Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

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XVIII

Incontro del pontefice e del re di Francia a Bologna e questioni trattate. Ritorno del re in Francia; suoi accordi con gli svizzeri. Mutamento di governo in Siena.

Aveano in questo mezzo stabilito il pontefice e il re di convenire insieme a Bologna; avendo il re accettato questo luogo, piú che Firenze, per non si allontanare tanto dal ducato di Milano, trattandosi massimamente del continuo per il duca di Savoia la concordia tra i svizzeri e lui; e perché, secondo diceva, sarebbe necessitato, passando in Toscana, menare seco molti soldati; e perché conveniva all’onore suo non entrare con minore pompa in Firenze che giá vi fusse entrato il re Carlo, la quale per ordinare si interporrebbe dilazione di qualche dí, la quale al re era grave, e per altri rispetti; e [p. 378 modifica]perché tanto piú sarebbe stato necessitato a ritenere tutto l’esercito, del quale, ancora che la spesa fusse gravissima, non aveva insino a quel dí né intendeva, mentre era in Italia, licenziare parte alcuna. Entrò adunque, l’ottavo dí di dicembre, il pontefice in Bologna; e due dí appresso vi entrò il re, il quale erano andati a ricevere a’ confini del reggiano due legati apostolici, il cardinale dal Fiesco e quello de’ Medici. Entrò senza gente d’arme né con la corte molto piena; e introdotto, secondo l’uso, nel concistorio publico innanzi al pontefice, egli medesimo, parlando in nome suo il gran cancelliere, offerse la ubbidienza la quale prima non aveva prestata. Stettero dipoi tre dí insieme, alloggiati nel palagio medesimo, facendo l’uno verso l’altro segni grandissimi di benivolenza e di amore. Nel qual tempo, oltre al riconfermare con le parole e con le promesse le giá fatte obligazioni, trattorono insieme molte cose del regno di Napoli; il quale non essendo allora il re ordinato ad assaltare, si contentò della speranza datagli molto efficacemente dal pontefice di essergli favorevole a quella impresa, qualunque volta sopravenisse la morte del re d’Aragona, la quale per giudicio comune era propinqua, o veramente fusse finita la confederazione che aveva seco, che durava ancora sedici mesi. Intercedette ancora il re per la restituzione di Modona e di Reggio al duca di Ferrara, e il pontefice promesse di restituirle pagandogli il duca i quarantamila ducati i quali il papa aveva pagati per Modena a Cesare, e oltre a questi certa quantitá di danari per spese fatte nell’una e l’altra cittá. Intercedette ancora il re per Francesco Maria duca di Urbino; il quale, essendo soldato della Chiesa con dugento uomini d’arme e dovendo andare con Giuliano de’ Medici all’esercito, quando poi per la infermitá sua vi fu proposto Lorenzo, non solamente aveva ricusato di andarvi, allegando che quel che contro alla sua degnitá avea consentito alla lunga amicizia tenuta con Giuliano, di andare come semplice condottiere e sottoposto alla autoritá di altri nell’esercito della Chiesa, nel quale era stato tante volte capitano generale superiore a tutti, non voleva [p. 379 modifica]concedere a Lorenzo; ma oltre a questo, avendo promesso di mandare le genti della sua condotta le rivocò mentre erano nel cammino, perché giá secretamente avea convenuto o trattava di convenire col re di Francia, e dopo la vittoria del re non aveva cessato per mezzo d’uomini propri concitarlo quanto potette contro al pontefice. Il quale, ricordevole di queste ingiurie, e giá pensando di attribuire alla famiglia propria quel ducato, dinegò al re la sua domanda; dimostrandogli con dolcissime parole quanta difficoltá farebbe alle cose della Chiesa il dare, con esempio cosí pernicioso, ardire a’ sudditi di ribellarsi: alle quali ragioni e alla volontá del papa cedette pazientemente il re; con tutto che per l’onore proprio avesse desiderato di salvare chi per essersi aderito a lui era caduto in pericolo, e che al medesimo lo confortassino molti del suo consiglio e della corte, ricordando quanto fusse stata imprudente la deliberazione del re passato d’avere permesso al Valentino opprimere i signori piccoli di Italia, per il che era salito in tanta grandezza che se piú lungamente fusse vivuto il padre Alessandro arebbe senza dubbio nociuto molto alle cose sue. Promesse il pontefice al re dargli facoltá di riscuotere per uno anno la decima parte delle entrate delle chiese del reame di Francia. Convennero ancora che il re avesse la nominazione de’ benefici che prima apparteneva a’ collegi e a’ capitoli delle chiese, cosa molto a proposito di quegli re, avendo facoltá di distribuire ad arbitrio suo tanti ricchissimi benefici; e da altra parte, che le annate delle chiese di Francia si pagassino in futuro al pontefice secondo il vero valore e non secondo le tasse antiche, le quali erano molto minori: e in questo rimase decetto il pontefice; perché avendosi, contro a coloro che occultavano il vero valore, a fare l’esecuzione e deputare i commissari nel regno di Francia, niuno voleva provare niuno eseguire contro agli impetratori, di maniera che ciascuno continuò di spedire secondo le tasse vecchie. Promesse ancora il re di non pigliare in protezione alcuna delle cittá di Toscana; benché non molto poi, facendo instanza che gli consentisse di accettare la protezione de’ lucchesi i [p. 380 modifica]quali gli offerivano venticinquemila ducati, e allegando esserne tenuto per le obligazioni dello antecessore, il pontefice, recusando di concedergliene, gli promesse di non dare loro molestia alcuna. Deliberorno oltre a queste cose mandare Egidio generale de’ frati di Santo Agostino, ed eccellentissimo nelle predicazioni, a Cesare, in nome del pontefice, per disporlo a consentire a’ viniziani, con ricompenso di danari, Brescia e Verona. Le quali cose espedite, ma non per scrittura (eccetto quello che apparteneva alla nominazione de’ benefici e al pagamento delle annate secondo il vero valore), il pontefice, in grazia del re e per onorare tanto convento, pronunziò cardinale Adriano di Boisí fratello del gran maestro di Francia, che nelle cose del governo teneva il primo luogo appresso al re. Da questo colloquio partí il re molto contento nell’animo, e con grande speranza della benivolenza del pontefice: il quale dimostrava copiosamente il medesimo ma dentro sentiva altrimenti; perché gli era molesto come prima che ’l ducato di Milano fusse posseduto da lui, molestissimo avere rilasciato Piacenza e Parma, parimente molesto il restituire al duca di Ferrara Modona e Reggio. Benché questo, non molto poi, tornò vano: perché avendo il pontefice in Firenze, ove dopo la partita da Bologna stette circa uno mese, ricevute dal duca le promesse de’ danari che s’aveano a pagare subito che fusse entrato in possessione, ed essendo di comune consentimento ordinate le scritture degli instrumenti che tra loro s’aveano a fare, il pontefice, non negando ma interponendo varie scuse e dilazioni, e sempre promettendo, ricusò di dargli perfezione.

