo: il quale prometteva, subito che fusse fatta la intimazione, protestare a Cesare, e dipoi entrare nella confederazione fatta a Cugnach. Procedeva anche il re freddamente a preparare l’armata marittima, e, quel che manifestava piú l’animo suo, tardavano molto a passare i monti le cinquecento lancie le quali era obligato a mandare in Italia. E benché si allegasse procedere questa tarditá o dalla negligenza de’ franzesi o dalla impotenza de’ danari e dal credito perduto negli anni prossimi co’ mercatanti di Lione, o dallo essere le genti d’arme in grandissimo disordine per il danno ricevuto nella giornata di Pavia, e perché da poi avevano avuto niuno o pochissimi denari, in modo che, avendosi a rimettere quasi del tutto in ordine, non potevano espedirsi senza lunghezza di tempo, nondimeno chi considerava piú intrinsecamente i progressi delle cose cominciava a dubitare che il re avesse piú cara la lunghezza della guerra che la celeritá della vittoria, dubitando (com’è piccola la fede e confidenza che è tra’ príncipi) che gli italiani, ricuperato che avessino il ducato di Milano, tenendo piccolo conto degli interessi suoi, o non facessino senza lui concordia con Cesare o veramente fussino negligenti a travagliarlo in modo che avesse a restituirgli i figliuoli. Accresceva la sospensione del pontefice che il re di Inghilterra, ricercato di entrare nella confederazione, della quale era stato confortatore, non corrispondendo alle persuasioni e promesse che aveva fatto prima, dimandava, piú presto per interporre dilazione che per altra cagione, che i confederati si obligassino a pagargli i danari dovutogli da Cesare, e che lo stato e l’entrata promessagli nel regno di Napoli si trasferisse nel ducato di Milano. Temeva anche il pontefice che i Colonnesi, i quali con vari moti lo tenevano in continuo sospetto, con le forze del reame di Napoli non l’assaltassino. Però, raccolte insieme tutte le difficoltá, tutti i pericoli, faceva instanza co’ collegati che, oltre al sollecitare ciascuno per la sua parte le provisioni terrestri e marittime espresse ne’ capitoli della lega, si assaltasse comunemente il regno di Napoli con mille cavalli leggieri e dodicimila fanti e con qualche numero di gente d’arme; giudicando, per gli effetti succeduti insino a quel dí, che le cose non potessino succedere prosperamente se Cesare non fusse molestato in altro luogo che nel ducato di Milano.
Per le quali cagioni mandò al re di Francia Giovambatista Sanga romano, uno de’ suoi secretari, per incitarlo a pigliare la guerra con maggiore caldezza, dimostrandogli quanto esso si trovasse esausto e impotente a continuare nelle spese medesime se non era anche soccorso da lui di qualche quantitá di denari: che, non ostante che nella confederazione non fusse stato trattato di assaltare il reame di Napoli mentre durava la guerra di Lombardia, si disponesse a fare questa impresa di presente; alla quale benché i viniziani, per non si aggravare di tante spese, avessino da principio fatto difficoltá, nondimeno, vinti dalla sua instanza, avevano consentito di concorrervi, eziandio senza il re ma con tanto minore numero di gente quanto importava la sua porzione: che il re per questa cagione, oltre alle cinquecento lance, alle quali aveva disegnato per capo il marchese di Saluzzo, mosso piú, secondo diceva, dalla buona fortuna che dalla virtú dell’uomo, mandasse altre trecento lance in Lombardia, per poterne trasferire una parte nel reame di Napoli: che si sollecitasse la venuta dell’armata di mare, o per strignere con essa Genova o per voltarla al regno di Napoli; la quale benché dai franzesi fusse spedita con la medesima lentezza che si spedivano l’altre provisioni, nondimeno si andava continuamente sollecitando. Ed era l’armata del re quattro galeoni e sedici galee sottili, i viniziani tredici galee, il papa undici; della quale tutta era deputato capitano generale, a instanza del re, Pietro Navarra, non ostante che il papa avesse avuta piú inclinazione a Andrea Doria. Fu oltre a tutte queste [cose] commesso al Sanga, secretissimamente, che tentasse il re a fare la impresa di Milano per sé, per dargli cagione che con tutte le forze sue si risentisse alla guerra.
Ebbe anche il Sanga commissione di andare poi al re di Inghilterra, per domandargli sussidio di denari: con ciò sia che quel re, che da principio desiderava tanto la guerra contro a Cesare che se la lega si fusse trattata in Inghilterra, come egli ed Eboracense desideravano, si crede sarebbe entrato nella confederazione; ma non avendo patito il tempo e la necessitá del castello di Milano che si facesse lunga pratica, poiché vidde fatta la lega per gli altri, gli parve potersi stare di mezzo come spettatore e giudice.
Trattava anche il pontefice, stimolato da’ viniziani e non meno dal re di Francia, il quale a questo effetto aveva mandato il vescovo di Baiosa a Ferrara, di comporre le differenze con quello duca, benché piú presto in apparenza che in effetto; opponendogli diversi partiti, e tra gli altri di dargli Ravenna in contracambio di Modona e di Reggio: cosa disprezzata dal duca, non solo perché, avendo giá preso animo dalla ritirata dello esercito dalle porte di Milano, si rendeva piú difficile che il solito a’ partiti propostigli, e a questo di Ravenna specialmente; e per essere molto diverse le entrate, e perché questo gli pareva mezzo da farlo venire, a qualche tempo, in contenzione co’ viniziani.