Ritornato il re a Milano licenziò subito l’esercito, riservate alla guardia di quello stato [settecento] lancie e seimila fanti tedeschi e quattromila franzesi, di quella sorte che da loro sono chiamati venturieri; egli con grandissima celeritá, ne’ primi dí dell’anno mille cinquecento sedici, ritornò in Francia, lasciato luogotenente suo Carlo duca di Borbone: parendogli avere stabilite in Italia le cose sue, per la confederazione contratta col pontefice, e perché in quegli dí medesimi avea convenuto co’ svizzeri. I quali, benché il re di Inghilterra [gli] [p. 381 modifica]stimolasse a muovere di nuovo l’armi contro al re, rinnovorno seco la confederazione, obligandosi a dare sempre in Italia e fuori, per difesa e per offesa contro a ciascuno, col nome e con le bandiere publiche, a’ suoi stipendi qualunque numero di fanti dimandasse; eccettuando solamente dall’offesa il pontefice, l’imperio e Cesare: e da altra parte il re riconfermò loro le pensioni antiche, promesse pagare in certi tempi i quattrocentomila ducati convenuti a Digiuno, e trecentomila se gli restituivano le terre e le valli appartenenti al ducato di Milano. Il che ricusando di fare e di ratificare la concordia i cinque cantoni che le possedevano, cominciò il re a pagare gli altri otto la rata de’ denari appartenente a loro; i quali l’accettorno, ma con espressa condizione di non essere tenuti di andare a gli stipendi suoi contro a’ fanti de’ cinque cantoni.

Nel principio dell’anno medesimo il vescovo de’ Petrucci, antico familiare del pontefice, coll’aiuto suo e de’ fiorentini cacciato di Siena Borghese figliuolo di Pandolfo Petrucci cugino suo, in mano del quale era il governo, arrogò a sé medesima autoritá: movendosi il pontefice perché quella cittá, posta tra lo stato della Chiesa e de’ fiorentini, fusse governata da uomo confidente di sé; e forse molto piú perché sperasse, quando fusse propizia la opportunitá de’ tempi, potere con volontá del vescovo medesimo sottoporla o al fratello o al nipote.